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Simone Massi: come un artigiano lavora in bottega

Il regista e illustratore marchigiano Simone Massi, riconosciuto a livello internazionale, esordisce con il lungometraggio d’animazione Invelle, prodotto da Minimum Fax e rilasciato nelle sale il 29 agosto, una storia che annette tre eventi del Novecento, una dichiarazione su quanto sia importante preservare la memoria.

Sinossi
1918. Zelinda è una piccola contadina che deve affrontare la perdita della madre e la partenza del padre per la guerra. È necessario che diventi adulta prima del tempo, lo fa durante la fiera del paese, proiettando il suo sguardo altrove. Così prosegue la sua infanzia che diventa facilmente maturità poi anzianità mentre l’attenzione si sposta su Assunta, un’altra piccola contadina che vede materializzarsi le peggiori previsioni: i bombardamenti, la dittatura, le leggi razziali, la nuova guerra. Ma il Novecento non ha risparmiato nessuno, compreso il piccolo Icaro, bambino ingenuo che vede la madre e il padre lambiccarsi per portare il pane a tavola. Mentre le speranze diventano disillusioni e agisce lo spettro degli anni di Piombo.

Breve recensione
voto 8/10

L’abitudine è quella di considerare la Storia e i suoi effetti. Simone Massi dimostra interesse per una s meno ingombrante, minuscola. È così che i suoi oggetti appaiono nel piccolo, vittime indifese di un destino segnato che mantengono la loro robustezza, nel momento in cui agiscono per un sentimento comune alla Resistenza: la dignità. Ciò che è avvenuto in una sopita provincia marchigiana è avvenuto in qualsiasi arroccato comune italiana.
Il regista gestisce il legaccio con le proprie tematiche (la terra, il mondo contadino, la memoria) tramite una esposizione visiva totalizzante. Esposizione che diventa politica nel momento in cui gira il filo rosso dei Partigiani, cromaticamente evidenziato, e che prosegue con la scelta linguistica di usare il dialetto. Invelle – in marchigiano, “in nessun posto” – è una parola sepolta e ne viene riaffermata la potenza arcaica. Così il film stesso diventa una eco sul passato, perché alcune storie è bene si tramandino a voce. Dopo una serie di pluripremiati cortometraggi, Simone Massi si misura con una trama estesa, disegnando come un artigiano sopito nella sua bottega. Siamo riusciti a raggiungerlo in un sospeso “fazzoletto di terra”, come lui stesso lo chiama, feroce e autentico, come lui stesso è.

Intervista a Simone Massi
1. Come sempre, iniziamo con i numeri. Lucky Red ha selezionato 8 illustrazioni per una collezione esclusiva ma per realizzare Invelle quante tavole sono state disegnate? Quanto lavoro c’è dietro questa rappresentazione?

La produzione parla di 40.000 tavole. Lo confesso, io ho contato solo quelle a cui ho messo mano e sono oltre 4.000. I numeri possono servire a dare una vaga idea ma il lavoro effettivo, la fatica (sia fisica che psicologica), i problemi, lo stress, le tensioni non si possono raccontare. Realizzare Invelle è stata una vera e propria impresa, umana prima ancora che artistica.

2. Lei padroneggia la tecnica della stop-motion che rende il suo cinema una esperienza visiva ricca di stimoli. Cosa ha visto in questa modalità narrativa, quali sono le sue potenzialità?

Penso che il cinema di animazione sia una forma d’arte completamente differente rispetto al cinema dal vero. Per quanto i film di finzione siano sempre più in mano alle macchine, pieni di effetti speciali o scene realizzate al computer, l’animazione rimane altra cosa, è un terreno di fantasia, popolato di personaggi di carta, un cinema che si muove in uno spazio sconfinato e che spinge alla ricerca, invita ad osare.

