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The right choice

Elisa Cannizzaro, in questa sua composizione, riscrive in una diversa prospettiva il tema del rapporto tra essere umano e la sua coscienza nel male, nell’ottica del corso di letterature comparate, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro, della Prof.ssa Chiara Lombardi.

“In questa mia riscrittura ho tentato di descrivere la mia personale opinione sul rapporto che ognuno di noi ha con la propria coscienza nel quotidiano e dei modi che la mente trova per aggirare il male fingendo che non ci abbia mai toccati. In questa prospettiva, l’uomo è alle prese con diverse scelte di cui solo una sembra essere quella giusta; la scelta che illude la coscienza di essere ancora pura.”

*

L’avrò vista mille volte questa strada, e mille altre volte la vedrò. Al mattino, dal vecchio condominio grigio, si costeggia il fiumiciattolo, si gira all’angolo del parco e poi dritto fino alla vecchia fabbrica. E poi la sera, lo stesso percorso ma al rovescio. Ho vissuto ogni stagione e ogni orario di questi mille metri; hanno ascoltato le gioie e le lamentele delle mie giornate e mi hanno permesso di sbirciare nelle vite di chi, come me, li ha percorsi anche solo per qualche minuto.

Oggi però camminare è più difficile, il candore della neve avvolge ogni angolo e mi sento quasi in colpa a sporcare questo manto con le orme nere lasciate dai miei scarponi. Un passo, uno subito dopo e ancora un altro. Al quindicesimo passo, quello che segna la svolta all’angolo del parco per intenderci, mi accorgo che il bianco del vialetto viene spezzato da un bagliore violastro. Una banconota da cinquecento, è il mio giorno fortunato!

Sicuramente qualcuno ai piani alti ha ascoltato le mie lamentele e questo era il segno che aspettavo, le cose andranno meglio. Guardando più attentamente però, mi accorgo di alcune orme vicino ai soldi. Sono leggermente più piccole delle mie e hanno una forma lunga ed elegante. Segnano un percorso davanti a me e portano alla figura di un uomo, ha una bella pelliccia e le scarpe, proprio come le immaginavo, lucide ed eleganti. Devono essere caduti a lui. Ma niente succede per caso giusto ? Dev’essere destino, questi soldi spettano a me. Sicuramente ne ho più bisogno di lui.

Mi stendo sul letto contento, la giornata è andata molto bene. Il ristorante in fondo alla strada era davvero buono come credevo, certo normalmente non avrei mai pagato così tanto per una bistecca, ma oggi non è un giorno qualunque. D’ora in poi andrà meglio. Posso solo immaginare quanti soldi guadagnerò, e quante cose potrò permettermi. Una bistecca in un ristorante in fondo è una cosa da nulla. Comprerò una bella macchina, una televisione che non si blocca quando cambio canale e una pelliccia come quella che indossava quell’uomo. Visto ? Finalmente il destino mi sta ripagando per i miei sforzi.

E se qualcuno mi avesse visto prenderli? Impossibile, non c’era nessuno con me. Se l’uomo se ne fosse accorto? Si, forse mi ha guardato quando gli sono passato affianco. E se fosse stata tutta una prova? Ho rovinato la mia reputazione. Sicuramente quell’uomo era molto potente, almeno a giudicare dai suoi vestiti. Avrà chiamato la polizia? Devo scappare? Non possono arrestarmi, non li ho mica rubati questi soldi. Almeno credo di no. Questa è la voce della mia vicina? Mi avrà visto tornare a casa con i soldi? Devo nasconderli sotto al cuscino, anzi no, è il primo posto dove guarderebbero. Li nascondo sotto il tappeto, in bagno. Ben fatto, non possono più trovarli ora.

Stanno bussando ala porta, le voci fuori si sono moltiplicate. Il fiato si fa sempre più corto nel tragitto, improvvisamente dieci volte più lungo, verso l’uscio di casa.  

Forse non ho davvero bisogno di questi soldi, ho già una casa dove tornare, buon cibo da mettere in tavola ogni giorno, anche se non in misura abbondante, e un lavoro che mi piace. La neve che blocca la banconota dall’essere trascinata via dal vento ora sembra più grigia, come se il pensiero egoistico di potermela portare a casa avesse in qualche modo sporcato ciò che mi circonda. Ora che guardo meglio, la neve attorno a me sembra essere qui da giorni, ha quel colore spento a tratti più scuro e simile alla fuliggine ed è ricoperta di orme che tracciano i tragitti più curiosi e comuni. Non mi sorprende, l’ultima volta che ha nevicato è stato tempo fa. La figura elegante si sta allontanando, fino a scomparire dal mio campo visivo. La scelta migliore, quella che farebbe ogni uomo onesto, è quella di lasciare questi soldi a qualcuno che ne ha più bisogno. Questo si che è un pensiero umile. Ma dopo pochi passi mi assale il dubbio, e se li prendesse qualcuno che non li merita? Devo nascondermi e assicurarmi che sia qualcuno di davvero bisognoso a prenderli.

Certo, è la cosa migliore da fare. Così mi faccio spazio dietro ad uno degli alberi del parco, in attesa che qualcuno noti il bagliore viola in mezzo al grigio. Non passa molto prima che questo accada; un giovane sulla trentina li raccoglie con cura, incredulo di fronte alla cifra stampata sulla banconota. Da una rapida analisi sembra essere degno di prenderli, i lunghi capelli neri sono sciolti e in disordine, è visibile anche da lontano che non se ne prende cura. I vestiti sono troppo leggeri per il mese in cui siamo, porta semplicemente un cappellino trasandato, una felpa della stessa tonalità dei suoi capelli, di qualche taglia più piccola e dei pantaloni sportivi. Lui sta peggio di me, merita di prendere questi soldi. Probabilmente è un senza tetto e questi soldi gli garantiranno un pasto.

