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Coscienza e disturbi del comportamento alimentare: come ho fatto amicizia con la mia coscienza

Federica Martire racconta il difficile percorso di guarigione da un disturbo del comportamento alimentare nell’ottica del corso di Letterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro, Prof.ssa Chiara Lombardi (2022-2023)

“Nel corso di quei mesi fotografavo continuamente il mio corpo come se fosse una medaglia da esibire ogni volta che uscivo di casa. Le mie mani sottili, il mio seno piccolo, lo spazio tra le mie gambe erano per me il trofeo che ritiravo ogni mattina quando mi guardavo allo specchio, per aver mangiato poco il giorno precedente.  Avere il controllo su me stessa mi faceva sentire invincibile, amavo quello che la mia malattia mi stava togliendo e invece di battermi contro di lei assecondavo ogni sua richiesta”.

*

Sono le sei e cinquanta, mi alzo dal letto e scorro le notifiche sul mio IPhone.

Cammino verso il bagno e guardo il mio viso attraverso il riflesso dello specchio. Mi guardo negli occhi e sto in silenzio ma è come se non lo fossi.

Osservo le mie mani e i tagli sui polpastrelli, mi guardo di nuovo negli occhi. 

È inverno e stanotte faceva così freddo che non sono riuscita a dormire, sebbene avessi ben tre coperte.

Prendo coraggio e sollevo la maglia, ho i brividi. Guardo il mio corpo allo specchio e sto in silenzio, poi osservo nuovamente le mie piccole mani. Sono zitta ma sento un fastidio incessante; mi guardo allora intorno, ma non c’è nessuno.

Osservo il mio addome allo specchio, ho gli occhi semilucidi e sto tremando. “Domani andrà meglio” mi ripeto ogni giorno.

Abbasso la maglia e guardo di nuovo le mie mani, poi i miei occhi allo specchio. Le stesse mani che mi fanno sentire vittima e colpevole di un destino che non sento mio.

Le mani con cui la sera prima ho mangiato un pezzo di quel delizioso e morbidissimo pane che ha fatto mia nonna per convincermi a mangiare di più.

Le mani con cui ogni mattina, facendo attenzione a non farmi sentire, prendo la bilancia nella speranza di pesare di meno.

Le stesse mani con cui asciugo le mie lacrime quando piango così tanto che non riesco nemmeno a respirare.

Le guardo come se fossero piene di sangue, come se avessi appena commesso un omicidio,

“Forse l’ho fatto davvero” mi dico, ma la vittima sono sempre io.

Esco dal bagno e mi vesto, tra poco sarà il mio compleanno e solo per oggi non farò colazione perché devo mettermi quel vestito rosa che mi piace tanto e ho paura che si veda il segno della pancia.

Incontro mio papà in sala, mi dà il buongiorno ma leggo nei suoi occhi parole che non avrà mai il coraggio di dirmi. Le stesse parole che invece mia mamma mi ripete in continuazione ma che la mia testa sembra non voler ascoltare.

Sento di nuovo una voce, ma intorno a me non c’è nessuno. Non mi è mai successo e sono spaventata.

Mi sento come se avessi accolto dentro di me un ospite indesiderato, come se qualcuno fosse entrato nella mia stanza e avesse iniziato ad usare i miei vestiti, il mio spazzolino per lavarsi i denti e i miei libri per studiare. “Non sono io” mi ripeto mentre cerco di seguire la lezione di filosofia, ma non ne sono sicura.

Torno a casa e trovo mia sorella ad accogliermi seduta a tavola che mi chiede com’è andata la giornata.

La sala da pranzo è da mesi il mio campo di battaglia dove chi lotta sono i miei desideri e la mia speranza di tornare a vivere, contro una voce dentro la mia testa che mi intima di non mangiare ciò che desidero.

Sento la pancia brontolare, da mesi dice quello che io non ho la forza di dire, emette suoni di protesta e di aiuto ma non trova mai nessuno pronta a sostenerla. Per anni il mio stomaco è stato il mio secondo cuore quando quest’ultimo era così debole da non sentire più le mie sofferenze.

Mangio una fetta di carne senza olio, dico a mia mamma che sono piena perché ho fatto merenda a scuola. Non è vero e lei lo sa bene.

Mi rifugio nella mia stanza e leggo per la terza volta il mio romanzo preferito: L’insostenibile leggerezza dell’essere. Mi rifugio nelle parole di Milan Kundera che mi permettono di accettare, anche se per poco, il mio dolore e di non sentirmi rea della mia situazione fisica e mentale.

“Che cos’è positiva, la leggerezza o la pesantezza?” mi chiede questo romanzo ed io che sento la mia anima estremamente pesante, desidero solo essere leggera.

Esattamente come dice Michela Marzano in Volevo essere una farfalla “Mi ero convinta che se fossi riuscita a diventare leggera come una farfalla, tutto sarebbe andato a posto. Sarei divenuta forte, indipendente e libera e non avrei mai più avuto bisogno di nessuno”

Nell’attesa di stare meglio spengo la luce e mi rifugio sotto le coperte. Vorrei dormire, sento la testa pesante ma non riesco nemmeno a chiudere gli occhi.

Sento ancora quella voce.

VITA
Cosa hai mangiato oggi?”

FEDERICA
Un caffè macchiato e una fetta di carne.

VITA
Come un caffè macchiato? Sai che ti fa ingrassare.

Non riesco a capire come farla smettere, non riesco ad ascoltare i miei veri pensieri.

FEDERICA
Ho perso ancora un chilo e mezzo questa settimana. Solo un mese fa pesavo nove chili in più di adesso, credo che vada bene così.

VITA
Hai visto stamattina la tua pancia, era enorme. Sai perché stamattina tutti ti guardavano in classe? Perché quel jeans era troppo stretto e ti segnava sulle cosce.

Non sapevo con chi stessi parlando, intorno a me c’era silenzio; eppure, i miei pensieri mi parlavano.

Sono le 18 e 50 e ho l’appuntamento con la mia psicologa. Quella sera sono rimasta in silenzio fino a quando mi ha chiesto di andare via, perché era scaduto il tempo a mia disposizione.

“Ultimamente sembra che il tempo non passi mai” le ho detto quando mi ha fatto notare che l’orologio segnava le 20.00. Mi guardava con lo stesso sguardo severo che aveva ormai da settimane; durante i nostri incontri facevo fatica anche solo a dirle “ciao”, quando entravo nella stanza, figuriamoci se le avrei mai parlato di come mi sentissi. 

Torno a casa e mi siedo a tavola, sono da sola perché i miei genitori sono fuori città e mia sorella è agli allenamenti di pallavolo.

FEDERICA
Vorrei mangiare un bel piatto di pasta al pesto, non lo mangio da così tanto che non ricordo nemmeno il gusto.

VITA
Non puoi, non lo meriti come non meriti ogni cosa della tua vita
Non meriti di essere amata da tua madre che ogni giorno ti sprona a stare meglio
Nemmeno da tuo padre che soffre in silenzio per te
Non meriti l’amore di Giulia che cerca di assecondarti in ogni tua richiesta
Non meriti l’amore dei tuoi nonni
La gioia di vivere delle tue amiche
I loro progetti per il futuro
Non meriti nemmeno quel voto alto per il quale hai tanto studiato
Sarà stato un caso

Improvvisamente mi agito, mi manca il respiro e inizio a sudare. Mi siedo a terra, conto lentamente fino a dieci. Piango. Mi sento sola come mai non lo sono mai stata in tutta la mia vita.
Prendo il telefono, vado su Spotify e seleziono “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli.
Penso a quando mia mamma me la cantava da piccola. Mi siedo sul divano e mi addormento.

La prima volta che mi è venuto un attacco di panico è stato a causa di quella voce che si agitava nella mia testa e non smetteva di incolparmi con parole di fuoco.
Non mi diceva “non sei abbastanza” “non ce la farai” “fallirai”, si limitava a dirmi che la causa del mio dolore ero io stessa e che non ne sarei mai guarita.

La mattina seguente mi sono svegliata, avevo gli occhi gonfi e il mascara su tutto il viso, mi sono svestita e dopo essermi guardata allo specchio ho risentito quelle parole suonare nella mia testa.

Prendo il telefono, ascolto la stessa canzone che la sera prima mi aveva permesso di addormentarmi, e, finalmente, per la prima volta dopo mesi, sento solo silenzio.

È stato questo il momento in cui ho visto per la prima volta una variazione di colore sulla tavolozza della mia vita che fino a quel momento comprendeva solo il bianco e il nero.
Ho visto uno spiraglio di luce gialla, arancione, azzurra nella mia vita alla quale mi sono aggrappata con le poche forze che avevo.

Da quella mattina, grazie a quella canzone ho finalmente capito cosa Milan Kundera intendesse per “leggerezza”, non superficialità ma semplicemente VITA. Lo stesso nome che per anni ho dato alla voce della mia coscienza che parlava per me, che non mi permetteva di ridere, piangere, urlare, ballare, cantare quando mi andava.

Quella mattina grazie a quella canzone ho capito che non era necessario metterla a tacere e che probabilmente sarebbe impossibile farlo, ma che dovevo semplicemente accoglierla e ascoltarla come se fosse la mia canzone preferita che non avrei mai interrotto sul “Quando sei qui con me…”.

Da quella mattina, e ancora adesso, parlo con quella voce e la ringrazio perché mi permette di vedere la mia vita da un punto di vista differente, perché mi permette di vedere le mille sfumature che ci possono essere tra il bianco e il nero, anche se a volte può ferirmi.
Quello che una volta recepivo come un “Non puoi, non te lo meriti, non starai mai bene” oggi è uno stimolo per dimostrare a me stessa che posso fare qualunque cosa io voglia.

Oggi quando mi guardo allo specchio non sento più la voce della mia coscienza che mi fa credere che se il mio corpo e la mia anima fossero diversi, potrei essere più felice. Non sento silenzio, ma un incredibile frastuono che mi ricorda che sono viva e credo che sia la cosa più bella che possa esserci al mondo.

*

Bibliografia:

  • W. Shakespeare, Macbeth, a cura di Guido Bulla, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 2008.

Amanti al Clifford’s Coffee

Giorgia Fantino, Diletta Lizzadro, Andrea Polesel e Anna Maria Gribaudo riscrivono, con questa sceneggiatura, un’inedita e attuale Amante di Lady Chatterley perché “Lady Chatterley vive ancora oggi. Vive nei caffè e nelle videochiamate. Vive in ogni corpo recluso, inibito,
frustrato. Vive nella carne che urla, nell’umanità ritrovata”.
Il testo è stato scritto nell’ambito del seminario: Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022.

