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Ulysses e la pittura di Boccioni: affinità non dichiarate

Ponendo per la prima volta a confronto Ulysses e alcuni dipinti di Boccioni, questo articolo intende offrire nuove suggestioni al rapporto, mai esplicitamente dichiarato da Joyce ma noto alla critica, tra una delle sue opere più rivoluzionarie e il Futurismo.

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Dal movimento futurista, che egli stesso definiva senza passato né futuro, sterile e suicida (1), Joyce non poteva che voler discostare fermamente, almeno a parole, la sua produzione e, in particolare, Ulysses, che aveva visto i primi bagliori proprio nella Trieste definita dai Futuristi «la nostra bella polveriera» (2), ma che, a detta del fratello Stanislaus, non «gli aveva suggerito nulla. Dei nomi propri forse» (3). L’artificiosità di tali volontà e affermazioni risulta ormai evidente agli occhi dello studioso: i legami tra Ulysses e il Futurismo sono innegabili, nonostante Joyce stesso non volesse renderli manifesti, convenendo con l’amico Frank Budgen «sulla collocazione della propria opera piuttosto in un ambito cubista» (4).

Sui motivi di tale preferenza è facile esprimersi: il Cubismo era senz’altro meno irruente e aggressivo della sua evoluzione italiana, dalla quale Joyce voleva mostrarsi con tanta ostinazione indipendente perché non ne condivideva la furia entusiastica per gli ideali di interventismo. È evidente, tuttavia, che questa preferenza non sia nient’altro che uno specchio per le allodole, poiché, rispetto a quelli con il Cubismo, i legami di Ulysses con il Futurismo sono decisamente più stretti e sostanziali. A sostegno di questo confronto, si rivelerà utile estendere il discorso sul fronte pittorico, per mostrare in che modo il Futurismo sia intimamente e indubbiamente congiunto alla citata opera joyciana.

Il Cubismo rivela al Futurismo la sua più grande innovazione, che il Futurismo, a sua volta, ha saputo rielaborare e fare propria. Entrambi i movimenti, cioè, mirano ad aprire lo spazio bidimensionale – o tridimensionale, grazie alla prospettiva – della tela alla quarta dimensione, il tempo, attraverso l’intuizione di uno sguardo analitico capace di muovere le tre dimensioni tradizionali. Ciò che ne deriva è una visione multipla, dinamica, che sulla tela si traduce nella scomposizione dell’oggetto in più piani prospettici, attraverso la quale risultano simultanee la percezione visiva e quella del movimento attraverso il tempo. I Cubisti erano però più intenti a risolvere i problemi formali legati a questo rinnovamento della rappresentazione che a esplorarne le reali potenzialità; le loro opere sono certamente rivoluzionarie, ma tendenzialmente statiche; in esse il movimento è inteso più come sviluppo di un solido che come spostamento nello spazio, e non è un caso se i soggetti rappresentati più di frequente siano nature morte o ritratti. I Futuristi, al contrario, vedono in questa rivoluzione figurativa l’opportunità per celebrare anche in pittura la «bellezza della velocità» (5): il risultato si concreta in immagini molto più dinamiche, in cui le forme si dilatano l’una nell’altra. Il Futurismo rielabora la lezione cubista anche più in profondità: la forza del movimento non è intesa solo come dinamismo proprio degli oggetti rappresentati, ma anche come quello interno ai soggetti che dipingono o che osservano la tela. Quello che più importa ai Futuristi è che a un movimento “figurativo” corrisponda un movimento “emotivo”: in assenza di tale correlazione l’opera perderebbe gran parte del suo significato.

Tav. 1 – Umberto Boccioni, Materia, 1912. Olio su tela, 225×150 cm. Collezione privata.