Sono un vero eroe, già immagino la faccia dei miei colleghi di lavoro e le lodi che mi faranno quando sapranno che amico magnanimo hanno. Accendere la t.v e guardare una parte del mondo seduto sul mio letto è diventata un’abitudine. Ogni giorno alla stessa ora. Il programma che preferisco è iniziato da poco quando la mia attenzione viene attirata da un rumore di sirene fuori, sembra essere un’ambulanza. Mi affaccio alla finestra e sulla barella riesco a scorgere un uomo sulla trentina, abiti scuri e decisamente troppo leggeri per essere a dicembre. I capelli lunghi gli coprono il viso. Riesco ad udire le voci fuori come se fossero nella mia stanza; il ragazzo ha fatto uso di stupefacenti, ne sono stati trovati in grande quantità dentro il suo appartamento. Rabbrividisco al pensiero, quello non era un senzatetto ! Non riceverò nessuna gratificazione per questo, anzi mi incolperanno di avergli dato i mezzi per comprare quella robaccia!

Non posso capire se una persona è meritevole o meno di prendere questi soldi solo dal modo in cui è vestita, di sicuro cadrei in errore e finirei per non combinare nulla di buono. La scelta più onesta è quella di restituire i soldi al proprietario. Raccolgo la banconota, ormai quasi sommersa dal fango. Non ricordo quando ha iniziato a piovere, forse ancor prima di finire il mio turno di lavoro. O forse ancor prima di uscire di casa. Tutto attorno a me è di un colore scuro, più vicino al nero che al marrone. Decido quindi di fare uno scatto verso l’uomo elegante e, rischiando di scivolare in quella melma castana, lo raggiungo. L’uomo non sembra sorpreso ne turbato, da vicino ha l’aria ancora più fine. Non sembra neanche notare l’insistenza della pioggia. I capelli biondi sono perfettamente sistemati all’indietro e le lievi rughe sotto gli occhi gli danno un tono importante. Mi sta rivolgendo un sorriso gentile. Questa è sicuramente la scelta giusta, quella più onesta. Ho fatto male a giudicarlo, è una brava persona. Il verdetto viene confermato quando, dopo brevi parole di ringraziamento, si offre di pagarmi una cena, per ricompensare la mia onestà. Accetto subito e scegliamo quel buon ristorante in fondo alla strada. Non potrei essere più soddisfatto, ho fatto la scelta giusta, sono stato premiato con una cena deliziosa e non vedo l’ora di vedere la faccia die miei colleghi quando racconterò loro di aver conosciuto un importante CEO. L’abitudine mi porta ad accendere la televisione e godermi, finalmente, il mio programma. Purtroppo il momento non dura molto, un servizio speciale lo interrompe riportando le imprese di un grande gruppo di poliziotti della divisione antidroga che, dopo mesi di interminabili indagini, hanno finalmente arrestato uno dei capibanda. Proprio nel mio quartiere ! Stava creando problemi da molto tempo e i notiziari non facevano altro che parlarne, sono contento che l’abbiano preso. Ma il sollievo sollievo per la notizia si sostituisce all’orrore non appena mostrano la foto di quell’uomo tanto elegante e gentile. Lo stesso con cui poche ore fa ho cenato e a cui ho raccontato di me. Cosa ho fatto? Ora indagheranno anche su di me? Verranno qui? O peggio, i suoi sottoposti verrano a cercarmi pensando che sia colpa mia se il loro capo è dietro le sbarre? Ho aiutato un criminale.

Il fango ormai mi ricopre tutte le scarpe, dovrò faticare per lavarle. La banconota sta li, ormai quasi invisibile sotto quello strato scuro e scivoloso.  Sembra guardarmi divertita, come se sapesse di avermi posto un dilemma a cui non esiste soluzione. Le ho provate tutte e questa pioggia incessante sembra entrarmi nella testa e confondere i pensieri. Possibile che non esista una scelta giusta?

Il terreno sembra quasi sprofondare sotto il mio peso, ovunque poso lo sguardo vedo solo quest’acqua scura e torbida. Non c’è più nulla di bello da vedere qui, questo colore mi disgusta.

Se solo qualcuno colorasse il fango di bianco, così assomiglierebbe alla neve e allora si che il paesaggio sarebbe di nuovo bello da guardare. Riesco quasi a sentirla mentre si prende gioco di me ma poi un pensiero candido si fa spazio tra le idee. Non devo essere io a decidere, basta nascondere la banconota. Nessuno saprà che l’ho trovata e questo dilemma non mi perseguiterà più. Non sarà più affar mio! Problema risolto! Eccola la scelta giusta.

Nascondere i soldi sotto la neve è facile, un gesto che impiega solo pochi secondi ad essere compiuto ma che mi ha liberato per tutta la vita.

*

Ispirazioni testuali e fonti:

L’idea per la riscrittura mi è venuta ricordando una leggenda popolare giapponese, la leggenda di Kuchisake-onna (donna dalla bocca spaccata). Questa è uno Yokai, termine con cui i giapponesi chiamano i mostri tipici della cultura popolare.
Secondo la versione moderna del racconto, centinaia di anni fa viveva una giovane concubina di un samurai, molto bella e vanitosa che tradì il marito. Questi, estremamente geloso, decise di punirla con la propria katana (*spada giapponese corrispondente ad una sciabola ma con un impugnatura a due mani), aprendole la bocca da orecchio a orecchio. Da allora si dice che iniziarono ad esserci avvistamenti di una donna che vagava nelle notti di nebbia con il volto coperto da una mascherina. La leggenda divenne molto popolare nel 1978, anno in cui iniziarono a girare voci incontrollate su una donna, kuchisake, che si aggirava per i sobborghi della città. Pare che essa fermasse i passanti, per lo più giovani uomini, chiedendo alla sfortunata vittima “Pensi che io sia bella?”. Se la risposta era negativa, l’uomo veniva ucciso con delle forbici; se le rispondeva “si”, la donna si toglieva la mascherina chiedendo “e adesso?”. Se la vittima persisteva nella sua risposta positiva la donna, sentendosi presa in giro, gli sfregiava il volto in modo che apparisse come il suo. Se, invece, la risposta alla seconda domanda era negativa, il malcapitato veniva tagliato in due parti uguali. Da alcune versioni pare che l’unico modo che aveva la vittima per sfuggire alla morte fosse quella di confonderla con una risposta vaga e scappare. 
Sembra un dilemma senza via di uscita.
In realtà secondo una delle interpretazioni della leggenda, la donna compie questi gesti perché l’interlocutore risponde alle domande puramente secondo il proprio interesse, quello di non essere ferito, e non con la verità. Per questo Kuchisake decide di punirlo.
Allo stesso modo, seppur in un contesto differente,  il protagonista della mia riscrittura agisce solo secondo il proprio interesse; non è cattivo e, anzi, incarna le qualità dell’uomo medio. Tuttavia, ogni soluzione da lui trovata per usare quei soldi, implica il vantarsi del gesto con i suoi conoscenti. Questo perché l’uomo agisce principalmente per interessi. La sua coscienza però ne è consapevole e alla fine tutti gli scenari si concludono in modo negativo.
L’ultima scelta è quella prediletta, a mio parere, dall’essere umano; nascondere il problema e andare avanti. Si potrebbero fare centinaia di esempi banali e non su questo tema, evitare di prendersi la responsabilità di una scelta sembra essere per l’uomo l’unico modo per auto convincersi di avere ancora la coscienza pulita.
Lo stile è ispirato a quello che Edgar Allan Poe utilizza per i suoi racconti brevi.