Questo corpo
Così solo
Gettato su un divano
Accartocciato su un letto
Questa Carne
Intorpidita dalla solitudine
Che implora di essere toccata
Implora affetto
Solo così si ricorda di esistere
Le occhiaie che non si riconoscono nemmeno nello specchio
Le terminazioni nervose assopite
Il sangue prosciugato
Mi accorgo di respirare solo tremante sul pavimento
Non mi sembra nemmeno più di avere un corpo
Si è perso fra quelli altrui
A loro apparteneva
Le foglie sono tutte secche
Non c’è nessun sole a riscaldarle
Solo la fredda luce di un monitor.
Ho ventotto anni e sono già appassita.

*

BUIO
SCHERMO NERO. SCRITTA.
«La nostra è sostanzialmente un’era tragica, per cui ci rifiutiamo di prenderla sul tragico»
INT. CASA DI UNA DONNA. GIORNO.
Due donne nude in un letto raggiungono il picco del loro godimento. Si sentono urla di
piacere. Dopo qualche istante Nora si alza e si cambia velocemente, pronta ad andarsene al
più presto.
BARBARA
E quindi sei sposata?
Nora preferisce non rispondere. Infila le scarpe e fugge dalla porta.
BUIO
Nora cammina per le strade di Torino. È una bellissima giornata, il sole splende riflettendo i
suoi raggi nel Po.
NORA
(Voice over)
Mi chiamo Nora, ho 28 anni e sono nata e cresciuta a Torino. La famiglia in cui sono
cresciuta è sempre stata anticonformista, infatti ho sempre potuto godere di esperienze che le
mie coetanee non potevano neanche immaginare. Ogni anno, io e mia sorella andavamo in
vacanza studio nelle migliori accademie di Londra, Parigi, Madrid. Siamo sempre state a
contatto con un mondo fatto di ragazzi e ragazze colte, con un forte interesse per l’arte in
tutte le sue forme. Ma soprattutto, ci sentivamo libere di essere noi stesse, di pensare con la
nostra testa, di avere una nostra opinione e soprattutto di amare chi volevamo. Dopo le
superiori ho deciso di studiare al DAMS e per molti anni ho sognato di poter diventare una
regista, o forse una critica cinematografica, o forse addirittura un’attrice… mmm insomma
un’artista. Poi però a 22 anni ho conosciuto Marco. Quando ci siamo conosciuti non è
scoppiata subito la scintilla, ma con il tempo ho capito quanto lui era per me rassicurante. Si,
rassicurante. Non è facile al giorno d’oggi vivere di arte e diciamo che fin da subito lui è stato
in grado di darmi quella stabilità che mi mancava. Ero persa fuori e dentro di me. E lui mi ha
aiutata. Dopo qualche mese ha preso una casa per noi a Torino e quando ho compiuto 25 anni
ci siamo sposati. Bella storia felice vero? No. Per niente. C’è sempre qualcosa che non va.
Marco vuole un figlio. Ovviamente non ha minimamente pensato al fatto che dovrei
abbandonare la mia aspirazione artistica per dedicarmi totalmente ad un figlio. Ma lui mi
vuole a casa, con un figlio, non lontana in quel mondo frivolo dell’arte. Non so. Sono
confusa. È tutto grigio attorno a me e non ho molte forze. E quindi… Barbara, la ragazza di
prima? Beh diciamo che non voglio reprimere la libertà che mi è stata insegnata fin da
piccola dai miei genitori e dalle esperienze vissute. A volte trovo che gli uomini sono così
ingrati e mai soddisfatti: finiscono per diventare dei bambini capricciosi. Sono una donna
libera, in tutti i sensi e a volte le donne rendono un po’ più colorato il cielo sopra di me.
INT. CASA DI NORA. GIORNO.
Nora è sdraiata sul divano. Ad un certo punto squilla il telefono. È Marco che la sta
videochiamando da Manchester.
NORA
(Annoiata)
Ciao amore.
MARCO
Ciao tesoro. Come stai?
NORA
(Pungente)
Bene grazie.
MARCO
(Capisce che c’è qualcosa che non va, come al solito, ma evita di parlarne)
Senti tesoro, purtroppo non posso ancora tornare. Qui c’è parecchio lavoro da gestire e poi la
situazione pandemica non è delle migliori. Per ora il Regno Unito rimarrà ancora in Lock
down e io non posso muovermi. Ma in Italia la situazione è diversa, quindi è necessario che
tu prenda in gestione il mio bar. Dovrai fare dei colloqui per assumere un nuovo barista e nel
frattempo tu ti occuperai solamente della gestione.
NORA
Solamente? Tu scherzi. Dai Marco, perché proprio io? Lo sai che non sono portata per questo
lavoro. E poi mi toglierebbe un sacco di tempo dal mio progetto artistico. Non puoi assumere
una persona al posto mio?
MARCO
Ma tesoro. Tu ti sottovaluti. Dai, è fuori discussione. Sei tu che devi gestire il bar in mia
assenza. Sono sicuro che troverai la persona adatta e che riuscirai a gestire il tutto senza
problemi.
NORA
Marco, per favore, ascoltami per una volta. Ho davvero un progetto importante in mente. Non
voglio sprecare energie altrove.
MARCO
Durerà pochissimo. E andrà tutto bene. Ora devo andare tesoro. Aggiornami sui colloqui. Ti
amo.
Nora è su tutte le furie. Non riesce a darsi pace. Per l’ennesima volta non è riuscita a far
capire a Marco quello che in realtà è davvero importante per lei. È seduta sul divano e guarda
fissa davanti a sé. Ad un certo punto decide di chiamare sua sorella Gilda per potersi sfogare
e trovare un aiuto.
NORA
(In chiamata con sua sorella)
Ciao Gilda, come stai?
GILDA
Ciao cara, tutto bene, ho passato l’ultima settimana al mare e non mi posso lamentare. Tu
invece? Ti sento strana. È per colpa di Marco?
NORA
Si. Guarda, non ci voglio credere. Marco è davvero odioso. A volte mi chiedo come abbia
fatto a sposare un essere così egoista.
GILDA
Sul fatto che sia odioso, non mi meraviglio, ma egoista? In che senso?
NORA
Si, per me è egoista. Anzi, a volte mi sembra addirittura disumano. È totalmente rinchiuso
nel suo mondo di economia, di numeri, di internet e finisce per non avere contatti con persone
in carne ed ossa. Lui mette un muro con la gente. Ma con chiunque, anche con me.
GILDA
E hai provato a parlargliene?
NORA
Io ci provo a fargli capire che ho bisogno di tempo per dedicarmi all’arte e che non è
sicuramente mia intenzione passare le ore rinchiusa nel suo bar, ma lui è sordo. Per lui, siamo
tutti esseri spregevoli. Lui è superiore e rifiuta ogni contatto umano. Non posso dire che non
sia una persona intelligente, ma è allo stesso tempo presuntuoso e questa chiusura in se stesso
mi manda fuori di testa.
GILDA
Ti senti inutile?
NORA
Dipende. A volte ho la sensazione che senza di me sarebbe perso.
GILDA
Te l’ho detto diverse volte. Prendi in mano la situazione e allontanati per un periodo. Devi
farlo per te, Nora. Finirà per farti ammalare.
NORA
Hai ragione. Forse se una volta me ne andassi per davvero lo capirebbe. Lui ha bisogno di
me, lo so, ma non così. Non a questi patti. Sono umana anche io. Ho un cuore, una sensibilità
e lui, prima o poi, dovrà rispettarla.
INT. BAR. GIORNO
Mattinata di colloqui. Nora è scocciata. Arriva l’ultimo candidato. Occhi azzurri, sguardo
freddo e deciso. Si toglie la giacca. Nel toglierla si alza leggermente la maglietta. Si intravede
il basso ventre. A Nora sembra di essersi intromessa in una scena di intimità. Fissa lo sguardo
sui peli chiari, rossicci, vicino alla cintura di pelle nera. La pelle è bianca, eccetto per delle
linee di inchiostro nero. Ha il muso di uno Spaniel tatuato. Nora sente come un pugno nello
stomaco. Distoglie lo sguardo pensando come spesso ci si dimentichi di essere circondati da
corpi. Di essere corpi. Davanti a lei c’era un corpo.

NORA
Buongiorno, il suo nome?
OSCAR
(porgendole il proprio curriculum)
Oscar Ferraris.
Nora prende il curriculum, fissando le mani che
glielo porgono. Scorre con una rapida occhiata i fogli. 38 anni. Ciclo di studi non terminato,
una miriade di contratti a tempo determinato. Nora spalanca leggermente gli occhi, è
sorpresa. Ha ripreso e completato gli studi qualche anno fa.
NORA
Leggo qui che ha esperienza come barista.
OSCAR
(sfidante)
Sì, l’ho fatto per circa un annetto. Immagino si stia chiedendo come mai quella sfilza di
lavori. Come mai non sia continuativo. Se è perché mi comporto male a livello lavorativo.
Nient’affatto. Sa, è che dopo un po’ mi annoia tutto. E poi non me ne frega granché dei soldi.
Viviamo per qualcos’altro. Non viviamo solo per accumulare denaro. A volte vorrei
tornassimo indietro. Dare un taglio a questa iperproduttività. Ma cosa abbiamo fatto a noi
stessi per colpa del lavoro? Ci siamo rovinati. Con gli occhi spenti e costantemente di corsa,
costantemente in ritardo. Dovremmo essere vivi e belli e invece siamo brutti e mezzi morti.
Non c’è bisogno di lavorare tanto. A me non frega nulla. Non voglio diventare così. Basta
guardarsi intorno, le persone non sanno più parlare, muoversi, vivere, cazzo. Mondi di
plastica con persone di plastica. (Fermandosi un attimo e schiarendosi la voce)
Questo ti avrà sicuramente convinto ad assumermi.
(La guarda con un sorrisetto divertito).
NORA
(Interdetta, catturata dal discorso)
Sincerità per sincerità: nemmeno a me frega nulla di questo colloquio. Anzi, vorrei essere da
tutt’altra parte. Lo sto facendo per mio marito.
OSCAR
(Le guarda le mani, alla ricerca della fede)
E dove vorrebbe essere?

NORA
(Fissando un punto indefinito oltre Oscar)
Non lo so nemmeno io. Però non qui. Vorrei viaggiare. Vorrei studiare recitazione. Oppure
mi piacerebbe diventare una regista.
OSCAR
Mi pare lei possa fare tutto ciò che vuole, no?

NORA
(infastidita)
Senta, tornando a noi: lei abita qui vicino?
OSCAR
Non proprio ma non ci sono problemi, sono comodo con…
NORA
Con la macchina?
OSCAR
…con i mezzi. Non guido, non ho la patente. Farei piazza pulita delle macchine.
NORA
Sarebbe già disponibile per stasera?
OSCAR
Certo. Mi dica a che ora.
NORA
Alle sei? Così le mostro il bar e quale sarebbe la sua mansione.
Si salutano con una stretta di mano. Nora torna a casa e chiama Marco.

