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La maschera dell’arte: illusione mimetica, al confine tra vita e morte, in William Shakespeare e Thomas Mann

di Anna Cavagnino

Questa ‘lettura’ indaga il ruolo dell’illusione mimetica nell’arte come spazio liminale tra vita e morte, analizzando in chiave comparatistica Il racconto d’inverno di Shakespeare e Morte a Venezia di Thomas Mann.

L’arte, nella sua capacità mimetica, riveste un ruolo centrale nel riflettere e trasformare la condizione umana, sfidando continuamente i confini tra ciò che appare e ciò che invece è reale. Questa ambiguità porta la mimesis artistica ad agire in uno spazio liminale, all’interno del quale la distinzione tra vita e morte può farsi ambigua e problematica. Il presente saggio si propone quindi di esaminare, in ottica comparatistica, il ruolo dell’arte come veicolo di illusioni e verità, al confine tra vita e morte, mettendo a confronto come tale dinamica si presenti con modalità differenti nelle opere Racconto d’inverno di William Shakespeare e Morte a Venezia di Thomas Mann.

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Lost long, forever found

Irene Filippetti, in questa composizione, riunisce Sigismondo, Riccardo III e Tamerlano il Grande, facendoli dialogare nell’ottica del corso di Letterature Comparate, Storia e potere nella prima età moderna (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“In questa riscrittura ho voluto riflettere sul ruolo del potere nella vita degli uomini. La vicenda, narrata in tono fiabesco, invita il lettore in un mondo fittizio dominato da regole semplici e categoriche, che vengono messe in discussione dall’inaspettata comparsa di un nuovo personaggio”.