Il male a fin di bene

Laura Rossotti intende mostrare in questo racconto le sfumature del male in relazione a un determinato tipo psicologico: il misantropo, un essere dotato di altrettante sfaccettature, dall’omicidio, al confronto, all’analisi della coscienza e della vita. La riscrittura è stata svolta nell’ottica del corso di Letterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).

 “Mentre tutti stavano festeggiando silenziosamente e gioendo segretamente nel proprio cuore per la morte di un uomo, l’assassino di quest’ultimo si trovava accasciato sul divano di casa sua”

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Timore e sconcerto opprimevano gli animi dei cittadini, insieme alla consapevolezza di impotenza nei confronti di un’entità molto più forte di loro ed estremamente pericolosa. “Ci serve aiuto”, “qualcuno che possa fermarlo”, “altrimenti chissà quale destino buio ci attenderà”: ecco i normali e ripetitivi pensieri di una comunità che nel frattempo se ne stava con le mani in mano, senza azzardare una mossa concreta. Insomma la resistenza contro i mali della società era piuttosto debole, praticamente inconsistente, e pur essendo tali misfatti deplorati e condannati da tutti, essi esistevano ed è questo il grande paradosso tipico delle calamità provocate dall’uomo.

Il tiranno Macbeth continuava infatti indisturbato la sua guerra, bramando una posizione di indiscutibile superiorità e invincibilità sui popoli che intendeva travolgere e sottomettere, seminando morte e disperazione a ogni attacco. In realtà il terribile dittatore assaporava già la sua forza illimitata e si sentiva ormai da tempo inarrestabile: come girava la voce, Macbeth aveva dalla sua parte il favore di tre streghe che gli comunicavano esclusivamente fauste profezie. Esattamente come diversi mesi dopo si poté verificare, grazie al ritrovamento di una lettera scritta dal perfido tiranno e indirizzata a sua moglie, Lady Macbeth, che si riporta in seguito.

“Mia adorata,

Ti scrivo per informarti di una nuova e certamente propizia apparizione delle streghe: questa volta non ho dubbi sul significato delle loro parole e dunque ti annuncio il nostro successo assicurato. Così le tre vecchie donne mi parlarono: “Salute, Macbeth! Salute a te Re del mondo! Macbeth, Macbeth, guardati dall’uomo condannato ad odiare e amare allo stesso tempo! Devi essere spietato, risoluto e sanguinario. Finché sveglio e cosciente nulla potrà contro di te, nessuno tenterà alla tua vita. Altrettanto salvo e quieto sarai quando deciderai di dormire!”.

Ovviamente ero curioso di saperne di più, ma dovetti accontentarmi per via dell’usuale sparizione delle streghe che segue la rivelazione. Spero di averti tranquillizzata con queste magnifiche notizie, dal momento che non devo temere per la mia vita né da sveglio né da addormentato!

Aspetto con ansia il nostro prossimo incontro durante il quale ti mostrerò orgoglioso le nuove terre conquistate.

Ciò che ti ho confidato in questa lettera tienilo per te soltanto.

A presto”

Fu il ritrovamento di questa lettera a sconvolgere ulteriormente i ragionamenti e le ipotesi dei cittadini, che a seguito della morte di Macbeth si erano prodigati ad esporre personali interpretazioni della vicenda, che di per sé risultava apparentemente inspiegabile e totalmente irrazionale: il corpo del tiranno fu infatti rinvenuto esanime nella sua sfarzosa dimora in collina, più precisamente nel suo ufficio e presso la scrivania. Esso non riportava alcuna ferita superficiale e la decisione di etichettarla come una morte avvenuta per cause naturali fu confermata una volta a conoscenza della profezia delle streghe.

Forse qualcuno aveva intuito la verità sull’accaduto e la reale causa del decesso, ammettendo l’esistenza di un assassino; tuttavia la caduta di quel governo del terrore aveva significato immediatamente libertà e fine delle sofferenze, permettendo all’intero genere umano di tirare un enorme sospiro di sollievo.

Mentre tutti stavano festeggiando silenziosamente e gioendo segretamente nel proprio cuore per la morte di un uomo, l’assassino di quest’ultimo si trovava accasciato sul divano di casa sua. I suoi occhi non esprimevano alcun tipo di emozione o pensiero, si sentiva vuoto e non provava la minima esigenza fisica; egli giaceva immobile nella stessa posizione ormai da ore, da quando era rincasato dopo aver compiuto l’omicidio. Di tanto in tanto quello stato di trance si interrompeva e i ricordi delle sue più recenti e biasimevoli azioni gli scorrevano davanti agli occhi come un treno veloce e inarrestabile. Si rivedeva mentre alcune settimane prima veniva assunto come cameriere a servizio di Macbeth, dopo essersi presentato con identità e informazioni false; poi quando acquistò presso un’apoteca ambulante del sonnifero e un veleno letale. Infine ripercorreva i movimenti del giorno prima, come servì tranquillamente il tiranno all’ora di pranzo e come più tardi gli porse gentilmente un bicchiere di acqua calda mescolata a un “infuso energizzante”, ma che in realtà, ovviamente, conteneva il sonnifero. Dopo aver sorseggiato quella miscela, Macbeth non poté resistere all’effetto del medicinale e nonostante il lavoro che avesse da sbrigare, fu costretto a lasciarsi andare ad un sonno pesantissimo. Dopodiché l’assassino gli somministrò il veleno e il tiranno morì nel sonno, inconsapevolmente e senza provare dolore.