3. Invelle, “in nessun posto”, qual è il significato di questo titolo?

Viene da lontano, dalla locuzione latina ubi velles / in de ubi velles, «dove tu voglia, in qualunque parte». In seguito l’espressione si è volgarizzata in induvèlle, invèlle, con il significato che si ribalta e diventa «in nessun luogo», «da nessuna parte». L’ho scelto come titolo del film per rappresentare uno dei tanti territori che vengono lasciati morire perché per lo stato non hanno nessuna importanza, nessun valore. Considerati non-luoghi quindi popolati da non-persone, buone per i lavori nei campi o come carne da macello.

4. E invece il suo rapporto con le Marche, questa terra ruvida, dimenticata eppure bellissima?

Le Marche, ad eccezione di qualche città della costa, sempre “Invelle” sono. Nessuno ne parla, nessuno viene a girarci i film o a farci le vacanze, quattro treni in croce da prendere nei binari ovest, nelle periferie delle stazioni, con cambi infami e corse per non perdere le coincidenze. Poi ci sono Marche e Marche, quelle bagnate dal mare ricche, popolose e piene di servizi, quelle delle colline e dei monti che vengono lasciate morire un poco alla volta, così nessuno si lamenta e protesta e il giorno che si è morti del tutto non servirà più a niente lamentarsi e protestare. Il fazzoletto di terra che mi è toccato in sorte è fatto di gente strana, mite, sonnolenta e fatalista, diffidente e criticona. Persone che parlano anche poco, faticano a capire il mare e le cose. Perlopiù alzano le spalle, come a dire “Va così, che ci posso fare?”.

5. Il suo lungometraggio racconta un microclima che riesce a espandersi e ci fa riflettere su quanto stratificata la provincia sappia essere. Come impatta la Storia su questi personaggi nascosti?

La Storia entra dentro le case e le brucia. Fino a qui sono d’accordo con De Gregori e poi ognuno per la sua strada. Perché per me la ragione non è mai stata spartita equamente e il torto è tutto sempre e solo dalla parte dei disgraziati.

6. All’interno di Invelle, il piccolo Icaro è un bambino contadino ipnotizzato dal mito del figlio di Dedalo. Da cosa deve volare via?

Dal sangue, dalla follia, dalle menzogne, dall’ipocrisia, dall’ingiustizia, dalla violenza, dalla prevaricazione, da un mondo, quello dei grandi, che non capisce e che non è (ancora) il suo.

7. Zelinda, la sua protagonista, figlia donna madre nonna impatta i colpi di un secolo feroce. È anche lei parte della Resistenza italiana?

Senza ombra di dubbio.

8. Invelle è quindi un’opera romantica o politica? Una dichiarazione d’amore o una presa di posizione?

Di mestiere faccio il disegnatore e il cantastorie, lo faccio al meglio delle mie possibilità e rimanendo all’altezza del mio pubblico, di chi decide cioè, guardando e ascoltando, di condividere un pezzetto di tempo e di strada con me. I miei racconti non sono lezioni di storia o di antropologia, sono semplici filastrocche e come tali non hanno alcuna pretesa se non quella di smuovere qualche pensiero o ricordo. Nel film – nella storia, nei disegni – ci sono molti spazi vuoti: non si chieda a me di riempirli.

9. Alcuni attori che han prestato la voce per il film sono Marco Baliani, Toni Servillo, Filippo Timi, Luigi Lo Cascio, Neri Marcorè (con cui ha più volte lavorato), gente che col talento va d’accordo; quanto è importante avere dalla sua parte il riconoscimento degli addetti ai lavori?

Ecco, questa è stata una bellissima e inaspettata sorpresa, che mi ha fatto contento. Perché non sono un nome noto e non faccio niente per diventarlo. Esco raramente dal mio territorio e di conseguenza non potevo immaginare che il mio lavoro, il mio nome appunto, fosse così conosciuto e apprezzato da spingere attori tanto importanti a partecipare al mio lungometraggio d’esordio.

