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…TUA, B.

Schettino Martina, in questa sua composizione, rielabora il concetto di colpa e peso della coscienza sotto forma diaristica, riportando i pensieri più intimi e profondi di una giovane protagonista, nell’ottica del corso di Letterature Comparate B mod. 1 Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“Ho sentito un brivido lungo tutta la schiena; il modo in cui ha pronunciato quelle parole, il suo sguardo che è improvvisamente diventato vuoto… è stata solo una mia percezione?”

*

22/09/2022

Caro Diario,

Eccomi, sono arrivata nella mia nuova casa! Finalmente, non vedevo l’ora!. L’Inghilterra è spettacolare, sono così contenta di essere qui. L’appartamento non è grandissimo ma ho un’intera, spaziosissima parete per la mia libreria. La mia coinquilina, Lizzy, è molto simpatica. Mi ha fatto fare un tour della casa e mi ha già dato qualche informazione sulle varie feste che i suoi amici hanno in programma. Per ora voglio concentrarmi sulla sistemazione della mia roba e voglio prepararmi per l’inizio delle lezioni. Mancano solamente due settimane; mi sento agitata ma al tempo stesso sono emozionata. È il mio sogno da sempre! Oxford! Ancora non ci credo, che gioia! Datemi un pizzicotto o crederò ancora di essere in un sogno. Adesso vado, ne approfitto per chiamare mamma ora che Lizzy è sotto la doccia
Tua, B.

07/10/2022

Caro Diario,

sono tornata, prima settimana di lezioni. Ho smesso di scrivere per un po’… mi dispiace, so bene che la scrittura mi aiuta tanto, eppure in questi giorni sono stata così impegnata. Tra l’inizio delle lezioni e le presentazioni ai tantiamici di Lizzy (dire tanti è un eufemismo, non so come questa ragazza riesca a intrattenere tutti questi rapporti sociali, costantemente…), non ho avuto un attimo di tregua. L’appartamento è finalmente sistemato, io e Lizzy lo abbiamo reso molto carino. Anche a mamma piace molto. Ho ancora una lezione per oggi, storia inglese. Il professore è simpatico e si vede che mette molta passione in quello che fa. Abbiamo iniziato dalle origini della storia inglese, dai Britanni alla conquista dell’Impero romano. Una settimana stancante ma molto produttiva; la professoressa di English ci ha già assegnato un saggio da scrivere su Beowulf… vado a lezione.

h. 19 sono in camera, Lizzy è appena tornata con il suo fidanzato, non sembra che le cose vadano molto bene tra loro. Lei piange, penso stiano per chiudere la relazione, mi ha confidato che è da qualche tempo che le cose tra loro non vanno bene.

10/10/2022

Jordan e Lizzy non si sono lasciati. Io sono a metà del mio saggio di Beowulf e in ritardo per la mia lezione di Storia Inglese ciaoo.

11/10/2022

Caro Diario,

ho dormito male questa notte; Lizzy è tornata tardi e ha fatto molto rumore, penso avesse bevuto troppo la sera. Continuava a ripetere un nome, o meglio, continuava a biascicare un nome, storpiando tutte le lettere che lo compongono; strano…

   13/10/2022

“If you could hear at evert jolt, the blood
Come gargling from the fourth-corrupted lungs,
Obscene as cancer, bitter as the cud
Of vile, incurable sores on innocent tongues, –
My friend, you would not tell with such high zest
To children ardent for some desperate glory,
the old Lie: Dulce et decorum est
Pro patria mori.”

Wilfred Owen, uno dei war poets che preferisco in assoluto. La potenza delle parole con cui esprime il suo disprezzo verso i finti ideali sociali del tempo mi provoca sempre un’emozione indescrivibile. Spero un giorno di riuscire ad esprimermi in maniera così decisa ma allo stesso tempo elegante come Owen.

Il saggio è quasi terminato; per essere il primo vero saggio che io abbia mai scritto, sono abbastanza soddisfatta. Lizzy mi ha aiutata con alcune parti più tecniche, sto ancora perfezionando la mia scrittura saggistica. Ultimamente non sta molto bene, non capisco bene cos’abbia… sembra sempre sull’orlo di una crisi o un pianto, è spesso nervosa e molto moody. Quando provo a chiederle di parlarne ha come un sussulto e cambia velocemente umore e argomento, come se tutto il malumore che c’era non fosse mai esistito, se non nella mia testa. Questi suoi comportamenti mi confondono, non capisco perché si comporti così. Anche Jordan si fa vedere sempre meno in casa. Sarà successo qualcosa tra loro?

 15/10/2022

Finalmente è sabato! L’Università è stancante, un ambiente completamente differente da quello del liceo e gli ambienti scolastici inglesi sono così lontani da quelli italiani. All’inizio è stato veramente difficile ambientarsi, ma ho trovato delle persone fantastiche che non mi hanno fatto sentire sola un solo istante. Posso dire di essere la felicità fatta persona!

16/10/2022

Diario,

questa notte è successo qualcosa a Lizzy… è tornata nuovamente molto tardi a casa, piangeva e continuava a ripetere a qualcuno dall’altra parte del telefono che non poteva più sopportare questa situazione, era stanca e voleva solo dormire. Sono sinceramente preoccupata, ma come sempre non ha voluto parlarmene; neanche quando le ho detto che avrei provato ad aiutarla in ogni modo si è voluta liberare del peso che porta nel cuore. In effetti, ora che ci penso… inizialmente non ci ho fatto molto caso, ero stanca, appena sveglia e nel bel mezzo della notte. Ma ora, ripensandoci… mi ha risposto che a quel punto neanche Dio avrebbe potuto aiutarla. Ho un brutto presentimento, molto brutto…

21/10/2022

La situazione sta diventando sempre più strana. Lizzy è tornata quella di prima. Sorridente e spensierata com’era i primi giorni in cui ci siamo conosciute. È tutto sempre più strano. Come sono strane le persone che sta iniziando a frequentare. Si è allontanata da tutti i suoi amici e ora si è avvicinata ad un gruppo di persone… diverse. Non ho una bella sensazione.

Questa sera il professore di storia inglese non ci sarà a causa di un impegno, questo mi dà il tempo di completare un nuovo saggio a cui sto lavorando per il corso di Poesia e una relazione per il corso di Letteratura Americana. Quest’anno il professore vuole concentrarsi sulla letteratura di Hemingway. Adesso stiamo affrontando “The old man and the sea”; ho finito da poco la lettura di questo racconto spettacolare. Quanto mi affascina la scrittura di questo autore, non vedo l’ora di approfondirlo.

Sono in biblioteca, ho bisogno di prendere in prestito alcuni libri per vari corsi. Sinceramente non me la sento di tornare a casa, con Lizzy e quelle persone… mi mettono i brividi. Non capisco, è una sensazione che ho provato non appena hanno messo piede nell’appartamento…

Appunto di Lizzy ritrovato in un quaderno universitario:

Sadness.
Hopes.
Will she trust me again,
After all the things I’ve done?
-E.

09/11/2022

Diario,

sono finalmente più libera dagli impegni universitari; saggi, scritti critici, composizioni. D’altro canto però, Lizzy mi preoccupa sempre di più e occupa quasi tutti i miei pensieri. Ultimamente non torna a casa a dormire, non risponde a chiamate o messaggi e quando, dopo giorni, torna, la trovo sempre più smagrita, stanca, con profonde occhiaie scure sotto gli occhi. Anche Jordan è sempre meno presente, raramente lo incontro in casa… è successo solo poche volte e l’ho trovato profondamente cambiato. Non fisicamente, non è un cambiamento apparente. È qualcosa nella sua persona che sembra diverso, forse nel suo sguardo, nei piccoli movimenti che inconsciamente una persona compie quando si trova in un luogo dove non vorrebbe essere.

Forse sto sognando tutto, forse nulla di ciò che ho scritto sopra è reale; sarò influenzata dalla preoccupazione che provo per Lizzy…

15/11/2022

Abbiamo iniziato Shakespeare al corso di Letteratura Inglese! I’m not gonna lie, è uno dei miei autori preferiti. Sono affascinata dalle tragedie; è un mondo meraviglioso, ricco di piccoli dettagli che rendono la scrittura di Shakespeare così incredibilmente significativa. Tra pochi giorni inizieremo Macbeth. Ricordo ancora la prima volta che approcciai quest’opera. Ero nella mia vecchia camera, tra le mani il volume delle tragedie shakespeariane preso dalla biblioteca di mio nonno. Pagina dopo pagina, la fermezza e la perseveranza di Lady Macbeth hanno catturato la mia attenzione sin dall’inizio. È una donna che non si è lasciata intimorire da nulla, né sovrastare dal predominio del potere maschile che al tempo regnava sovrano nella società. Queste sono, però, le stesse caratteristiche che l’hanno portata alla rovina. Lady Macbeth non sopportava il peso del delitto che lei e il marito avevano progettato e commesso, nei confronti di un uomo buono e gentile.