INT. CASA DI NORA: GIORNO.
MARCO
(Scocciato, con voce stizzita)
Per quale motivo avresti assunto quello?
NORA
Cosa avrebbe che non va?
MARCO
Ma dai Nora, trentotto anni e ancora fa il barista? Per aver cambiato così tanti lavori significa
che qualcosa di sbagliato lo ha. E poi zero titoli di studio, figurati.
NORA
È diplomato. E poi non vuol dire nulla. E non a tutti interessano i soldi come a te.
MARCO
Nora, Nora… A tutti interessano i soldi. E se non li hai è perché non ne hai le capacità. È
destino. Ogni scarafaggio deve vivere la propria vita. E non attribuire le tue illusioni agli altri.
Tra la classe dei dirigenti e la classe dei subalterni c’è un abisso invalicabile. Sono animali
che non capisci e mai potrai capire.
NORA
(Con rabbia)
Classe dei dirigenti e classe dei subalterni, Dio, Marco ma in che epoca vivi? Tu devi solo
ringraziare di essere nato nella famiglia giusta, non hai nessun merito.

MARCO
(Indifferente e divertito sentendo Nora riscaldarsi)
L’unica cosa buona è che gli serve quel posto. Io posso vivere senza bar, lui non credo.
Quindi assumi chi vuoi Nora, ma al primo errore è licenziato, non me ne frega nulla.
La chiamata si interrompe. Nora cerca di tranquillizzarsi. Si siede sul divano. Si alza.
Cammina per il soggiorno. È irrequieta. Si ferma davanti allo specchio. Torna a sedersi sul
divano. Prende in mano il telefono. Apre le note del telefono e inizia a scrivere.

Questo corpo
Così solo
Gettato su un divano
Accartocciato su un letto
Questa Carne
Intorpidita dalla solitudine
Che implora di essere toccata
Implora affetto
Solo così si ricorda di esistere
Le occhiaie che non si riconoscono nemmeno nello
specchio
Le terminazioni nervose assopite
Il sangue prosciugato
Mi accorgo di respirare solo tremante sul pavimento
Non mi sembra nemmeno più di avere un corpo
Si è perso fra quelli altrui
A loro apparteneva
Le foglie sono tutte secche
Non c’è nessun sole a riscaldarle
Solo la fredda luce di un monitor.
Ho ventotto anni e sono già appassita.
Esce. Si dirige al bar. Davanti all’ingresso c’è Oscar che la aspetta.
NORA
Ciao Oscar, vieni pure dentro. Ah, e diamoci pure del tu.

INT. BAR. GIORNO
Gli mostra l’interno del bar, la cucina, il frigo, il deposito… Poi stanca si siede su uno
sgabello vicino il bancone.
NORA
Alle volte mi fermo e mi chiedo cosa stia facendo. Mi chiedo se è questo quello che voglio
realmente.
OSCAR
E cosa sarebbe questo?
NORA
Un corpo sfiorito a ventotto anni. Un matrimonio che imprigiona. Cosa ho conosciuto della
vita io?
OSCAR
Perché non lasciarlo allora?
NORA
Lo so, dovrei. Ma i nodi d’amore sono quelli più difficili da sciogliere.
(Pausa)
Sai, Marco non sa nemmeno che sono bisessuale. O meglio, finge di non saperlo. Per lui sono
tutte stupidaggini, come tutto quello che mi riguarda, del resto. Si vanta di aver studiato e di
avere la mente più elastica della maggior parte della gente ma in realtà è il 2020 e lui ancora
se ne esce dicendo che fosse per lui le ammazzerebbe le lesbiche.
Si lamenta delle donne frigide, dice così, ma devi vedere non appena gli si propone di fare
qualcosa che si allontani anche solo minimamente da quella che è la sua idea di fare sesso. Si
stupisce che non riesca a venire con la penetrazione. Pensa io abbia qualcosa che non va.
Pensa sia meno femmina. Sembra un bambino geloso quando vengo da sola. Ma tanto non ne
vuole sapere del becco. Te lo giuro, 2020 e ancora non riesce a dire clitoride. Come se fosse
qualcosa di sporco. Come se il sesso fosse qualcosa di sporco. E poi saranno mesi che non lo
facciamo.
(Pausa)
Devi pensare io sia pazza. Dovrei essere la tua datrice di lavoro e invece è la seconda volta
che ci vediamo e sono qui a parlarti di quante volte scopo con mio marito. Anzi, che non
scopo.
OSCAR
(inizialmente scimmiottandola)
Egregia datrice di lavoro…
Per me due cose contano nelle relazioni: la sincerità e l’intesa sessuale. Non vai da nessuna
parte altrimenti, almeno per me. Ho bisogno di quella scintilla. Di sentire la mia carne
bruciare, altrimenti, che senso ha. E poi sai, mi piacerebbe il sesso mantenesse i suoi nomi.
Mi piacerebbe che, così come siamo liberi di parlare con chiunque, fossimo liberi di scopare
con qualsiasi persona solleciti il nostro desiderio.
NORA
(Illuminandosi)
Come se fosse una forma di conversazione! Sì, il sesso come veicolo per comunicare. Come
modo di conoscere. Solo che le parole vengono recitate invece di essere pronunciate.
Magari se facessimo sesso con la stessa spontaneità con cui si sente il bisogno di parlare con
qualcuno, smetteremmo di esserne così tanto ossessionati. Che senso ha essere fedeli se poi si
è aridi? Puoi anche avere la mente pura, ma sarà arida come il deserto.
(Sempre più concitata)
Vorrei fosse così. Un mondo in cui smettessimo di rendere sacro il sesso e lo considerassimo
per quello che è, nè più nè meno. Cioè, è davvero poi tanto importante? E il problema
complessivo della vita non consiste forse nella creazione di una personalità completa? Una
vita disintegrata non ha senso. Se la carenza di incontri rischia di disintegrarti, perché
privarsene?
Nora parlando si è avvicinata sempre di più ad Oscar. I due sono faccia a faccia ora. Le loro
gambe si sfiorano. Oscar alza una mano e fa per avvicinarla al volto di Nora, che si scosta,
realizzando quello che sta per succedere. Guarda l’ora. Dice ad Oscar che è tardi e conviene
iniziare a preparare i tavoli. Oscar si alza.
CASA DI NORA. GIORNO.
Le restrizioni dovute al Covid vanno allentandosi, e Nora ha scoperto che ci sono finalmente
dei voli disponibili da Manchester. Fa quindi una videochiamata a Marco per dargli la notizia.
Quando la scena inizia, i due stanno avendo problemi di connessione.
NORA
Ok, proviamo così… Mi senti ora? Marco?
MARCO
(un po’ indispettito)
Aspetta… va tutto a scatti.
NORA
(sarcastica e poi facendogli il verso)
E meno male che ti avevano dato “uno degli uffici più all’avanguardia della città”.
MARCO
Infatti sarà la tua connessione ad avere problemi, come sempre.
NORA
Ah questo l’hai sentito però.
MARCO
Sì, sembra che ora vada meglio. Dimmi dai, che tra dieci minuti ho una riunione.
NORA
Come tra dieci minuti? Ma mi avevi detto…
MARCO
(interrompendola)
Sì lo so cosa ti avevo detto, mi hanno programmato questa riunione all’ultimo ed è
importante, lo sai come funzionano le cose qui.
NORA
Già, lo so bene…
MARCO
Beh, quindi? Non stiamo qui a perdere tempo allora, visto che ne abbiamo poco: cosa avevi
da dirmi?
NORA
A parte il fatto che mi sarebbe piaciuto parlare un po’, ma ok, vado direttamente…
MARCO
(interrompendola, innervosito)
Non ricominciare con questa storia, per favore, non ora.
NORA
(brusca)
Non sto ricominciando. Ti stavo dicendo che allora vado subito al punto. Hai visto le notizie?
MARCO
Quali?
NORA
(sospira, sconfortata)
Quelle sui voli internazionali.
MARCO
Ah no, scusami, mi sono dimenticato di controllare. Cosa dicono?
NORA
(cercando di riprendere un tono entusiasta)
Che la situazione sta migliorando, e che da settimana prossima si può riprendere a viaggiare!
Finalmente puoi tornare!
MARCO
(senza troppo calore)
Ah, ottimo! Però immagino che i biglietti siano già andati a ruba a questo punto, dubito che…
NORA
(interrompendolo)
No, ho controllato giusto mezz’ora fa! Ci sono ancora un sacco di voli disponibili da
Manchester a Malpensa, forse anche qualcuno per Caselle! Se sei impegnato posso
prenotartelo io, dimmi solo il giorno e l’orario e ci penso io!
MARCO
(elusivo)
Oddio, così su due piedi… Non so se la settimana prossima si può già fare, ho del lavoro qui.
NORA
Ma come no? Avevi detto che ormai potevi andartene quando volevi, no? Che quello che
stavi facendo in queste settimane potevi farlo benissimo anche dall’Italia. Che problema c’è?
MARCO
Sì beh, ecco… Ci sono state delle novità. Te l’avrei detto a breve.
NORA
(raggelata)
Che novità?
MARCO
Senti, dobbiamo parlarne con calma…
NORA
(scaldandosi)
Marco, che novità?
MARCO
Mi hanno proposto un prolungamento del contratto, ma sarebbe qui, in presenza.
NORA
(accusa il colpo, poi dopo un attimo di silenzio risponde)
Quanto tempo?
MARCO
Sarebbero nove mesi.
NORA
Nove mesi?!
MARCO
Amore lo so che sono tanti, ma mi hanno offerto una posizione di altissimo livello, capisci?
Dopo questi nove mesi probabilmente potrei mantenerla anche a distanza dall’Italia, e avrei
uno stipendio molto più alto…
NORA
(interrompendolo)
Lo so, lo capisco, ma tu devi capire che io non ce la faccio più, ok? Sarebbero altri nove
mesi! Nove mesi! Ma ti rendi conto? Per cosa poi, uno stipendio più alto? Non siamo al
verde, perché devi sempre volere di più? Sempre di più! Non ti basta mai! Ti prego pensaci
bene, perché io qui non ce la sto più facendo a stare dietro al bar al posto tuo, e ormai è già
tanto se mi ricordo la tua faccia da quanto tempo è passato dall’ultima volta in cui siamo stati
insieme! Altri nove mesi… è una follia! Entro quando dovresti dare una risposta?
MARCO
Il fatto però è che con quei soldi potremmo finalmente riuscire ad ampliare la catena dei
Clifford’s Coffee, e anche a pagare qualcuno che se ne occupi al posto tuo.
NORA
Ti ho chiesto entro quando devi dare una risposta.
MARCO
(dopo un attimo di pausa, lentamente, in imbarazzo)
Vedi amore, il fatto è che mi hanno colto di sorpresa, e in più mi sono sentito lusingato da
una simile proposta, voglio dire, è una posizione che non offrono a chiunque, e poi devi
contare che…
NORA
(realizzando, incredula, per poi scoppiare a piangere dalla rabbia)
Hai già deciso… Tu hai già deciso. Hai già deciso da solo, senza dirmi niente! Tu l’hai già
data la tua cazzo di risposta, non è vero?! Hai deciso da solo di stare altri nove mesi lassù!
Altri nove mesi lontano da me, altri nove mesi separati, altri nove mesi in cui io dovrò stare
dietro al tuo bar di merda!
MARCO
Nora ti prego non fare così.
NORA
Faccio così eccome invece! Come hai potuto? Come hai potuto prendere una decisione del
genere con questa leggerezza, senza dirmi nulla? Senza chiedermi cosa ne pensassi?
MARCO
Cerca di capire…
NORA
No, tu cerca di capire! Ma a quanto pare è troppo difficile per te! Vuoi startene lì altri nove
mesi? E allora sai che c’è? Puoi anche andartene a fanculo e restarci tutti i mesi che vuoi!
MARCO
Nora!
Nora interrompe bruscamente la chiamata, chiudendo con rabbia lo schermo del pc portatile,
sul quale poi scoppia in lacrime.