10. «Ai primi di gennaio, gli uomini entrano nella stalla dove tengono a ricovero il maiale e lo legano per il muso. Mentre viene trascinato fuori per essere macellato, il maiale ha modo di vedere il cielo e le cose del mondo» dal suo corto Dell’ammazzare il maiale, David di Donatello 2012 per il miglior cortometraggio. Quali sono le cose del mondo che Simone Massi non può fare a meno di guardare?

La sinossi che ho scritto io, con la collaborazione del poeta Nino De Vita era diversa “Mentre viene trascinato fuori dalla stalla il maiale ha modo di vedere il cielo e le cose del mondo.” Mi è dispiaciuto molto vedere che una persona all’interno del Torino Film Festival aveva deciso di cambiare il testo, in particolare di introdurre “essere macellato”. Ogni parola che scrivo mi costa tempo e fatica, giusta o sbagliata è la mia. Non entro nelle parole o nel lavoro degli altri. Provai a spiegarlo, a spiegarmi, ricevetti, al posto delle scuse, una risposta orgogliosa e piccata. Ognuno è responsabile di quello che fa. Poi c’è chi sa guardarsi allo specchio e chi no, c’è chi sa guardare il cielo e le nuvole, gli animali e la collina, i bambini e gli anziani. Ce chi lo sa fare e chi no.

11. Non abbiamo paura a scriverlo. Lei è uno dei più grandi registi d’animazione d’Europa. Nel testo Facciamo Finta, il cantautore Niccolò Fabi scrive “Facciamo finta che chi fa successo, se lo merita”. Lei che rapporto ha col successo?

Pessimo. Il successo non so cosa sia né mi interessa saperlo. C’è stata qualche occasione in cui mi sono dovuto mettere il vestito buono, con dei riflettori puntati contro. Ho dovuto stringere mani, fare finta di essere contento, di avere tutti i documenti in regola. Ho avuto momenti così, è vero ma è stata roba di un giorno o di un’ora. Un clandestino a bordo e per fortuna è tutto passato.

12. Al momento il cinema italiano sembra soffrire di una forte miopia. Le faccio il nome di Alice Rohrwacher, riconosciuta a livello internazionale, che con La chimera (Tempesta, Rai Cinema, Ad Vitam, Amka Films Production, 2023) ha avuto problemi di distribuzione nelle sale, come del resto il suo Invelle. Quali possono essere le cause di questi palinsesti poco lungimiranti?

Fatico a parlare di cose di cui conosco poco o niente. Il cinema italiano ufficiale, quello che muove interessi, per me è una cosa nuova perché prima di Invelle ho realizzato unicamente cortometraggi. Quello che conosco e di cui posso parlare con un minimo di competenza è, di fatto, un mondo minore, una sorta di scantinato dove non girano soldi e di conseguenza non si dà fastidio a nessuno.

13. E come riuscire ad alzare la voce?

Gli autori di un certo tipo non gridano, né sul lavoro né sulla vita. Alice Rohrwacher fa cinema di poesia perché è una poetessa e i poeti sussurrano. Ad alzare la voce dovrebbe essere la critica, i giornalisti, gli uomini di cultura.

14. Le chiediamo inoltre una opinione in merito al discusso fondo cinema. Servirebbe una maggiore previdenza per finanziare progetti – Paola Cortellesi insegna – realmente validi: qual è la sua posizione in merito?

Chi decide se è un progetto è realmente valido? Su quali basi e con quali competenze? Per me è un provvedimento pessimo che favorisce chi non ne ha bisogno e taglia le gambe alle case di produzione medio-piccole e dunque al cinema indipendente. Verrà penalizzato anche il pubblico, in quanto avrà una possibilità di scelta molto più limitata.

15. E i produttori che in qualche modo vengono protetti dai fondi pubblici come possono essere stimolati ad aumentare la visibilità di prodotti validi?

Il solo pensiero mi fa torcere le budella, non ho proprio niente da dire su questo.

16. Ultima domanda – può non rispondere! – se domani decidesse di non prendere più in mano la matita, oggi cosa disegnerebbe?