Lady Macbeth si toglie la vita, consumata dalla sua stessa sete di potere.

20/11/2022

Domenica, il mio giorno preferito della settimana. Ho finalmente recuperato qualche ora di sonno perso in questi giorni di lezioni interminabili.

Ieri sera ho deciso di parlare con Lizzy; la situazione stava diventando insostenibile. Ci siamo confrontate a lungo; mi ha spiegato che tutte quelle persone sono amici di Jordan, conosciuti in un nuovo centro per artisti che aveva scoperto qualche mese prima. Mi ha anche confidato che per “entrare” in questo gruppo bisogna affrontare una cerimonia di iniziazione. Ho sentito un brivido lungo tutta la schiena; il modo in cui ha pronunciato quelle parole, il suo sguardo che è improvvisamente diventato vuoto. È stato un solo attimo, poi ha continuato a parlarmi come se nulla fosse successo. È stata solo una mia percezione??

La detective Campbell chiuse il piccolo oggetto che da ore stava sfogliando, ripetutamente, in cerca di un indizio, una traccia qualsiasi che potesse condurla a comprendere l’accaduto. Questo diario dava molti spunti di riflessione alla giovane detective; Miriam ripensò al lungo interrogatorio di Jordan Foster, il fidanzato di Elizabeth Wright. Pensieri veloci scorrevano nella mente della detective. Tra le mani aveva uno dei casi più difficili a cui avesse mai lavorato; si sentiva pronta, eppure l’agitazione penetrava ogni suo muscolo. Ogni cellula del suo corpo fremeva. Voleva chiudere il caso; le famiglie delle vittime erano distrutte, le si stringeva il cuore ripensando alle lacrime dei genitori quando aveva comunicato loro la notizia; lei però doveva concentrarsi. Lo doveva a loro; lo doveva a quelle povere ragazze.

La scena del delitto era già stata controllata più e più volte, dalla stessa Miriam e da altri poliziotti dello Scotland Yard presenti durante le indagini. Secondo le ricostruzioni, non ancora ufficiali, della vicenda, il giovane si era introdotto nell’appartamento di sera con la scusa di recuperare dei vestiti dalla camera della fidanzata. Secondo i programmi, sarebbero dovuti andare a cena fuori e poi si sarebbero trovati con degli amici di lui, probabilmente gli stessi amici descritti nel diario di Beatrice.

Jordan affermava di aver trovato le due ragazze già morte quando era entrato in casa, usando le chiavi che Elizabeth gli aveva lasciato. Il ragazzo restava comunque il principale sospettato. Chiudendo il diario, Miriam si rese conto dell’ora. Le 2:20 del mattino. Non riuscì a dormire quella notte. Le stava sfuggendo qualcosa, ne era sicura; un pezzo di quell’infinito puzzle che era la verità le mancava, solo che non sapeva come e dove cercarlo.

L’indomani si recò sul luogo delle indagini. Prima di entrare nell’appartamento fece un respiro profondo. Entrando, notò subito la scientifica alle prese con il soggiorno, dov’erano stati ritrovate le due ragazze. Sentiva ancora quella sensazione della notte precedente; la verità stava lentamente scivolando via. Miriam decise di controllare nuovamente quel posto, come se non fosse mai entrata lì prima, come se fosse la prima volta. Doveva concentrarsi su ciò che non era ovvio o scontato.

Ripensando al diario di Beatrice, decise quasi involontariamente di dirigersi verso la libreria del salotto. “Una bella collezione” pensò subito, sfiorando con le mani guantate i dorsi dei libri perfettamente ordinati. L’occhio le cadde sulla collezione dei volumi di Shakespeare; la detective ricordò che Beatrice stava studiando Shakespeare all’Università in quel periodo. Si recò verso quella sezione e notò un buco tra il “King Lear” e “Anthony and Cleopatra”. Non era mai stata appassionata di letteratura, e di certo non poteva sapere quale opera shakespeariana mancasse alla collezione. Si sfilò velocemente il guanto e cercò su Google la lista completa delle opre dell’autore inglese. Controllò i libri uno ad uno, fino ad arrivare al volume mancante; Macbeth. Nella libreria non era presente. Poteva trovarsi solo in camera di Beatrice. L’istinto di Miriam le suggeriva che valeva la pena seguire questa pista, e così fece. Andò in camera della ragazza e lo vide, impilato sulla scrivania insieme ad un sottile libricino di Hemingway e altri volumi. Senza pensare, come se fosse guidata da una forza esterna, aprì il libro. Un piccolo pezzo di carta scivolò sul pavimento, silenzioso. Inizialmente non fu notato da Miriam e rimase lì, sul pavimento. Nel frattempo la detective, sfogliando le pagine e leggendo distrattamente le varie note scritte a mano ai margini, notò che una pagina era stata segnata.

SEYTON

The queen, my lord, is dead.

MACBETH

She should have died hereafter.
There would have been a time for such a word-
Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow.
Creeps in this pretty pace from day to day
To the last syllable of recorded time;
and all our yesterdays have lighted fools
The way to dusty death. Out, out, brief candle!
Life’s but a walking shadow, a poor player
That struts and frets his hour upon the stage
And then is heard no more. It is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury
Signifying nothing.

Una lacrima scese lungo la guancia di Miriam. Quelle parole l’avevano colpita profondamente, ma la nota a margine che accompagnava quei versi le fece gelare il sangue:

My time is coming
sooner than I thought.

Questa era la stessa scrittura del diario, la scrittura di Beatrice. La ragazza era consapevole di essere in procinto di morire? Se sì, com’era possibile? Qualcuno l’aveva minacciata? Jordan? Uno dei suoi amici? Elizabeth aveva cercato di avvertirla in qualche modo?

Chiuse il libro e si appoggiò alla scrivania; mille ipotesi, domande, pensieri fluivano correndo veloci. Miriam chiuse gli occhi. Questo complicava tutto. Aprendo gli occhi notò il foglietto fino ad ora ignorato, che era rimasto sul pavimento della camera.

Quel pezzo di carta apparteneva alla pagina del diario, la carta era la stessa. La detective era sicura di questo perché aveva maneggiato parecchio l’oggetto negli ultimi tre giorni.

Traduzione italiana della nota ritrovata nella copia del Macbeth appartenuta a Beatrice:

Questa nota è per Jordan, Michael e Susanne.
L’atto è compiuto, lei è morta.
Avete scelto una vittima per me, io ho obbedito ai vostri ordini.
Vederla lì, sul pavimento del nostro salotto, senza vita (vita che io le ho tolto!) mi ha destata dal sonno ipnotico in cui ero entrata.
La cerimonia che tanto bramavate è stata realizzata;
ma lei era mia amica.
Non posso vivere sapendo quello che ho fatto, quello che ho fatto per te, Jordan. Solo per te.
Addio,
Elizabeth.

*

Bibliografia:

William Shakespeare, Macbeth, Milano, Mondadori, 2021.

Wilfred Owen, Dulce et Decorum Est, https://www.raicultura.it/webdoc/grande-guerra/battaglia-somme/pdf/WilfredOwen.pdf

Haerēre

Guglielmo Ferroni rivisita la tendenza molieriana di rarefazione della trama di commedie, come Il Misantropo, in una pièce in cui verità e scherzo condividono labili confini, nell’ottica del corso di Letterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“In questa breve pièce ho cercato di colorare di un tono teso e angosciante, attraverso un espediente semplice, una situazione frivola e priva di interesse e di profondità psicologica, facendo girare attorno al protagonista una schiera di maschere insipide e quasi irreali”.

*

Personaggi (in ordine di apparizione):

Una pecora in tassidermia

Elettra, cameriera e governante

Panfilo, giovane

Elvira, amante di Panfilo

Ettore, giovane, amico di Panfilo

Mercede, madre di Panfilo

Il Padrone, padre di Panfilo

Padre Evaristo, prete

Un cuoco

Interno di un salotto borghese parigino. Costumi e ambientazione in stile inizio Ottocento. Al centro della scena, un tavolo apparecchiato solo in parte. Dal soffitto pende, sopra il centro del tavolo, una pecora in tassidermia, grazie ad una corda che la tiene legata per una zampa posteriore, di modo che l’animale è in verticale e con il muso rivolto verso il pavimento; è libera di oscillare, ed è sospesa a circa un metro dal tavolo. Gli attori devono dare l’impressione di non accorgersi della presenza della pecora, né devono esserne turbati nel modo di recitare e negli spostamenti, salvo differenti indicazioni.