INTERNO BAR. TARDO POMERIGGIO.
Nora arriva al bar verso l’orario di chiusura, per sbrigare alcune faccende burocratiche, che
già normalmente detesta. Inoltre è ancora fortemente scossa per la notizia ricevuta e la
chiamata terminata un paio d’ore prima con Marco. Nel bar non ci sono più clienti, ma trova
Oscar, intento a pulire.
NORA
(dirigendosi verso un armadio nel retro del bancone da cui prende un faldone di documenti)
Ciao Oscar.
OSCAR
Ciao Nora! Come stai? Un po’ di burocrazia, eh?
NORA
Sì.
Oscar resta interdetto dalla freddezza di Nora, capisce che c’è qualcosa che non va ma non
osa ancora chiedere. Nora si siede su uno sgabello all’angolo del bancone e comincia a
scartabellare. Attimo di silenzio tra i due, si sente soltanto in sottofondo la radio del bar che
passa “Time” dei Pink Floyd. Ad un certo punto Nora tira su col naso, Oscar si gira e la vede
con gli occhi lucidi che pretende di guardare il faldone ma in realtà è ferma e fissa il vuoto.
Tenta un approccio ironico per sdrammatizzare.
OSCAR
(cercando di buttarla sull’ironia e riprendendo il motivetto del primo giorno)
Ehi, egregia datrice di lavoro… Va tutto bene? O c’è della cipolla in mezzo a quei
documenti?
NORA
(ricomponendosi, per poi accorgersi della musica)
Eh? Come? Oh, sì, tranquillo Oscar, non è niente… Ma… Questi sono i Pink Floyd. Da
quando sono nella playlist?
OSCAR
Oh, sì, ce li ho messi io. In realtà mi sono permesso di metterne una totalmente diversa, spero
non sia un problema. Non per mancare di rispetto, ma passare le ore qui dentro con la musica
che c’era prima era da manicomio.
NORA
Oh, sì sì, non preoccuparti, anzi, hai fatto benissimo. Hai buon gusto, devo dire. Il sottofondo
musicale che c’è di solito è terribile, è vero, ed è lo stesso da anni. L’aveva scelto mio marito.
Non lo sopporto più neanche io.
OSCAR
(scherzando)
Cosa, il sottofondo o tuo marito?
NORA
(con un sorriso forzato)
Eh…
OSCAR
(dopo un attimo di pausa)
Tasto dolente?
NORA
(con un nodo alla gola)
Un po’.
OSCAR
Ascolta, so che non sono affari miei, però… Le cose che mi hai detto settimana scorsa non
sono da poco. E si vede che non stai bene.
NORA
(soffiandosi il naso)
Sì, faccio schifo, lo so.
OSCAR
(sorridendo, le porge un fazzoletto)
Beh, con il muco al naso in effetti sì, ma come chiunque, no?
NORA
(ridendo e accettando il fazzoletto per poi soffiarsi il naso)
Grazie. Che imbarazzo.
OSCAR
Così come credo che chiunque meriti ben più di questo. Ripeto, non sono affari miei e non
voglio intromettermi, però… Quello che posso dirti è semplicemente: pensa a come stai.
Chiediti cosa vuoi davvero.
NORA
Cosa voglio davvero? Sai che ti dico? Che non lo so. Non lo so cosa voglio davvero. Forse
voglio diventare una regista? Chi lo sa, o magari un’attrice. Eh? O magari qualcos’altro,
qualcosa che ancora non so di volere. Non lo so, non so cosa voglio, ma vorrei anche solo la
possibilità di scoprirlo! Ecco, sì, questo vorrei. Potermi lanciare, buttare a capofitto in
qualcosa di nuovo, di incerto! E invece no, sono bloccata qui, incastrata, impantanata in una
vita che… che non sto vivendo! Obbligata a rispettare questo stabile, grigio e vuoto e stupido
equilibrio, di cui dovrei pure essere grata, giusto? Perché di questi tempi bisogna essere grati
di avere una stabilità, di avere delle certezze, di avere un marito con i soldi che non ti fa
mancare nulla se non se stesso, di avere un bar di cui occuparsi di cui non mi frega
assolutamente nulla, di essere qui circondata da cose che sono certezze, sì, sono stabili, forti,
granitiche. Eppure morte. Morte! Ciò che non si muove muore, Oscar. Non respira. E a me
manca il fiato da molto tempo ormai. Cosa voglio davvero? Non lo so! Ma di sicuro so che
non voglio più tutto questo!
OSCAR
(la guarda un attimo negli occhi, in silenzio, poi accenna un sorriso per confortarla)
Beh, vedi? Sai già molte cose.
NORA
Scusami Oscar, scusami davvero… Tu sei qui che stai lavorando e io piombo dal nulla a
lamentarmi di quanto faccia schifo la mia vita… a lamentarmi di tutta la tremenda stabilità
che ho, con te, che invece la cerchi da anni e in questo momento probabilmente vorresti solo
sputarmi in un occhio. Starai pensando che sono solo una stupida ragazzina privilegiata,
ingrata e arrogante che viene qui a lamentarsi con chi di problemi ne ha davvero, mentre
dovresti pure lavorare… E pure io dovrei lavorare, a dir la verità.
OSCAR
Fidati, se fosse così lo capiresti. Non sono bravo a fingere, quando ho voglia di sputare
nell’occhio a qualcuno.
NORA
(dopo un attimo)
Davvero?
OSCAR
Davvero. Ho sempre avuto poche certezze nella mia vita, e ne vorrei, è vero. Ma anch’io mi
sentirei soffocare nella situazione in cui sei tu ora. Insomma, è vero che sei un po’ borghese,
ma questo non ti rende per forza stronza in automatico.
NORA
(sorride alla battuta)
Grazie, Oscar… Mi fa bene parlare con te.
OSCAR
(abbandonando per un attimo il velo di ironia)
Anche a me.
NORA
(lo guarda negli occhi un momento)
D’accordo, la smetto di piagnucolare, devo finire queste cose.
OSCAR
No, non credo.
NORA
Cosa?
OSCAR
Tu hai bisogno di rilassarti, non di stare dietro a quella robaccia.
NORA
Lo so, ma devo…
OSCAR
Non devi proprio nulla. Facciamo così: il bar lo stai gestendo tu, giusto? Perciò, se ho il tuo
permesso, egregia datrice di lavoro, io adesso chiudo le porte, tanto a quest’ora non arriva
mai nessuno, tiro giù le serrande, lascio la luce accesa, prendo qualcosa da mangiare e una
bottiglia di vino dal retro e stiamo qui a parlare un po’. Che dici?
NORA
(sorridendo, grata)
Va bene. Permesso accordato.
Stacco. Sempre interno bar. La scena riprende con loro due seduti su due sgabelli, molto
vicini, già un po’ alticci e con i calici in mano. Fuori è ormai buio. Stanno ridendo, sono nel
mezzo di un discorso.
OSCAR
…E così, mentre era sopra di me, mi guarda, sgrana gli occhi e mi fa: scusa, ma me lo
spiegheresti cos’è?. Io rimango un attimo zitto con le mie mani su di lei. E faccio: Scusa
cosa?. E così lei, con l’aria anche un po’ di chi fa la sostenuta, mi fa: ma sì quella cosa di cui
stavi parlando, il clitroride. Sono morto…
NORA
(scoppia a ridere)
Cosa?! Stai scherzando?
OSCAR
Te lo giuro! Gliel’ho dovuto spiegare io.
NORA
Ma non ci voglio credere. Ma quanti anni aveva, scusa?
OSCAR
Questa è la cosa ancora più assurda: diciannove!
NORA
Pazzesco. Arrivare a diciannove anni senza minimamente conoscere il proprio corpo.
OSCAR
Come se io a vent’anni mi fossi guardato allo specchio e mi fossi detto “ehi, ma che strane
quelle due biglie che penzolano lì sotto, chissà cosa sono!”.
NORA
(ride, poi incalza, beffarda)
Quasi peggio di Marco che si schifa a pronunciarlo, il clitoride. Va bene, almeno lui sa cos’è,
è vero. Anche se poi essere in grado di trovarlo è un altro discorso.
OSCAR
(ridendo)
Attenzione, partono accuse pesanti.
NORA
(ridendo a sua volta)
Ma fondate, purtroppo! E tu, comunque? Quanti anni avevi quando sei stato con lei?
OSCAR
(reggendo lo scherzo)
Ventidue, una vita fa. Comunque assurdo, davvero. Ma non era mica solo colpa sua, eh, anzi.
Veniva da una famiglia molto, come dire…
NORA
Credente?
OSCAR
No, bigotta. Che è diverso. Si può benissimo essere fortemente credenti senza essere bigotti.
Per i suoi, invece, il sesso e qualunque argomento simile erano dei tabù rigorosissimi.
NORA
Beh, erano anche più di quindici anni fa, non è tantissimo ma si parlava già molto meno di
queste cose.
OSCAR
Sì, è vero. Anche se di passi in avanti ne servono ancora. Ci vorrebbe più educazione sessuale
nelle scuole, ad esempio.
NORA
(toccandogli il braccio mentre lo prende in giro)
Disse quello che la scuola l’aveva abbandonata.
OSCAR
(ridendo)
Ma che stronza. Ti ricordo che poi l’ho finita.
NORA
(sempre ridendo)
Sì sì.
OSCAR
Comunque dico davvero! Farebbe una differenza enorme.
NORA
Lo so. Io sono stata fortunata con i miei, ma a scuola abbiamo affrontato pochissimo
l’argomento, e quel poco che abbiamo fatto è stato fatto male e in modo noioso, che quasi ti
faceva passare la voglia.
OSCAR
(allusivo)
Quasi…
NORA
(sorridendo)
Beh, direi! E non fare quella faccia, che mi sa che tu di avventure ne hai avute molte più di
me.
OSCAR
Non credere. Però forse quanto basta per capire alcune cose. Diciamo che, per quella che è
stata la mia esperienza, credo che ci siano tre grandi tipologie di donne, con tutte le sfumature
in mezzo. Ci sono quelle che chiamerei libere, che per loro fortuna, e anche per fortuna di chi
le incontra, devo dire, riescono a vivere il sesso in modo sano, senza tabù, in base ai propri
gusti, desideri, senza farsi influenzare troppo dalla società. Poi ci sono quelle che invece
vorrebbero fare sesso, e vorrebbero farlo come vogliono loro, ma hanno troppa paura del
giudizio degli altri per lasciarsi andare, e passano la vita a sentirsi frustrate, a desiderare di
più ma a privarsene da sole, consapevolmente. Alcune, lavorandoci su, riescono a dirigersi
verso la prima categoria, altre rimangono bloccate lì, a disprezzare in modo ipocrita quelle
che ce la fanno. E poi ci sono le peggiori, cioè quelle che il giudizio della società l’hanno
assorbito così tanto e così a fondo che è diventato pure il loro, e perciò certe cose non le
fanno perché sono convinte, ma proprio convinte, che siano sbagliate, da zoccole, come
dicono loro. E infatti i loro insulti sono sinceri e sentiti. Ma, senza saperlo, anche loro sono
represse e schiacciate dalla società maschilista e patriarcale che ci circonda.
NORA
Non hai idea di quanto sia bello sentire certe frasi.
OSCAR
(scherzando)
Cos’è, ti eccita se insulto il patriarcato?
NORA
(reggendo lo scherzo)
Un sacco, ti salterei addosso, guarda.
OSCAR
Bene, mi pare di intuire a quale delle categorie tu appartenga, allora.
NORA
(avvicinandosi)
Ma che bravo, riesci a capirlo anche senza prima essere andato a letto con me?
OSCAR
(ironico, ma senza indietreggiare e mantenendo il contatto visivo)
Beh, a dirla tutta, sì, egregia datrice di lavoro, c’è un modo per capirlo anche prima, secondo
me, e in modo molto semplice: è sufficiente chiedere alla ragazza in questione se si masturba.
NORA
(ridendo)
Sul serio?
OSCAR