L’ennesimo treno di pensieri e ricordi sfrecciò da una parte all’altra della sua mente riempendo il suo cuore di tristezza e svuotandolo subito dopo, per lasciare posto al conseguente stato di trance. Questa volta però qualcuno bussò improvvisamente alla porta.

Entrando, il nuovo arrivato salutò l’amico: «Ciao Alceste».

Raskol’nikov varcò la soglia e si mise comodo su una sedia.

«Chi ti ha dato il permesso di entrare Rodion?».

«Lo so che è strano detto da me, ma se non vuoi che qualcuno entri allora forse dovresti chiudere la porta a chiave».

Alceste non rispose e si limitò a fissarlo in attesa che palesasse il motivo della sua visita.

«Mi sembra di notare che tu stia bene amico mio e di ciò mi rallegro molto», disse Raskol’nikov con leggera meraviglia e quasi con una punta di delusione, che Alceste non mancò di notare.

«Non sembri così felice della mia buona salute come dici di essere… Speravi dunque che io stessi male? E per quale motivo poi?»

«Non me ne volere, d’altronde sarai sicuramente a conoscenza della morte di Macbeth, un evento a cui si può attribuire un rilievo epocale, e di come questa abbia sorpreso tutti quanti. Perciò come minimo mi aspettavo di vedere una qualche reazione sconcertata da parte tua, mentre ti ritrovo qui in assoluta tranquillità».

Qualcosa nel suo modo di parlare non convinceva Alceste. Riteneva Raskol’nikov una persona intelligente e sentiva di potersi fidare di lui, nonostante non lo stimasse e lo considerasse per certi versi ambiguo e crudele. Poteva anche darsi che sospettasse già, e chissà come, di lui e di ciò che aveva compiuto, dal momento che era venuto visibilmente per parlare del recente caso di morte. Conoscendolo, pensò comunque che avrebbe potuto persino discuterne ragionevolmente con lui e che egli non l’avrebbe biasimato. Infine aveva davvero bisogno di qualcuno che valutasse la sua scelta e ascoltarne poi l’opinione.

«Secondo te – ricominciò Raskol’nikov, incalzato dal silenzio dell’amico – è davvero morto per cause naturali oppure…»

«L’ho ucciso io», lo interruppe Alceste vedendo che ormai quella recita stava diventando ridicola da entrambe le parti e non volendo perdere ulteriore tempo.

Come c’era da aspettarsi, Raskol’nikov non fu minimamente scioccato dall’improvvisa confessione, quando chiunque altro al posto suo sarebbe stato incredulo e sarebbe scoppiato a ridere, oppure sarebbe sbiancato senza riuscire a proferire parola. Egli invece rispose immediatamente rivelando i suoi pensieri con estrema onestà e razionalità.

«Caro Alceste, ti domando scusa per averti preso in giro fino ad ora e ti assicuro che da qui in avanti sarò chiaro e trasparente riguardo a ciò che penso; ovviamente non ci sono prove per dichiararti colpevole ma conoscendo il tuo carattere e i tuoi ideali potevo indovinare facilmente che si fosse trattato di te. Io non ti giudico e anzi ti comprendo pienamente; infatti il motivo essenziale per cui ho capito che l’assassino eri tu, sta nel fatto che io e te ci somigliamo molto e io mi sarei comportato nello stesso modo qualora mi si fosse presentata un’occasione ideale».

Alceste ascoltava con attenzione le parole dell’amico e quando questi faceva delle pause, lo pregava di continuare. Voleva sapere ogni singola cosa che Raskol’nikov pensava, poiché, contrariamente a ciò che poteva sembrare, Alceste teneva in alta considerazione le opinioni altrui; tuttavia vi erano aspetti contrastanti nel suo carattere, per cui se da una parte egli desiderasse essere apprezzato e a sua volta ammirava sinceramente le qualità di certi individui, dall’altra perdeva costantemente speranza nel genere umano, rimanendo deluso ogni qualvolta che avesse provato a fidarsi; tant’è che era nato in lui ormai da tempo un certo odio, un odio che si era sviluppato di giorno in giorno, facendogli provare una sorta di ribrezzo per la vicinanza con chiunque e che l’aveva portato inevitabilmente ad allontanarsi e isolarsi. Per questo dunque Raskol’nikov, individuo piuttosto schivo e solitario, poteva forse dire di poterlo capire alla perfezione.

«Non ti biasimo per le tue azioni, caro Alceste, e anzi approvo la tua decisione e la tua determinazione. Ovviamente non ti denuncerò e mai nessuno che venga a sapere della verità dovrebbe farlo, dal momento che sarebbe un’ingiustizia bella e buona, compiuta nella falsità più totale. Sì, perché devi sapere che non vi è cittadino del popolo che non ti sarebbe grato per aver ucciso Macbeth, anche se non lo ammetterebbe mai e sarebbe perfino capace di condannare il proprio salvatore all’insegna di una falsa moralità di cui vuole farsi portatore agli occhi della società, con lo scopo di ricevere approvazione. Mentre qui, Alceste, dovresti essere tu l’unico a ricevere i meriti della questione ed è triste essere un eroe all’insaputa di tutti. Sai, nella mia visione del mondo è giusto che certi uomini, superiori rispetto ai semplici uomini comuni, compiano azioni che questi ultimi non possano; ovvero questa categoria di superuomini, all’interno della quale includo te e il sottoscritto, avrebbe il diritto di agire come vuole, violando la legge ma senza venire punito da essa, per raggiungere obiettivi di ampia portata che abbiano a che fare con il bene della comunità, se non dell’umanità. Dunque Alceste, tu sei pienamente giustificato e l’omicidio che hai compiuto lo si può vedere come un normale dovere svolto nel tuo lavoro di superuomo. Non lasciare che la morte di Macbeth ti appesantisca la coscienza, perché, piuttosto, ti saresti dovuto sentire in colpa se non l’avessi ucciso e ora staresti continuando ad assistere inerme alle sue malefatte. Guarda dunque al futuro luminoso che hai regalato a tutti noi e continua con me quest’opera di disinfestazione del male che avvelena la società».

