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❧ SEGNALE 6 “Lo spazio dei possibili. Studi sul campo letterario italiano” a cura di Anna Baldini e Michele Sisto

“Il ricorso alla teoria dei campi nello studio della letteratura italiana è relativamente recente. Le prime ricerche appaiono a partire dal 2002, l’anno della morte di Bourdieu. […]
Questo corpus ormai sostanzioso di ricerche, traduzioni, progetti e discussioni sta portando gli studi sul campo letterario italiano a livelli di quantità e qualità prossimi, se non a quella della Francia, almeno a quelli dell’area tedesca. Ci è parso dunque utile darne un quadro d’insieme raccogliendo in un volume studi apparsi nel corso di due decenni, in sedi disparate e non di rado in lingue diverse dall’italiano. La pubblicazione in una collana dedicata alla letteratura tradotta in Italia ha, come già nel caso di A regola d’arte di Anna Baldini e, in parte, di Teoria dei campi di Anna Boschetti, il senso di fornire, con ricostruzioni progressivamente più accurate della storia del campo letterario italiano, uno strumento indispensabile per comprendere perché e come, di epoca in epoca, la nostra letteratura ha prodotto una rappresentanza viva e influente delle opere maggiori e minori della letteratura mondiale”.

Anna Baldini e Michele Sisto sono tra i ricercatori che si sono maggiormente prodigati in Italia nell’applicazione e nella diffusione delle teorie di Pierre Bourdieu sui campi letterari. Il volume, che raccoglie tredici saggi di alcuni tra gli studiosi e le studiose che più risolutamente hanno messo in pratica i metodi bourdieusiani nello studio della letteratura italiana, tenta un’opera di sintesi e parziale sistematizzazione delle ricerche sul campo letterario italiano maturate negli ultimi vent’anni, a partire dalla pubblicazione nel 2005 della traduzione italiana delle Regole dell’arte di Bourdieu a cura di Emanuele Bottaro e Anna Boschetti. Ne risulta una panoramica organica, che copre alcuni dei fenomeni più rilevanti di un secolo di letteratura italiana, dal Novecento ai primi anni del Duemila. Un importante punto di arrivo che raccoglie due decenni di studi e prassi metodologica, e allo stesso tempo un punto di partenza per nuove ricerche ed esplorazioni.

Lo spazio dei possibili. Studi sul campo letterario italiano, a cura di Anna Baldini e Michele Sisto, Quodlibet, Macerata, 2024, pp. 384.

Lost long, forever found

Irene Filippetti, in questa composizione, riunisce Sigismondo, Riccardo III e Tamerlano il Grande, facendoli dialogare nell’ottica del corso di Letterature Comparate, Storia e potere nella prima età moderna (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“In questa riscrittura ho voluto riflettere sul ruolo del potere nella vita degli uomini. La vicenda, narrata in tono fiabesco, invita il lettore in un mondo fittizio dominato da regole semplici e categoriche, che vengono messe in discussione dall’inaspettata comparsa di un nuovo personaggio”.