Sì, davvero. Le prime tendenzialmente ammetteranno di farlo senza problemi, le seconde ti
diranno di no e tenteranno di giustificarsi, ma sotto sotto lo vedi che mentono. E le terze sono
quelle che dicono di no e che davvero non lo fanno.
NORA
Che vita triste.
Nora beve un sorso di vino, intanto Oscar la guarda intensamente. Alla fine del sorso lei
incontra il suo sguardo e gli sorride.
OSCAR
(sorridendo)
Che c’è?
NORA
Niente… Stavo pensando. Pensavo a quanto è facile dimenticarsi di avere un corpo, presi dai
mille affanni di tutti giorni. Spesso diventiamo dei cervelli ambulanti. Tutta testa, testa, testa.
Pensa a questo, ricordati quello, rifletti su quell’altro… E il corpo lo abbandoniamo. Sia il
nostro che quello degli altri. Ce lo ricordiamo solo quando diventa difettoso e dobbiamo
curarlo, ma prima, quando ancora potremmo goderne… nulla.
OSCAR
Già. E sicuramente la pandemia non ha aiutato. Certe volte mi rendo conto che mi manca
tremendamente il contatto umano che avevo prima. O meglio, mi manca la serenità che
avevamo prima nel darlo e nel riceverlo. E d’altronde è ovvio che se ti abitui ad avere a che
fare con delle sagome dentro a un computer, quando ritrovi qualcuno in carne ed ossa rimani
spiazzato.
NORA
Spiazzato sì, è vero, ma in positivo. Come se fosse una bella sorpresa. Inaspettata ma
piacevole.
OSCAR
Non con tutti va così bene.
NORA
(facendosi di nuovo più vicina)
Ma con qualcuno sì. Ogni tanto può capitare di trovare di nuovo qualcuno a cui senti di
poterti avvicinare senza timore.
OSCAR
(sorridente ma leggermente in soggezione)
Sì, ogni tanto capita.
NORA
(gli mette una mano sulla gamba)
Qualcuno che senti di poter toccare. A cui ti vorresti aprire di nuovo, o che vorresti stringere
forte come per strizzargli fuori tutta l’energia che quel contatto ti può dare.
OSCAR
(lasciandosi andare un po’ di più)
Come se in quel tocco, in quel corpo, ritrovassi tutti i corpi che vorresti toccare e stringere.
NORA
(sono ormai vicinissimi)
Tutta l’umanità che abbiamo perso per strada… ritrovata in un corpo solo, tutta insieme.
OSCAR
(si allontana leggermente)
Sarebbe bellissimo, non è vero?
NORA
(scherzando sul discorso di prima)
Già… ma immagino che questo potrebbe succedere solo con certe “categorie” di donne, per
te, giusto?
OSCAR
Probabilmente sì, hai ragione.
NORA
E pensi davvero di riuscire a capire sempre di quale fanno parte?
OSCAR
Forse non sempre, ma… certe volte lo senti.
NORA
(ammiccando)
Ah lo senti, eh? E tu cosa senti ora?
OSCAR
(sorridendo)
Cosa sento?
NORA
(avvicinandosi)
Credi di sapere di quale delle tue categorie faccio parte io?
OSCAR
Beh, non lo so… ma se devo dirla tutta… penso che sarebbe interessante scoprirlo.
NORA
(ormai vicinissimi, con tono malizioso)
Ah sì? E perché mai dovrebbe interessarti?
OSCAR
(sorridendo, malizioso anche lui)
Così.
NORA
Ah, così?
OSCAR
Sì, così.
NORA
Oppure così?
Nel dire quest’ultima frase, Nora lo bacia, e si baciano ancora a lungo prima di andare oltre.
A tratti si distaccano per guardarsi negli occhi e riprendere a baciarsi. Si intuisce che tra loro
è scoccato un legame che non è solo fisico. Poco dopo, comunque, lui la solleva sul bancone
del bar e iniziano a fare sesso.
La scena riprende dopo che hanno terminato, e sono entrambi nudi, sdraiati e abbracciati
dietro al bancone.
OSCAR
(ironico)
E così sei sposata, eh?
NORA
(ha un fremito, si fa più scura in volto)
Già… Tu lo detesteresti uno come lui.
OSCAR
No, non credo. Ho incontrato troppi uomini come lui per prendermi il disturbo di detestarlo.
So a priori che quel tipo di uomo non mi piace, e basta. Mi limito a starne lontano.
NORA
Forse fai bene…
OSCAR
(vedendola turbata, dopo un attimo di silenzio)
Che succede? Mi hai detto che non è la prima volta che ti capita, no? Che eri serena al
riguardo.
NORA
Sì, è vero, ma… questa volta è stato diverso Oscar.
OSCAR
In che senso?
NORA
Non fraintendermi, è stato bellissimo. E io credo di non essere mai stata così bene con
qualcuno come sto con te, nonostante ci conosciamo da così poco. Eppure… è proprio questo
il problema.
OSCAR
Capisco… Mi dispiace che tu stia così, ma… Credo ci sia un problema ancora più grande.
NORA
Cioè?
OSCAR
Che anch’io mi sento così.
NORA
(a metà tra l’incredulità e l’euforia)
Sul serio?
OSCAR
Sul serio. Temo che questa non sia una cosa come le altre… è incredibile che si possa dire
una frase del genere dopo una sola serata insieme. Di solito non ripongo molta fiducia in
nessuno, profondamente, specie dopo così poco. Quando sono con qualcuno non riesco quasi
mai a vedere un futuro con quella persona. Sarà che il tempo passa in fretta e il futuro
incombe come una tempesta davanti a me, e non voglio più sprecare tempo con chi non se lo
merita… Eppure sono qui a dirti tutto questo. Non capisco perché, ma con te è diverso. Mi
sento diverso.
NORA
E io sento la stessa cosa! Oddio, è incredibile… Sono così confusa, non capisco cosa diavolo
stia succedendo…
OSCAR
(sorridendo)
Abbiamo fatto un bel casino, eh?
NORA
(sorridendo e baciandolo subito dopo)
Temo proprio di sì.
OSCAR
Quindi, che pensi di fare?
NORA
Non lo so Oscar, non lo so davvero. Forse… forse dovrei staccare un po’ da tutto. Dovrei
stare un po’ di tempo lontana, farmi due settimane via di qui… Potrei andare a trovare mia
sorella a Venezia. Sì, credo che farò così. Domani parlerò a Marco e gli dirò che con il bar,
almeno per un po’, ho chiuso.
OSCAR
(un po’ preoccupato)
E quindi pensi di partire subito?
NORA
(lo guarda, poi sorride)
No… non subito. Almeno finisco la settimana qui, e poi, beh… Qualche giorno qua con te
potrei ancora passarlo, in effetti.
OSCAR
(scherzando)
Ma quale onore, Vostra Signoria. Anzi: egregia datrice di lavoro. Solo che ora mi hai dato
anche qualcos’altro.
NORA
(ridendo)
Scemo.
Tornano a baciarsi.
Cambio scena. Il giorno dopo, in casa di Nora, videochiamata con Marco, già iniziata.
MARCO
(Arrabbiato ma freddo)
Come sarebbe a dire che non hai più intenzione di gestire il bar?
NORA
(ferma, risoluta)
Mi hai sentito. Non ce la sto più facendo, Marco, mi dispiace. Io da lunedì prossimo in quel
posto non ci metto più piede. Ho bisogno di staccare, da tutto, sto arrivando
all’esasperazione, non posso andare avanti così. Ho bisogno di andarmene per un po’ da qui.
MARCO
Nora ragiona un attimo…
NORA
(interrompendolo)
Io lì non ci entro più. Hai capito?
MARCO
(dopo un attimo di severo silenzio)
Va bene. Se non c’è modo di farti cambiare idea… vorrà dire che dovrò buttare nel cesso dei
soldi per fare questo lavoro. Benissimo, faremo così allora.
NORA
Bene.
MARCO
Bene… Un mezzo nome ce l’ho già in mente, amica di amici, sulla quarantina, con grande
esperienza alle spalle, dicono sia brava. Spero per te che sia vero. Barbara Boldi. Mai sentita?
NORA
(scossa nel sentire il nome dell’amante della prima scena)
Oh… sì. Sì, credo di conoscerla.
MARCO
Credi sia brava?
NORA
(quasi sovrappensiero)
Sì… Sì, è molto brava.
MARCO
Tutto bene?
NORA
Sì, scusami, non mi aspettavo che la conoscessi.
MARCO
Beh, tanto meglio. Quindi? Quando vieni qui a trovarmi?
NORA
Ah, sì…
MARCO
(spazientito)
Nora… che c’è?
NORA
Senti…
MARCO
(interrompendola)
Ah no aspetta, senti tu.
NORA
(infastidita)
Dimmi.
MARCO
Quel tuo amichetto, lì, il signor, com’era? Oscar Ferraris? Beh insomma, il pezzente che hai
assunto: digli che è licenziato.
NORA
(incredula)
Cosa?!
MARCO
Mi hai sentito. Te l’avevo detto che al primo errore era fuori.
NORA
Ma che stai dicendo?! Quale errore? Cosa ha fatto di male?
MARCO
Un signore che vive nel condominio davanti al bar è un nostro cliente fisso, e ha il mio
numero. Ieri sera mi ha telefonato dicendomi che quel porco aveva tirato giù le serrande e
aveva lasciato le luci accese fino a tarda sera. E poi a un certo punto l’ha visto uscire con una.
NORA
(raggelata)
Ah… E… chi era?
MARCO
Era buio e non l’ha riconosciuta, ma che importa, sarà stata una zoccoletta a caso.
Probabilmente l’avrà portata lì perché casa sua faceva troppo schifo persino per una troietta.
NORA
Piantala, lo sai che mi dà fastidio quando parli così.
MARCO
Che c’è, vuoi pure difenderlo ora?
NORA
Non è questo, sto dicendo…
MARCO
(interrompendola)
Senti, la decisione è presa, chiaro? Ti sei presa la responsabilità di farlo entrare nel mio bar,
ora pensi tu a farlo uscire. E fatti ridare le chiavi, che non si sa mai.
NORA
(ha quasi le lacrime agli occhi, ma sapendo di non potersi permettere di risultare sospetta
cerca di nasconderlo)
D’accordo…
MARCO
Quindi, dicevi, quand’è che vieni a trovarmi.
NORA
(rapida e secca)
Non vengo a trovarti. Me ne vado a Venezia da mia sorella.
MARCO
Cosa? Dov’è che vai?
NORA
Mi hai sentito.
MARCO
(alzando man mano sempre più la voce, ma sempre trattenendosi dall’essere scurrile, in modo
quasi ridicolo)
Cioè quindi, fammi capire… è da mesi che mi tormenti perché siamo lontani, perché non ti
rispondo mai, perché non ci sono mai e tutte queste, queste… cialtronerie! Ti rifiuti pure di
fare l’unica cosa che ti chiedo, cioè gestire quel dannatissimo bar, e ora che ti sei liberata a
tutti i costi da questo peso così gravoso anziché venire qui dal tuo maritino che ti manca tanto
che fai? Te ne vai da quella disadattata di tua sorella? A Venezia? A fare cosa? Io non ti
capisco più Nora, cos’è che vuoi da me, eh? Cosa vuoi?
NORA
(rassegnata, senza la forza di reagire alle urla, ma ferma nella sua decisione)
Non lo so cosa voglio, Marco. Non lo so. Ma non voglio venire da te in Inghilterra. Ho
bisogno… Ho bisogno di un momento per me, ho bisogno di tempo.
MARCO
Ma che diavolo dici? Che diavolo dici? Tu stai uscendo di testa, Nora, cosa ti salta in mente?!
NORA
Hai ragione Marco, non mi capisci più. Sto uscendo di testa. Ma tranquillo, so che non
sentirai la mia mancanza. Parto domani mattina, ti avviso quando arrivo.
Dopo uno sguardo di disprezzo e rabbia, Marco chiude la videochiamata senza neanche
salutarla. Nora resta qualche secondo davanti al pc aperto, con lo schermo vuoto e le lacrime
agli occhi, ma senza scoppiare a piangere. Chiude il pc, si tira su dalla sedia con una nuova
determinazione, uscendo dalla stanza e chiudendosi la porta alle spalle.