*

C’era una volta un piccolo pezzo di terra, che per taluni non significava nulla, ma per altri significava il mondo intero. Sin dall’antichità, il pezzo di terra era diviso in tre e affidato a tre diversi regnanti. Di mattina, il sole sorgeva nel Regno di Riccardo, poi attraversava il Regno di Tamerlano, e infine calava nel Regno di Sigismondo. Nonostante vivessero tutti sotto lo stesso cielo e sullo stesso palcoscenico, le differenze che intercorrevano tra di loro erano come quelle tra un giglio e una rosa: appartenevano alla stessa specie, ma mai nessuno avrebbe potuto confondere l’uno con l’altro, neanche per sbaglio.
Riccardo era un regnante ossessivo e ombroso, Tamerlano era seducente ma brutale, infine Sigismondo trasognato e selvatico.
In vita loro, i tre re non si erano mai visti in faccia. Una regola soprassedeva ciascun governo: nessuna contaminazione tra i popoli era concessa. Il pezzo di terra era piccolo abbastanza da permettere che, se i cittadini dei tre regni si fossero messi in fila, il primo avrebbe potuto stringere la mano dell’ultimo senza doversi neppure allungare, e tutti insieme avrebbero potuto fare un bel girotondo. Nonostante ciò, qualsiasi fraternizzazione veniva punita, più o meno spietatamente in base alla giurisdizione di appartenenza.
Ogni giorno, degli ambasciatori tecnici andavano con squadre e righelli a misurare i confini tracciati sul suolo. La pace era minacciata da ogni ago di abete perché, se anche un solo ramo di un albero nemico cresceva al di là di un centimetro, ecco che si urlava all’invasione.
Un giorno arrivò una straniera. Aveva fattezze che, in quel pezzo di terra, non si erano mai viste prima. Non conosceva le usanze locali e travalicava i confini come fosse normale. La sua esistenza creava un grande scompiglio, se non altro perché non si capiva cosa di preciso fosse venuta lì a fare. Mangiava melograni a morsi e si lucidava le scarpe a suon di sputi; sembrava soltanto godersi i paesaggi e ascoltare le storie dei più vecchi abitanti. Questo non aveva il minimo senso, perché notoriamente i tre regni non possedevano bellezze paesaggistiche né culture affermate. Un simile bizzarro comportamento non poteva restare inosservato. La straniera non recava alcun danno o disagio, eppure tutti e tre i re, simultaneamente, la chiamarono a udienza.
Poiché nessuno voleva cederla di un minuto all’altro, avvenne un fatto epocale: i tre re si riunirono assieme per poter interrogare la straniera.
Appositamente per l’udienza, venne costruito in quattro e quattr’otto un palazzo ai piedi della montagna, ch’era punto nevralgico del territorio: il luogo preciso in cui tutti i regni convergevano. Il palazzo era sontuoso e splendente. Tappeti delle più pregiate fatture vennero srotolati per i nobili calzari di Riccardo, Tamerlano e Sigismondo, araldi vennero innalzati e cori annunciarono il grande evento.
La straniera si presentò nell’unico abito sgualcito che sembrava possedere.
I tre re cominciarono con la stessa identica, tuonante domanda: “Perché sei qui?”.
Lei si era resa conto della situazione ed ebbe voglia di trarne piacere. Inventò una bella storiella per metterli alla prova. “Vengo da un paese molto lontano”, disse, “E ho viaggiato fin qui perché ho saputo dell’immenso tesoro che custodite.”
“Che tesoro?”
“Come, che tesoro! Il chicco di riso.”
“Il chicco di riso?”
“Il chicco di riso.”
L’immensa sala si riempì di chiacchiericci.
Riccardo simulò un colpo di tosse, così tornò il silenzio.
La incalzò: “Di cosa parli, straniera?”.
La straniera rispose con tono ovvio, “Il chicco di riso che sta proprio sul cucuzzolo della montagna. So che, se ingoiato, dona forza e ricchezza infinite. Per questo mi sono messa in viaggio, non senza spavento.”
I re erano attoniti, ma non potevano di certo svelare che non ne sapevano nulla. Finsero di conoscere perfettamente il chicco prodigioso. E poiché i re fingevano, anche il popolo finse, per non esser da meno. L’udienza terminò poco dopo.
Quella notte stessa, tutti e tre i re cominciarono ad arrampicarsi per la montagna in gran segreto.
Nonostante la penombra gettata dal cielo, si riconobbero nell’oscurità.
Com’era prevedibile, pur continuando a scalare, presero a insultarsi e ad aizzarsi nell’orgoglio.
“Ah! Che ci fa qui il potente Tamerlano? Si reputa forse carente in forza e ricchezza?”
“Voglio solo assicurarmi che forza e ricchezza non finiscano nella bocca di chi non saprebbe masticarle.”
“La tua bocca serve soltanto alla tua arroganza; mai ne uscì qualcosa di saggio.”
“Almeno non ne abuso per dire sempre qualcosa di sciocco, Sigismondo; e in quanto a Riccardo, può soltanto ringraziare che almeno la bocca non gli sia nata storta.”
Mentre procedevano a mani nude sulle rocce, calò il silenzio. I tre re erano nemici, certo, e provavano una sadica gioia nel potersi finalmente insultare in pieno viso. Tuttavia, non lo si poteva negare, sui loro animi gravava l’udienza di quel giorno e tutto lo scompiglio che la straniera aveva versato sui regni, viscoso come pece ma brillante come miele. Com’era possibile che non fossero a conoscenza del chicco di riso? Chissà perché, a nessuno venne in mente che potesse trattarsi di un inganno. Forse perché ci troviamo dietro il sipario delle fiabe.
“Il fatto che siate qui con me stanotte”, disse d’un tratto Riccardo, “svela il mio stesso svantaggio. Anche voi avete scoperto oggi del chicco di riso.”
Sigismondo digrignò i denti, ma dovette ammettere, “È così. A cosa serve aver deciso anch’io di studiare le stelle, se non mi accorgo di ciò che sta sulla terra?”.
“Non ti crucciare a tal modo”, chi avrebbe mai indovinato che la voce di Tamerlano potesse rivelarsi quasi gentile? “Neppure io, col mio ingegno, me ne sono accorto. E nessuno dei miei sudditi ha mai pensato di dirmelo! Domani dovrò tagliar loro la testa, uno a uno.”
Ora succedeva qualcosa di straordinario: provavano pena l’uno per l’altro, perché soltanto loro in tutto il mondo potevano capirsi a vicenda. In questa distorta empatia nacque il germoglio della comprensione. Forse non erano così diversi come credevano di essere. Tutti loro conoscevano gli affanni della corona tanto quanto i godimenti della stessa. Quella notte gli scettri pesavano più che mai, e che altra soluzione avevano se non di sorreggersi a vicenda?
Faticarono per ore e ore. Alla fine, però, raggiunsero la cima della montagna. Vi misero piede all’unisono.
Dove poteva essere il chicco di riso, in mezzo a tutta quell’erba incolta? Ma prima di mettersi in cerca— qualcosa di magnifico fermò i loro passi e mutò i loro cuori. Era l’alba.
Il sole sorgeva dalle colline circostanti, indorando il mondo di colori che non avevano mai visto prima. Com’era vasto il loro piccolo pezzo di terra, da lassù! Com’era vasto e com’era bello! La brina sembrava cipria sparsa sui volti dei sassi, le pianure brillavano di piante e frutti dai sapori indimenticabili, le strade deserte parevano un disegno fatto a matita da Dio. E quelle vaghe, poche sagome di pescatori o fornai che già si accingevano al lavoro, com’erano amabili! I re pensarono a loro, a tutti gli abitanti che ancora dormivano sotto le coperte, a chi stava facendo colazione, a chi andava a mungere mucche. Sentirono i propri cuori intiepidirsi, e per un attimo capirono la straniera: capirono perché non faceva altro che guardare il paesaggio e interrogare gli anziani. Da lassù, era impossibile distinguere dove cominciasse un regno e dove finisse l’altro.
Si sorrisero, forse si abbracciarono, sedettero a lungo. Si scambiarono parole buone e sincere. Si vollero bene.
Nonostante questo, quando il cielo imbrunì e sui loro cuori tornò la tenebra, sguainarono le spade e finirono comunque per uccidersi a vicenda – per un chicco di riso che neppure esisteva. Perché tale è la natura dell’uomo.
I loro corpi vennero recuperati e sepolti con grande prestigio. Ciascuno dei loro figli venne eletto nuovo re, e i figli continuarono a odiarsi come fecero i padri, senza sapere che per un momento erano stati fratelli.