Alceste rifletté per qualche minuto in silenzio ripercorrendo e analizzando il lungo discorso di Raskol’nikov. Non si riconosceva nel profilo che l’amico aveva tracciato di lui ed era quasi terrorizzato dall’eventualità di poter apparire realmente in questo modo. Finalmente si decise a rispondere:

«Io non credo di essere uguale a te Rodion. Sono onesto e devo ammettere che non mi pento di ciò che ho fatto. Tuttora sono convinto che fosse l’unica soluzione per fermare Macbeth e con lui tutto il dolore e la morte che stavano distruggendo la popolazione e minacciando l’intero genere umano…

Devi sapere che fino a poco tempo fa mi ero stancato di vivere una vita falsa, colma di infelicità e delusioni, tante sono state le volte in cui mi sono fidato di qualcuno e puntualmente mi dovevo ricredere. Ti confesso che molteplici e difficili sono stati i momenti in cui sentivo il cuore opprimermi nel petto al punto di volermelo quasi strappare per eliminare per sempre quella sensazione di soffocamento, ponendo fine alla mia esistenza. Tuttavia, e questo è un fatto che davvero non riesco a spiegarmi, quando non si tratta della mia sofferenza ma di quella altrui, specialmente delle persone più deboli, indifese e innocenti, siano esse le medesime che mi avevano deluso un attimo prima, ho l’esigenza di fermarla, non nello stesso modo in cui fermerei la mia, ma facendo il possibile per risolvere qualsiasi problema si ponga tra quelle persone e la felicità. Ed è quindi poi quando riesco finalmente a contribuire alla serenità di qualcuno che riesco a sentirmi felice e appagato. Dunque sì, ho agito per il bene dei più, ma sacrificando una persona e compiendo un atto atroce, tale è l’omicidio di un essere vivente. Sono perciò colpevole e non sono meritevole di niente. Continuo a rattristarmi profondamente per la scelta che ho dovuto prendere e il senso di colpa graverà per sempre sulla mia coscienza.

Ora però Rodion, ho realizzato che la vita è un privilegio, e se non piace quella che si ha, è comunque inutile privarsene e gettarla via, mentre vale la pena continuare a vivere, se non per se stessi, soprattutto per gli altri e provare ad essere curiosi di cosa può succedere nel futuro».

Raskol’nikov per tutto il tempo aveva ascoltato perplesso le idee dell’amico e alla fine, pur non condividendole pienamente, lo ringraziò per essersi fidato, garantendogli che almeno lui si sarebbe sempre impegnato a non deluderlo e promettendogli di abbandonare i suoi propositi da superuomo, convincendosi quanto meno del fatto che infine nessuno può essere veramente definito tale per la troppa umanità e coscienza presenti come una sorta di tratto genetico in ogni essere vivente che ragiona.

Soltanto mezzo secolo più tardi, dopo la morte di Alceste fu scoperta la verità sull’omicidio di Macbeth grazie al rinvenimento di un diario personale. Egli infatti con il tempo, dopo essersi trasferito in una casa nei boschi lontana chilometri e chilometri dal più vicino centro abitato, aveva deciso di scrivere i suoi pensieri e le sue scelte in un diario, quasi a volerli spostare dalla coscienza alla carta per alleggerire il peso che portava nel cuore. Dal momento che si trattava per lo più di annotazioni confuse e ricordi sparsi, la poesia in ultima pagina risultava contrastante, saltando subito all’occhio. Tale poesia era preceduta da una nota di Alceste, una sorta di scusa e giustificazione per aver deciso di sigillare quella raccolta di riflessioni con un componimento poetico:

“Oggi mi ritrovo a riempire l’ultima pagina di questo diario. E mi sento di farlo con una poesia. Questa strana, improvvisa voglia di poetare ha colto me stesso alla sprovvista e mi fa tornare alla mente certi ricordi per i quali ora rido nostalgicamente: anni fa umiliai tremendamente un mio conoscente, cercando di fargli capire di aver composto un sonetto nauseante e di essersi sbagliato decidendo di esporlo con tanta sicurezza e orgoglio davanti ad altre persone. Un brivido di ripugnanza mi attraversa ancora la schiena quando richiamo alla memoria alcuni di quei pessimi versi. Per questa ragione arrossisco e mi vergogno se penso che sto per scriverne d’altrettanto cattivi. Io però mi guarderò bene dal mostrarli ad alcuno e devo sperare che nessuno legga queste pagine fin tanto che sarò in vita. Ciò di cui mi pentirò sarà soprattutto il tempo e l’impegno che adopererò nella stesura di questa poesia; ma dopotutto, qui e in questo momento non vi è anima viva che possa fermarmi dal compiere i miei bizzarri propositi, anche se ogni tentativo sarebbe comunque vano per via del mio incontenibile desiderio di esprimermi”.

L’amore secondo un misantropo

Sempre, quando il silenzio mi avvolge rimango in ascolto:
Osservando le stelle, dell’universo percepisco la pace e la calma;
In me la mente si svuota e il cuore si scalda;

Su di un prato disteso, pongo al cielo una domanda:
Il mondo inonda la vista e vengo sovrastato dalla natura immensa;
Non cerco una definizione, a me soddisfa questo motivo intenso.

Voci allegre e distanti giungono al mio udito e
Immagino che ogni umano sorriso altrui rivolto
Avrebbe la forza di allontanare qualsiasi tormento.

 Immergersi e annegare nel luogo dove mi sento tanto bene;
Non potrei essere più libero altrove, eppure qui mi vorrei trattenere,
Legarmi in eterno a queste emozioni: vi chiedo, allora, le catene.

*

Bibliografia

Fonti primarie    

Shakespeare W. (2016), Macbeth, a cura di Nemi D’Agostino, Milano, Garzanti

Molière (2006), Il tartufo-Il misantropo. Testo francese a fronte, a cura di Sandro Bajini, Milano, Garzanti

Dostoevskij F. (2013), Delitto e castigo, a cura di Damiano Rebecchini, Milano, Feltrinelli

Fil rouge: il filo rosso

Letizia Baldioli, prendendo ispirazione dalla storia di John Nash raccontata nel film A beautiful Mind, dà vita, partendo da ritagli di quotidiani e riviste, ad un evidence board proprio come quelli creati dagli investigatori nei vecchi film polizieschi per scovare il colpevole nell’ottica del corso di Letterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Delitto, caso, premeditazione, prove, povertà, sofferenza, sogni ed incubi, fede, ideale. Nove tappe, nove parole chiave. Il lettore di Delitto e castigo si trasforma in un vero viaggiatore pronto a seguire il percorso indicato per conoscere i segreti celati dietro l’omicidio delle due donne”.