Sipario abbassato; inizia a suonare il I movimento della Sinfonia numero venticinque (K183) di Mozart. Il sipario si alza lentamente e due faretti posti al livello della scena, uno a destra e uno a sinistra, iniziano a lampeggiare ritmicamente. Dopo quaranta secondi o poco più si accendono le luci di scena e illuminano il palco. Dopo ancora qualche secondo, entra Elettra da destra, con in mano una pila di piatti; la musica continua ma a volume ridotto.

ELETTRA: Forza, non c’è un momento da perdere; il campanile ha da poco dato il suo rintocco, il sole schiarisce tutti gli angoli della stanza e il Padrone starà ormai rientrando… piatti, piatti, e i bicchieri, oh quante cose! C’è da sperare solo che quel ragazzaccio del cuoco non sia in ritardo nel preparare le pietanze, altrimenti chi lo sente, il Padrone? Io l’ho detto, fin dal primo momento, l’ho detto, io, che il ragazzo era un buono-a-nulla, ma chi la ascolta, Elettra? Ma io blatero, mentre il tempo scorre, e quanto scorre!

(La musica cresce di volume. Elettra inizia a mettere i piatti in tavola e ad apparecchiare con attenzione, mentre mormora tra sé e sé parole che non si sentono, e si muove veloce ma aggraziata; nel mentre, da sinistra entra, correndo delicatamente, Elvira, seguita da Panfilo. I due si rincorrono per qualche secondo senza parlare, solo ridacchiando ogni tanto. La musica si abbassa di volume e va a sfumare).

PANFILO: Elvira, smettila di farti rincorrere, aspettami! Ah, quant’è difficile il lavoro dell’amante, sottostare al padre e alla madre e perfino rincorrere l’amata come a una battuta di caccia… (Prende il braccio di Elvira, che si divincola ridendo e continua a farsi inseguire per gioco). Basta, rondine impazzita, fermati, fermati e fammi guardare quegli occhi che sembran mandarini… (Elvira esce da destra, Panfilo si abbandona con un sospiro su un divano che è in primo piano, sulla destra). Elettra, quanta grazia, quanta allegria oggi! Che quel nuovo cuoco ti abbia messo qualcosa di diverso dal solito, nel caffè?

ELETTRA (ironica): Quel cuoco non l’ha fatto e non me ne rammarico, signor Panfilo, visto che, come fin dall’inizio Elettra vi aveva fatto presente, egli combina solo guai. Non sono allegra, ma in ritardo! Piuttosto voi, la volete smettere di correre dietro a quella ragazza? Sono giorni che va avanti, e nel vostro viavai mi scombinate tutti i mobili e mi sporcate i pavimenti e…

PANFILO: Suvvia, non vi si può fare un appunto che subito vi mettete a punzecchiare!

ELETTRA: E sia, ma vedete di mettervi in ordine prima che il Padrone arrivi; sapete com’è quando…

PANFILO (stupito, guardando la pecora): E quella? Da dove spunta fuori?

(Pausa)

ELETTRA: Non capisco, signore.

PANFILO: Ma come non capite, Elettra! (Si alza di scatto e si muove verso il tavolo) Non state a prendermi in giro, o a far finta di nulla.

ELETTRA (verso il pubblico): Puah, prenderlo in giro… Davvero, signor Panfilo, io non capisco a cosa stiate facendo riferimento, e per di più sono troppo occupata per star dietro alle vostre sciocchezze.

PANFILO (indicando la pecora): Sciocchezze? E quella vi pare una sciocchezza?

(Elettra segue con lo sguardo la direzione verso cui il suo dito punta, guarda verso la pecora, poi guarda il pubblico, poi Panfilo)

ELETTRA: Lei sragiona e indica il nulla, signore. (Pausa) “A vous dire le vrai, les amants sont bien fous!”. Ora, se permettete, vado a prendere le posate per il pranzo… (Si allontana lentamente, guarda ancora una volta il giovane stranita e poi esce da destra; Panfilo, confuso, la guarda uscire e poi torna a guardare la pecora).

(Pausa)

PANFILO: Che sia… per caso… ma no, Panfilo, cosa vai a pensare! Chiaramente lo scherzo è ben riuscito. E che scherzo, davvero! Me la immagino per bene Elettra, o vai a sapere chi, girare tutte le botteghe della città per trovare questa… pecora! Certo mi rimane da capire perché, ma per il resto… ah, ma ecco che arriva Ettore.

(Entra Ettore, un giovane amico di Panfilo, ben vestito e baldanzoso)

ETTORE: Buongiorno, Panfilo. Deh, ma che pallido che siete oggi.

PANFILO: Su, Ettore, dimmi la verità, non mi si può gabbare a tal punto.

ETTORE: Non ti seguo.

PANFILO: C’è da dire, l’idea è originale, e mi chiedo cosa abbia spinto Elettra o te o vai a sapere chi a metter tanta cura nella preparazione dello scherzo, ve lo concedo… Ma ora basta e dammi una mano a tirarla giù, che quando arriverà mio padre non voglio che un oggetto di così cattivo gusto penda sopra la sua testa. (Pausa. Ettore guarda Panfilo non capendo) E va bene, stiamo al gioco. (Sospira) Ettore, buongiorno, per caso guardandovi intorno notate qualcosa di strano nella stanza, qualcosa che pende?

(Pausa. Ettore si guarda intorno)

ETTORE: Io davvero non… non capisco… cos’è questa cosa che pende? State parlando del lampadario per caso? Non sapevo lo disprezzaste a tal punto, e l’altro ieri quella giovane ragazza che avete preso con voi da poco è stata così tanto a lustrarlo, pendente per pendente; ma se davvero non lo sopportate…

PANFILO: Ettore! Basta! Ve l’ho detto, siete stati bravi e sebbene tu sia solo il secondo di oggi che sento recitare, perché sono convinto che Elettra o mia madre o… Ma non importa! Sì insomma state tutti facendo un’ottima prova da attori, ma basta, aiutami a tirarla giù o lo farò da solo.

(Pausa. Ettore guarda la stanza senza capire)

ETTORE: Panfilo, io non… Cosa volete tirare giù?

PANFILO (urlando): La pecora, Ettore! Questa maledetta pecora che vedi tu stesso, di fronte a te! PE-CO-RA.

(Pausa)

ETTORE: Amico mio, se state scherzando lo state facendo bene. E anzi, a dirvela tutta mi stavo quasi preoccupando! (Scoppia in una risata; poi si avvicina a Panfilo e gli dà una pacca sulla spalla) Suvvia, ora basta, ero passato per vedere come fosse la vostra salute e per sapere se foste infine giunto a una decisione sul matrimonio con Elvira, ma evidentemente (ridacchiando), evidentemente siete troppo impegnato con le vostre… pecore, o che so io! Beh, sempre meglio avere le pecore per la mente che le corna in testa… (ridendo) Vi saluto, Panfilo, e portate i miei saluti anche a vostro padre, mi è stato detto che sta arrivando; arrivederci a tra poco… (Esce da destra, sempre ridacchiando e ripetendo sotto voce “Le pecore… le pecore…”).

(Panfilo, immobile, guarda Ettore uscire. Pausa. Poi si gira verso il pubblico)

PANFILO: Sono… sono… (pausa) Sono tutti ammattiti, ecco cosa sono! Ma io dico, è mai possibile? Basta, questa scenata deve finire.

(Va verso il tavolo, guarda la pecora. Poi, sale in piedi su una sedia e si accinge a slegare il nodo che la tiene legata per la zampa. Entra Elettra, con le posate in mano)

ELETTRA: Panfilo, ma che state facendo! Su, forza, giù di lì. Sporcate la sedia con i vostri stivali, ma insomma! Che vi prende?

PANFILO: Elettra, devo ammetterlo, vi siete superata! Sì, è venuto veramente bene; è di buona fattura, e questa corda legata stretta stretta, e anche l’odore che emana, tutto davvero ben studiato, ma ora basta, la tiro giù.

ELETTRA: Ah, Panfilo, sempre a scherzare… ma che pallido che siete. Su, venite giù. (Inizia a mettere le posate di fianco a ciascun piatto)

PANFILO (a voce alta): No. Non scendo. Non finché non l’ho tirata giù e non mi raccontate il perché di tutta questa faccenda.

(Pausa)

ELETTRA: Ma cosa, cosa volete tirare giù? Smettetela di far finta di essere impazzito, sapete che su queste cose non si scherza! Ricordo di un mio zio, tempo fa, che…

PANFILO: Basta! Silenzio, taci! Tirerò giù questa pecora e tu la porterai via! Non sarò il padrone, o meglio non ancora, ma non mi si può mancare di rispetto così, anche se solamente per scherzare!