*

C’era una volta un piccolo pezzo di terra, che per taluni non significava nulla, ma per altri significava il mondo intero. Sin dall’antichità, il pezzo di terra era diviso in tre e affidato a tre diversi regnanti. Di mattina, il sole sorgeva nel Regno di Riccardo, poi attraversava il Regno di Tamerlano, e infine calava nel Regno di Sigismondo. Nonostante vivessero tutti sotto lo stesso cielo e sullo stesso palcoscenico, le differenze che intercorrevano tra di loro erano come quelle tra un giglio e una rosa: appartenevano alla stessa specie, ma mai nessuno avrebbe potuto confondere l’uno con l’altro, neanche per sbaglio.
Riccardo era un regnante ossessivo e ombroso, Tamerlano era seducente ma brutale, infine Sigismondo trasognato e selvatico.
In vita loro, i tre re non si erano mai visti in faccia. Una regola soprassedeva ciascun governo: nessuna contaminazione tra i popoli era concessa. Il pezzo di terra era piccolo abbastanza da permettere che, se i cittadini dei tre regni si fossero messi in fila, il primo avrebbe potuto stringere la mano dell’ultimo senza doversi neppure allungare, e tutti insieme avrebbero potuto fare un bel girotondo. Nonostante ciò, qualsiasi fraternizzazione veniva punita, più o meno spietatamente in base alla giurisdizione di appartenenza.
Ogni giorno, degli ambasciatori tecnici andavano con squadre e righelli a misurare i confini tracciati sul suolo. La pace era minacciata da ogni ago di abete perché, se anche un solo ramo di un albero nemico cresceva al di là di un centimetro, ecco che si urlava all’invasione.
Un giorno arrivò una straniera. Aveva fattezze che, in quel pezzo di terra, non si erano mai viste prima. Non conosceva le usanze locali e travalicava i confini come fosse normale. La sua esistenza creava un grande scompiglio, se non altro perché non si capiva cosa di preciso fosse venuta lì a fare. Mangiava melograni a morsi e si lucidava le scarpe a suon di sputi; sembrava soltanto godersi i paesaggi e ascoltare le storie dei più vecchi abitanti. Questo non aveva il minimo senso, perché notoriamente i tre regni non possedevano bellezze paesaggistiche né culture affermate. Un simile bizzarro comportamento non poteva restare inosservato. La straniera non recava alcun danno o disagio, eppure tutti e tre i re, simultaneamente, la chiamarono a udienza.
Poiché nessuno voleva cederla di un minuto all’altro, avvenne un fatto epocale: i tre re si riunirono assieme per poter interrogare la straniera.
Appositamente per l’udienza, venne costruito in quattro e quattr’otto un palazzo ai piedi della montagna, ch’era punto nevralgico del territorio: il luogo preciso in cui tutti i regni convergevano. Il palazzo era sontuoso e splendente. Tappeti delle più pregiate fatture vennero srotolati per i nobili calzari di Riccardo, Tamerlano e Sigismondo, araldi vennero innalzati e cori annunciarono il grande evento.
La straniera si presentò nell’unico abito sgualcito che sembrava possedere.
I tre re cominciarono con la stessa identica, tuonante domanda: “Perché sei qui?”.
Lei si era resa conto della situazione ed ebbe voglia di trarne piacere. Inventò una bella storiella per metterli alla prova. “Vengo da un paese molto lontano”, disse, “E ho viaggiato fin qui perché ho saputo dell’immenso tesoro che custodite.”
“Che tesoro?”
“Come, che tesoro! Il chicco di riso.”
“Il chicco di riso?”
“Il chicco di riso.”
L’immensa sala si riempì di chiacchiericci.
Riccardo simulò un colpo di tosse, così tornò il silenzio.
La incalzò: “Di cosa parli, straniera?”.
La straniera rispose con tono ovvio, “Il chicco di riso che sta proprio sul cucuzzolo della montagna. So che, se ingoiato, dona forza e ricchezza infinite. Per questo mi sono messa in viaggio, non senza spavento.”
I re erano attoniti, ma non potevano di certo svelare che non ne sapevano nulla. Finsero di conoscere perfettamente il chicco prodigioso. E poiché i re fingevano, anche il popolo finse, per non esser da meno. L’udienza terminò poco dopo.