Questi tratti del Futurismo emergono con chiarezza e risultano esaltati in Materia, un dipinto del 1912 di Umberto Boccioni (tav. 1), attraverso il quale è possibile sviluppare sul fronte pittorico un confronto parallelo tra i principi futuristi e alcuni passi di Ulysses. L’attenzione di chiunque si ritrovi di fronte a questo imponente dipinto è immediatamente attratta dalle grandi dita intrecciate al centro, che incombono verso l’esterno, quasi a voler sfondare la tela stessa. Lo sguardo dello spettatore, allora, non può far altro che risalire, oltre alle mani, lungo le braccia, che formano un cerchio sul quale è appoggiata la testa di una donna, la madre del pittore, e da lì seguire le varie linee che ne tagliano la figura congiungendola con le case dello sfondo. A proposito del suo dipinto, Boccioni faceva notare come «i bordi dell’oggetto fuggono verso una periferia (ambiente) di cui noi siamo il centro» (6). Il centro dello spazio figurativo, quello che attrae immediatamente l’attenzione dello spettatore, è dunque ciò da cui sorge l’intera immagine, il fulcro da cui si diffondono linee di forza che descrivono il movimento: pur ritraendo una figura imponente e pesantemente seduta, il dipinto è tutt’altro che statico, perché obbliga lo sguardo di chi l’osserva a muoversi incessantemente per tutta la sua superficie. Si costituisce quindi il doppio movimento – figurativo ed emotivo – cui si accennava più sopra: quello proprio degli oggetti dipinti – oltre il balcone, intravediamo una figura umana e un cavallo, rispettivamente a destra e a sinistra della donna – e quello compiuto dall’occhio dello spettatore, che, vagando per la tela senza trovare quiete, genera una sensazione di vertigine, di visione confusa e disorientata.

Se si parla di centro e di movimento, il rimando a Wandering Rocks, decimo capitolo di Ulysses, è inevitabile. A proposito di questo episodio, Carla Vaglio Marengo scrive: «Wandering Rocks è collocato al centro di Ulysses. La centralità di Wandering Rocks, indicato nello schema Linati come: “Punto centrale. Ombelico” di Ulysses, è da Joyce segnalata […] nell’idea di “labirinto mobile tra due sponde” che compendia errare e consistere […]» (7). Nella sua funzione di ombelico, Wandering Rocks diventa quindi il punto centrale del romanzo, tanto da essere definito come una sua «microimmagine riflessa», in cui i diciotto episodi di Ulysses si specchiano in altrettanti «episodi in miniatura» che, con l’aggiunta di una coda finale, compongono l’intero capitolo (8). Partendo da questo «ombelico», il lettore di Wandering Rocks inizia a percorrere, come i tanti personaggi dell’episodio, le strade di un «labirinto mobile», che non è nient’altro che l’insieme delle vie di Dublino: un percorso che riproduce in scala quello compiuto dall’occhio dello spettatore di Materia lungo le varie linee del dipinto.

Un ulteriore riscontro con quanto detto finora è dato ancora una volta dagli schemi Linati e Gilbert, secondo i quali l’«organo» dell’episodio è il sangue: pompato dal cuore – che, pur non essendo l’ombelico, è dell’uomo l’organo centrale, nonché il più prezioso e intimo – il sangue si irradia in tutto il corpo, dal centro alla periferia, per dirla con le parole di Boccioni. È facile allora comprendere come i personaggi che “circolano” per Dublino non siano nient’altro che il suo “sangue”, la sua anima: più che il loro palcoscenico, Dublino si fa una loro emanazione, plasmata su ogni personaggio che l’attraversa, e di conseguenza personalissima, multipla, scomposta. Mantenendo aperto il confronto con Materia, le case alle spalle della madre del pittore sono dipinte ognuna da un punto di vista differente, risultando anch’esse scomposte su piani prospettici individuali; da ciascuna parte una linea luminosa che, sovrapponendosi alla donna, annulla la scansione dei piani, fondendo e amalgamando la figura con lo sfondo.

