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Novembre 2015

Vittorio Punzo, in questo suo testo di finzione, prova a guardare dagli occhi di una giovane lavoratrice parigina, morta nell’attentato al Bataclan di Parigi nel Novembre del 2015, la realtà prima e dopo il proiettile che la colpisce allo stomaco. Nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi, il testo comprende citazioni e riscritture dei testi inseriti nelle fonti in calce al racconto.

La riscrittura è un tentativo, forse fin troppo presuntuoso, di ricordare e caratterizzare una vita, tra le tante, persa nell’attacco del 2015 al Bataclan di Parigi, evento ricorrente per modalità e motivi in luoghi e tempi vari.
Ho volutamente sbilanciato il tempo del racconto a prima dello sparo: la narrazione quasi surreale mi serviva per alcuni motivi: 1) la ragazza ha un presentimento 2) ha un particolare rapporto con la nostalgia 3) Il suo umore è instabile, è incinta.
Nella parte centrale ho pensato che se la convenzione vuole che prima di un evento tragico succeda qualcosa di bello, la ragazza avrebbe potuto semplicemente desiderare-immaginare una cosa bella senza però ottenerla.
Le ultime 1000 battute sono dedicate a un pensare ostinato e metaforico sul proiettile nello stomaco. Cambio il tempo della narrazione, uso il presente, tutta la prima parte del racconto assume la forma di un ricordo racchiuso nell’istante dello sparo. In questo, forse, risuona l’incipit di Underworld di Don De Lillo.
La ragazza è stata colpita, adesso si sente quasi utile, non prova rabbia, forse addirittura, con freddo raziocinio, è felice che la sua vita e quella che si portava in grembo non saranno (più) partecipi alla corsa umana, da ora in poi la vita che portava in grembo resterà immobile nel nulla oscuro della non-nascita, in quel buco nero della pre-origine. I freschi ciuffi d’erba sono un’immagine sostitutiva della nascita che non avverrà mai, dunque simbolo di serenità.

*

Mi travestivo spesso, mi piaceva farlo. Quando mettevo addosso un travestimento diverso ogni cosa appariva cambiata, colorata di una nuova tonalità più calda o tendente al violaceo, meno satura o più in rilievo, più esposta, talvolta meglio definita. Poche volte la realtà mi appariva ombrosa o sfocata, quando succedeva scattavano in me degli strani turbamenti. Queste evocazioni turbinanti e confuse non duravano mai che qualche secondo; spesso, la mia breve incertezza circa il luogo in cui mi trovavo non staccava l’una dall’altra le diverse supposizioni di cui essa era fatta. Non meglio di quando, scegliendo una fragranza, non riusciamo ad isolare le varietà proposte dal venditore e finiamo per immaginare profumi che non esistono. Ma avendo riascoltato un po’ l’una un po’ l’altra, come fossero lontane decadi di anni tra loro, le camere dove avevo abitato nella mia vita, come i travestimenti che avevo adottato, finivo per ricordarmele tutte durante le lunghe fantasticherie che seguivano il risveglio. Una delle quali era la camera d’inverno dove, quando si è coricati, si ficca la testa in un nido messo insieme con le cose più disparate, un angolo del guanciale, l’estremità delle coperte, il capo d’uno scialle, il bordo del letto, un numero di Charlie Hebdo, cementati infine tra loro con la tecnica del dis-ordine costruttivo. E poiché in casa mia quel quindici novembre il fuoco è rimasto spento tutto il giorno, ho deciso di uscire prima del tempo per cercare qualcosa di buono in città.

Qualcosa di buono, di notte a Parigi sui bulevard, prima del lavoro è: mangiare cibo da strada oppure bere birra calda. Qualcosa di buono è incrociare un amico. Ma qualcosa di buono è anche vedere propria madre svegliarsi, cosa non verosimile sul bulevard. Qualcosa di buono e sapere i propri genitori smetterla di lottare per un pezzo di terra o per il potere. Qualcosa di buono è sapere che la vita su questo mondo continua anche senza una promessa radicale volta a eliminare chi ha categorie di pensiero diverse dalle tue. Qualcosa di buono, l’ho accarezzato, saresti tu, e lui ha risposto con una botta. Allora ho pensato:

Vi fu un tempo remoto
in cui nulla era:
non sabbia né mare
né gelide onde.
Non c’era la terra
Né la volta del cielo;
ma voragine immane
e non c’era erba.

Avevo fame. L’orologio della farmacia segnava le 7, ero nell’XI arrondissement e nel freddo novembrino, avevo ricordi insoliti: fantasticavo, fuori luogo, e vedevo me bambina. Avevo un’ora prima del lavoro e strani pensieri per la testa. Così il tempo si è accavallato e incastrato nella sua stessa morsa, i miei vestiti si sono sovrapposti e ora passato e futuro prendevano le sembianze di un unico succoso boccone. Morsicavo del pane asciutto mentre camminavo sul bulevard. Ho guardato i miei passi fino al 50 di bulevard Voltaire. Poi ho guardato l’ingresso, un ingresso per nulla singolare, e mi è venuta voglia di descriverlo come l’ingresso a uno dei mondi paralleli che ho trovato nelle narrazioni mitiche. Ne avrei parlato con qualcuno molto volentieri, avevo un’improvvisa voglia di sprofondare nelle parole, con un qualunque vicino ad ascoltarmi mentre dicevo una qualsiasi cosa stravagante; oppure immagina, gli avrei detto, zero lotte, nessuna proprietà terriera o di credenza. Nessun disadattamento sociale. Nessun occidente, nessun oriente. Nessun Niflheimr, non un Muspellheir. Nessun gigante protestante, pentecostale, cristiano, islamista. Nessuna modernità, nessuna madre delle certezze. Solo energie, senza gravità, solo una fredda era di Plank e questo ingresso al teatro per nulla singolare.