Quella notte stessa, tutti e tre i re cominciarono ad arrampicarsi per la montagna in gran segreto.
Nonostante la penombra gettata dal cielo, si riconobbero nell’oscurità.
Com’era prevedibile, pur continuando a scalare, presero a insultarsi e ad aizzarsi nell’orgoglio.
“Ah! Che ci fa qui il potente Tamerlano? Si reputa forse carente in forza e ricchezza?”
“Voglio solo assicurarmi che forza e ricchezza non finiscano nella bocca di chi non saprebbe masticarle.”
“La tua bocca serve soltanto alla tua arroganza; mai ne uscì qualcosa di saggio.”
“Almeno non ne abuso per dire sempre qualcosa di sciocco, Sigismondo; e in quanto a Riccardo, può soltanto ringraziare che almeno la bocca non gli sia nata storta.”
Mentre procedevano a mani nude sulle rocce, calò il silenzio. I tre re erano nemici, certo, e provavano una sadica gioia nel potersi finalmente insultare in pieno viso. Tuttavia, non lo si poteva negare, sui loro animi gravava l’udienza di quel giorno e tutto lo scompiglio che la straniera aveva versato sui regni, viscoso come pece ma brillante come miele. Com’era possibile che non fossero a conoscenza del chicco di riso? Chissà perché, a nessuno venne in mente che potesse trattarsi di un inganno. Forse perché ci troviamo dietro il sipario delle fiabe.
“Il fatto che siate qui con me stanotte”, disse d’un tratto Riccardo, “svela il mio stesso svantaggio. Anche voi avete scoperto oggi del chicco di riso.”
Sigismondo digrignò i denti, ma dovette ammettere, “È così. A cosa serve aver deciso anch’io di studiare le stelle, se non mi accorgo di ciò che sta sulla terra?”.
“Non ti crucciare a tal modo”, chi avrebbe mai indovinato che la voce di Tamerlano potesse rivelarsi quasi gentile? “Neppure io, col mio ingegno, me ne sono accorto. E nessuno dei miei sudditi ha mai pensato di dirmelo! Domani dovrò tagliar loro la testa, uno a uno.”
Ora succedeva qualcosa di straordinario: provavano pena l’uno per l’altro, perché soltanto loro in tutto il mondo potevano capirsi a vicenda. In questa distorta empatia nacque il germoglio della comprensione. Forse non erano così diversi come credevano di essere. Tutti loro conoscevano gli affanni della corona tanto quanto i godimenti della stessa. Quella notte gli scettri pesavano più che mai, e che altra soluzione avevano se non di sorreggersi a vicenda?
Faticarono per ore e ore. Alla fine, però, raggiunsero la cima della montagna. Vi misero piede all’unisono.
Dove poteva essere il chicco di riso, in mezzo a tutta quell’erba incolta? Ma prima di mettersi in cerca— qualcosa di magnifico fermò i loro passi e mutò i loro cuori. Era l’alba.
Il sole sorgeva dalle colline circostanti, indorando il mondo di colori che non avevano mai visto prima. Com’era vasto il loro piccolo pezzo di terra, da lassù! Com’era vasto e com’era bello! La brina sembrava cipria sparsa sui volti dei sassi, le pianure brillavano di piante e frutti dai sapori indimenticabili, le strade deserte parevano un disegno fatto a matita da Dio. E quelle vaghe, poche sagome di pescatori o fornai che già si accingevano al lavoro, com’erano amabili! I re pensarono a loro, a tutti gli abitanti che ancora dormivano sotto le coperte, a chi stava facendo colazione, a chi andava a mungere mucche. Sentirono i propri cuori intiepidirsi, e per un attimo capirono la straniera: capirono perché non faceva altro che guardare il paesaggio e interrogare gli anziani. Da lassù, era impossibile distinguere dove cominciasse un regno e dove finisse l’altro.
Si sorrisero, forse si abbracciarono, sedettero a lungo. Si scambiarono parole buone e sincere. Si vollero bene.
Nonostante questo, quando il cielo imbrunì e sui loro cuori tornò la tenebra, sguainarono le spade e finirono comunque per uccidersi a vicenda – per un chicco di riso che neppure esisteva. Perché tale è la natura dell’uomo.
I loro corpi vennero recuperati e sepolti con grande prestigio. Ciascuno dei loro figli venne eletto nuovo re, e i figli continuarono a odiarsi come fecero i padri, senza sapere che per un momento erano stati fratelli.