(Pausa. Elettra fissa Panfilo. Silenzio prolungato)

ELETTRA: Cheeeee? Una pecora? (Si mette a ridere) Questa vi è davvero uscita bene, signore! Vi va bene che oggi la giornata è bella e che sono di buon umore, altrimenti… cavolo, mi stavate spaventando! (Ridacchia ancora) Ora basta però, scendete da lì che devo…

(Panfilo salta dalla sedia al tavolo e sbatte il piede con prepotenza su di esso)

PANFILO (urlando): Smettetela! Come potete ancora fingere, schiava! Come osate appendere un animale morto sopra le teste di coloro che vi danno da vivere! Che il diavolo ti prenda, maledetta!

(Mentre urla, entra Mercede da destra. Donna sulla quarantina, vestita elegante)

MERCEDE: Allora, che cos’è tutto questo urlare, cosa accade? (Vede Panfilo in piedi sul tavolo) Figlio mio, che ci fai sul tavolo? Perché sbraiti tanto? E tu, Elettra, non gli dici niente?

(Elettra guarda un po’ impaurita Panfilo, che la sta fissando. Dopo una breve pausa, si sposta indietro e verso Mercede)

ELETTRA: Signora, stavo giusto per chiamarvi; già ho cercato, di farlo ragionare, ma egli per tutta risposta mi ingiuria e mi urla contro, al punto che sono indecisa tra la rabbia o la paura, perché è evidente che sia impazzito.

(Pausa. Mercede si avvicina sospettosa verso Panfilo, ed entrambi si fissano)

MERCEDE (lentamente): Ci guardiamo come fiere sospettose, figlio mio; perché mai?

PANFILO (calmo ma teso al tempo stesso): Non lo so, madre, ditemelo voi, ditemelo proprio voi che tirate in ballo queste metafore e parlate di fiere. Non ditemi, ve ne prego, che anche voi avete accettato di far parte di questo insulso scherzo che mi sta snervando. E non ditemi che voi stessa, padrona di casa, moglie di mio padre, avete accettato che questa carcassa pesasse sulla sua, sulla nostra testa, senza pensare alle conseguenze di un gesto tale!

(Pausa)

MERCEDE: Figlio… (pausa). Quale scherzo, quale carcassa?

PANFILO (urlando): Ci risiamo! Ancora! (Batte il piede sul tavolo come prima) Anche tu, Mercede, madre mia! Do i numeri, divento cieco per la rabbia… Com’è possibile che siate tutti così seri! Così convincenti! E per quale motivo mi arrecate tanto dolore… Ah, ma ecco chi mi salverà! (Indica verso la sinistra) Su, vieni Elvira, e facciamola finita con questa farsa, con questa commedia.

(Entra Elvira con le mani in grembo, a capo un po’ chino, evidentemente intimorita dalle grida di Panfilo)

ELVIRA: Eccomi, Panfilo, ho sentito da sopra tutto questo baccano e… Elettra, Mercede, che vi accade? Vi vedo così turbate… e anche tu, Panfilo, ma cosa…

(Viene interrotta da Panfilo che salta giù dal tavolo e corre verso di lei. Elvira si ritrae un po’ impaurita. Panfilo la raggiunge e le prende le mani)

PANFILO: Elvira, Elvira, io… come posso… (si guarda intorno, guarda la pecora, poi di nuovo Elvira negli occhi) Almeno tu, finiamola. Dillo. Dì ciò che vedi nella stanza, sopra il tavolo, per esattezza, su, basta una singola parola.

(Pausa, Elvira si guarda intorno)

ELVIRA: Panfilo, io non ti seguo.

PANFILO (urlando, e spaventando per questo Elvira): Non è possibile. Non è possibile, dovete spiegarvi, dovete spiegarmi, io non ce la faccio più, Elvira! Smettetela! (Pausa. Poi con tono supplichevole) Elvira, rondine, te ne prego… fatela finita, fate finire tutto. Se è vero che mi amate, se tutte quelle risate e quelle lacrime non sono state finte promesse, dite ciò che vedete. Ditemi che quella pecora è uno scherzo, e che voi ed Elettra siete andate da un… venditore di pecore, o che so io… (Pausa. Elvira tace) Dunque…

ELVIRA: Panfilo, oggi è la prima volta che vi vedo in questo stato. Avete la febbre, delirate? Quale pecora, quale venditore… Elettra, ne sapete qualcosa? Io penso che la stanchezza, magari… Ma non spiegherebbe delle allucinazioni tali, e poi dove sarebbe, questa pecora? Starebbe ruminando liberamente, magari mangiando il tappeto che è lì vicino al tavolo… ah!

(Mentre parla, cresce la rabbia in Panfilo. Alla fine, è sul punto di tirarle uno schiaffo, ha già alzato il braccio per colpirla. Elvira, spaventata, si ritrae; Panfilo rimane qualche secondo fermo con il braccio alzato, poi lo abbassa e china il capo. Pausa. Dopo qualche secondo, sempre a capo chino, si dirige verso il divano e vi ci siede sopra, con la testa tra le mani. Elvira, Elettra e Mercede si avvicinano e iniziano a borbottare parole incomprensibili. Dopo qualche secondo, si sentono le voci di due uomini che discorrono e che si fanno sempre più vicine. Entrano da destra, da dietro al divano, il Padrone e Padre Evaristo, un prete)

PADRONE: Ed è per questo, padre, che decisi di ringraziare in tal modo il curato, sapete…

PADRE EVARISTO: Certo, signore.

PADRONE: D’altronde, mi sarebbe altrimenti sembrato di mancar di rispetto… Ah, buongiorno a tutti, qui riuniti! Mi sembra manchi solo Ettore, ma possiamo già accomodarci a tavola, e perdonatemi se senza preavviso Padre Evaristo si unirà al nostro pranzo, ma si deve discutere di certe cose… Ma che accade, vi vedo turbati! Donne, perché state là in disparte… (pausa, poi nota Panfilo sul divano) E Panfilo, figlio mio, che vi succede? State per caso male?

ELETTRA: Signore, vedete, è già da prima che…

PANFILO (urlando, sempre con la testa tra le mani): Taci! (Pausa, poi rialza la testa e guarda suo padre e padre Evaristo) Buongiorno signori, perdonatemi, è da tutta la mattina che sono perseguitato dal mal di testa.

PADRE EVARISTO: Si vede, figliuolo! Siete così pallido, quasi candido…

PANFILO: Sarà la primavera che giunge, padre, non c’è da preoccuparsi. Ma prego, accomodatevi a tavola, arrivo in un attimo.

(Il Padrone e Padre Evaristo si guardano velocemente, poi guardano le donne. Nel mentre, da sinistra entra Ettore)

PADRONE: Ah, Ettore, aspettavamo solo voi!

ETTORE: Eccomi, buongiorno a tutti, ero giusto uscito per delle commissioni.

PADRONE: Bene, allora direi di sederci, signori.

(Il Padrone, Padre Evaristo, Ettore, Mercede ed Elvira si muovono verso il tavolo, mentre Elettra si affretta a mettere in ordine le sedie, i piatti, i bicchieri, per poi uscire di scena dopo aver lanciato un’ultima occhiata a Panfilo. Panfilo rimane ancora sul divano, nuovamente con la testa tra le mani. I convitati si siedono in modo che tutti i posti sono occupati tranne quello centrale, ossia quello che dà la fronte al pubblico, ed è in linea con la pecora. I convitati iniziano a parlare tra loro sottovoce; le donne in modo preoccupato e guardando Panfilo, gli uomini in modo allegro).

ETTORE: Panfilo, allora, che fate? Vi decidete a venire a sedervi con noi, o ancora pensate allo scherzo di poco prima, con cui mi avete burlato?

PADRONE: A cosa vi riferite, Ettore?

ETTORE: Oh beh, vedete, signore, vostro figlio stamattina mi ha quasi fatto credere che solo lui fosse in grado di vedere, sopra il tavolo, una pecora, come se fosse attaccata al soffitto! Va detto, la creatività non gli manca…

PADRONE: Cosa? Una pecora? (Guarda la pecora per qualche istante, poi Ettore, poi Padre Evaristo, seduti di fianco a lui, e poi si rivolge al pubblico) Che assurdità!

PANFILO (si alza dal divano, guarda il pubblico; tono grave): Che assurdità… Mansueto e pacifico, oggi sopporto le offese… eppure si crea il vuoto, intorno a me, è il fuoco che mi isola nel campo… quella sensazione…

(Si dirige verso il tavolo. Arrivato, guarda la pecora, dando le spalle al pubblico, e le dà una spinta, di modo che essa inizi ad oscillare. Solleva le spalle e va a sedersi al posto che è rimasto libero. Da destra entra un cuoco, portando un vassoio con sopra della carne, che pone al centro del tavolo, sotto il muso della pecora; poi esce)

PADRONE: Signori, mi avvantaggerei della presenza di padre Evaristo per recitare una breve preghiera. Uniamo le mani.