Il mio lavoro al teatro è indicare alle persone il loro posto: “In fondo a destra”, “Il suo posto è a sinistra”. “Ecco questo è il suo posto, signore”. Io sono la prima che vede chiunque entri nel teatro, ero la prima che chiunque trovava all’ingresso. Accoglievo, per prima, anche un esercito.

Accoglievo anche giganti con i fucili e la lana in faccia. Dopo essermi vestita e aver fatto il mio lavoro, iniziato il concerto: c’era musica. La stessa musica che si suona in altri mille posti così. Poi c’è stato un fragore incomprensibile. Il pavimento dell’atrio aspettava le mie stanze, i miei travestimenti, le mie intimità. Le aspettava non senza il mio sangue. Quei giganti con le armi intarsiate di legno hanno voluto me come primo dono prezioso per una nuova umanità. Non pensavo di essere così importante, eppure sono stata la prima. Ero, e ora sono lì, travestita delle stesse origini dell’universo, una voragine immane mi separa il lembo destro dal lembo sinistro di carne, il centro è bollente se provo a poggiarvi il dito e mi accorgo che una scissione nucleare imminente sta accadendo sotto la mia falange; la spina la sento che è rigida come il ghiaccio, quando il sangue caldo toccherà la vertebra ialina vedrò, vedranno, il paradiso al centro del mio corpo. Vi fu un tempo remoto, in cui nulla era non sabbia non mare non gelide onde. Non c’era la terra, né il firmamento, ma una voragine immane dove la mia vita è iniziata, dove un’altra stava crescendo e ora al suo posto crescevano lenti e freschi ciuffi d’erba.

Bibliografia
J. Baggott, Origini. La storia scientifica della creazione, tr. it. di I. C. Blum, Adelphi, Milano, 2017
G. Génette, Figure III, tr. it. di L. Zecchi, Einaudi, Torino, 1986
M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Dalla Parte di Swann,  tr. it. di G. Raboni, Mondadori, Milano, 1983:128
S. Sturluson, Edda, a cura di G. Dolfini, Adelphi, Milano, 1975:52,53

Storia del Re Supremo e della sua Creazione

Ilaria Elmo, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva la Creazione divina, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

La mia riscrittura propone una rivisitazione delle origini bibliche in chiave fantastica. Infatti il suo contenuto aggiunge un tocco di magia e d’incanto modernizzando il tema stesso e avvicinandolo alle nuove generazioni.

*

C’era una volta, prima che tutto nascesse, un essere talmente potente da non poter essere comparato a nessun altro. La sua bellezza era impareggiabile, così come la sua bontà e il suo senso di giustizia. Nel corso dei secoli avrebbe avuto diversi nomi, e, perciò noi lo chiameremo semplicemente Re Supremo.

Il Re Supremo viveva in uno splendido castello, al di sopra di tutto l’Universo. Egli poteva avere qualunque cosa desiderasse, ma dopo un po’ di anni iniziò ad annoiarsi, a causa della solitudine. Nonostante non gli mancasse nulla all’interno della sua maestosa dimora, sotto di essa c’era il vuoto assoluto; perciò il Re supremo decise di creare un mondo gradevole da osservare in cui potesse esserci vita.

Egli compì la sua opera in sei giorni. Nell’arco della settimana si rese conto che la vista dal suo castello era sempre più bella e affascinante: poteva osservare le stelle luccicanti nel cielo e le acque scintillanti sulla Terra. Con il passare del tempo la terra acquistava vita e bellezza in ogni dove. I fiori e le piante presero vita e diedero tocchi di colore magnifici. C’erano rose, gigli, alberi da frutto e tutto ciò che si potesse immaginare. La terra acquistava sempre più l’aspetto di un’opera d’arte dalle mille sfumature. Dopo aver creato le piante, il Re Supremo decise di creare gli animali, perché popolassero il pianeta. Dato però che le apparenze possono ingannare è necessario specificare che sotto la magnificenza della Terra si nascondevano mille pericoli, e gli esseri che la popolavano dovevano lottare per la propria sopravvivenza.

Nonostante il Re Supremo avesse alleviato la propria solitudine popolando la Terra, non era ancora pienamente soddisfatto, quindi decise di creare gli esseri umani. Essi erano diversi dagli altri animali che popolavano il pianeta, al di sotto del castello: erano stati creati ad immagine e somiglianza del Re Supremo. Egli era talmente affezionato agli esseri umani che decise di farli vivere con sé al castello; questo per evitare loro di affrontare i pericoli della Terra sottostante. Gli uomini potevano usufruire di tutti i divertimenti presenti nella dimora del Re Supremo; l’unico divieto che egli pose loro era quello di non avventurarsi all’interno della Biblioteca Infinita: essa conteneva tutto il Sapere dell’Universo.