Disegnerei un bambino, davanti a una casa triangolare, sotto un sole raggiante.

A cura di Emanuele Grittani
Simone Massi: come un artigiano lavora in bottega © Emanuele Grittani, Simone Massi

Caproni recensore: un laboratorio di poetica

In questo articolo, Gaël Pernettaz propone un’interessante analisi della figura di Giorgio Caproni recensore. Attraverso lo spoglio di articoli e dichiarazioni si ricercano costanti di questo aspetto secondario dell’attività dello scrittore, delineando in modo più completo la sua poetica attraverso l’illustrazione del rapporto che intercorre fra le recensioni e i componimenti in versi.

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Poeta, fra i principali esponenti della corrente antinovecentista. Un uomo magro, dal fisico schietto e nodoso, grande fumatore e amante della musica e della poesia, a cui dedicò tutta la sua vita. Questo fu Giorgio Caproni, e molto altro ancora: fra le altre cose, scrittore di narrativa, traduttore e critico, o piuttosto recensore, come lui stesso preferiva definirsi.

Egli rifuggiva infatti l’epiteto forse troppo magniloquente di “critico letterario”, probabilmente perché sentiva che tale vestito cadeva largo, troppo largo, sulle sue minute fattezze. Forse per tale ragione ha costellato la sua intera carriera di momenti in cui autosvalutava il suo lavoro, preferendo mostrarsi come un semplice omino dedito al suo lavoro con zelo e calma, piuttosto che imbellettarsi con quell’artificiosa immagine di arbiter elegantiae e al contempo di giudice infernale che contorna la figura, tanto temuta, del critico letterario.

Ora non ci si fraintenda: Caproni non portava avanti una battaglia contro la critica, che invece amava e apprezzava, quando ben fatta (ovvero, secondo lui, quando fatta da altri), e queste prese di distanza non sono da intendersi né come espressioni di falsa modestia, né come attacchi all’attività critica, quanto piuttosto come la constatazione sine ira et studio di un uomo che ha già trovato altrove la sua vera voce -o la sua musa, se si preferisce- e che si occupa di recensioni solo per dovere, seppur con la passione e il fresco entusiasmo del non specialista. Passione e entusiasmo che non lo abbandonarono mai per gli oltre cinquant’anni di esperienza, durante i quali collaborò a diverse testate fra cui «La fiera letteraria», «Italia socialista», «Il lavoro nuovo», «Mondo operaio», «La Giustizia», «Il Punto» o ancora «La Nazione».

È indubbio il fatto che nelle recensioni Caproni parli dei libri come ne parlerebbe con un amico davanti a un caffè, o come un ammiratore e non piuttosto in qualità di giudice, con il rigore e il distacco del critico, così come la mai sconfessata difficoltà nello scrivere recensioni, che a volte assume i caratteri molto più netti del rifiuto frontale se si pensa a certi versi del 1963 «Come sono felice/ dopo una recensione/ porre il libro lodato/ – Merda! «in un cassettone»./ Il pianto che m’è costato,/ il sudore, il groppone,/ il cuore che c’ho consumato/ a leggerlo/ che maledizione!/ […] Anch’io sarò divorato dai topi: è la condizione». Questo non basta però ancora a privare di interesse la figura tanto bistrattata (dallo stesso in primis) del Caproni recensore; e non solo per il valore documentario, di “dietro le quinte”, di laboratorio di poetica, che permea tutte le sue recensioni (una su tutte l’articolo Versi come utensili, apparso nel giorno di Natale del 1948 su «Mondo operaio» e poi divenuto celeberrimo), ma soprattutto perché in poche figure l’interdipendenza fra poesia e vita è infatti tanto stretta quanto lo fu per Caproni.