La fusione tra corpo e realtà circostante era stata d’altronde teorizzata nel Manifesto tecnico della pittura futurista del 1910, firmato, tra gli altri, dallo stesso Boccioni: «i nostri corpi entrano nei divani, e i divani entrano in noi, così come il tram che passa entra nelle case, le quali a loro volta si scaraventano sul tram e con esso si amalgamano». In ottica futurista si possono dunque leggere alcuni passi tratti dal più cangiante episodio di Ulysses, Proteus – proprio, e non a caso, come il nome della multiforme divinità marina che profetizza a Menelao il ritorno a Sparta – in cui la fusione diventa una vera e propria metamorfosi, che è infatti uno dei simboli negli schemi:

Dio si fa uomo si fa pesce si fa bernacla si fa montagna ammantata di piume. (9)

Il loro cane gironzolava intorno a un banco di sabbia assottigliantesi al trotto, annusando da tutte le parti. In cerca di qualcosa di perduto in una vita passata. All’improvviso, scappò via come una lepre saltellante, le orecchie all’indietro, alla caccia dell’ombra di un gabbiano in volo radente. Il fischio acuto dell’uomo raggiunse il suo orecchio floscio. Si voltò, saltellò indietro, si fece vicino, trottò sulle zampe guizzanti. Su un campo, bruno fulvo un cerbiatto che cammina, a colori naturali, senza corna. All’orlo di pizzo della marea si fermò con gli zoccoli anteriori rigidi, le orecchie puntate verso il mare. Il muso in alto, abbaiò al rumor delle onde, branchi di trichechi. (10)

In Proteus avviene dunque una vera e propria fusione tra ogni campo del reale – divino, umano, animale, vegetale, organico e inorganico – la quale inevitabilmente sfocia in metamorfosi, arrivando persino a farsi una blasfema parodia della trasformazione più elevata, quella che avviene nella transustanziazione. Il concetto di fusione è intimamente legato a quello di metamorfosi anche nel Futurismo: «per la persistenza delle immagini nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi come vibrazioni, nello spazio che percorrono. Così un cavallo in corsa non ha quattro gambe, ne ha venti, e i loro movimenti sono triangolari» (Manifesto tecnico, 1910). Se si riporta lo sguardo a Materia, nella compenetrazione totale tra figura e sfondo, nessun elemento ha mantenuto inalterati i propri tratti: tutto si è trasformato in una sovrapposizione di forme geometriche.

Nella pittura futurista, l’aspetto formale è dunque un mezzo per portare a compimento i propri intenti, approdando a un risultato ulteriore: la forma diventa essa stessa parte integrante del contenuto. In effetti anche Joyce giunge a esiti simili, poiché ogni metamorfosi che avviene in Proteus non solo è chiaramente legata al carattere dell’episodio – la volubilità dello stesso Proteo – ma al medesimo tempo si riflette nelle varie trasformazioni del linguaggio: il significante viene a coincidere con il significato. Secondo gli schemi di Ulysses, nota Carla Vaglio Marengo, l’arte dell’episodio è la filologia e la parola è uno dei simboli (11). Il linguaggio di Joyce, mutevole e cangiante come la multiforme e mercuriale divinità marina, è politropo come quello di Odisseo, capace di adattarsi a qualsiasi situazione: ogni episodio di Ulysses è infatti caratterizzato da una tecnica precisa, che si plasma sulla realtà con cui di volta in volta viene a contatto. Mirabolanti evoluzioni del linguaggio, dunque, tanto vicine ai folli balzi del saltimbanco futurista da valere a Joyce l’epiteto di “funambolo della parola” (12). Il lettore di Ulysses e lo spettatore di Materia saranno entrambi in balia delle febbrili convulsioni dell’opera e si sentiranno un po’ come un bambino al circo, che, guardando le vorticose acrobazie dei trapezisti, prova una confusa e ineffabile sensazione di vertigine.