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Una passione struggente

Martina Strumia, in questa composizione, riscrive la celebre tragedia di Romeo e Giulietta in versi liberi, trasportando il loro amore in un contesto diverso, nell’ottica del corso di Letterature comparate, Shakespeare e il paesaggio culturale italiano  (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“In questa mia riscrittura ho voluto rendere la storia di Romeo e Giulietta non più in qualità di un giovane amore ostacolato dalle imposizioni sociali e dall’odio delle due famiglie, ma nelle fattezze di un vero e proprio tradimento in cui i protagonisti da vittime dovrebbero diventare colpevoli. Eppure la loro colpevolezza è data esclusivamente dal loro amore puro, nato da un semplice sguardo, come nella versione originale: ritorna quindi il topos dell’amore come forza incontrollabile. Ma da questo amore incontrollabile si scatenerà a sua volta una folla gelosia che trasformerà la vicenda in una vera e propria tragedia”.

*

Amore ogni aprile ritorna furente,

il suo calore prelude le rose di maggio                                                                                   
e l’inverno che passa ormai morente,                                                                                 
scioglie la neve in ogni cuore suo ostaggio.

Si diverte a soffiare dalle guance un tiepido vento                                                                
che bacia furtivo chi al sorgere del giorno sta ancora dormendo.                                            
Ride e scompiglia i capelli di chi nella notte lo chiama:                                                           
si beffa di loro e di chi troppo ardentemente ama.  