Proprio questa sua attitudine, che puntellò l’intera sua opera (per non dire l’intera sua vita) a ridurre tutto alla poesia, è ciò che lo portò non solo a riversare nell’attività di recensore tutta la sua esperienza da scrittore in versi, ma anche a cercare nei libri analizzati- per la maggior parte raccolte o antologie poetiche- i temi cari alla sua poesia. Senza dubbio l’esempio più evidente è l’articolo Poesie di Pasolini, apparso su «La fiera letteraria» del 20 marzo 1947, in cui Caproni loda artifici retorici della poesia di Pasolini (quali l’utilizzo del vezzeggiativo, la ripetizione del nome, la musicalità cavalcantiana) di cui lui stesso si servirà, dodici anni più tardi per cantare la madre Annina nei Versi livornesi, sezione de Il seme del piangere. Ad ogni modo nessuno degli autori recensiti, negli oltre cinquant’anni, sia i meno conosciuti (Ferri, Sbaraglia, Manzini, Reale, Belleli, Carra, Zoni o Verginelli per citarne alcuni) che i più affermati, italiani (quali gli amati liguri Montale, Roccatagliata Ceccardi, Novaro, Boine Grande o Barile, o ancora Rebora, Quasimodo, Saba, Ungaretti, Penna e Sereni) o stranieri (Jacobi, Guillén, Salinas, Machado, Pound, Brecht, Joyce o Apollinaire ), è potuto sfuggire a questo vaglio critico; così Caproni, nell’aprire una poesia di Saba o una di Montale, come una di Machado o di Pound sempre ha cercato -a titolo di esempio- i minimi che lo ossessionavano, quei tenui barbagli («Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto. Non mi è mai piaciuta: non l’ho mai usata, nemmeno come lettore») che permettevano alla Poesia di rifulgere, conferendo al testo letto quel carattere di universalità che è proprio della grande lirica.

In parallelo a questa ricerca, Caproni rivolgeva grande attenzione anche alla musicalità del verso e alla sua costruzione poiché, a suo parere, la forma era di primaria importanza e intimamente connessa alla poetica di un autore, e non mera tecnica applicata. Per tale ragione egli, trattando degli autori più disparati, si concentrò sul ritmo e la musicalità del verso, non risparmiando concetti, quali tonica, dominante, settima diminuita, che per il lettore che non si intende di musica, risultano incomprensibili. Questo perché, i vocaboli posseggono due nature, una fonica e una semantica, e la poesia, a differenza della prosa, si serve di ambedue, coniugandole o facendole stridere a seconda dell’intenzione del poeta.

A tale istanza di attenzione alla forma, e al suo legame con il testo, si collega inoltre il rifiuto per quelle che egli definisce le «poetiche a priori», riferendosi a quell’insieme di poetiche appunto, che, durante il secondo Dopoguerra, in opposizione alla precedente stagione ermetica, accusata di solipsismo e ignavia, fecero della poesia un mezzo per proporre -o per meglio dire “imporre”- idee, e non la considerarono invece quell’attività igienica che nasce da un bisogno interiore quale è e quale la intendeva il poeta. Non stupiscono quindi alcune pointes polemiche contro la poesia neorealista, rea di non aver raggiunto i risultati della prosa in quanto sterile esperimento in vitro e per tale motivo rivelatasi più perniciosa che altro. E sempre per la stessa ragione, non sorprende che Caproni in tutti gli autori analizzati cerchi l’afflato di vita, sia quello più palmare – quello, per intendersi dei suoi primi componimenti, in cui le donne erano ancora sapide («Sono donne che sanno/ così bene il mare…») e il fuoco bruciava ancora vivo («Bruciano alla bramosia/ segreta, le carnagioni/ giovani…») nelle vene del giovane poeta-, sia quello, più difficile a cogliersi, delle poesie permeate da una maggiore riflessione, quelle che Schiller definirebbe «sentimentali»: una su tutte La casa dei doganieri, il componimento montaliano da lui prediletto.