Parlando di tecniche formali veicolo di molteplici contenuti, non si può certamente tralasciare l’adozione, in Ulysses, della rivoluzionaria tecnica del monologo interiore, ricavata da Édouard Dujardin, senza la quale Joyce non avrebbe potuto con tanta icasticità riflettere nel linguaggio le numerose trasformazioni proteiformi che costellano il suo romanzo. Come scrive lo stesso Joyce, «I try to give the unspoken unacted thoughts of people in the way they occur. I took it from Dujardin» (13). Attraverso il monologo interiore, Joyce tenta di riprodurre in maniera diretta i pensieri dei propri personaggi nel momento stesso in cui sono formulati. Il fatto che questi siano unspoken e unacted li rende in realtà totalmente privi, almeno in apparenza, di logica, perché non ancora metabolizzati dal conscio: la metamorfosi del cane riportata sopra, che non è altro che uno stralcio dei pensieri formulati da Stephen in Proteus, è un buon esempio di monologo interiore joyciano. Il tentativo di riportare direttamente sulla carta i pensieri dei personaggi così come l’evento esterno li ha generati – prima ancora, dunque, che raggiungano una compiuta formulazione logica e razionale – non è lontano dai propositi di Boccioni perseguiti con La città che sale (tav. 2), un dipinto di un anno precedente a Materia, che, ritraendo anch’esso la madre al balcone, vi può essere legittimamente accostato:

Dipingendo una persona al balcone, vista dall’interno, noi non limitiamo la scena a ciò che il quadrato della finestra permette di vedere, ma ci sforziamo di dare il complesso di sensazioni plastiche provate dal pittore che sta sul balcone: brulichio soleggiato della strada, doppia fila delle case che si promulgano a destra e a sinistra, balconi fioriti, ecc. Il che significa simultaneità d’ambiente e quindi dislocazione e smembramento degli oggetti, sparpagliamento e fusione dei dettagli, liberati da ogni logica comune e indipendenti gli uni dagli altri. (14)

Tav. 2 – Umberto Boccioni, La città che sale, 1910-1911. Olio su tela, 199,3×301 cm. Museum of Modern Art, New York.

Risulta ancora più chiaro, così, come il Futurismo abbia portato la tecnica cubista alle proprie estreme conseguenze, rendendola il mezzo attraverso il quale trasferire direttamente sulla tela le sensazioni del pittore nell’atto stesso di dipingere, proprio come Joyce utilizza il monologo interiore per riferire i pensieri dei suoi personaggi. Comunanza di intenti, quindi, ma anche di risultati: «i dettagli liberati da ogni logica comune e indipendenti gli uni dagli altri» sono, da un lato, le sfaccettature degli oggetti che hanno perso la loro compattezza, e dall’altro, i disconnessi enunciati dei monologhi joyciani, che altro non vogliono essere che la trascrizione fedele di pensieri appena abbozzati.

Considerando, d’altra parte, la razionalità soggiacente ai dipinti futuristi, tenendo presenti quei pochi confini definiti tra un oggetto e l’altro, che ne consentono non solo la distinzione, ma anche la leggibilità – d’altronde non siamo ancora in ambito astrattista –, la scomposizione di un oggetto in tanti piani prospettici potrebbe essere intesa come la rappresentazione simultanea, sul piano bidimensionale, dei tanti punti di vista alla base del principio di parallasse caro a Joyce. In Materia, la tridimensionalità del volto della donna, per fare solo un esempio, è scomposta grazie all’accostamento di piccoli e fitti piani, che “stendono” sulla tela le sfaccettature di ogni lineamento, così come visto da diversi punti d’osservazione. In effetti, in Ulysses, la visione sul mondo esterno non è mai univoca, ma, al contrario, la realtà è sempre esplorata da punti di vista, se non opposti, decisamente distinti tra loro: la risultante è perciò una realtà cangiante, allo stesso tempo coincidente con la somma delle sue parti e con nessuna di esse.

In Nausicaa – l’episodio che a questo proposito sembra il più evocativo, nei cui schemi come arte figura proprio la pittura – Bloom è osservato principalmente secondo due prospettive, da lontano, attraverso l’occhio idealizzante di Gerty, e poi da un punto di vista più ravvicinato, che ci rivela la sua identità. Attraverso questa doppia visione, lo stesso Bloom ci appare prima un affascinante uomo in nero, poi un uomo comune vestito a lutto. La medesima duplicità di visione si ottiene se, anziché il punto di vista, è l’oggetto osservato a spostarsi. Agli occhi di Bloom, inizialmente, Gerty – già presentata al lettore nella coda di Wandering Rocks sotto un ulteriore punto di vista, in un colorato quadretto incorniciato dagli edifici di Dublino – pare una seducente ed eccitante ninfa seduta su uno scoglio, ma, non appena si alza per raggiungere le amiche ormai lontane, la ragazza rivela un nuovo dettaglio, che turba la percezione iniziale di Bloom: «Stivali stretti? No. È zoppa! O!» (15).