Giunse quei primi di maggio alle porte di Verona                                                                  
e per le strade in festa due giovani ormai da tempo si incontrarono,                                       
i loro sguardi non ebbero bisogno di alcuna parola                                                                 
e presto entrambi i cuori si incendiarono.

Sbocciò quell’amore troppo presto,                                                                                       
lei Giulietta e lui Romeo,                                                                                                           
li aspettava un destino assai funesto:                                                                                       
presto si persero in mezzo al corteo.

Paride si chiamava lo sposo di Giulietta,                                                                                   
e Rosalina la dolce moglie di Romeo.                                                                                      
Ma il danno già era compiuto:                                                                                               
le fiamme in cenere quegli amori passati aveva dissoluto.

I due futuri amanti si persero d’estate,                                                                                   
solo freddo e noia nei due cuori distanti:                                                                                  
lei sospirava e pregava alle stelle “pena di me abbiate”,                                                          
sola nel cielo, la luna ammirava quei poveri animi infranti.

La verità celata da tempo riemerse violenta,                                                                            
il sangue nelle loro vene rinvigorito fermenta                                                                           
e la mente coi pensieri vaga tormentata,                                                                                  
dalla luce di quei bellissimi occhi, l’uno dall’altro sognati, era accecata.

In questo stato i due sfortunati vivevano,                                                                                 
ma venne il giorno in cui ad una miracolosa sorgente si trovarono per caso,                         
quell’afoso pomeriggio d’agosto amore sincero si offrirono:                                                   
si sentivano liberi come un usignolo dalla gabbia appena evaso.

Al calar del sole Romeo correva dalla sua amata,                                                                     
lei lo aspettava impaziente dalle scintille d’amore turbata,                                                      
mentre i rispettivi consorti tranquillamente dormivano,                                                          
grazie a un filtro i due ignari assai profondamente riposavano.

La luna alta nel cielo manteneva il segreto,                                                                             
tra baci, risa e lacrime innocenti tornavano fanciulli:                                                                 
nel giardino consumavano il loro amore irrequieto,                                                                
sotto le chiome degli alti alberi bruni.

Ma Giulietta temeva che il tradimento fosse scoperto:                                                           
un attimo era allegra e subito dopo dal cuore incerto.                                                            
Paride la vide, così pensierosa e quasi infelice,                                                                         
decise di chiedere alla balia Bettina di scoprire il suo tormento. 

Nel bel giardino fiorivano primule speciali,                                                                               
sbocciavano solo di notte essendo fiori lunari,                                                                          
e parlando Giulietta innocente lo disse a Bettina                                                                      
che curiosa volle andare a vedere prima che fosse mattina.

Quella notte i due amanti si incontrarono sotto le stelle,                                                         
ma i loro baci ormai non erano più indiscreti,                                                                          
la balia non vide solo le belle violette:                                                                                       
osservò il loro amore nascosta dietro i fusti dei vicini albicoccheti.

Quest’ultima non era così onesta come sembrava,                                                               
anche lei in segreto nel cuore immensa gelosia portava:                                                         
ella di Paride era innamorata perdutamente                                                                             
e non ci pensò due volte a tradire la sua amica avidamente.

Il giorno seguente raccontò l’accaduto al marito stupefatto,                                                   
come poteva la sua Giulietta voltargli le spalle?                                                                        
Andò su tutte le furie e volle coglierli sul fatto,                                                                         
nel suo sangue ribolliva la vendetta e si agitava nel suo stomaco simile a mille farfalle.

Nell’oscurità Paride perse il senno,                                                                                    
aspettò che Giulietta si alzasse e baciasse il suo amante,                                                         
poi di scatto balzò dal letto;                                                                                                     
si gettò dal balcone di rabbia tremante. 

Nemmeno il filtro bastò a farlo addormentare,                                                                     
con occhi di fuoco maledì il loro amore carnale                                                                        
e dalla fodera scagliò la spada su Giulietta:                                                                               
lei cadde a terra ferita e lentamente morì, d’amore uccisa.