INTERNO DEL BAR. GIORNO
Due settimane dopo
La porta del bar si apre e Nora entra, si guarda intorno e si siede al bancone, pensierosa.
La signora Barbara arriva dal ripostiglio, indaffarata, si accorge di lei e la saluta raggiante.
BARBARA
Ciao Nora! Bentornata! Che bello rivederti, sei arrivata da tanto?
NORA
(con un sorriso amaro)
Giusto il tempo per farmi tornare la voglia di andarmene di nuovo.
BARBARA
(ridendo)
Eppure, l’aria di Venezia sembra averti ringiovanita! L’ultima volta che ci siamo viste (con
un sorrisetto ambiguo) eri molto più pallida, stanca, adesso sembri tornata un po’ in forze.
NORA
Quello sì, non posso negarlo… ma questo viaggio in solitaria mi ha portato a pensare,
ripensare e pensare ai miei ripensamenti. Stando soli si hanno meno distrazioni capisci? Una
vacanza dai miei pensieri, ecco cosa mi sarebbe servito!
Beh scusa, non voglio annoiarti troppo con i miei discorsi.
BARBARA
No, per quello non preoccuparti, solo se ti sento dire un’altra volta la parola ‘pensieri’ mi
sparo un colpo!
NORA
Al di là dei miei problemi mi sono poi anche guardata intorno e ho notato molte cose. Ad
esempio che alcuni in vacanza cercano semplicemente di distrarsi, riposarsi, mentre altri
vogliono divertirsi a tutti costi, come se glielo prescrivesse il medico insieme all’antibiotico.
Ogni sera festa fino a tardi, alcol a profusione, e il giorno dopo tutto di nuovo. Un loop
continuo, una sorta di dipendenza, per fuggire da se stessi e dalla vita quotidiana, che a
differenza di queste feste è piatta e squallida… E poi secondo te, come siamo arrivati ad
essere così superficiali, a pensare che tutto sia quantificabile, vendibile, acquistabile?
“Compra questa borsa e ti sentirai meglio!” “Sei triste? Regalati questo vestito all’ultima
moda!”. Come con Marco: quando non era ancora un’immagine di pixel sempre incazzata
con una voce robotica, dopo una litigata mi regalava sempre accessori, scarpe, gingilli per
mettermi a tacere, come se per amarci servissero sempre più oggetti. Siamo carne putrida,
come l’odore degli scoli della laguna dopo tanto tempo al sole.
BARBARA
Già mio padre, poveretto, parlava del futuro come del trionfo dell’uomo-macchina, lontano
dalle emozioni, lontano dalla
fede, lontano dalla felicità… Ah, si fosse visto da fuori: come è
poi finito circondato di oggetti inutili come tutti noi!
NORA
Precisamente! E Oscar è stata la scoperta dell’antidoto a tutto questo. In un mondo artificiale
è la spontaneità fatta persona. Non sai che sofferenza, tornare qui al bar e non vederlo dietro
il bancone! Mi sembra di tornare a mesi fa, quando ero chiusa in un doppio recinto, quello
della relazione con Marco e del lockdown. Ci ho riflettuto a lungo e sono decisa a chiedere il
divorzio…Più vado avanti e più Marco mi dà motivi per odiarlo. Ha licenziato Oscar! Ti
rendi conto? Ora è su una strada… ci è sempre stato in realtà, ma ci siamo fatti delle
promesse! Gli avevo promesso che la sua vita sarebbe cambiata, trovando i soldi per studiare!
Comunque tutto questo è accaduto soltanto perché il vicino non sa farsi i fattacci suoi e arriva
a spettegolare anche dall’altro lato dell’oceano! Prima il suo amico che fa la spia e parla delle
avventure di Oscar con una donna, poi questo, che non si fa scrupoli a fare il mio identikit!
Avremmo dovuto essere più prudenti, non farci vedere troppo insieme, ma al diavolo! Da
quando Torino è diventata un paesino di provincia? “Ho ragioni di credere che il barista sia
l’amante di Nora”. Che faccia tosta! Come se sua moglie non si fosse fatta il tour dei letti di
mezzo quartiere!
Vado a Venezia per staccare dai problemi, ma ecco che mi inseguono in gondola! Avresti
dovuto sentirlo, Marco in videochiamata a Venezia era inviperito, uno scandalo
inammissibile, insinuare che la sua fedele mogliettina, delle classi alte, di buon nome, abbia
come amante un comune mortale, un disgraziato che non aveva papino che gli passava i soldi
sul conto! Non ha dubitato un attimo della mia innocenza, che tenerezza! Non ha la più
pallida idea di chi io sia. La sua mentalità è così ristretta …No, non posso tornare con lui. E
con Oscar non può finire tutto così, non può. Anche perché…
BARBARA
(interrompendola bruscamente)
Beh si, hai tirato su tante questioni: se hai bisogno di distrazioni da tutti questi pensieri basta
che batti un colpo.
(sempre con uno sguardo malizioso)
Ma ti capisco, col tempo alcuni matrimoni si rivelano essere delle vere gabbie. Il mio
consiglio è: liberatene finché sei in tempo! Io l’ho capito tardi, ma almeno l’ho capito! Per
quanto riguarda Oscar, insomma, dovresti ricordarti che è finita solo quando tu decidi che è
finita. A quanto pare lui l’ha capito.
Fa un cenno a qualcosa dietro le spalle di Nora. Oscar entra, si avvicina alle due donne,
sedendosi vicino a Nora, mentre Barbara si allontana.
NORA
(estasiata, abbracciandolo d’impeto)
Oscar! Pensavo fossi tornato dai tuoi genitori!
OSCAR
(con tono dolce, ricambiando l’abbraccio)
Pensavo di tornare a casa domani, volevo rivederti.
NORA
(staccandosi dall’abbraccio)
Ehm…
(Tossisce)
OSCAR
(Ammiccante)
Che c’è? Ti sono mancato? Hai già voglia? Io te l’avevo detto che a Venezia non avresti
trovato niente di meglio di me e che…
NORA
No, no, no, non sto ammiccando per quello.
OSCAR
A cosa ti riferisci allora?
NORA
(Tossisce di nuovo)
È difficile da dire…
OSCAR
(Un po’ stupito)
No, ma guarda che se sei stata con qualcun altro, va bene così. Ne
abbiamo parlato… Non siamo la solita coppia perfetta, chiusa nel suo nucleo… Guarda che
lo so che il mondo è talmente grande che…
NORA
(spazientita)
Oscar! Ha a che fare col sesso ma non con quello che pensi tu!
OSCAR
(Pausa lunga)
Non mi viene in mente niente…
NORA
(Scocciata)
Sono incinta!!
OSCAR
(Pausa lunga)
Come?
NORA
Non sei felice?
OSCAR
(intimorito)
Ma, ma sì… Certo…certo che sono felice! Che domande fai?
(con un sorriso forzato)
È che…sì insomma, è un mondo brutto, crudele per far nascere un figlio. Ho-ho una paura
tremenda per il futuro, il mondo che gli daremo in eredità…
NORA
Guarda che siamo noi ad averlo voluto! Poi, guardami: madre, aspirante attrice, compagna di
uno spiantato (ride). Chi lo sa cosa accadrà? Ma con te sento di potere tutto. Ora non
pensiamo al futuro. Sii tenero con lui, e questo sarà già il suo futuro! (fa una pausa e lo
guarda intensamente) E poi, guardati: tu non sei nel mondo per occupare uno spazio e basta.
Sei attivo, vivi nel presente, ti informi, studi, cerchi di capirci qualcosa da questo casino che
chiamiamo vita. Non ti lasci sopraffare dai problemi ma reagisci, li affronti a testa alta. E
quando riesci ti fai carico anche dei problemi degli altri, a volte rimettendoci… Insomma, sei
un padre in tutto e per tutto, con un po’ troppa strafottenza, ma su questo ci possiamo
lavorare!
OSCAR
(colpito e mosso dal discorso, le tocca la gamba e le prende il viso con la mano)
Menomale che ho risposto a quell’annuncio di lavoro. (La bacia) Ma, il divorzio?
NORA
(fiduciosa)
A questo penserò quanto prima. Lasciamo passare un po’ di mesi per tutta la faccenda
burocratica, e poi potremo fuggire insieme, costruire la nostra famiglia.
OSCAR
(guardandola a metà tra il serio e lo scherzoso)
Siamo in una marea di incertezze, ma riporle su qualcosa che è dentro di te mi rassicura
enormemente…Ora che ci penso, invidio questo bambino: lui può stare dentro di te ancora
per molto tempo! Non che non possa farci anch’io un pensierino.
(la guarda ammiccante, mentre si prendono per mano, si alzano ed escono)
INTERNO APPARTAMENTO. NOTTE
È notte fonda. Nora è seduta sul davanzale della finestra. Le luci dei lampioni rischiarano il
buio. Nella penombra si scorge la sagoma di Oscar, steso nudo sul letto, sotto le coperte.
NORA
(fra sé, guardando Oscar)
Incontrarlo è stata la cosa migliore che mi sia capitata. Con lui mi sento viva, la versione
migliore di me. Con lui non provo vergogna. Marco, lui spegneva la luce ancor prima di
spogliarsi: per lui il sesso è sempre stato qualcosa di meccanico, logico, tanto più per la sua
ossessione di avere un bambino. Qualcosa di passivo, freddo, rigido nelle movenze. Con
Oscar è tutto diverso. Lui mi ha ricordato cosa sia la tenerezza, l’ebbrezza di ricevere una
carezza tra le gambe calde. E di avere una testa appoggiata sul seno, come il luogo più
naturale su cui riposarsi. Ha restituito il calore al mio corpo, che stava appassendo ancora nel
fiore degli anni. Dopo mesi di toccate di gomito, di guanti, sorrisi nascosti sotto una
mascherina, e dopo sei anni di baci forzati e abbracci meccanici, finalmente ho riscoperto
cosa siano i corpi, l’istinto, il desiderio che divampa come un incendio, gli abbracci veri,
struggenti, che isolano dal resto del mondo. Oscar mi ha ridato un senso di libertà, di vita.
Con lui posso dire, si cazzo esisto! Esisto, ho le mie esigenze e non posso far finta che la vita
sia questa. Prima di lui la mia non era vita, era sopravvivenza, trascinarsi penosamente di
giorno in giorno, con le ali tappate, le aspirazioni bloccate sul nascere. Avere un bambino con
Marco sarebbe stato un vincolo ulteriore per legarci a vita, la promessa di un futuro
tremendo. Ma avere un bambino con Oscar è un dono, un’occasione per ricominciare tutto di
nuovo, ma per il verso giusto. Con la persona giusta.
Recupera il telefono dalla borsa, che non aveva più controllato perché scarico. Lo attacca alla
presa e attende che si riaccenda. Riceve una notifica da parte di Marco.
MARCO
(messaggio)
Il volo sta per decollare, volevo farti una sorpresa, in questo periodo abbiamo avuto tanti
scontri e vorrei fare pace.
Nora guarda l’ora: gliel’ha scritto 7 ore prima.
Affannata accende la luce, sveglia Oscar. I due si rivestono e sistemano la stanza.
NORA
(aprendo la porta)
Allora alla pros…
Vede nell’androne Marco, che stava per suonare il citofono. Entrambi ammutoliscono. Marco
squadra tutti e due da capo a piedi.
MARCO
Beh, sono tornato.