I mesi passarono e gli uomini, insieme al Re supremo, si divertirono tantissimo. Passavano le giornate ballando, cantando e sognando ad occhi aperti. Tutto sembrava perfetto. Ma la fine di quell’idillio si avvicinava a grandi passi.

Una notte, una ragazza di nome Eva, fece un sogno diverso dagli altri: sentiva il suo corpo muoversi senza che lei lo volesse e poteva vedere tutto al di fuori di esso. Vide sé stessa alzarsi dal letto senza alcun rumore e, con la massima circospezione, dirigersi lentamente verso la Biblioteca Infinita. Al suo risveglio provò sollievo nel constatare che si era trattato solo di un sogno e cercò di passare la giornata senza pensarci troppo. La notte seguente però il sogno si ripeté e così quella successiva. Il terzo giorno Eva non poté più fare finta di niente e, questa volta per davvero, si diresse verso la Biblioteca Infinita, per poi farvi ingresso. Al suo interno si perse, talmente tanti erano i volumi in essa contenuti. La giovane iniziò a leggerli, uno dopo l’altro; non poteva smettere.

Il Re Supremo aveva anche la capacità di essere a conoscenza di tutto ciò che accadeva all’interno delle mura del castello. Vedendo ciò che Eva aveva compiuto, la convocò urgentemente e le chiese spiegazioni. La giovane, non avendo altra scelta, raccontò al Re Supremo dei suoi sogni, verso cui non era riuscita ad opporsi. Egli, dopo aver ascoltato le parole di Eva, si adirò immensamente e per punirla condannò tutto il genere umano a vivere sulla Terra, tanto bella quanto piena di pericoli, per l’Eternità.

Bibliografia
La Bibbia, Nuova versione dai testi antichi,1° edizione settembre 2014, Genesi,Edizioni San Paolo, Milano

Chi è come Dio?

Alice Giambrone, in questa sua riscrittura, racconta la creazione tramite gli occhi di un artista, il quale assume il ruolo del dio che modella la propria opera d’arte, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi. 

È la voce di Michelangelo Buonarroti a narrare la creazione, nello specifico di una delle sue opere d’arte più illustri: il Mosè del monumento funebre per la tomba di Papa Giulio II. La figura dell’artista si sovrappone così alla figura del dio artigiano, che plasma il creato. Narrando il processo di scultura che accompagna i pensieri dell’artista, la riscrittura vuole raccontare il passaggio dalla materia informe alla creatura, che pare prendere vita.[1]

*

[…] he formed thee, O man,
Dust of the ground, and in thy nostrils breathed
The breath of life; in his own image he
Created thee, in the image of God
Express, and thou becam’st a living soul[2].
J. Milton, Paradise Lost

L’estro mi spinge a narrare di forme mutate in corpi nuovi[3].

Quando ricevetti l’incarico di creare, scelsi personalmente la materia prima da cui avrei estratto una forma nuova e, il giorno in cui giunsi nella Città Eterna, unico e indistinto era l’aspetto del marmo da me selezionato, un ammasso di venature discordi, mole informe e confusa, nient’altro che peso inerte[4]. Tenevo dinanzi solo un blocco: un embrione immaturo confuso della creatura non era ancora visibile[5].

Studiai la natura senza forma che in sé racchiudeva potenzialità infinite di immagini. Con le mani in un fremito posi lo scalpello sulla materia da plasmare, alzai il braccio reggendo il martello e posai un primo colpo deciso. La natura vibrò appena sotto il segno del mio gesto.

E vidi che era cosa buona[6].

Spinsi lo scalpello più a fondo e smussai l’ammasso informe, distinguendone le parti e separandone le venature marmoree, fino a quando cominciò a identificarsi una forma più umana, ma ancora mal rifinita, un abbozzo d’uomo.

E fu sera e fu mattina[7] per molti mesi, mentre con l’uso del martello e dello scalpello lasciavo l’aria scorrere tra le membra e gli arti di una nuova vita.

Separai il marmo dall’esistenza che vi giaceva insita, levando l’eccesso di materia, poiché l’immagine già era dentro, non dovevo che spogliarla, sollevare un velo, spesso, pesante. Sotto quel peso l’aria, che è nulla, prendeva forma. Diventava viva[8].

Lo osservai. L’uomo assumeva una posizione seduta, con una gamba più piegata dell’altra come fosse in procinto di alzarsi in piedi, la veste gli ricadeva adagiandosi sulle ginocchia. Definii delle tavole sotto il suo braccio, le levigai, le studiai con cura, e vidi che era cosa buona.

E fu sera e fu mattina lungo numerosi mesi, durante i quali il mio estro dai torti pensieri[9] non si concedeva pace alcuna.

Quando lo scalpello giunse più in alto, nella mole marmorea che mutava la sua forma, delineai la barba in movimento, fluida, intrecciata alle dita affusolate, prolungamento delle braccia dai muscoli tonici e le vene prominenti.

Scolpii il volto accigliato, dallo sguardo altero, le labbra serrate e gli occhi irosi negli incavi bui delle orbite che conferivano alle forme un’espressione d’importanza.