Romeo in ginocchio pianse lacrime amare,                                                                               
le sue labbra colme d’amore in pasto alla morte la portarono.                                                 
Poi infuocato d’odio prese il pugnale                                                                                       
e lo trafisse nella gola di Paride ora anch’egli sull’orlo del baratro.

Erano i due sposi legittimi uno accanto all’altro senza vita,                                                      
davanti a quella scena Romeo rimase di pietra,                                                                         
come se la sua mente fosse smarrita,                                                                                       
prese lo stesso pugnale e lo conficcò nel suo petto: così finì questa vicenda tetra.

Quell’amore fu troppo violento,                                                                                              
come una fontana dalla sua ferita il sangue sgorgò.                                                                 
Verona è ancora marchiata da quell’evento, così cruento                                                        
che ancora se ne parla e più nessuno lo scordò. 

Amore lenisce le ferite con la stessa facilità con cui le crea,                                                     
ma se la passione nel cuore è forzatamente imprigionata,                                                    
più il tempo passa più sete avrà e sarà affamata.

Bibliografia

W. SHAKESPARE, Romeo e Giulietta, Tutte le opere- le tragedie, coordinamento generale di Franco Marenco (2015), Bompiani

A. CATTANEO, Shakespeare e l’amore (2019), Piccola biblioteca Einaudi

The Word to the Action The Action to the World

Dramma in tre atti di:

Martina Adamini, Rebecca Alpignano, Anita Avesani, Nicole Jasmeli Bergantino, Alessia Bersanetti, Matteo Bonino, Camilla Cattunar, Marta Costa, Rebecca Deandrea, Alessandro Dema, Letizia Desimone, Carlotta Ferrari, Giulia Frenna, Marta Gennaro, Gabriella Iannone, Francesca Isoardi, Giada Letonja, Marta Laganà, Matilda Marchese, Beatrice Vinassa, Dario Prunotto, Fabio Panelli, Anna Paruzza, Filippo Pittavino, Alice Pomero, Milena Re, Margherita Ricchiardi, Martina Ricciardi, Federica Rossi, Sara Saccone, Giorgia Stefanucci, Carolina Ughetto, Michela Voghera, Allegra Zandonai

(2023)

Materia del dramma:

The Word To the Action. The Action to The World è un play che riscrive l’Hamlet di Shakespeare dal punto di vista della compagnia

d’attori e di attrici che si reca a Elsinore per la mousetrap.
Sullo sfondo della corte di Danimarca, questa compagnia teatrale si confronta con i giochi del potere: qualcuno ne uscirà sconfitto, qualcuno trionfante e qualcun altro si lascerà corrompere.
Nel primo atto, la Balia e Orazio decidono di allietare il giovane principe, affetto da malinconia, invitando una compagnia teatrale a Elsinore, nella speranza che Amleto inizi a cimentarsi con l’arte drammatica. Galvanizzato da quest’idea, Amleto consegna alle attrici della compagnia una propria versione del dramma di Oreste, da rappresentare di fronte alla Corte.
Nel secondo atto, le attrici, resesi conto del pericolo che corrono e compreso come Amleto voglia usare la compagnia per il suo tornaconto e i suoi scopi oscuri, si ribellano: metteranno in scena una propria versione dell’Edipo.
Tra intrighi amorosi e aspri dibattiti, alcune attrici, vagando per il castello, incontrano uno spettro che, con parole oracolari, sembra rivelare loro un assassinio; dopo quell’incontro nessuno sarà più lo stesso.
Nel terzo atto, dopo aver maledetto la corte e i suoi tradimenti, la compagnia si allontana da Elsinore, riflettendo su ciò che ha veduto e che ha potuto conoscere. Nessuno sa dove risieda la verità, né desidera indagarla oltre un umano confine. Le attrici si troveranno infine a riposare in una taverna, con la consapevolezza di avere una nuova grande – e terribile – storia tra le mani.