La mia idea per il lavoro di riscrittura è stata quella di realizzare un mood board / mappa concettuale che riprendesse tematiche, parole chiavi e immagini caratteristiche dell’opera Delitto e Castigo dell’autore russo Dostoevskij. Utilizzando ritagli di riviste e di quotidiani, ho realizzato una mappa o più propriamente un percorso come quelli creati per scovare il colpevole dagli investigatori nei vecchi film polizieschi. Ho deciso di impostare il lavoro in questo modo dopo aver rivisto uno dei miei film preferiti: A beautiful mind di Ron Howard. John Nash, talentuoso matematico interpretato da Russell Crowe, una volta contattato dal dipartimento di difesa degli Stati Uniti, viene incaricato di trovare il luogo in cui i Russi avrebbero dovuto innescare una bomba atomica contenuta in uno zaino. John Nash, dopo essere stato informato che i nemici avrebbero comunicato tra loro per mezzo di messaggi in codice inseriti in quotidiani e riviste del tempo, comincia ad analizzarle minuziosamente, a ritagliarle e ad appenderle alle pareti della sua stanza, creando un vero e proprio groviglio di informazioni, una ragnatela, una mappa di codici da decifrare per poi arrivare alla soluzione. La sua vita viene sconvolta ancora una volta quando scopre che la cospirazione, in verità, non esisteva, ma era unicamente frutto della sua mente, colpita da una grave forma di schizofrenia. Il mio mood board/mappa concettuale si trasforma allora in una “crazy wall” o in un “evidence board” ispirato a quello di John Nash. Il filo rosso che ho voluto inserire rappresenta il fil rouge del racconto, che collega concetti importanti tra loro, intorno ai quali si sviluppa l’opera dostoevskiana. Il nostro percorso inizia dal centro, dalla parola delitto. Come si può inferire dal titolo, l’opera si sviluppa attorno all’omicidio della vecchia usuraia, Alëna Ivànovna e della dolce sorella Lizaveta, per mano del giovane Rodiòn Romànovič Raskol’nikov. Se l’uccisione della prima venne premeditata per mesi, l’omicidio di Lizaveta avvenne per puro caso. La donna infatti non doveva essere uccisa, ma irruppe nell’abitazione della sorella proprio nel momento in cui Raskol’nikov si trovava ancora lì con la scure insanguinata tra le mani e la vecchia stesa a terra in una pozza di sangue.

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La speranza dell’amore

Alice Nesta, in questo suo secondo racconto breve, ha voluto dare descrivere un momento di gioia e di speranza contrastando l’atmosfera di soffocamento e chiusura del romanzo di Dostoeskij Delitto e castigo, nell’ottica del corso di Letterature Comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi)

“Si risvegliò dai suoi pensieri quando sentì le porte della piccola chiesa aprirsi. Una luce grigia ma accesa entrò nell’ambiente e illuminò tutto. Quando mise a fuoco la figura che era comparsa sulla porta, rimase senza fiato.”

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Razumichin ogni tanto si fermava a riflettere su quanto fosse cambiata la sua vita nell’ultimo anno.

Sapeva perfettamente che la casualità e il destino erano due concetti che si sfioravano, forse volevano dire la stessa cosa, ma non aveva mai capito esattamente secondo quale criterio si insinuassero nella vita degli uomini e ne modificassero le sorti. C’erano stati momenti in cui l’idea che il futuro fosse solo un’insieme di cose indefinite, che l’essere umano non poteva controllare, gli aveva messo paura e si era chiesto se forse l’idea di destino e casualità non fossero state inventate dall’uomo stesso per giustificare le cose che succedevano al di fuori del suo controllo.

Non sapeva quale legge governasse l’universo, ma di una cosa era sempre stato certo: dalla prima volta che aveva visto la sua futura moglie si era irrevocabilmente innamorato di lei.

Ricordava il giorno in cui era entrato nell’appartamento dell’amico Raskolnikov e l’aveva vista seduta lì, impaurita e incerta su come comportarsi mentre il fratello discuteva con la madre.

Per quanto si leggesse la stanchezza sul suo volto, per quanto sembrasse piccola seduta su quella sedia cigolante, per quanto potesse rimanere in silenzio ad osservare gli altri due litigare, Razumichin aveva percepito una forza e una sicurezza quando l’aveva guardata negli occhi che l’avevano atterrito.

Dal momento in cui quegli occhi si erano incastrati nei suoi, aveva sentito la terra mancargli sotto i piedi, come se la gravità dipendesse dalla presenza di Dunja nella stanza e non dalle leggi della fisica che governavano il mondo. Da allora le era sempre stato affianco.

Razumichin era consapevole che Dunja avesse dovuto affrontare tanti dolori nella propria vita; lei ne parlava poco e malvolentieri. Lui non voleva vedere il suo volto delicato rabbuiarsi e aveva imparato a non chiederle mai troppo del suo passato e di tutto quello che aveva sopportato prima di conoscerlo. Portava tanti dolori nel cuore, Razumichin lo sapeva, ma questo non lo aveva mai fermato dall’amarla incondizionatamente.

Il giorno in cui avevano arrestato Raskolnicov per l’omicidio di due donne, Dunja aveva passato tutta la giornata con la madre e non aveva versato una sola lacrima. Era rimasta al fianco della madre per darle forza fino a quando non si era fatta sera e si era addormentata. Solo a quel punto Dunja era andata da lui, si era appoggiata alla sua spalla, lui l’aveva abbracciata e lei era scoppiata in un pianto silenzioso. Non si erano detti niente, non c’erano parole che avrebbero potuto migliorare quella situazione. Avevano passato la notte così, finchè non si erano addormentati entrambi sfiniti e stanchi.