Infatti, la poesia non è certo equivalente a un saggio o a un discorso in prosa; non deve mostrare nulla di nuovo al suo lettore, quanto piuttosto, attraverso una forma originale, fare risorgere nel lettore quel je ne sais quoi appunto di poetico, che Caproni stesso non si vergogna di chiamare, con una punta di compiaciuta ingenuità, “emozione” o “sentimento”. Così, anche verso la fine della sua vita egli si riscalda quando sente che la poesia è morta, come dimostra l’articolo intitolato Poesia e scienza: si può ancora cantare la Luna (apparso sul «Tuttolibri» del 6 giugno 1987). Qui agli attacchi mossi da Giorgio Salvini, «illustre Fisico», che aveva osservato come nel mondo odierno, dominato dalla techné e dalla conoscenza, non ci fosse più spazio per la poesia essendo il mistero del mondo ormai svelato, egli risponde difendendo la magia dello scrivere versi, chiudendo con una citazione tratta da Apollinaire che racchiude e sintetizza magistralmente la figura di Caproni, nelle vesti del recensore, del poeta, ma, soprattutto, dell’uomo comune: «Poesia bella, amore mio,/ ci siamo amati storditamente./ Senti che razza di scampanio./ E vuoi non si crucci la gente?»

Gaël Pernettaz

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Bibliografia

Giorgio Caproni,  Prose critiche, a cura di Raffaella Scarpa, Aragno, Torino, 2012.

Giorgio Caproni, L’opera in versi, a cura di Luca Zuliani, Mondadori, Milano, 2005 (1998).

Raffaella Scarpa, Secondo Novecento. Lingua stile metrica, dell’Orso, Alessandria, 2011.

“Nel guscio” di Ian McEwan

La recensione del nuovo romanzo di Ian McEwan, Nel guscio, invita a riflettere sulla capacità della letteratura di interrogare ancora oggi le proprie origini e i propri maestri (Ian McEwan, Nel guscio, trad. it. di Susanna Basso, Einaudi, Torino 2017). 

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O God, I could be bounded in a nutshell, and
Count myself a king of infinite space, were it not that
I have bad dreams.
(Shakespeare, Hamlet, II, ii, vv. 255-257)

Spesso nelle prime pagine di ogni nuovo libro si gioca una partita decisiva per il lettore che, tra aspettative, fiducia e attesa di approvazione, deciderà le sorti del seguito della lettura. Così il nuovo romanzo di Ian McEwan traccia da subito le linee guida e i motivi d’attrazione che nel corso del testo trovano poi brillante conferma.

Nel guscio si presenta, già a partire dal titolo e dall’epigrafe che introduce la storia, come un’intrigante riscrittura e rivisitazione dell’Hamlet, a tratti quasi una sua ironica parodia. Infatti i nomi dei personaggi riecheggiano sfacciatamente quelli della tragedia originaria e la vicenda, ambientata nella cupa e caotica Londra dei nostri giorni, viene costruita a partire dallo schema shakespeariano: il tradimento, l’omicidio, il desiderio di vendetta. Trudy, moglie di un misconosciuto poeta, pianifica l’assassinio di suo marito insieme all’amante Claude, fratello di questi. A differenza di Hamlet però, nel romanzo l’atto deve ancora compiersi e il protagonista, un feto quasi-nato, è spettatore inerme della macchinazione del piano e dell’omicidio. Per non lasciarsi sopraffare dai triti meccanismi di una storia già – ampiamente – conosciuta, McEwan ha giocato la sua carta vincente proprio sulla creazione del protagonista e narratore: il feto in attesa di nascere nel ventre di Trudy. È suo il punto di vista di tutta la vicenda, interrotto di tanto in tanto dai dialoghi degli altri personaggi e da improvvise sollecitazioni sensoriali della realtà. Il romanzo chiede quindi al lettore di sottoscrivere un patto obbligato: osservare dal guscio, limitato nei movimenti proprio come il feto, gli avvenimenti del mondo esterno.