Il lettore immerso in Ulysses, così come i personaggi che vi gironzolano tra le pagine, non arriverà mai a una conoscenza definitiva del dato reale, soggetto com’è a continui mutamenti prospettici; incarnerà semmai, al limite, uno degli infiniti punti di vista attraverso cui accostarsi alla realtà, della quale però non potrà accedere che a una sola faccia; diventerà allora uno dei volti di Visione simultanea – altro dipinto di Boccioni, di un anno precedente a Materia (tav. 3) – che incombono colossali sulla via, nella quale sfilano neri omini privi di identità.

Umberto Boccioni, Visioni simultanee, 1911. Olio su tela, 70×75 cm. Wuppertal, Von der Heidt Museum.

A ben guardare, da quei volti traspare una certa supponenza, quasi un sorrisetto di sufficienza, che sembra rivelare la presunzione di poter abbracciare da lì, così dall’alto, la realtà nella sua interezza. Una presunzione che solo lo spettatore del dipinto – o, fuor di metafora, il lettore di Ulysses ormai disincantato e consapevole della propria impotenza – potrà sfatare: per quanto giganteggino sulla strada, quei volti non ne avranno che una visione parziale, limitata al loro punto di vista. E di quella stessa strada, lo spettatore esterno al dipinto avrà a sua volta una cognizione ridotta, essendo anch’egli parte dell’infinito gioco di sovrapposizioni di piani e mutamenti prospettici su cui si fonda, proprio come in un dipinto futurista, la percezione umana.

Chiara Lanzavecchia

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 NOTE

  1. Budgen 1964: 153.
  2. Titolo del manifesto del marzo 1909.
  3. Crise 1967: 19.
  4. Vaglio Marengo 1996: 143. Per i contributi critici circa il rapporto tra Ulysses e il Futurismo, si veda Vaglio Marengo 2006, Ead. 2007, Ead. 2010a, Ead. 2010b.
  5. Marinetti 1909.
  6. Boccioni 1914: 174.
  7. Vaglio Marengo 2010b: 1048.
  8. Si citano qui alcune espressioni utilizzate da Enrico Terrinoni nell’introduzione a Wandering Rocks in Joyce 2015: 803.
  9. Ivi, p. 76.
  10. Ivi, p. 72.
  11. Vaglio Marengo 2001: 291.
  12. Joyce 2015: 13.
  13. Budgen 1964: 92.
  14. Boccioni et al. 1980: 63.
  15. Joyce 2015: 364.

 

BIBLIOGRAFIA

Boccioni et al., “Prefazione al catalogo delle esposizioni di Parigi, Londra, Berlino, Bruxelles, Monaco, Amburgo, Vienna, ecc.”, in Manifesti, proclami, interventi e documenti teorici del futurismo 1909-1944, a cura di Luciano Caruso, Firenze, Spes-Salimbeni, 1980, vol. 22, pp. 60-68.

Boccioni, Umberto, Pittura e scultura futuriste (Dinamismo plastico), Milano, Edizioni Futuriste di “Poesia”, 1914.

Budgen, Frank, James Joyce and the making of «Ulysses», Bloomington, Indiana University Press, 1964.

Crise, Stelio, Epiphanies and Phadographs: Joyce and Trieste, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1967.

Joyce, James, Ulisse, traduzione italiana di Enrico Terrinoni e Carlo Bigazzi, Roma, Newton Compton, 2015.

Marinetti, Filippo Tommaso (1909), “Le Futurisme”, «Le Figaro», 20 febbraio.

Vaglio Marengo, Carla, “James Joyce”, in Storia della civiltà letteraria inglese, a cura di Franco Marenco, Torino, UTET, 1996, pp. 131-185.