Anche se l’immagine diveniva via via più reale, il marmo racchiudeva porosità, venature, striature caotiche, celava in sé un potenziale infinito di creazioni. Quell’ordine apparente che gli attribuivo non era che esteriore, poiché dentro di sé conteneva un disordine di particelle nell’attesa di essere portate alla luce dal luogo indefinito nel quale risiedevano, che un anno non sarebbe stato abbastanza tempo per giungere al suo fondo[10].

Soffiai sul marmo un alito di vita[11]: con le lime sfregavo i lineamenti del profeta, arrotondavo le ginocchia, delineavo i gomiti, ammorbidivo le articolazioni delle dita. E vidi che era cosa buona. Si disegnò quella figura d’uomo che, dalla stazza imponente, mi sedeva dinanzi con portamento fiero.

Restai a guardare l’immagine che avevo fabbricato, che era un uomo, non più marmo: tanta era l’arte, che l’arte non si vedeva[12].

Il profeta sedeva immobile, come ad attendere.

Anche io rimasi in attesa, aspettando che lui si alzasse, che proferisse verbo al suo Creatore. Eppure, egli tacque. Passai una mano sulla statua per sentire se fosse carne, ed ebbi la sensazione che le dita affondassero nei suoi muscoli, che le sue vene pulsassero sotto ai miei pollici[13]. Fu solo una parvenza.

Allora lo chiamai per nome, a gran voce, così che egli si potesse voltare e mi potesse guardare negli occhi. Tuttavia, egli rimase statuario.

Sentii l’esasperazione crescere in me: guardavo quelle membra umane alle quali avevo dato forma, dalle umane venature e dalle umane sembianze, e non sapevo come donare loro moto, o verbo. Brandii il martello. – Mosè, perché non parli?[14]


[1] “Chi [è] come Dio?”: etimologia del nome Michele (riferito all’Arcangelo), dall’ebraico מִיכָאֵל (Mikha’el), mi (“chi”), kha (“come”) ed El (“Dio”). Da qui deriva il nome dell’illustre artista rinascimentale Michelangelo Buonarroti. Aa. Vv. (1997) Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Piemme, Fossano (CN) 2005, p. 660.

[2] Oh uomo, a te diede forma, polvere della terra, / e nelle tue narici soffiò un alito di vita; / ti creò a propria immagine, / e così fosti un’anima vivente. Paradiso Perduto, libro VII, vv. 524-528.

[3] In nova fert animus mutatas dicere formas corpora, Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 1-2.

[4] Unus erat toto naturae vultus in orbe, / quem dixere Chaos, rudis indigestaque moles […] Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 6-9

[5] Milton, J., Paradise Lost, VII, vv. 277-278.

[6] Genesi, I.

[7] Genesi, I.

[8] Mastrocola P., L’amore prima di noi, Pigmalione.

[9] Esiodo, Teogonia, v. 168.

[10] Esiodo, Teogonia, vv. 736-741.

[11] Genesi, II.

[12] Ars adeo latet arte sua, Ovidio, Metamorfosi, X, v. 252.

[13] Ovidio, Metamorfosi, X, vv. 254-255, 256-257, 289.

[14] Secondo una leggenda, compiuta la sua famosa opera in marmo per il complesso statuario della tomba di Giulio II, Michelangelo si rivolse verso il Mosè, il quale era tanto realistico da parere vivo eppur muto, ed esclamò “Perché non parli?” percuotendogli il ginocchio con il martello, in un gesto di esasperazione. Non vi è traccia di fratture intenzionali a conferma della leggenda.

Bibliografia
Aa. Vv. Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Piemme, Fossano, 2005
Cricco G. e Di Teodoro F. P., Itinerario nell’arte, Dal Gotico Internazionale al Manierismo, Zanichelli, Bologna, 2016
Esiodo, Teogonia, tr. it. di P. Mureddu, BUR Rizzoli, Milano 2020
Mastrocola P, L’amore prima di noi. Pigmalione, Einaudi, Torino 2016
Milton J., Paradise Lost, tr. it. di R. Sanesi, Mondadori, Cles, 2016
Ovidio, Metamorfosi, tr. it. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2015
Genesi, Edizioni Dehoniane, Bologna 2006

HELENE

Arianna di Pascale, in questa sua composizione, propone una riflessione inedita sulla figura di Elena di Troia e sul suo ruolo in un ambito di rinascita. La riscrittura è stata elaborata durante il corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature Comparate B mod. 1, prof. ssa Chiara Lombardi.

In questa riscrittura ho rimaneggiato la storia e la fama di Elena di Troia, proponendone una nuova lettura in chiave di rinascita. Elena è da sempre una figura negativa nelle narrazioni mitiche, colei che scelse di macchiarsi non solo di adulterio, ma di tradimento verso la patria. Nel mio scritto, da una situazione iniziale di desolazione e caos post apocalittico dopo la terribile guerra di Troia – che rappresenta anche la negatività del ruolo assunto dalla donna nell’immaginario comune – si arriva ad una conclusione di ribaltamento in positivo della figura di Elena, dando così inizio ad una nuova età dell’oro. Questa rinascita avviene grazie al processo di “catarsi” provocato in Afrodite dal discorso di Elena; si verifica così una nuova origine della razza umana.