Da quella sera non si erano più separati. Razumichin, qualche settimana dopo, le aveva chiesto la mano e Dunja gli aveva chiesto perché mai la amasse, lui era un uomo buono e di bell’aspetto, poteva sicuramente aspirare a qualcuna migliore di lei. Razumichin non poteva credere che lei potesse pensare una cosa del genere. L’aveva guardata e le aveva detto che lei era il suo mondo e lui le gravitava intorno come fosse la Luna per la Terra. La forza dell’amore che provava lo portava a guardarla e ad innamorarsi ogni giorno un po’ di più. Dunja aveva sorriso e gli aveva accarezzato il viso con la mano fredda. Ricordava perfettamente la sensazione di quella carezza sulla guancia, se si concentrava poteva sentire la mano morbida di lei sfiorargli la pelle dove la barba stava ricrescendo.

All’università aveva studiato tanti filosofi e letterati che parlavano di amore, di quel sentimento tanto forte da portare un uomo a fare qualsiasi cosa, persino a fare guerre o a percorrere tutti i regni ultraterreni pur di rivedere anche per pochi attimi la donna che amava. Un sentimento così astratto e sconfinato che nessuno sembrava riuscire a descriverlo davvero, come se non esistessero delle parole per delineare quello che voleva dire amare una persona al di fuori di se stessi.

Razumichin non aveva mai compreso a pieno quel sentimento finchè non aveva conosciuto Dunja.

Si risvegliò dai suoi pensieri quando sentì le porte della piccola chiesa aprirsi. Una luce grigia ma accesa entrò nell’ambiente e illuminò tutto. Quando mise a fuoco la figura che era comparsa sulla porta, rimase senza fiato. I raggi di luce contornavano perfettamente la sagoma di Dunja dandole un aspetto angelico. La sua pelle bianca risaltava così tanto che sembrava brillare di luce propria, il vestito bianco le avvolgeva il corpo in modo delicato e il velo le gettava un ombra seria sul viso.

Mentre camminava verso di lui guardava dritto davanti a sè. Il suo passo era sicuro.

Al suo fianco camminava sua madre che aveva gli occhi lucidi per la commozione e per la gioia di porter accompagnare sua figlia all’altare. Questo matrimonio aveva reso la madre di Dunja estremamente felice, era la prima cosa bella dopo un lungo periodo di sofferenza e le si leggeva negli occhi che era orgogliosa di quanto forte fosse sua figlia. Ma era anche consapevole che avrebbe dovuto essere il fratello ad accompagnarla all’altare, e questo aveva amareggiato profondamente quella donna che faceva di tutto per non crollare sotto il peso del dolore.

Nella chiesa angusta c’erano poche persone, ma Razumichin avrebbe avuto occhi solo per Dunja anche se si fossero trovati in mezzo ad una folla di centinaia di persone. Sentiva il cuore battere all’impazzata nel petto. Era impazziente di averla davanti e di prometterle che l’avrebbe amata in eterno, che avrebbe asciugato ogni sua lacrima e che avrebbe condiviso con lei ogni gioia che la vita gli avrebbe donato.

Quando le due donne finalmente giunsero all’altare, la madre di Dunja porse a Razumichin la mano della figlia. Lui le sorrise gentilmente e strinse tra le sue mani ruvide quella della sua sposa. Dunja salì sull’altare e si mise davanti a lui. La stava ancora tenendo per mano e per nessun motivo al mondo l’avvrebbe lasciata.

Lei gli sorrise e ricambiò quella stretta. Quello era il suo modo per fargli capire che anche lei era impaziente di iniziare finalmente la loro vita insieme e di prendersi cura l’uno dell’altra.

In quel momento Razumichin capì che per quanti dolori possano esserci nella vita, l’amore è tutto quello che serve ad un essere umano per essere definito tale. Quel giorno comprese il senso di tutte le poesie degli scrittori e i pensieri dei filosofi che aveva letto all’università e che gli erano sembrate solo fantasticherie.

Continuando a stringere la mano di Dunja capì che da quel momento in poi si sarebbero scelti l’un l’altro ogni giorno della loro vita, e improvvisamente il futuro non gli fece più paura.

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Bibliografia:

Delitto e castigo, Fedor Dostoevskij

La coscienza del male

Alice Nesta, in questo suo racconto breve, vuole evidenziare come la coscienza del male possa venire a galla creando un clima di crescente inquietudine rivisitando la scena IV dell’atto terzo di Macbeth, nell’ottica del corso di Letterature Comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi)

“Tutto sembrava andare avanti senza che nessuno si fosse accorto di quello che era successo, ma la verità mostruosa che Macbeth celava in fondo alla sua anima stava diventando estenuante.”

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Il banchetto era stato allestito nella sala principale del castello, una delle più ampie e sfarzose per riuscire ad ospitare comodamente tutti gli ospiti. Grandi tavoli di legno massello erano stati apparecchiati con pesanti tovaglie di un intenso color porpora e disposti a ferrro di cavallo. I candelabri erano stati appoggiati su ogni tavolo e la cera di alcune candele era colata lungo i bordi facendo affievolire la fiamma e creando una luce soffusa che gettava delle ombre inquietanti sulle pareti di pietra della sala.

Le grandi finestre ai lati del salone si affacciavano sulla notte che era ormai calata. Il buio avvolgeva i bastioni, insinuandosi lungo i muri in contorti giochi di luce, mentre il riverbero dei tuoni e della pioggia che batteva sui vetri si estendeva per i corridoi poco illuminati del castello.

Appena furono entrati i musicisti di corte iniziarono a suonare piano per creare un’atmosfera più conviviale, ma l’effetto del flauto e degli strumenti a corda richiamava un’atmosfera tutt’altro che piacevole. La musica, infatti, rimbombava nell’ampio spazio creando un suono ricorrente e tetro che sembrava accompagnare il ritmo angosciante della pioggia che batteva costante sui vetri delle finestre. 

Una volta che tutti presero posto, il re ordinò che fosse servita la cena. Alcuni servi iniziarono a girare intorno al tavolo con brocche di vino pronti a riempire il calice a chi lo desiderava. Vennero appoggiati sulla tavola grandi vassoi ricchi di carne al sangue proveniente dagli animali cacciati quel pomeriggio stesso.

Macbeth, dalla sua posizione centrale, riusciva ad osservare tutti gli invitati, vedeva come si gustavano il vino, muovendo concitati i calici e facendo cadere alcune gocce che macchiavano il drappo porpora che copriva il tavolo. Masticavano sgraziatamente la carne succosa e conversavano fra di loro parlando di cose frivole e di poca importanza. Tutto di quella cena gli sembrava tremendamente grezzo e fastidioso, persino il rumore delle posate che sbattevano contro i piatti lo irritava, tanto che aveva a mala pena toccato il cibo che gli era stato messo davanti.