(I convitati uniscono le mani, e chinano il capo, tutti tranne Panfilo, che fissa la pecora)

PADRE EVARISTO (con tono sommesso e monotono): “Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis…”

TUTTI, tranne PANFILO: “Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis. Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem”.

(Si fermano. Silenzio. Panfilo guarda il pubblico)

PANFILO: Occhi come mandarini. (Pausa).

Quella sensazione di

giorni verdi

e acerbi come cachi

e il rumore del

crollo delle certezze

arbusti a sud, fichi spaccati

e il prurito

perché abbiamo sudato.

E pace sia.

Riprende, a volume basso, la sinfonia di Mozart dell’inizio. Le luci vanno a sfumare, fino a spegnersi. Dopo che si sono spente del tutto, i due faretti dell’inizio pulsano ritmicamente per qualche secondo. La musica finisce, sipario.

Il male a fin di bene

Laura Rossotti intende mostrare in questo racconto le sfumature del male in relazione a un determinato tipo psicologico: il misantropo, un essere dotato di altrettante sfaccettature, dall’omicidio, al confronto, all’analisi della coscienza e della vita. La riscrittura è stata svolta nell’ottica del corso di Letterature comparate B, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi).

 “Mentre tutti stavano festeggiando silenziosamente e gioendo segretamente nel proprio cuore per la morte di un uomo, l’assassino di quest’ultimo si trovava accasciato sul divano di casa sua”

*

Timore e sconcerto opprimevano gli animi dei cittadini, insieme alla consapevolezza di impotenza nei confronti di un’entità molto più forte di loro ed estremamente pericolosa. “Ci serve aiuto”, “qualcuno che possa fermarlo”, “altrimenti chissà quale destino buio ci attenderà”: ecco i normali e ripetitivi pensieri di una comunità che nel frattempo se ne stava con le mani in mano, senza azzardare una mossa concreta. Insomma la resistenza contro i mali della società era piuttosto debole, praticamente inconsistente, e pur essendo tali misfatti deplorati e condannati da tutti, essi esistevano ed è questo il grande paradosso tipico delle calamità provocate dall’uomo.

Il tiranno Macbeth continuava infatti indisturbato la sua guerra, bramando una posizione di indiscutibile superiorità e invincibilità sui popoli che intendeva travolgere e sottomettere, seminando morte e disperazione a ogni attacco. In realtà il terribile dittatore assaporava già la sua forza illimitata e si sentiva ormai da tempo inarrestabile: come girava la voce, Macbeth aveva dalla sua parte il favore di tre streghe che gli comunicavano esclusivamente fauste profezie. Esattamente come diversi mesi dopo si poté verificare, grazie al ritrovamento di una lettera scritta dal perfido tiranno e indirizzata a sua moglie, Lady Macbeth, che si riporta in seguito.

“Mia adorata,

Ti scrivo per informarti di una nuova e certamente propizia apparizione delle streghe: questa volta non ho dubbi sul significato delle loro parole e dunque ti annuncio il nostro successo assicurato. Così le tre vecchie donne mi parlarono: “Salute, Macbeth! Salute a te Re del mondo! Macbeth, Macbeth, guardati dall’uomo condannato ad odiare e amare allo stesso tempo! Devi essere spietato, risoluto e sanguinario. Finché sveglio e cosciente nulla potrà contro di te, nessuno tenterà alla tua vita. Altrettanto salvo e quieto sarai quando deciderai di dormire!”.

Ovviamente ero curioso di saperne di più, ma dovetti accontentarmi per via dell’usuale sparizione delle streghe che segue la rivelazione. Spero di averti tranquillizzata con queste magnifiche notizie, dal momento che non devo temere per la mia vita né da sveglio né da addormentato!

Aspetto con ansia il nostro prossimo incontro durante il quale ti mostrerò orgoglioso le nuove terre conquistate.

Ciò che ti ho confidato in questa lettera tienilo per te soltanto.

A presto”

Fu il ritrovamento di questa lettera a sconvolgere ulteriormente i ragionamenti e le ipotesi dei cittadini, che a seguito della morte di Macbeth si erano prodigati ad esporre personali interpretazioni della vicenda, che di per sé risultava apparentemente inspiegabile e totalmente irrazionale: il corpo del tiranno fu infatti rinvenuto esanime nella sua sfarzosa dimora in collina, più precisamente nel suo ufficio e presso la scrivania. Esso non riportava alcuna ferita superficiale e la decisione di etichettarla come una morte avvenuta per cause naturali fu confermata una volta a conoscenza della profezia delle streghe.

Forse qualcuno aveva intuito la verità sull’accaduto e la reale causa del decesso, ammettendo l’esistenza di un assassino; tuttavia la caduta di quel governo del terrore aveva significato immediatamente libertà e fine delle sofferenze, permettendo all’intero genere umano di tirare un enorme sospiro di sollievo.

Mentre tutti stavano festeggiando silenziosamente e gioendo segretamente nel proprio cuore per la morte di un uomo, l’assassino di quest’ultimo si trovava accasciato sul divano di casa sua. I suoi occhi non esprimevano alcun tipo di emozione o pensiero, si sentiva vuoto e non provava la minima esigenza fisica; egli giaceva immobile nella stessa posizione ormai da ore, da quando era rincasato dopo aver compiuto l’omicidio. Di tanto in tanto quello stato di trance si interrompeva e i ricordi delle sue più recenti e biasimevoli azioni gli scorrevano davanti agli occhi come un treno veloce e inarrestabile. Si rivedeva mentre alcune settimane prima veniva assunto come cameriere a servizio di Macbeth, dopo essersi presentato con identità e informazioni false; poi quando acquistò presso un’apoteca ambulante del sonnifero e un veleno letale. Infine ripercorreva i movimenti del giorno prima, come servì tranquillamente il tiranno all’ora di pranzo e come più tardi gli porse gentilmente un bicchiere di acqua calda mescolata a un “infuso energizzante”, ma che in realtà, ovviamente, conteneva il sonnifero. Dopo aver sorseggiato quella miscela, Macbeth non poté resistere all’effetto del medicinale e nonostante il lavoro che avesse da sbrigare, fu costretto a lasciarsi andare ad un sonno pesantissimo. Dopodiché l’assassino gli somministrò il veleno e il tiranno morì nel sonno, inconsapevolmente e senza provare dolore.

L’ennesimo treno di pensieri e ricordi sfrecciò da una parte all’altra della sua mente riempendo il suo cuore di tristezza e svuotandolo subito dopo, per lasciare posto al conseguente stato di trance. Questa volta però qualcuno bussò improvvisamente alla porta.

Entrando, il nuovo arrivato salutò l’amico: «Ciao Alceste».

Raskol’nikov varcò la soglia e si mise comodo su una sedia.

«Chi ti ha dato il permesso di entrare Rodion?».

«Lo so che è strano detto da me, ma se non vuoi che qualcuno entri allora forse dovresti chiudere la porta a chiave».

Alceste non rispose e si limitò a fissarlo in attesa che palesasse il motivo della sua visita.

«Mi sembra di notare che tu stia bene amico mio e di ciò mi rallegro molto», disse Raskol’nikov con leggera meraviglia e quasi con una punta di delusione, che Alceste non mancò di notare.

«Non sembri così felice della mia buona salute come dici di essere… Speravi dunque che io stessi male? E per quale motivo poi?»

«Non me ne volere, d’altronde sarai sicuramente a conoscenza della morte di Macbeth, un evento a cui si può attribuire un rilievo epocale, e di come questa abbia sorpreso tutti quanti. Perciò come minimo mi aspettavo di vedere una qualche reazione sconcertata da parte tua, mentre ti ritrovo qui in assoluta tranquillità».

Qualcosa nel suo modo di parlare non convinceva Alceste. Riteneva Raskol’nikov una persona intelligente e sentiva di potersi fidare di lui, nonostante non lo stimasse e lo considerasse per certi versi ambiguo e crudele. Poteva anche darsi che sospettasse già, e chissà come, di lui e di ciò che aveva compiuto, dal momento che era venuto visibilmente per parlare del recente caso di morte. Conoscendolo, pensò comunque che avrebbe potuto persino discuterne ragionevolmente con lui e che egli non l’avrebbe biasimato. Infine aveva davvero bisogno di qualcuno che valutasse la sua scelta e ascoltarne poi l’opinione.

«Secondo te – ricominciò Raskol’nikov, incalzato dal silenzio dell’amico – è davvero morto per cause naturali oppure…»

«L’ho ucciso io», lo interruppe Alceste vedendo che ormai quella recita stava diventando ridicola da entrambe le parti e non volendo perdere ulteriore tempo.