*

“…ἢ γὰρ Τύχης βουλήμασι
καὶ θεῶν βουλεύμασι καὶ Ἀνάγκης
ψηφίσμασιν ἔπραξεν ἃ ἔπραξεν,
 ἢ βίᾳ ἁρπασθεῖσα,
ἢ λόγοις πεισθεῖσα,
ἢ ὄψει ὲρασθεῖσα
[1]

La terra si mischia con il cielo urlante, come le lacrime sono ormai indistinguibili dalle gote, non più degne dell’epiteto “belle” che le designava un tempo. Lacrime amare, di un dolore dall’ampio petto[2], che raccoglie colpa, disperazione, rabbia. Molte lune sono trascorse dalla causa del pianto, eppure i fiumi che scorrono dai begli occhi sembrano avere fonte infinita.

Elena alza gli occhi alla volta celeste, che ricambia con sguardo iroso e scoppia in un tuono che sembra divorare quel che resta della terra, ormai sterile stagno di fuoco e di zolfo[3].

Ebbene questa è la mia colpa… anche il mare, il cielo, sono attraversati da tempesta e sconvolgimento alla mia vista: solo incrociando il mio sguardo perdono ogni lume, e si abbandonano al Caos.

Ebbene, questa è la mia colpa… il dono tanto gradito ai più è per me insieme vita e morte.

Sopravvivere alla mia stessa bellezza, è forse vita questa?

Guardare fiumi di sangue scorrere violenti, in piena, mentre tingono gli oceani di rosso. Molte volte il sole ha danzato attorno alla terra, e cammino da altrettante, alla ricerca anche solo di una goccia d’acqua che, non toccata dalla mia colpa, abbia conservato il colore della purezza.

Non merito tuttavia quella goccia, qualora ancora ce ne fosse una; o così credono gli Dei dell’Olimpo.

La mia sventura ebbe inizio in un giorno che avrebbe dovuto essere il giorno più felice. Si celebravano le nozze di una dea del mare, Teti, con un uomo bellissimo, Peleo, e tutti gli dei erano venuti a festeggiare gli sposi portando loro una grande quantità di doni.

Nessuno però giudicò opportuno invitare Eris, dea della Discordia, ché la sua presenza, degna di biasimo, avrebbe assicurato litigi furibondi in un giorno tanto piacevole. Infatti, se è vero che nessun mortale l’ama, gli dei, costretti, fanno sì che le si ponga rispetto[4].

Il banchetto procedeva lieto, e già Teti e Peleo erano andati nel talamo, condottivi da Anfitrite e da Nettuno. La Discordia, stizzita, colse il tempo, e, non veduta da nessuno gettò nella sala del banchetto un pomo lucente, tutto d’oro, e con una scritta che diceva: la più bella l’abbia. Quello ruzzolò, e giunse, come a posta, dove erano sedute Giunone, Venere e Minerva. Tra loro sorse contesa, e ciascuna desiderava il pomo per sé; così Giove designò giudice Paride. Eris, ridendo del male provocato[5], ammirava il banchetto.

Ogni dea offerse doni per persuadere il bel giovane a proprio favore, e tuttavia egli scelse Afrodite- insieme con il premio da lei offerto, che fu la mia persona.

La sua scelta, che da un lato pose fine alla contesa, diede adito ad altro tipo di odio: Minerva e Giunone, adirate, maledissero il premio offerto dalla dea vincitrice, facendo della mia bellezza, ritenuta impareggiabile da alcuna donna, ragione di follia per chiunque posasse lo sguardo sulle gradevoli membra.

Afrodite però promise l’amore di una donna sposata; Paride, così, mi rapì dalla casa achea e dagli affetti.

Menelao, mio legittimo marito, dichiarò guerra alla patria del figlio di Priamo: quel conflitto, l’ennesimo, nella bellicosa storia dell’uomo, fu tuttavia l’ultimo. Come il fuoco vorace, rovina dei rami[6], divora ogni cosa sul suo cammino, così la furia di Ares si scatenò, mortale, sull’umanità: un ardore prodigioso penetrava Caos[7].

Il marchio della mia maledizione ruppe le ordinate file di soldati, volgendo la guerra in scontro informe, indistinto, in cui non v’erano più nemici né alleati. La follia pose ambo le mani sugli occhi di coloro che, anche solo una volta, avevano incrociato lo sguardo con il mio, e come una pestilenza la follia si diffuse, rapida e invisibile, nel campo di battaglia.

Non rimase nessuno, sola camminai tra gli scudi abbandonati, i nudi piedi dolenti sulla terra sterile.

Strappati furono i figli dalle braccia materne, i mariti dalle mogli, gli amici dal simposio, e non rimase nulla se non macerie e corpi senza anime. Così, come Achille cullò, invocando la morte, il corpo di Patroclo, la madre del Pelìde pianse il corpo del figlio, nato dall’unione che fornì l’occasione della mia disgrazia.

Sola, sola con la mia colpa.

Colpa che mi macchiò le mani, mentre la spingevo via con tutte le forze. È colpa, esser parte del rincorrersi degli eventi?

Certamente nella storia, nella memoria, ciò che conta sono i fatti, le evidenze, le conclusioni: solamente i gloriosi, i valorosi, meritano di essere ricordati come esempio di virtù.