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Banchetto

Luisa Carolina Stella, in questo testo a metà tra narrativa e monologo teatrale, riscrive Romeo e Giulietta reinterpretando i ruoli dei personaggi, sopra tutti quello di Giulietta, che viene eletta a rappresentante della tragedia beckettiana, nell’ottica del corso di Letterature comparate, Shakespeare e il paesaggio culturale italiano (Prof.ssa Chiara Lombardi).

 “Romeo, oggi sopravviviamo in un altro tempo, in un luogo che poco somiglia alla nostra Verona. E non si è più soltanto noi perché si gioca un’altra partita. Ohnon chiedere “cosa?” , abbi un po’ di pazienza. Siamo simboli al cospetto di un altro dio, un dio che invecchia, ma che, ancora, non muore.”

*

We’re not beginning to… to … mean something?

S. Beckett, Endgame, Faber&Faber, 2012, p. 54

L’erba cresciuta tra le fessure delle piastrelle del peristilio accarezzò i suoi teneri piedi scalzi. Il suo vestito immacolato danzava con i frammenti sconnessi del selciato.
La struttura trasandava sotto il peso dei secoli, ma protetta com’era dal debole sole del tramonto, sperava di nascondere alla bene e meglio lo squallore a cui il padrone di casa l’aveva ridotta. Crepe profonde nelle pareti circostanti, tegole in frantumi tra l’erbaccia e le travi, di quel che un tempo era stato il tetto, ora ronfavano, implose su se stesse, tra i calcinacci.
Ma gli occhi di Giulietta brillavano. Percorreva in punta di piedi il perimetro del cortile, attenta a non guastare il precarissimo equilibrio delle cose. Era una danza la sua, piuttosto traballante, a ritmo di una musica che sembrava raggiungerla da un altro tempo, ridotta a un’eco di dolci note di cetra. Con la leggerezza che tutta l’umanità invidia alle ragazzine, ballava con le colonne: le braccia protese, prima una e poi l’altra, stringevano i marmi eterni, come se mai più avessero dovuto lasciarli; poi, di lì a un secondo, li abbandonavano, per liberarsi e proseguire, di marmo in marmo, il colonnato. Lo sguardo di Giulietta, intanto, si posava su ogni cosa, frugava dappertutto, forse alla ricerca del luogo da cui provenisse quella musica.
A metà del colonnato, la sua attenzione venne catturata da un baluginio al centro del cortile. Interruppe la sua danza, s’arrestò con le braccia avvinghiate ai marmi. Rimase così, per qualche istante, quasi a ponderare l’idea d’avvicinarsi o di rimanere cautamente dove già si trovava, o addirittura, d’andarsene.
Ma non aveva scelta. Oltrepassò le sue colonne d’Ercole e s’avviò verso la luce.

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❧ SEGNALE 5 “PROFESSORI DI DESIDERIO. SEDUZIONE E ROVINA NEL ROMANZO DEL NOVECENTO” VALENTINA STURLI

Valentina Sturli è ricercatrice senior di Letterature comparate nel Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali dell’Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara. Si occupa di teoria della letteratura e di letterature comparate, con particolare riferimento all’ambito italo-francese. È autrice di saggi sul fantastico in letteratura e sulle narrazioni intermediali contemporanee, e delle monografie Figure dell’invenzione (Quodlibet, 2020) ed Estremi Occidenti (Mimesis, 2020). Ha curato l’edizione critica di Bestie di Federigo Tozzi (Edizioni di Storia e Letteratura, 2023).

Da Professori di desiderio. Seduzione e rovina nel romanzo del Novecento di Valentina Sturli, Carocci editore, Roma, 2024.

Una passione struggente

Martina Strumia, in questa composizione, riscrive la celebre tragedia di Romeo e Giulietta in versi liberi, trasportando il loro amore in un contesto diverso, nell’ottica del corso di Letterature comparate, Shakespeare e il paesaggio culturale italiano  (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“In questa mia riscrittura ho voluto rendere la storia di Romeo e Giulietta non più in qualità di un giovane amore ostacolato dalle imposizioni sociali e dall’odio delle due famiglie, ma nelle fattezze di un vero e proprio tradimento in cui i protagonisti da vittime dovrebbero diventare colpevoli. Eppure la loro colpevolezza è data esclusivamente dal loro amore puro, nato da un semplice sguardo, come nella versione originale: ritorna quindi il topos dell’amore come forza incontrollabile. Ma da questo amore incontrollabile si scatenerà a sua volta una folla gelosia che trasformerà la vicenda in una vera e propria tragedia”.

*

Amore ogni aprile ritorna furente,

il suo calore prelude le rose di maggio                                                                                   
e l’inverno che passa ormai morente,                                                                                 
scioglie la neve in ogni cuore suo ostaggio.

Si diverte a soffiare dalle guance un tiepido vento                                                                
che bacia furtivo chi al sorgere del giorno sta ancora dormendo.                                            
Ride e scompiglia i capelli di chi nella notte lo chiama:                                                           
si beffa di loro e di chi troppo ardentemente ama.  

Giunse quei primi di maggio alle porte di Verona                                                                  
e per le strade in festa due giovani ormai da tempo si incontrarono,                                       
i loro sguardi non ebbero bisogno di alcuna parola                                                                 
e presto entrambi i cuori si incendiarono.

Sbocciò quell’amore troppo presto,                                                                                       
lei Giulietta e lui Romeo,                                                                                                           
li aspettava un destino assai funesto:                                                                                       
presto si persero in mezzo al corteo.

Paride si chiamava lo sposo di Giulietta,                                                                                   
e Rosalina la dolce moglie di Romeo.                                                                                      
Ma il danno già era compiuto:                                                                                               
le fiamme in cenere quegli amori passati aveva dissoluto.

I due futuri amanti si persero d’estate,                                                                                   
solo freddo e noia nei due cuori distanti:                                                                                  
lei sospirava e pregava alle stelle “pena di me abbiate”,                                                          
sola nel cielo, la luna ammirava quei poveri animi infranti.