BIBLIOGRAFIA
David H. Lawrence, Lady Chatterley’s Lover, 1928 (L’amante di Lady Chatterley, tr. it. di S.
Rita Sperti, Milano, Feltrinelli, 2013)

La voce del mare

Elena Biafora, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

* * *

Le vicende che spingon gli umani a viaggiare per navi sull’onde io sorveglio ed osservo silente. Molte cose che altri non sanno io conosco e conduco: i viaggi, le imprese e le guerre che su concave navi i mortali han vissuto sull’acque profonde, la virtù degli eroi che remando han cercato la sorte, la patria, l’onore. Io non guardo ciò ch’altri han deciso, ma occhio vigile sono di ciò che sui flutti miei muove. Sono autore del loro destino, sono forza che agisce e travolge e che guida le umane vicende con la legge che a giustezza tende.

Sono io che trascino sul fondo o sostengo, che oriento sapiente il cammino di quanti affidano all’onde le strade del proprio destino. Molti di loro osservai succedersi nel tempo, e te eroe tra gli altri notai, che cercavi la tua strada muovendo sulle vie che apro agli uomini, percorrendo i liquidi ponti che per me si dischiudono tra terre lontane; e ti osservai viaggiare a lungo, cercando fortuna, sperando e disperando della tua sorte. Ho seguito da presso il tuo andare: sono l’acqua che batti coi remi, sono il fiato che gonfia le vele, la distesa che solchi ignaro delle vie che disegno per te. Ed un giorno lasciata la terra che ti diede i natali giocavi col destino una sfida mortale, sperando ambizioso in un premio che non si poteva accettare.

Così andavi muovendo; ma non t’era destino di far ritorno in patria. Hai tanto da apprendere ancora, e lungo è il tuo viaggio da fare. Alzai, innanzi al legno veloce, il muro d’una tempesta, e la tua via fu perduta. La nave che viaggia sicura, sospinta da venti sereni, diventa ben piccola cosa se l’acqua mia cupa l’avvolge. La sferza feroce dei flutti si abbatte e sconquassa il fasciame, disfatta la nave, in un grido comune echeggiano uomini e onde.  Difendila, adesso, la vita che or ora eri pronto a lasciare, contendila agli aspri marosi che altri non lascia scampare. Solleva la testa dall’onda che abbatte con furia mai stanca; da giovane principe ch’eri, uomo ritorni alla sponda.

Così giungesti a Pentapoli privato dei compagni tuoi cari, convinto che disperazione e solitudine soli a te s’addicessero. Ma, pagato il prezzo dovuto, ti resi un dono smarrito che mille volte t’avrebbe ricompensato del danno che avevi subito. La tua armatura, eroe, riemerse dalla nera profondità del mio abisso, ché onore ti desse e speranza, e insieme con quella amore, la mano della nobile Thaisa. 

Celebrate che furon le nozze, volle il fato che insieme alla sposa e a ciò che di più prezioso per voi ella custodiva, decidesti, per non perdere il regno, sull’agile nave di intraprendere nuovo periglio.

Ma le mie insidie e le trame che per gli eroi intreccio ancora dovevi conoscere, giovane eroe, che molti prima di te patirono, cercando il ritorno. Sono l’onda che schianta e che infrange, che trascina nel vortice al fondo, che si chiude su quello che fu.

Altra prova dovesti affrontare, furiosa tempesta, ché in quella la tua creatura poté la luce vedere sull’ampie mie onde, Marina nata dalla tempesta, ultimo dono della donna che infine a me ho richiamato. E, una vita per una vita, onorasti la bella Thaisa, la piangesti e, circondata di doni preziosi, la consegnasti infine ai miei flutti, che del suo sonno furon la culla.

Tu di pianto riempisti la notte biasimando e ingiuriando il destino, ché solo ostile finora a te s’era mostrato, e condannando il naufragio, tra le onde me accusasti di dar lutto agli inermi mortali, ritenendo l’alta tempesta esser per l’uomo il peggiore dei mali.

Dal dolore consunto e provato, verso Tarso volgesti la prora, ov’ha luogo la regale dimora cui un tempo giovasti non poco. Se memoria di ciò che hanno avuto lascia un segno nei cuori mortali, qui un rifugio fidato speravi trovare per la creatura che con te conducevi.

Ma come lepre che, stanca, s’appressa a una tana vicina, e accoglienza cercando morte invece vi trova, ché d’una serpe era dimora, così tu, eroe, nella casa che un tempo era amica hai lasciato la figlia adorata, ma l’invida nel cuore covata alla bimba fatale sarà.

Quando ivi, già volti tre lustri, per riunirti alla figlia tornasti, non la dolce sua figura ti accolse ma freddo e vuoto sepolcro, e per la vita anzitempo spezzata piangesti lacrime amare.

Della sorte accusasti le trame, ché del regno, di moglie e di figlia crudelmente t’aveva privato. Ma tu non conosci, mortale, i miei piani, che non ti è dato ancora scoprire; non comprendi le vie del destino che ho già scritto e voluto per te.

Io la sposa per te ho custodito, son io sono l’acqua che l’ha trasportata sulle creste veloci dell’onde, perché in tempo giungesse al lido dove vita per lei rifiorì. Nelle mani la posi del solo che poteva venirle in soccorso: Cerimone di Efeso era il suo nome, e con antiche magie e miracolosi unguenti nuovo giorno le diede, riaccese di luce i suoi occhi. E la giovane Marina perduta non era, ma rapita, ostacolata dalla sua stessa virtù, fonte d’invidia. Sulle mie acque fu condotta a Mitilene, ov’era destino vi ritrovaste. 

E lasciato di nuovo ogni porto sicuro, a lungo vagasti per l’acque profonde, invano cercando scampo alla pena infinita del cuore. E non mi sfuggì, mentre navigavi, la tua solitudine, conobbi il dolore della tua perdita, che muta ti rese la lingua e instancabili gli occhi, incapaci di trovare riposo.  Così ti osservavo viaggiare, e silenzioso guidavo i tuoi remi sospingendo l’agile legno verso giorni di nuova speranza.

La figliuola che avevi perduta, della quale piangesti la sorte, ti riabbraccia e l’affanno consola, ma non è ancora paga la sorte. Non ancora ti è dato fermarti, nuovamente riprende il tuo viaggio. Ti trasporto con corso sicuro dove il cuore avrà balzo gioioso: quella donna che amasti e perdesti in quel giorno di aspra tempesta, che vedovo padre ti rese, ora viva le braccia ti tende. Incredibile a dirsi la gioia quando persa speranza riaccende, e riporta nel cuore una fiamma che vivida arde e divampa.