O madre, Nemesi, giustizia riparatrice, non ho nulla di te nel mio essere, nessuna giustizia è in serbo per me.

È certamente dire il falso, affermare di non aver peccato; nonostante il desiderio, bruciante, di porre la mia verità agli occhi di alcuno mi abbia ormai consumata. Donna superba, adultera… così morirò ai miei occhi, gli unici che ancora conservano il lume della vita e conservano memoria.

Sarebbe forse più terribile finire i miei giorni in una pace apparente, e sopravvivere in tal guisa alla memoria dei miei figli, che avrebbero vissuto col capo chino per la vergogna causata dal terribile strappo sul mio onore. Tuttavia la guerra che ho causato mi rende imperdonabile, ai miei occhi per prima.

La mia bellezza? Peccai di superbia.

La mia fuga con Paride? Peccai di adulterio e lussuria.

Che sia una colpa essere parte del piano divino, questo è l’amaro destino umano.

Afrodite,

a te devo i tre mali della mia vita.

Con il tuo favore la madre legò, indissolubile, l’anima impalpabile a questo corpo funesto.

Tu, Citerea[8] dalla splendida chioma, mi maledicesti una seconda volta facendo di me premio e trofeo,

e infine, ferendo la vanità delle contendenti, ne scatenasti l’invidia.

E tuttavia tu stessa fosti ugualmente colpevole di azioni non tue: la triste Eris tirò la mela, il bel Paride ti scelse.

Con questo mio ultimo gesto ti rendo giustizia, l’unica, temo, che riuscirò mai ad ottenere.

E come il suo corpo cadde dall’alta roccia nel mare agitato, esso fu portato al largo per molto tempo; attorno alla bianca spuma, dalle mortali membra, lambita dai flutti nacque una figlia, e poi un figlio, e dopo essi molti[9]; come gocce di pioggia, dal fecondo oceano si generarono nuove stirpi. Questi figli, con il cuore ignaro del dolore, abiteranno terre spontaneamente feconde e corpi liberi dalla fatica e dal pianto; non li inseguirà il tempo e la vecchiaia misera, ma anzi, dopo una vita di pace, moriranno come colti dal sonno[10].
Per loro la dea fatta di spuma marina terrà separati i beni dai mali; il turbamento per le parole di Elena ne commuove ancora l’animo.

Bibliografia

Esiodo, Teogonia , BUR Rizzoli, Milano 2020
G. Guidorizzi, Kosmos – l’universo dei greci, vol. 1, Einaudi Scuola – Mondadori, Milano 2016
La Sacra Bibbia, Apocalisse, Società Biblica Britannica e Forestiera, Roma 1924
L. Settembrini, Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini, Vol I, 9. Ed. Felice Le Monnier, Firenze, 1862
S. Stulson, Edda, edizione a cura di G. Dolfini, Adelphi, Milano, 2018 [1975].


[1] Ella infatti fece quel che fece per volontà del Caso, e desiderio di Dei, e Decreto di Necessità, oppure rapita per forza, o persuasa con parole, o presa da Amore”. Gorgia, Encomio di Elena, 1, 6.

[2] Esiodo, Teogonia, vv. 117.

[3] Apocalisse, 20: 14 – 15.

[4] Esiodo, Opere e Giorni, vv. 11 – 16.

[5] Esiodo, ibidem, vv. 28.

[6] S. Stulson, Edda, cap. 4, p. 53.

[7] Esiodo, Teogonia, vv. 699.

[8] Esiodo, ibidem, vv. 196 – 198.

[9] Esiodo, ibidem, vv. 188 – 193.

[10] Esiodo, Opere e Giorni, vv. 112 – 120.

L’ultima tempesta

Aurora Fenocchio, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

In questa mia riscrittura ho tentato di dar voce ad un Pericle moderno che vive immerso in un presente di sale, a stento ricordando d’esser stato, un tempo lontano, qualcosa di diverso da un uomo che ha perso la sposa, un padre senza più la figlia.

*

Con una lentezza straziante il sole di mezzogiorno prosciuga le pozze d’acqua salata. I granchi nerastri, retroguardia della marea, si contendono gli scogli, mentre i gabbiani calano dal cielo a fargli la guerra.
Il piccolo muggine sa che la fine è vicina. Passano i minuti, e la vita defluisce dal suo corpo; il soffio che anima gli ultimi guizzi si disperde, per sempre, nell’aria.
L’occhio del pesce si annebbia del tutto, e in un attimo dentro ci trovo il mio. La smania di vita che incontra il desiderio di morte.
Mi alzo lentamente in piedi, stordito, mentre le acque riassestano il loro dominio, indifferenti verso chi lasciano indietro.
Mentre mi allontano, un gabbiano scende in picchiata sulla spiaggia e in un attimo fa scomparire  il muggine nella sua gola bramosa.