*

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Shall I

Opera sperimentale in tre movimenti:

I MOVIMENTO
Look in thy glass and tell the face thou viewest

II MOVIMENTO
V: Nascondi ciò che sono e aiutami a trovare la maschera più adatta alle mie intenzioni

III MOVIMENTO
When forty winters shall besiege your brow

L’opera
Shall I è un esperimento di scrittura audace, perché stravolge, cannibalizza e contamina la più canonica – e insieme la più rivoluzionaria – tra le forme poetiche: il sonetto.
Poiché i versi di Petrarca, Michelangelo e Shakespeare hanno superato la prova del tempo, le autrici e gli autori hanno deciso di portare a nuova vita tutte quelle figure, quelle storie e quelle ambientazioni nascoste nell’impalcatura della forma sonetto. Fair Youth, Laura, lo specchio, l’acqua, le chiome e i capelli d’oro esistono materialmente e fisicamente in queste pagine e l’effetto che ne deriva ha la forma di una lanterna magica. Lo spettatore viene catapultato in quest’avventura poetica senza avere il tempo di farsi domande, ma trovandosi immerso nelle storie, nei frammenti, nelle visioni, nelle grandi scene e nelle illusioni che abitano la poesia fin dai tempi di Petrarca e che ancora ci accompagnano.

Il Coro, retaggio della struttura tragica, introduce il tema dei tre movimenti.

Primo Movimento

  • Argomento del primo movimento: nello scontro tra l’antico e il moderno, tra le tradizioni classiche e le rivoluzioni sperimentali, questo movimento si concentra sui temi di sogno e illusione; memoria ed eternizzazione; specchiarsi; follia e frenesia amorosa; vendetta; trasformazione della donna angelicata.
  • I sonetti di riferimento sono: 1 e 149 (Shakespeare), 272 (Petrarca), 102 e 151 (Michelangelo) e altri.
  • Della composizione di questo movimento si sono occupati, in ordine di apparizione: Elisa Rovetto, Giulia Rolando, Gloria Policaro, Chiara Cavallero, Letizia Desimone, Milena Re, Arianna Ferrero, Margherita Ricchiardi, Ludovica Maione, Mattia Marin, Leonardo Besson, Pietro Delodi, Celeste Palmas, Marta Gennaro, Elisa Murgante, Ilaria Cervi.

Secondo Movimento

  •  Argomento del secondo movimento: questo movimento sfida l’argomento classico del sonetto michelangiolesco relativo alla contesa tra le diverse forme d’arte. Come può manifestarsi, oggi, questa sfida impossibile della rappresentazione? Quali sono le forme ibride metaforiche e contaminate che riescono ad abbracciare tutte i linguaggi dell’arte?
  • Principali sonetti di riferimento sono: Sonetto 29 e 126 (Petrarca); sonetto 18, 116, 120, 149 (Shakespeare); sonetto 29 (Petrarca); madrigale Come può esser ch’io non sia più mio?, sonetti 17 e 151 (Michelangelo) e altri.
  • Della composizione di questo movimento si sono occupati, in ordine di apparizione: Matteo Bonino, Matilde Bianco, Dario Prunotto, Anna Paruzza, Giulia Frenna, Michela Voghera, Alessia Bersanetti, Rebecca Zanin, Lorenzo Pietracatella.

Terzo Movimento

  • Argomento del terzo movimento: questo movimento rielabora il tema della caducità dell’esistenza e del trascorrere delle generazioni. L’invito alla procreazione, e al non disperdersi della bellezza, caro al ciclo di sonetti dei Marriage Sonnetts shakespeariani, quali connotazioni può assumere nel nostro mondo?
  • I sonetti di riferimento sono: ciclo di Marriage Sonnets (Shakespeare).
  • Della composizione di questo movimento si sono occupati, in ordine di apparizione: Elia Ferrari, Cristina Galizio, Elisa Pantone, Giulia Bongioanni, Rebecca Deandrea, Alessandro Dema, Linda Pascazio.

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