Ead., “From the «Odissey» to «Ulysses»: Exile, Peregrination, Beyondness”, in Da Ulisse a Ulisse. Il viaggio come mito letterario, a cura di Giorgetta Revelli, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2001, pp. 285-308.

Ead., “«Noisetuning»: Joyce and Futurism”, in Joyce’s Victorians, a cura di Franca Ruggieri, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 331-354.

Ead., “Joyce e il Futurismo: il corpo, la voce, l’improvvisazione”, in L’improvvisazione in musica e in letteratura, a cura di Giuliana Ferreccio e Davide Racca, Torino, L’Harmattan Italia, 2007, pp. 56-76.

Ead., “Futurist Music Hall and Cinema”, in Roll Away the Reel World: James Joyce and Cinema, a cura di John McCourt, Cork, Cork University Press, 2010, pp. 86-102.

Ead., “Joyce, «Wandering Rocks», tra musichall, teatro sintetico futurista e ‘cinema dell’arte’”, in Comparatistica e intertestualità, a cura di Giuseppe Sertoli, Carla Vaglio Marengo e Chiara Lombardi, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2010, pp. 1027-1039.

Le traduzioni in arte delle “Città invisibili” di Calvino

L’articolo vuole mettere in luce il legame profondo che spesso si crea tra arte e letteratura. Viene qui preso in esame Le città invisibili di Italo Calvino, raccolta di racconti a cui si sono ispirati diversi artisti da tutto il mondo, traendone opere e progetti artistici. 

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Nel 2006, in Calvino, Francesca Serra scrive che Le città invisibili vanta “due ingredienti che ne hanno fatto negli ultimi decenni un oggetto di largo consumo aforistico, da formula epigrafica buona per molti usi” (1). Gli ingredienti di cui parla Serra sono visionarietà e sogno, elementi che Calvino raccoglie dalle intense letture del Milione di Marco Polo nel 1960. Questi sono i semi da cui, poco alla volta, dopo una lenta germinazione, nascerà poi Le città invisibili, libro pubblicato in Italia nel novembre del 1972.

A distanza di quarantacinque anni quest’opera ha continuato ad ispirare ininterrottamente poeti, architetti, studiosi e artisti.

La città come elemento narrativo ha sempre avuto un ruolo importante nell’opera di Calvino. In molti suoi lavori la presenza di una città diviene quasi personaggio vivo. In La formica argentina e Nuvola di smog, ad esempio, la città è quel luogo in cui “si annida la figura del crollo e brulica il logoro nella sua forma biologica più inestirpabile e insensata” (2), per dirlo con le parole di Serra. In Giornata d’uno scrutatore è fondamentale la figura della “città-bubbone” incastonata nella “città-sana”. Una cosa simile accade in altri racconti, ad esempio in Avventura di una bagnante e L’avventura di un poeta, dove il paese assume le fattezze di un personaggio descritto nei minimi particolari e in dettagli confusi, a cui è affidato il compito di riportare a galla quella antica lotta, sempre presente in Calvino, tra la “città infera” e la “città cristallina”.

Lo stesso Calvino racconta che Le città invisibili non è un libro nato tutto in una volta, ma è nato per “accumulazione”:

Così mi sono portato dietro questo libro delle città negli ultimi anni, scrivendo saltuariamente, un pezzetto per volta, passando attraverso fasi diverse. Per qualche tempo mi veniva da immaginare solo città tristi e per qualche tempo solo città contente; c’è stato un periodo in cui paragonavo le città al cielo stellato, e in un altro periodo invece mi veniva sempre da parlare della spazzatura che dilaga fuori dalle città ogni giorno. Era diventato un po’ come un diario che seguiva i miei umori e le mie riflessioni; tutto finiva per trasformarsi in immagini di città: i libri che leggevo, le esposizioni d’arte che visitavo, le discussioni con gli amici (3).