Amata Marina,
prima ho guardato la morte negli occhi. Uno di quei pesci che abitano la costa, forse perché timorosi del buio delle profondità voraci (conosceranno, i pesci, la paura del buio?), ha avuto la sfortuna di trovarsi a combattere contro il sole, imprigionato in due dita scarse d’acqua.
Penso di aver fissato la morte fare il suo corso con uno strano bisogno di risposte, forse con  quello sguardo curioso che hanno i bambini quando cercano di capire il senso del tramonto, o l’assenza dei frutti sul ciliegio in pieno inverno, o il perché del fatto che, ad un certo punto, la trottola si ferma- chissà qual è la forma che la curiosità assume sul tuo viso, Marina. Il tuo viso che per me è rimasto per sempre un viso di bambina.
La morte è stata una fedele compagna della mia vita e, devo dire, probabilmente senza di lei sarei stato qualcuno di molto diverso. Ricordo la morte di mio madre, mia madre che profumava di buono, andata via con i primi freddi, come le rondini, l’anno in cui io imparavo a camminare. Poi quella di mio padre, colui che mi trasmise il compito del sovrano, il senso della guerra e della pace, l’importanza di avere consiglieri fidati e sudditi dalle pance piene; mi insegnò come a volte un nemico sia più utile di un alleato, ma trascurò di farmi conoscere il tepore di un abbraccio e la freschezza di una mano amica che asciuga le lacrime.
La sua morte mi rese re e, soprattutto, mi donò la limpida consapevolezza dell’ordine delle cose, del fatto che tutti i regni e le meraviglie di questo mondo sono destinati ad essere ingurgitati dall’oblio, a scomparire come la rugiada sotto il sole del mattino. Da allora non riesco a guardare un fiore senza vederlo già cenere, anche se a suo tempo feci di tutto per rendermi cieco a queste visioni, per rendermi sordo a certi sussurri di morte, al fine di cercare con tutte le mie forze di realizzare il mio compito di re.
  Solo per un breve momento nella mia vita qualcosa mi ha sottratto a questa terribile consapevolezza, rendendomi dimentico e felice, e quel qualcosa è stato tua madre, Marina. Tua madre era per me la pioggia dopo una siccità secolare, una mano delicata che mi chiudeva gli occhi di fronte alla putrefazione circostante, la musica delle sfere che copriva il suono delle forbici delle Moire. Troppo presto se ne andò, e per colpa mia: fui io a volerla con me nel viaggio fatale.
 La tempesta si abbatté sulla nave in una notte senza stelle, verso la metà del nostro viaggio per Tiro, dove mi richiamavano i miei doveri di re. Il capitano aveva provato a farmi notare le nubi che si addensavano come cupi presagi dinnanzi all’incendio del tramonto, quella sera, ma io non avevo occhi che per la mia sposa dilaniata dalle doglie del parto imminente. D’altronde, a quel punto non avremmo potuto fare niente per evitare la tempesta, sperduti come eravamo in mezzo al mare, senza nemmeno uno scoglio all’orizzonte in tutte le direzioni. Così, nella notte la tempesta si schiantò rombando sul legno, e noi sopra come fragili conchiglie.
Tua madre, Marina, ti diede alla luce fra atroci sofferenze, senza neanche il conforto di un fuoco, senz’altra luce che quella dei lampi sovraccoperta, quei lampi che parevano incendiare il mare, in una guerra fra elementi in cui noi uomini non eravamo che impotenti bambole di pezza. Il mio pensiero era con voi due mentre facevo del mio meglio per restare in piedi sul ponte, intento a dare ordini ai miei uomini, nella terribile furia delle acque e dei venti. D’un tratto la buona Licorida venne a chiamarmi urlando nel vento parole agghiaccianti, di cui mi rifiutavo di cogliere il senso. Sottocoperta non potei fare altro che gettarmi sul corpo ancora caldo della mia sposa, madido di sangue e sudore freddo, avvinghiato alla sua creatura in un ultimo abbraccio che con la sua disperata tenacia sfidava la morte, e perdendo vinceva. Nel momento in cui il mio sguardo si posò sugli occhi senza vita di Taisa, seppi con certezza che la morte era tornata nella mia vita per incidermi nelle iridi il suo ghigno ammiccante, e che mai più se ne sarebbe andata.
Ora, lasciato il mio regno a chi sappia governarlo meglio di quanto io, naufrago della vita, possa fare, deposta la porpora per coprirmi di un ruvido saio, in riva al mare sto, immobile come un sasso, mentre il vento ed il sole mi screpolano la pelle e si insinuano fra le rughe scolpite dal dolore. Dopo che il mare ha ridiscusso ancora una volta gli antichi patti con la terra, dopo che l’acqua si è ripresa le conchiglie che aveva smarrito in una tempesta ormai dimenticata, io, Pericle, tendo l’orecchio: ma non trovo pace. Solo, strida di gabbiani affamati, clangore di chele bellicose e il ciaf ciaf d’un pesce che muore.
Nell’occhio del muggine vedo la morte, e nel sorriso senza denti di questa trovo la stessa domanda che mi perseguita da tutta la vita: perché?