All’improvviso una delle finestre si spalancò sbattendo contro la parete. Un vento gelido entrò con violenza facendo vacillare pericolosamente il fuoco delle candele. Nella stanza calò il silenzio, come se tutti avessero percepito un brivido di terrore percorrergli la spina dorsale. Il rumore di un tuono rimbombò nel salone e la pioggia, spinta con violenza dal vento, bagnò il pavimento creando una pozza d’acqua vicino ad una delle colonne.

Macbeth fu assalito da una sensazione di panico che sostituì il rozzo fastidio che aveva provato fino a quel momento. Strinse gli occhi per mettere meglio a fuoco le persone intorno a lui poichè solo un paio di candele erano rimaste accese. Cercava con lo sguardo le guardie per ordinare loro di richiudere immediatamente la finestra, ma quando i suoi occhi si furono abituati al buio, si rese conto che attorno a lui noi vi era più nessuno. Le sedie erano vuote e ben sistemate, come se non fossero mai state spostate per sedersi.

Non c’era segno di alcun banchetto.

Il tavolo era privo di qualsiasi pietanza, i vassoi con la carne fresca che odorava di sangue erano scomparsi insieme ai calici ridondanti di vino. Era rimasto da solo.

Incredulo e con le mani tremanti per la paura si alzò dalla sedia, ma qualcosa, una forza di cui non conosceva la provenienza, lo spinse di nuovo a sedere faccendolo sbattere con violenza contro lo schienale e mozzandogli il respiro in gola.

Quando alzò lo sguardo un sentimento di primitivo terrore gli impedì di muoversi ancora: il fantasma di Banquo, il suo fidato compagno d’armi nonché amico e consigliere, era davanti a lui.

Lo spettro aveva i lineamenti deformati dal dolore, la bocca spalancata in modo disumano come se un urlo gli fosse rimasto bloccato al fondo della gola. La pelle del viso sembrava aver perso ogni tipo di consistenza e aderiva al cranio come un guanto, rendendo quell’essere scheletrico e terrificante. Gli occhi vuoti e senza pupille apparivano così profondi da aver aperto nel petto di Macbeth una voragine di paura.

Non riusciva più a muoversi. Quegli occhi lo avevano inchiodato al pavimento come se alle sue caviglie fossero state legate delle pesanti catene.

Il viso era sporco di terra e di sangue, mentre il collo era segnato da un profondo squarcio purulento da cui continuava a sgorgare sangue che si riversava denso sull’abito sgualcito fino a cadere in pesanti gocce rosso scuro sul pavimento.

Lo spettro, con una lentazza straziante, mosse il braccio coperto da lembi di stoffa sporchi e sanguinanti, schiuse le dita dinoccolate che fino a quel momento aveva tenuto strette in una morsa gelata intorno all’elsa della sua spada. Con un dito indicò le mani di Macbeth.

Facendo questo movimento la spada scivolò da quella mano scheletrica e cominciò a cadere verso il pavimento nella pozza di sangue che si era creata ai piedi di quell’essere spaventoso.

Mentre la spada cadeva, il tempo sembrò rallentare. Lo spettro aprì ancora di più la bocca che a quel punto si era allargata così tanto da strappare dei lembi di pelle ai lati delle labbra.

Un’unica parola venne pronunciata da quella figura inquietante: “colpevole”.

Macbeth a quel punto si guardò le mani tremanti che lo spettro aveva indicato con quel suo dito putrefatto e le trovò gocciolanti di sangue fresco, come se quel liquido appiccicoso fosse stato appena versato.

La spada cadde finalmente a terra e il tintinnio del metallo sul pavimento di pietra rimbombò in quel silenzio assordante che aveva riempito la sala fino a quel momento. Un suono che esplose nelle orecchie di Macbeth. Chiuse gli occhi contraendo i muscoli del viso infastidito da quel rumore insistente. Trovò finalmente il coraggio di schiudere le labbra per urlare ma nessun tipo di parola venne emessa dalla sua bocca. Alle sue orecchie arrivava solo quel suono ridondante del ferro della spada che toccava il pavimento.

Quando il rumore cessò, riaprì gli occhi. Quell’essere terrificante era scomparso. Ora, davanti a lui, c’era il viso pallido e sottile di sua moglie che lo fissava con uno sguardo che celava preoccupazione e crescente fastidio. Le luci delle candele gettavano sul suo volto un’ombra grave, quasi lugubre.

Intorno a lui il banchetto continuava indisturbato, i convitati mangiavano e parlavano fra di loro creando un brusio continuo e insopportabile.

Tutto sembrava andare avanti senza che nessuno si fosse accorto di quello che era successo, ma la verità mostruosa che Macbeth celava in fondo alla sua anima stava diventando estenuante.

Lui sapeva che quello era solo l’inizio. La paura lo assalì ancora.

In quel momento un tuono ruggì fuori nella notte e risuonò ovattato nella sala. Un colpo di vento spalancò la finestra facendola sbattere contro la parete di pietra. L’aria gelida entrò portando con se alcune gocce di pioggia. Molti nella sala urlarono per lo spavento.

Il terrore che lo spirito orrendo di Banquo si ripresentasse strinse in una morsa glaciale Macbeth. Rivedeva il collo squarciato, il sangue, gli occhi vuoti, la bocca allargata in modo raccapricciante…risentiva quel sussurro che lo aveva accusato.

Un urlo di pura e primitiva paura gli uscì dalle labbra. Un urlo che aveva tratenuto in fondo alla gola per giorni. Un urlo che suonava vuoto tutte le volte che provava ad aprire la bocca per liberarsene. Un grido così spaventoso che tutti nella sala si girarono a guardarlo e il silenzio calò tra i partecipanti al banchetto.

Quando si rese conto che l’essere terrificante non si sarebbe presentato, ma che davanti a lui c’erano solo gli gli occhi degli invitati che lo fissavano increduli, capì che la follia lo aveva definitivamente raggiunto e che oramai se ne erano accorti tutti.

Tutta l’oscurità che aveva percepito durante quella giornata di agonia e terrore era finalmente venuta a prenderlo.

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Bibliografia:

Macbeth, William Shakespeare