Come c’era da aspettarsi, Raskol’nikov non fu minimamente scioccato dall’improvvisa confessione, quando chiunque altro al posto suo sarebbe stato incredulo e sarebbe scoppiato a ridere, oppure sarebbe sbiancato senza riuscire a proferire parola. Egli invece rispose immediatamente rivelando i suoi pensieri con estrema onestà e razionalità.

«Caro Alceste, ti domando scusa per averti preso in giro fino ad ora e ti assicuro che da qui in avanti sarò chiaro e trasparente riguardo a ciò che penso; ovviamente non ci sono prove per dichiararti colpevole ma conoscendo il tuo carattere e i tuoi ideali potevo indovinare facilmente che si fosse trattato di te. Io non ti giudico e anzi ti comprendo pienamente; infatti il motivo essenziale per cui ho capito che l’assassino eri tu, sta nel fatto che io e te ci somigliamo molto e io mi sarei comportato nello stesso modo qualora mi si fosse presentata un’occasione ideale».

Alceste ascoltava con attenzione le parole dell’amico e quando questi faceva delle pause, lo pregava di continuare. Voleva sapere ogni singola cosa che Raskol’nikov pensava, poiché, contrariamente a ciò che poteva sembrare, Alceste teneva in alta considerazione le opinioni altrui; tuttavia vi erano aspetti contrastanti nel suo carattere, per cui se da una parte egli desiderasse essere apprezzato e a sua volta ammirava sinceramente le qualità di certi individui, dall’altra perdeva costantemente speranza nel genere umano, rimanendo deluso ogni qualvolta che avesse provato a fidarsi; tant’è che era nato in lui ormai da tempo un certo odio, un odio che si era sviluppato di giorno in giorno, facendogli provare una sorta di ribrezzo per la vicinanza con chiunque e che l’aveva portato inevitabilmente ad allontanarsi e isolarsi. Per questo dunque Raskol’nikov, individuo piuttosto schivo e solitario, poteva forse dire di poterlo capire alla perfezione.

«Non ti biasimo per le tue azioni, caro Alceste, e anzi approvo la tua decisione e la tua determinazione. Ovviamente non ti denuncerò e mai nessuno che venga a sapere della verità dovrebbe farlo, dal momento che sarebbe un’ingiustizia bella e buona, compiuta nella falsità più totale. Sì, perché devi sapere che non vi è cittadino del popolo che non ti sarebbe grato per aver ucciso Macbeth, anche se non lo ammetterebbe mai e sarebbe perfino capace di condannare il proprio salvatore all’insegna di una falsa moralità di cui vuole farsi portatore agli occhi della società, con lo scopo di ricevere approvazione. Mentre qui, Alceste, dovresti essere tu l’unico a ricevere i meriti della questione ed è triste essere un eroe all’insaputa di tutti. Sai, nella mia visione del mondo è giusto che certi uomini, superiori rispetto ai semplici uomini comuni, compiano azioni che questi ultimi non possano; ovvero questa categoria di superuomini, all’interno della quale includo te e il sottoscritto, avrebbe il diritto di agire come vuole, violando la legge ma senza venire punito da essa, per raggiungere obiettivi di ampia portata che abbiano a che fare con il bene della comunità, se non dell’umanità. Dunque Alceste, tu sei pienamente giustificato e l’omicidio che hai compiuto lo si può vedere come un normale dovere svolto nel tuo lavoro di superuomo. Non lasciare che la morte di Macbeth ti appesantisca la coscienza, perché, piuttosto, ti saresti dovuto sentire in colpa se non l’avessi ucciso e ora staresti continuando ad assistere inerme alle sue malefatte. Guarda dunque al futuro luminoso che hai regalato a tutti noi e continua con me quest’opera di disinfestazione del male che avvelena la società».

Alceste rifletté per qualche minuto in silenzio ripercorrendo e analizzando il lungo discorso di Raskol’nikov. Non si riconosceva nel profilo che l’amico aveva tracciato di lui ed era quasi terrorizzato dall’eventualità di poter apparire realmente in questo modo. Finalmente si decise a rispondere:

«Io non credo di essere uguale a te Rodion. Sono onesto e devo ammettere che non mi pento di ciò che ho fatto. Tuttora sono convinto che fosse l’unica soluzione per fermare Macbeth e con lui tutto il dolore e la morte che stavano distruggendo la popolazione e minacciando l’intero genere umano…

Devi sapere che fino a poco tempo fa mi ero stancato di vivere una vita falsa, colma di infelicità e delusioni, tante sono state le volte in cui mi sono fidato di qualcuno e puntualmente mi dovevo ricredere. Ti confesso che molteplici e difficili sono stati i momenti in cui sentivo il cuore opprimermi nel petto al punto di volermelo quasi strappare per eliminare per sempre quella sensazione di soffocamento, ponendo fine alla mia esistenza. Tuttavia, e questo è un fatto che davvero non riesco a spiegarmi, quando non si tratta della mia sofferenza ma di quella altrui, specialmente delle persone più deboli, indifese e innocenti, siano esse le medesime che mi avevano deluso un attimo prima, ho l’esigenza di fermarla, non nello stesso modo in cui fermerei la mia, ma facendo il possibile per risolvere qualsiasi problema si ponga tra quelle persone e la felicità. Ed è quindi poi quando riesco finalmente a contribuire alla serenità di qualcuno che riesco a sentirmi felice e appagato. Dunque sì, ho agito per il bene dei più, ma sacrificando una persona e compiendo un atto atroce, tale è l’omicidio di un essere vivente. Sono perciò colpevole e non sono meritevole di niente. Continuo a rattristarmi profondamente per la scelta che ho dovuto prendere e il senso di colpa graverà per sempre sulla mia coscienza.

Ora però Rodion, ho realizzato che la vita è un privilegio, e se non piace quella che si ha, è comunque inutile privarsene e gettarla via, mentre vale la pena continuare a vivere, se non per se stessi, soprattutto per gli altri e provare ad essere curiosi di cosa può succedere nel futuro».

Raskol’nikov per tutto il tempo aveva ascoltato perplesso le idee dell’amico e alla fine, pur non condividendole pienamente, lo ringraziò per essersi fidato, garantendogli che almeno lui si sarebbe sempre impegnato a non deluderlo e promettendogli di abbandonare i suoi propositi da superuomo, convincendosi quanto meno del fatto che infine nessuno può essere veramente definito tale per la troppa umanità e coscienza presenti come una sorta di tratto genetico in ogni essere vivente che ragiona.

Soltanto mezzo secolo più tardi, dopo la morte di Alceste fu scoperta la verità sull’omicidio di Macbeth grazie al rinvenimento di un diario personale. Egli infatti con il tempo, dopo essersi trasferito in una casa nei boschi lontana chilometri e chilometri dal più vicino centro abitato, aveva deciso di scrivere i suoi pensieri e le sue scelte in un diario, quasi a volerli spostare dalla coscienza alla carta per alleggerire il peso che portava nel cuore. Dal momento che si trattava per lo più di annotazioni confuse e ricordi sparsi, la poesia in ultima pagina risultava contrastante, saltando subito all’occhio. Tale poesia era preceduta da una nota di Alceste, una sorta di scusa e giustificazione per aver deciso di sigillare quella raccolta di riflessioni con un componimento poetico:

“Oggi mi ritrovo a riempire l’ultima pagina di questo diario. E mi sento di farlo con una poesia. Questa strana, improvvisa voglia di poetare ha colto me stesso alla sprovvista e mi fa tornare alla mente certi ricordi per i quali ora rido nostalgicamente: anni fa umiliai tremendamente un mio conoscente, cercando di fargli capire di aver composto un sonetto nauseante e di essersi sbagliato decidendo di esporlo con tanta sicurezza e orgoglio davanti ad altre persone. Un brivido di ripugnanza mi attraversa ancora la schiena quando richiamo alla memoria alcuni di quei pessimi versi. Per questa ragione arrossisco e mi vergogno se penso che sto per scriverne d’altrettanto cattivi. Io però mi guarderò bene dal mostrarli ad alcuno e devo sperare che nessuno legga queste pagine fin tanto che sarò in vita. Ciò di cui mi pentirò sarà soprattutto il tempo e l’impegno che adopererò nella stesura di questa poesia; ma dopotutto, qui e in questo momento non vi è anima viva che possa fermarmi dal compiere i miei bizzarri propositi, anche se ogni tentativo sarebbe comunque vano per via del mio incontenibile desiderio di esprimermi”.