Amata Marina,
mia immane perdita; ti chiedo perdono per questi miei perché? urlati al vento, che tuttavia tu non leggerai mai: è alle acque che affido queste mie, saranno gli oscuri abitanti degli abissi a posare i loro occhi ciechi su tali sillabe inquiete. Forse gli occhi di tua madre, fattisi perle incastonate in ossa coralline e pelle fredda di squame, vedranno passarsi davanti queste lettere, e le profondità risuoneranno dell’eco del mio bisogno, sirene e serpi marine si commuoveranno di fronte alle mie sventure. Forse a quel punto il mare, sempre indifferente alla tragedia del vivere, verrà finalmente a portarmi la pace: in una notte stellata, dopo una lunga veglia, sarò rapito da un sonno leggero, e allora le acque si insinueranno nella mia nuda caverna, qui sugli scogli, dandomi l’agognata morte con un bacio leggero. Morirò così, fra nebbie soavi, sognando te, figlia mia, che giungi a questo remoto angolo di mondo per riabbracciare il perduto padre – questa la speranza che mi tiene lontano dal punto in cui la scogliera scende a precipizio sugli scogli, sempre biancheggianti di schiuma.
Ancora una volta le onde della mia memoria si tramutano in quella tempesta atroce e, a distanza di anni, vengo di nuovo precipitato sulla nave illuminata a giorno dai lampi.
Mentre ancora lo spirito di tua madre vagava nell’aria, quasi visibile fra i bagliori dei lampi, Licorida mi poneva in braccio te, piccolo bruscolo di natura, che prima ancora di aprire gli occhi avevi perduto più di quanto la vita avrebbe mai potuto renderti. Annichilito dal dolore ma nel contempo deciso ad agire per amor tuo, dovetti fronteggiare il ricatto superstizioso dei marinai, che nel mezzo della tempesta esigevano che il corpo di Taisa fosse buttato fuori bordo, al fine – così dicevano – di non inimicarsi gli dei e propiziare la fine della tempesta. Fu solo per timore di essere ucciso e quindi di non poter proteggere te che, alla fine, mi rassegnai a tale barbarie. Sotto i miei occhi Taisa sprofondò fra le gelide braccia della tempesta, i capelli sciolti come alghe rosse, la pelle candida di madreperla. Al solo ricordo avverto i miei stessi polmoni riempirsi di acqua gelida, e saluto questo alito di morte col sorriso.
  Cessata la tempesta, navigammo verso Tarso, dove ti lasciai al sicuro – o almeno così credevo; separarmi da te, Marina, fu come morire con Taisa una seconda volta, ma affrontare l’ultimo tratto del viaggio verso Tiro ti sarebbe stato fatale, priva com’eri del seno materno e di ogni conforto.
Questo mi ripeto quando oggi penso a come quel nostro saluto fu anche l’ultimo: dopo una veloce sosta a Tiro tornai a riprenderti ma, ahimè, i sovrani di Tarso mi dissero con le lacrime agli occhi che eri perduta per sempre. In una notte senza luna la culla in cui dormivi era rimasta vuota, pian piano il tepore del tuo corpo si era dileguato verso gli angoli bui della stanza, unici testimoni del mistero accaduto.
Il vuoto che la tua scomparsa misteriosa lasciava in me fu la goccia che fece traboccare il vaso della mia tempesta interiore. In quell’ora terribile, i miei occhi persero ogni traccia dell’antico lume, già molto affievolito, mentre le membra si agitavano in singhiozzi che cercavano di uccidere il respiro, e fra le labbra tremanti si facevano strada motti più simili a urla ferine che non a favella umana. Quando la marea furiosa del dolore sembrava ritirarsi, una nuova tempesta mi assaliva il cuore, spolpandomi fino all’osso ma senza tuttavia concedermi il colpo di grazia che tanto agognavo.
Corroso dalla disperazione, esile legno in mezzo alla burrasca, io, che ero stato un grande re, un guerriero di cui i nemici temevano l’ira, non fui in grado di adempiere al mio dovere di padre: non riuscii a trovare la forza di partire alla tua ricerca. Fu la mia più imperdonabile colpa: questo mi dicono gli occhi di Taisa quando mi appare in sogno e mi guarda senza far motto sino all’aurora, allorché piangendo fa ritorno al mondo dei morti.
Dopo aver constatato la gravità del morbo che mi affliggeva, i miei consiglieri non poterono rifiutarsi di esaudire le mie preghiere, e fu così che fui infine abbandonato a me stesso, su una spiaggia qualsiasi, per non venire più avvicinato da creatura umana.
Molti anni solo passati dalla tua scomparsa, mia amata Marina, e molte lacrime hanno solcato queste guance scavate, fino a prosciugare la fonte. Da innumerevoli lune il mio pianto rifiuta di esprimersi nell’acqua, l’acqua che ha segnato il mio destino, sancendo la perdita e la rovina.
Ormai simile ad una pietra, così prosciugato e refrattario, riempio i miei giorni delle grida dei gabbiani e di poche, pochissime gocce di speranza salmastra.
Ed invoco il destino che mi ha reso non vivo, non morto, sperando in una prossima tempesta, temuta eppur benedetta, che mi dia la pace della morte e mi porti in ginocchio da tua madre, per chiederle perdono per non aver saputo proteggere né lei, gioia della mia esistenza, né te, carne della nostra carne.

Bibliografia
W. Shakespeare, Pericle, principe di Tiro, in Willliam Shakespeare. Tutte le opere, vol. 4: Tragicommedie, drammi romanzeschi, sonetti, poemi, poesie occasionali, a cura di F. Marenco, Milano, Bompiani, 2019