L’udito è l’unico strumento per conoscere la realtà, in un susseguirsi di conversazioni origliate e motivetti musicali canticchiati. Alle volte, però, questa facoltà di ascolto si rivela limitata e, paradossalmente, sorda: capita così che alcuni discorsi dei due amanti si perdano; oppure che il protagonista si smarrisca nelle proprie profondità psicologiche, nei propri dubbi, lasciandosi sfuggire parte della cospirazione (la parte più significativa); o ancora può succedere che sia il feto stesso a decidere di sospendere volontariamente l’ascolto, per sfuggire la crudeltà e l’amore depravato della madre e dello zio, costringendo di conseguenza anche il lettore a seguirlo negli abissi della sua insicurezza e debolezza. È insomma un romanzo di attese, di sospensioni e di atti mancati o fallimentari. Così, anche quando il protagonista decide di agire, spinto dal desiderio di vendetta, si perde nella progettazione dei suoi piani e nell’anticipazione delle possibili conseguenze, sempre catastrofiche.

Nel guscio prende forma intorno a una serie di dicotomie forti, come senso di colpa e innocenza, impossibilità di agire e desiderio di vendetta, per non parlare della più esplicita dualità vita-morte. Rientrano in questa dimensione oppositiva anche i sentimenti di amore e odio che si alternano e si confondono nel protagonista: la madre assassina è disprezzata per ciò che è capace di fare, ma allo stesso tempo amata per il dono della vita che è sul punto di offrirgli; lo zio è odiato non solo in quanto usurpatore ma anche perché convince Trudy ad abbandonare il bambino appena dopo la nascita; il padre viene teneramente amato in quanto vittima destinata a non essere salvata, ma allo stesso tempo è odiato perché incapace di prendersi cura del proprio figlio e in fondo mai davvero intenzionato a farlo.

Assediato da questo impasto sentimentale, il feto tradisce però un impulso più forte ancora: la voglia di venire al mondo, la voglia di diventare. Ed è proprio in questo egoismo di vita che si nasconde il germe di ogni azione fallimentare: la mancata vendetta del padre che diviene presto senso di colpa, l’odio nei confronti della madre che diventa compatimento, il tentato suicidio. Di conseguenza il fantasma del padre non può chiedere al figlio, come avveniva in Shakespeare, di essere vendicato; semmai è costretto lui stesso a tornare dal mondo dei morti e a farsi giustizia con le proprie mani. Imprigionato e immobile nello spazio ristretto del guscio materno, che riflette la sua parzialità e passività rispetto agli eventi, il protagonista riesce a compiere soltanto pochi atti violenti, egoistici, quasi insani, come i calci volutamente assestati alla madre durante la notte e la nascita forzata che, più che una vendetta finale, è l’estremo desiderio di autoaffermazione. Pertanto il lettore, che sin dall’inizio e per buona parte della vicenda patteggia per il protagonista, a volte si trova a prendere le distanze, a guardare con diffidenza i desideri turbati del feto, come di fronte ad un’ecografia che dice qualcosa ma non proprio tutto.

La densa scrittura del romanzo, resa magistralmente dalla traduzione di Susanna Basso, è scandita sapientemente in venti brevi capitoli e per tutta la sua durata riesce a mantenere una tensione massima che si intensifica ancor più nei finali di capitolo, costringendo il lettore a rimanere, sospeso e curioso, incollato alla pagina. Tutti i personaggi, con la loro fragilità e precarietà, testimoniano che ciò che davvero conta non sono tanto il tradimento degli affetti o l’omicidio vero e proprio, quanto l’inclinazione a scrutare e indagare, attraverso la voce monologante del feto, la condizione drammatica dell’uomo moderno, paralizzato dal dubbio e dalla riflessione. In fondo, essere o non essere è, oggi come ieri, l’interrogativo che la vita ci mette di fronte da quando nasciamo, il caro “prezzo da pagare per il complicato dono della coscienza”. È in definitiva un romanzo di vita, di morte, d’amore e di odio in cui le passioni dell’individuo contemporaneo, destinato ad essere solo e a camminare su una via deserta, rimangono le stesse dell’uomo messo in scena da Shakespeare.

Jacopo Mecca