L’amore secondo un misantropo

Sempre, quando il silenzio mi avvolge rimango in ascolto:
Osservando le stelle, dell’universo percepisco la pace e la calma;
In me la mente si svuota e il cuore si scalda;

Su di un prato disteso, pongo al cielo una domanda:
Il mondo inonda la vista e vengo sovrastato dalla natura immensa;
Non cerco una definizione, a me soddisfa questo motivo intenso.

Voci allegre e distanti giungono al mio udito e
Immagino che ogni umano sorriso altrui rivolto
Avrebbe la forza di allontanare qualsiasi tormento.

 Immergersi e annegare nel luogo dove mi sento tanto bene;
Non potrei essere più libero altrove, eppure qui mi vorrei trattenere,
Legarmi in eterno a queste emozioni: vi chiedo, allora, le catene.

*

Bibliografia

Fonti primarie    

Shakespeare W. (2016), Macbeth, a cura di Nemi D’Agostino, Milano, Garzanti

Molière (2006), Il tartufo-Il misantropo. Testo francese a fronte, a cura di Sandro Bajini, Milano, Garzanti

Dostoevskij F. (2013), Delitto e castigo, a cura di Damiano Rebecchini, Milano, Feltrinelli

Riflessi

Beatrice Robaldo parte dall’idea e dall’immagine visiva del rispecchiamento, fonte di contatto intimo e profonda conoscenza, per sviluppare un racconto dove i protagonisti sono evocazioni di sentimenti, riflessi emozionali legati al desiderio che cadono l’uno nell’altro e possono accogliere indistintamente le esperienze personali dei lettori, nell’ambito del seminario Scritture del desiderio, legato al corso di Letterature comparate B, 2021/20221, Prof.ssa Chiara Lombardi.

“Quel mondo non sapeva guardare i riflessi, non vedeva la bellezza nell’unione, era insofferente al dolore, ingenuamente, egoisticamente, pericolosamente insofferente al dolore, quel mondo vedeva tutta l’aria che separava l’acqua e il cielo e aveva deciso di riempirla, con la morfina.”

*

*

Cosa può essere più superficiale di uno specchio che riflette? Cosa più fragile, mutevole, inafferrabile di un riflesso, si chiese accarezzando il cielo con le dita, che già scompariva in milioni di rughe ondulanti. Sembrava quasi che l’acqua aggrottasse la fronte ogni volta che lei cercava di toccare le sue nuvole. Amava guardare il cielo riflesso nell’acqua, lí ogni distanza si annullava, ogni affanno si spegneva, il cielo era nell’acqua e l’acqua nel cielo, non li separava neppure un granello d’aria, il loro abbraccio era troppo stretto. Forse non erano neanche più abbracciati, erano solo insieme, così insieme da essere uno. 
Che riflesso bugiardo, che riflesso eterno.
Un passo indietro dalla riva, continuava a guardarli. 
Si passò le dita sul viso e questa volta ciò che incontrarono non si deformò, non sparí, al contrario, solida, fredda, ruvida, si fece sentire in tutta la sua materialità, in tutta la sua presenza. 
Aveva ormai imparato la differenza fra le cose della vita, differenza che si esauriva essenzialmente nella contrapposizione fra ciò che si sente e ciò che si tocca. Ciò che si sente non può essere ne stretto ne toccato, eppure è vero il contrario, ciò che si tocca può essere sentito. Lei ad esempio lo sentiva, il peso della sua maschera tra le dita, il peso sul suo volto, sul suo cuore. Ma quel mondo, il suo mondo, sembrava non essere capace di sentire. Forse non gli piaceva, ascoltare. 
C’era un altro aspetto del mondo che aveva imparato a conoscere: il mondo era insofferente al dolore, così insofferente da cercare ossessivamente un modo per esserne indifferente. E anche per il dolore le cure erano due, una che si poteva sentire, l’amore – forse quella non l’avrebbe mai conosciuta – e una che si poteva toccare, la morfina. Facile capire quale aveva preferito il mondo. 
Ah, che mondo strano, pensò facendo un passo verso la riva.
Quel mondo non sapeva guardare i riflessi, non vedeva la bellezza nell’unione, era insofferente al dolore, ingenuamente, egoisticamente, pericolosamente insofferente al dolore, quel mondo vedeva tutta l’aria che separava l’acqua e il cielo e aveva deciso di riempirla, con la morfina. Che mondo strano. Chissà quanti cieli e quante acque c’erano stati prima che il mondo avesse smesso di guardare i riflessi, di sentire, di ascoltare… Prima che avesse avuto troppa paura di essere.
Si tolse la maschera e trattenne il respiro. Quella maschera non le permetteva di stare bene, le impediva di respirare morfina e questo significava non essere anestetizzati al dolore. Avrebbe potuto farlo, un piccolo sospiro e anche lei sarebbe diventata indifferente, avrebbe guardato il cielo dal basso e non avrebbe più sentito il peso della mancanza, della lontananza. Sarebbe stato normale, l’indifferenza sarebbe diventata normale. Non essere significava stare bene. 
Trattenne il respiro e fece un ultimo passo avanti. Guardò il suo riflesso nell’acqua, nel cielo, il suo volto nudo, il suo essere. Perderlo, perdersi, la terrorizzava.
Ma essere era così difficile, così dannatamente difficile.
Era davvero?
L’acqua si increspò, il volto sembrò cambiare le sue sembianze.
Si era persa?
Morfina nell’aria, un mondo senza amore, un’anima senza amore.
Si sarebbe mai ritrovata?
Altrove.
Il cielo si rannuvolò, si fece sempre più buio, l’acqua si ghiacciò, divenne dura, scintillante, divenne uno specchio. Era buio, ma riusciva a vedersi, aveva gli occhi chiusi, ma riusciva a specchiarsi. E come al solito non andava bene. Era buio e non andava bene. Era buio. Lei non andava bene.
Gli diede un pugno, non gli era rimasto neanche un briciolo di forze, le aveva risucchiate tutte, le aveva buttate, sprecate, ne era soffocata, e il braccio, quel braccio molle di un corpo molle, mosso da una mente molle, molle e debole, si alzò con una violenza isterica, insulsa e impattò contro la superficie piatta e fredda, fredda del vetro e spaccò in mille pezzi, un milione di schegge e quelle piccole piccole si conficcarono ovunque, sotto le unghie, sotto la pelle, sotto le ciglia. Scorreva l’acqua, era rossa, rossa come il sangue che si ostinava a passare, nelle vene, nel cuore, negli occhi, sanguinavano gli occhi e i polmoni e le mani e i capelli ne erano incrostati. Tirò i capelli, li tirò forte e il vetro si ruppe di nuovo, urlò e il vetro si ruppe ancora, stette immobile e le schegge si conficcarono più a fondo, respirò, e loro andarono più giù, sempre più giù e ancora e ancora. Ancora e ancora. Il petto era un pozzo, un pozzo stretto stretto. Si dimenò, era caduta in un pozzo. Non c’era aria, non c’erano appigli, ma l’aria doveva passare di lì, doveva uscire dal pozzo, ma non poteva, perché lei occupava tutto lo spazio, si stava togliendo l’aria da sola. Il pozzo cercò dolorosamente di aumentare le sue dimensioni e la pelle si stirò innaturalmente. Vide le pareti deformarsi nel buio, innervate dal dolore le fibre risplendevano. Vide il colore del dolore e desiderò di essere cieca, poi ne sentì il rumore e desiderò di essere sorda, poi il sapore e desiderò di non sentire mai più un gusto, poi la consistenza e desiderò che le mani diventassero insensibili – come facevano a non esserlo con tutto quel sangue, con tutte quelle ferite? – poi lo sentì di nuovo, non era un suono, non un colore non un gusto, non lo sentì con le orecchie non con gli occhi non con la lingua, lo sentì e basta e desiderò di non avere un cuore, mai più, di essere abbastanza grossa per non far passare l’aria, mai più. Ma lei era piccola, piccola e insulsa, piccola e inutile, piccola e debole, piccola e isterica, piccola e disgraziata e un filo d’aria passò lo stesso, un filo più sottile dello stelo di una margherita di campo fu abbastanza per squarciarla. Era una margherita, una margherita rossa, squarciata dalla terra e stritolata in un pugno. Strinse i pugni e le lenzuola si strinsero, ballavano, bianche, bianche macchiate di rosso le lenzuola ballavano e si stringevano, sulla bocca, attorno al collo. Ne fece una corda per fuggire, la tirò e poi se ne aggrappò, saltò fuori aggrappandosi alle lenzuola  e quelle sostennero il peso del suo corpo, strette intorno al collo le lenzuola sostenevano il suo corpo, sempre più strette le impedivano di cadere, sempre più strette le impedivano di respirare. 
Il buio avvolgeva ancora ogni cosa, mentre il mondo riposava lei precipitava. 
Lui invece era ancora in bilico, sull’orlo di un precipizio, cercando di non fare ciò che sapeva di non dover fare, guardare giù. 
Chissà perché sapere non è mai sufficiente.
Era giunto il momento del giorno in cui ogni attività rallentava il suo corso, si faceva più distesa e meno frenetica, il cielo aveva smesso di cambiare pelle e sonnecchiava placido, in quel blu profondo che non avrebbe chiuso i suoi mille occhi ancora per un po’. Le onde della strada si infrangevano sempre più rade alle finestre incappucciate. Le poche auto si sentivano arrivare da lontano, il rumore nasceva, impercettibile, si avvicinava, cullante, passava, deciso e poi sempre più sospirante, sempre più lontano. I singhiozzi dei cani erano radi, ancor di più i brontolii degli aerei, il respiro dell’aria costante e ritmato, rotto soltanto da qualche sospiro profondo di vento. La notte era un corpo dalla fisiologia comune, si agitava mollemente, ma non abbastanza per svegliarsi. Era viva, stanca, serena, addormentata, altrove. Anche lui avrebbe voluto essere altrove, ma non era ancora il momento, inutile mettersi a letto ora, il nervoso avrebbe reso l’attesa oltre che noiosa insopportabile e aveva imparato a muoversi con attenzione quando si ritrovava in equilibro. Sapeva che restare immobili non esimeva dal cadere, come sapeva anche di non esserci mai stato davvero, in equilibrio, di non esserne mai stato capace, ma in quei momenti, quelli in cui riusciva a sincronizzare i suoi respiri con quelli del mondo – e solo di notte c’era abbastanza silenzio per poterlo fare – cadere non faceva male, era più semplice e più rasserenante di tentare di mantenersi in equilibrio. All’improvviso sentì un piagnucolio, un gemito provenire dalla boscaglia e si ritrovò a chiedersi se fossero gli animali ad essere più umani di notte o gli uomini ad essere più animali, il risultato in ogni caso era stato lo stesso, la vicinanza. Quel piccolo verso, così caldo e umido, gli scivolò sulla schiena. Un brivido alla volta la mancanza gli ricordò la sua presenza. Eccola, la goccia, il soffio d’aria, la spinta, l’onda. La vicinanza. Una vicinanza fittizia, insufficiente, irraggiungibile. Cadere ricominciò a fare male. 