La verità celata da tempo riemerse violenta,                                                                            
il sangue nelle loro vene rinvigorito fermenta                                                                           
e la mente coi pensieri vaga tormentata,                                                                                  
dalla luce di quei bellissimi occhi, l’uno dall’altro sognati, era accecata.

In questo stato i due sfortunati vivevano,                                                                                 
ma venne il giorno in cui ad una miracolosa sorgente si trovarono per caso,                         
quell’afoso pomeriggio d’agosto amore sincero si offrirono:                                                   
si sentivano liberi come un usignolo dalla gabbia appena evaso.

Al calar del sole Romeo correva dalla sua amata,                                                                     
lei lo aspettava impaziente dalle scintille d’amore turbata,                                                      
mentre i rispettivi consorti tranquillamente dormivano,                                                          
grazie a un filtro i due ignari assai profondamente riposavano.

La luna alta nel cielo manteneva il segreto,                                                                             
tra baci, risa e lacrime innocenti tornavano fanciulli:                                                                 
nel giardino consumavano il loro amore irrequieto,                                                                
sotto le chiome degli alti alberi bruni.

Ma Giulietta temeva che il tradimento fosse scoperto:                                                           
un attimo era allegra e subito dopo dal cuore incerto.                                                            
Paride la vide, così pensierosa e quasi infelice,                                                                         
decise di chiedere alla balia Bettina di scoprire il suo tormento. 

Nel bel giardino fiorivano primule speciali,                                                                               
sbocciavano solo di notte essendo fiori lunari,                                                                          
e parlando Giulietta innocente lo disse a Bettina                                                                      
che curiosa volle andare a vedere prima che fosse mattina.

Quella notte i due amanti si incontrarono sotto le stelle,                                                         
ma i loro baci ormai non erano più indiscreti,                                                                          
la balia non vide solo le belle violette:                                                                                       
osservò il loro amore nascosta dietro i fusti dei vicini albicoccheti.

Quest’ultima non era così onesta come sembrava,                                                               
anche lei in segreto nel cuore immensa gelosia portava:                                                         
ella di Paride era innamorata perdutamente                                                                             
e non ci pensò due volte a tradire la sua amica avidamente.

Il giorno seguente raccontò l’accaduto al marito stupefatto,                                                   
come poteva la sua Giulietta voltargli le spalle?                                                                        
Andò su tutte le furie e volle coglierli sul fatto,                                                                         
nel suo sangue ribolliva la vendetta e si agitava nel suo stomaco simile a mille farfalle.

Nell’oscurità Paride perse il senno,                                                                                    
aspettò che Giulietta si alzasse e baciasse il suo amante,                                                         
poi di scatto balzò dal letto;                                                                                                     
si gettò dal balcone di rabbia tremante. 

Nemmeno il filtro bastò a farlo addormentare,                                                                     
con occhi di fuoco maledì il loro amore carnale                                                                        
e dalla fodera scagliò la spada su Giulietta:                                                                               
lei cadde a terra ferita e lentamente morì, d’amore uccisa.

Romeo in ginocchio pianse lacrime amare,                                                                               
le sue labbra colme d’amore in pasto alla morte la portarono.                                                 
Poi infuocato d’odio prese il pugnale                                                                                       
e lo trafisse nella gola di Paride ora anch’egli sull’orlo del baratro.

Erano i due sposi legittimi uno accanto all’altro senza vita,                                                      
davanti a quella scena Romeo rimase di pietra,                                                                         
come se la sua mente fosse smarrita,                                                                                       
prese lo stesso pugnale e lo conficcò nel suo petto: così finì questa vicenda tetra.

Quell’amore fu troppo violento,                                                                                              
come una fontana dalla sua ferita il sangue sgorgò.                                                                 
Verona è ancora marchiata da quell’evento, così cruento                                                        
che ancora se ne parla e più nessuno lo scordò. 

Amore lenisce le ferite con la stessa facilità con cui le crea,                                                     
ma se la passione nel cuore è forzatamente imprigionata,                                                    
più il tempo passa più sete avrà e sarà affamata.

Bibliografia

W. SHAKESPARE, Romeo e Giulietta, Tutte le opere- le tragedie, coordinamento generale di Franco Marenco (2015), Bompiani

A. CATTANEO, Shakespeare e l’amore (2019), Piccola biblioteca Einaudi