Ora lascia gli affanni e i dolori che han segnato quel tempo lontano; ciò che ha tolto ti rende il destino: tu sei padre, marito, sovrano.

Questo il mio ruolo nella tua storia, questo quello che ho scelto di agire. Questo il compito del mio inferire nelle vicende mortali. Privare e restituire, reclamare e concedere, confrontar gli eroi con la mia possa, ché ciò che conta è l’ardire dell’uomo, la costanza che impegna nel viaggio; è il mio dorso quel banco di prova che le forze misura ed allena. Non abbiate timor nei marosi di smarrirvi e di provar pena, se quell’onda che abbatte e rivolta vi riporta più forti a voi stessi. Questa è la prova, il cammino di chi si vuole con me misurare, di chi non teme di mettersi in viaggio per trovare se stesso sul Mare.

I fili

Arianna Guidotto, in questa sua composizione, riscrive i personaggi shakespeariani di Marina e Innogene, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

La mia riscrittura incrocia i destini di due personaggi femminili nel Perycles e nel Cymbeline di Shakespeare. Tutto è racchiuso nella cornice mitologica e onirica delle Parche che nella cultura romana erano le divinità che intessevano il destino degli uomini. E come i sette giovani nel Decameron o delle seducenti Sherazade, scuciranno e ricomporranno i fili a loro piacimento. Il tessuto delle storie di Marina e Innogene qui si lacera sprigionando sentimenti torbidi e strazianti: Marina e il suo sentimento di abbandono da parte del padre e Innogene che in preda ad una crisi esistenziale annienterà gli sguardi degli uomini della sua vita per poi riscoprirsi e rinascere come una fenice da grumi di sangue incandescente.

*

Era una nenia ipnotica; l’aria stantia catturava il profumo della pioggia battente sulle pareti.
Le vene rigonfie sulle dita adunche; chiazze tiepide sporcavano la pelle incartapecorita, il respiro rotto della fiamma nel camino non riusciva a scansare quel gelo innaturale. Un freddo dello stesso sapore della polvere di secoli, millenni. La stessa consistenza algida del liquido amniotico in cui danzava l’universo non ancora formato.
“C’era una volta…”
Le unghie ingiallite volteggiavano veloci, tessevano figure con l’ago lucente. La vecchia dagli occhi cisposi si fermò un istante.
“Vorrei che non fosse tutto così semplice, così scontato; non possiamo accontentarci sempre del solito lieto fine.”, il filo blu le si afflosciò tra le nocche.
La sorella senza volgere lo sguardo annuì tra i fulgori aranciati del fuoco; la finestra cigolò lasciando trapelare la sinfonia delle nuvole, l’olezzo di erba zuppa di tempesta.
“Cambiare direzione a metà dell’opera potrebbe disgregare il tessuto”; rispose l’altra circondata da ghirigori lanosi.
La terza sorella stava muta, un po’ discosta osservava il soffitto picchiettato dal temporale.
“Meritano di più, meritano di vedere, di saggiare il destino in tutte le sue sfumature, scoprire le possibilità nascoste nell’anima”; sussurrò metallica la prima voce, gli occhi sbarrati.
C’erano una volta le tre Parche, Signore del Destino, Figlie della Notte. Abbandonate in una torre ripida e dimessa, avvolte nello scialle dell’eterna vecchiaia.
C’erano una volta tre sorelle cieche che intessevano opere mirabolanti, brulicanti di vita. Di morte.
La prima arrotolava i fili al fuso, spaghi palpitanti di migliaia di corpi, generazioni di uomini in balia dell’esistere.
La seconda ne intrecciava gli sguardi, le ore, i respiri.
La terza acquattata in un cantuccio con la sua forbice ammiccante nel buio, era pronta a spargere la quiete dell’immobilità perenne.
“C’era una volta una figlia nata in simbiosi con la morte, sovrastata da saette e nubi spesse,
c’era una volta Marina, che ammaliava gli uomini con il suo candore; fino a quando un giorno decise di fare ritorno al luogo che aveva ascoltato il suo vagito. Le sirene l’accolsero tra loro; tranciarono le sue gambe, le diedero un intruglio denso contenente l’essenza del mare. Per tre giorni e tre notti il suo corpo fu cavalcato dai fremiti, crampi lancinanti. Squama dopo squama, stilettata dopo stilettata una magnifica coda emerse dal suo stesso sangue. Il grido della fanciulla squassò le profondità degli abissi…”

MARINA
Il profumo ruvido
dei granelli di sabbia
incrostano le ciglia
mi avvolgono in un refolo spinoso
respiro il sole pungente
un brivido gelato
un soffio
solitudine
qui, sullo scoglio aguzzo
spuma frizzante
schiaffeggia il mio volto
arrotolo una ciocca tra le dita
il mare ha tinto di blu i capelli
profumano di alghe
la mia voce è il fruscio di una conchiglia
affonda lentamente
elegante


Hanno amputato le mie gambe
belle, tornite
martoriate dal destino
in cambio di una coda
ho barattato i miei sospiri                                               
per il canto maledetto e suadente
delle sirene
ho scelto la leggerezza di una bollicina
la violenza irriverente del buio                                                         
che macchia lo sciabordio
quando il cielo si veste di pioggia
ed Eolo scatena la sua furia
ascolto il rollio della tua nave
riconosco quello sguardo umido
gli stessi occhi che mi spinsero lontano
tra braccia sconosciute
quattordici anni fa
sono io, Marina
ho scelto di annegare i ricordi
sei così emaciato, consumato
Pericle
intravedo la tua anima
sotto la pelle ormai evanescente
so che puoi vedermi
non fingere più
qui su questa nuda pietra
guardami
stringi le mie dita gelide
sono tua figlia
vieni con me
il fondale tracima di colori
sfumature
bellezza
silenzio
seguimi
dimentichiamo le assenze
chiudi le palpebre
il tuo viso diventa sempre più blu
come la mia chioma
ascolto i tuoi battiti assopirsi
sorridi
i tuoi pensieri si affievoliscono
spegnendosi nell’abisso muto
abbracciami
e resta con me,
papà
per sempre.


“E’ uno scempio!”
La seconda sorella si rizzò sulle gambe sottili scagliandosi sulla prima, afferrandola per la gola.
 E Strinse. Ma l’altra, dimenandosi, riuscì a rifugiarsi dietro la terza sorella apparentemente indifferente.
“Non osare…” il volto incavato si deformò in un ghigno;
“Non posso più stare a questo gioco, l’ira degli dei si abbatterà su di noi, terza sorella aiutami!”
“La forbice è ben affilata” bisbigliò quest’ultima.
“Gli dei non ci fermeranno” tuonò la prima, “le donne non saranno più solo delle belle statuine da ammirare; possiamo incoronarle eroine e spogliare uomini e dei della loro superbia”.
“Moriremo tutte e con noi l’umanità” singhiozzò la tessitrice di destini.

“C’era una volta una principessa divorata dalla fiamma di Amore. E proprio per questo il sadico padre la rinchiuse in una torre; la giovane rinunciò alla luce del sole. La reclusione diluiva il ticchettio delle ore, dei giorni. Ma il tempo scioglieva le voci sedimentate in angoli reconditi della sua anima. Erano bisbigli insinuanti, melliflui. “Innogene, la bambola incantevole di Cimbelino. Innogene la moglie senza macchia…”
Ma era davvero così? Era lei quella fanciulla trasformata in burattino da un vortice di sguardi?
Lei chi era? 
Il grido della vendetta avviluppava la sua mente, offuscandola…”

INNOGENE
Eccomi qui, finalmente accanto a te. Fluidi vermigli scivolano sul pavimento, schizzi rossi, un caleidoscopio di sangue sulle pareti.
C’è qualcosa che luccica, una scintilla dorata in questa polla dal fetore penetrante.
È il nostro anello, amore; ha abbandonato il tuo anulare inerte.
Riesco a percepire il baluginio nero delle tue pupille, mi osservi attraverso una patina che s’ispessisce di minuto in minuto.
Rigiro questo pugnale algido con queste mani impregnate di te, gocce vermiglie colano lungo i miei polsi cerei. Non sento più nulla, il respiro è immobile.
Ho dovuto farlo, Postumo, il tuo amore succhiava la mia vita giorno dopo giorno, impallidiva le mie guance, divorava la mia fame di vita.
La tua passione era così incombente da uccidermi. Mi riempiva fino ad implodere. Per questo ho scelto di rubarti la prossima aurora.
Volevo essere libera, volevo svincolarti da questa magica illusione. Perché io non sono perfetta e pura! E non voglio esserlo. Non mi conosco ancora e ho intenzione di scoprirmi poco alla volta.

Sei così bello nel tuo candore marmoreo. Uno squarcio slabbrato avvolge il tuo collo come un manto regale; le tue labbra socchiuse sembrano volermi parlare, ma è solo la lama argentea della luna a intagliare inganni.
Chissà cosa sognavi, la tua fronte è ancora corrucciata. Forse pensavi al nostro matrimonio, alla tua bella sposa ricoperta di bianco, i fiori odorosi sul petto.
Forse ti amavo, Postumo, ma ho scelto di dimenticarci per imparare ad amare me, a mettermi al primo posto. Una donna che non conosce se stessa, che non si vuol bene non può essere amata a sua volta. Oggi finalmente ho infranto le immagini fasulle dei vostri sguardi.
I tuoi.
Quelli di mio padre. che adesso giace sulla pozza delle sue stesse vene squarciate.
Ho distrutto la vostra incantevole fanciulla. La vostra Innogene.
Non sono l’innocente, l’angelica, la casta.
Sono umana.
E voglio vivere al ritmo dei miei palpiti impazziti, sulla melodia tumultuosa del domani.
Addio Postumo.
Addio Innogene.


Il buio invase la torre, le fiamme nel camino spirarono tra la cenere. Le sorelle si strinsero con le braccia ossute, piangevano lacrime pesanti come gli anni.
Aghi e fili riposavano sull’impiantito di pietre sconnesse. Sul tessuto accanto ai piedi nudi rilucevano colori nuovi. Erano vividi, violenti. Erano vivi e anche gli dei ne avrebbero gioito, forse.
Un rumore metallico sfiorò l’oscurità pastosa.
Un taglio netto, il fruscio dei fili spezzati.

Filling Shakespeare in: una e più postille al Romeo e Giulietta

Qui allegato il file contenente il prodotto finale del seminario Riscritture dell’a. a. 2017-2018, incentrato sul tema La bellezza in Shakespeare: Romeo and Juliet nell’ottica del corso Letterature comparate B, mod. 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

seminario Riscritture – Romeo and Juliet di Shakespeare