Le urla dei grilli coprivano i respiri della notte, impossibile cercare di seguirli. Ora tutto stonava, non un’auto, non un aereo, non un cane. Soltanto urla e silenzio, urla e silenzio. Il volto sereno della notte rimaneva imperturbato, sereno, altrove. Anche lui era finito altrove, ma il suo cielo era diverso, il suo cielo non aveva stelle.
Un cielo senza stelle, un cielo di sabbia, un cielo soffocante. 
Scorreva sotto le dita senza fare rumore, era pelle, seta, le corde dell’arpa, i crini biondi di un cavallo senza padrone, scorreva e graffiava, graffiava i polpastrelli incappucciati da calli invecchiati sotto entusiasmo e frustrazione, graffiava senza fare male, le mani non facevano mai male, il cuore sempre. Era così facile, bastava un respiro a muoverla e mille per decidere di farlo, come quando perché, era così difficile, ogni idea sfumata un rimpianto, ogni idea realizzata una delusione, niente andava mai come doveva andare. Lui sentiva, ma non sapeva trascrivere, la sabbia sbagliava il suo corso, sempre, spingendolo a chiedersi ossessivamente chi fosse a mentire, il cuore o le mani? Il cuore non mentiva mai e lui sapeva ascoltarlo, ma le mani, oh le mani, quelle sapevano solo sbagliare… e ancora, era la sabbia ad essere indomabile o le mani incapaci di essere domate? Se il desiderio che il cuore non smetteva di urlare alle sue orecchie era così facile da sentire, perché, si chiedeva, perché era così difficile da nutrire… la mancanza era assordante, accarezzava la sabbia sperando ingenuamente di trovare sollievo laddove aveva conosciuto solo tormento. Le mani avevano fatto il callo ai graffi, il cuore no, eppure continuava, accarezzava la sabbia, viveva di graffi, tra solchi insoddisfacenti e sfumature sbagliate, viveva di desideri urlanti, tra mani disobbedienti e cuori biascicanti, viveva di inizi e di fini, trascrivendo storie che non gli sarebbero mai appartenute. 
I suoi disegni erano così fragili. 
Si ritrovò a disegnare una bambolina, con gli occhi grandi e le ciglia lunghe. Non sapeva dire se fosse fosse felice oppure no, sicuramente, come tutti i suoi disegni, era fragile e presto non sarebbe esistita più.
Ah che bambolina fragile e mortale, qualcuno si sarebbe ricordato di lei? 
Una bambolina si guardò allo specchio. Aveva gli occhi grandi e le ciglia lunghe, cercò di scrutare più a fondo, nei suoi occhi. Non riusciva a capire se fosse felice o no e si chiese se lo fosse mai stata davvero, se sapeva cosa volesse dire, se sapeva cosa voleva. Era tutto troppo grande, i sogni, le aspettative, le delusioni. Solo di una cosa era sicura. Era fragile, fragile di un fragilità odiosa, non come quella fiera di un cristallo che deve essere maneggiato con cura e che può essere rotto solo con la violenza, la sua fragilità era quella sciocca e molle dei petali dei fiori, delle ali delle farfalle o delle bolle di sapone, bastava niente per farle del male, ogni carezza uno schiaffo, ogni emozione uno sconvolgimento. Si guardò ancora. Era un petalo accarezzato da decine di mani indiscrete ognuna delle quali faceva capo ad una delle sue paure, era un paio di ali che sentiva il desiderio di volare e non aveva la capacità di farlo, era una bolla di sapone, una bolla di sapone che sapeva fare soltanto una cosa, scoppiare.
Scoppiare. Scoppiava. Tutto crollava.
Il cielo crollava, anzi no, erano le case a crollare,  il cielo… era lui il colpevole. L’aria esplodeva e non era più aria, era polvere, era gesso, era irrespirabile. Il cielo non era più il cielo, le case non erano più le case, l’aria non era più l’aria.
Gli uomini erano sempre uomini invece. I bambini sempre bambini. Sempre fragili, sempre vulnerabili, sempre mortali. Ma il mondo stava attraversando uno di quei momenti in cui non ricordava che gli uomini erano uomini e che i bambini erano bambini, li calpestava e basta. 
Ah che uomini fragili e mortali, qualcuno si sarebbe ricordato di loro?
Non un fiore, non un farfalla, non una bolla di sapone.
Non un volto, non un nome.
“Morfina,  serve della morfina, adesso, fate presto!”
“Non ne abbiamo più, mi dispiace, l’abbiamo finita. L’abbiamo finita”
Morfina nell’aria, nell’anima del mondo.
È questa la soluzione? L’indifferenza al dolore. O è questa la colpa? Si chiese l’Umanità guardandosi allo specchio. Il riflesso era quello di un corpo vecchio, vecchio e mutilato, vecchio e dolorante, vecchio e pesante, vecchio e sbagliato, vecchio e mancante, vecchio e sofferente. 
Ma c’era un ‘eccezione, c’è sempre un’eccezione. Male nel bene, bene nel male.
Eccezionali, così erano i suoi occhi, occhi bambini, occhi speranza. 
Quanti cieli avevano visto cadere, quanti ancora ne dovevano vedere. 
Ma per qualche misterioso e arcano motivo non avrebbero mai smesso di brillare.
E ridere.
E piangere.
E ridere.
Perché?
Perché si ama? 
Perché si odia?
È la storia di tutti, di tutto, è la storia del mondo. 
Che non ha volto, che non ha nome, 
che sa solo chiedere e non sa rispondere, 
che è, sempre sarà desiderante, mancante, errante.
Che sa amarsi e non osa farsi del male.
Che decide di farsi del male e dimentica di amarsi.

Atopos

Gianni Demo rappresenta, attraverso un calligramma ispirato all’opera di Apollinaire, la similitudine tra Socrate e le statuette di satiri, rintracciata da Alcibiade nel Simposio di Platone. Il testo è stato sviluppato nell’ambito del seminario Scritture del desiderio, parallelamente al corso di Letterature comparate B, mod. 1, 2021/2022, Prof.ssa Chiara Lombardi.

“Secondo me un calligramma è un insieme di segno, disegno e pensiero. Esso rappresenta la via più breve per esprimere un concetto in termini materiali e per costringere l’occhio ad accettare una visione globale della parola scritta”. G. Apollinaire.             

Il nucleo del discorso di Diotima è il “prezioso contenuto” di questo Socrate-Sileno. In calce, le parole di Alcibiade.

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