L’autore, quindi, finiva per trasformare ogni aspetto del quotidiano in una città dalle strane forme e governata da dinamiche fuori dal comune. Tutto ciò che muove il racconto è l’idea di mettere al centro l’immagine di “una città interamente dedicata a una cosa sola […], che conosce un solo modo di essere. Si costruisce una situazione perfettamente blindata, per il gusto di mandarla all’aria con qualche evento o arrivo inatteso” (4). Il nodo fondamentale è questo: portare gli eventi e i fenomeni narrativi ad una esagerazione e amplificazione tale da renderli visibili. Nella quarta delle sue Lezioni americane, quella sulla visualità, l’autore spiega proprio questo concetto. Suddivide il processo immaginativo in due tipologie: il primo tipo di processo è quello che parte dalla parola e arriva all’immagine ed è caratteristico della lettura; il secondo processo segue la strada a ritroso, quindi parte dall’immagine e arriva all’espressione verbale, ed è tipicamente ciò che avviene nel cinema. Nella creazione dei suoi lavori Calvino solitamente percorre la seconda strada: parte dall’immagine visuale e da questa produce il racconto: “Sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano dentro di sé” (5). E ancora si sofferma sull’importanza della componente immaginativa, elemento fondamentale del processo creativo specificamente umano:

Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini (6).

Tutto il processo narrativo e immaginativo messo in piedi da Calvino funziona perfettamente, tanto che nella mente di alcuni lettori questi fenomeni divengono così nitidamente visibili e definiti da avere bisogno di essere espressi in altre e nuove forme. Questi lettori particolarmente recettivi percorrono a ritroso lo stesso percorso creativo dell’autore: partono dai racconti delle città e giungono, attraverso il processo immaginativo, alla creazione della propria opera d’arte. Il legame che si crea tra il libro e l’arte diviene intuitivamente esplicito rileggendo le parole di una delle tante conferenze tenute da Calvino in diverse università americane: “Il mio libro si apre e si chiude su immagini di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste dalle città infelici” (7).

“Immagini” e ‘prendere forma’: sono parole che con grande semplicità rimandano alla dimensione artistica. A questa caratteristica del libro di Calvino si sono agganciati gli artisti Karina Puente e Colleen Corradi Brannigan, che si sono lasciati trasportare dalla forza immaginativa dei racconti dello scrittore, ne hanno tratto ispirazione e hanno ricreato le città invisibili calviniane in una nuovo forma, tutt’altro che invisibile.

Karina Puente è un architetto che vive a Lima. Amante di libri, disegno e città, ha deciso di unire insieme le sue passioni e di dedicarsi ad un particolare progetto: “55 invisible cities project”. L’artista-archietto estrapola dalla raccolta di Calvino le descrizioni delle città che la ispirano maggiormente e ne ricrea la complessità in disegni surreali. Per dar forma alle sue illustrazioni Puente non usa solo il disegno, ma lavora con diversi tipi di materiale cartaceo e matite, che poi ritaglia, sovrappone, mischia insieme su diversi strati per dare profondità all’opera.

Zirma, Karina Puente
Isidora, Karina Puente

Anche Colleen Corradi Brannigan dedica un’ampia fetta della sua vita artistica alle città invisibili. L’artista si avvicina all’opera calviniana molto lentamente, scoprendo il piacere di dare forma alle Città dopo molti anni di espozioni e lavori artistici di altra e varia fattura. La rivista spagnola «Suma+», che si occupa prettamente di matematica e materie scientifiche, ha definito “Straordinario il modo in cui Corradi interpreta le Città di Calvino incorporandone gli aspetti matematici di alcune di esse: la caratteristica urbana primordiale di Trude; la riproduzione di quello che in matematica si chiama inversione geometrica in Valdrada; la configurazione frattale tridimensionale di Pentesilea; la superficie elicoidale di Olinda” (8). Visitando la sua pagina internet  si possono trovare – e acquistare – tutte le sue opere. Colleen Corradi Brannigan realizza sculture, litografie, acquerelli, grafiche, olii e acrilici, donando alle Città una vasta gamma di forme di espressione.

Fillide, acrilico, Colleen Corradi Brannigan
Tecla, scultura, Colleen Corradi Brannigan

Sono tuttavia molti gli artisti che si sono lasciati ispirare dalla lettura de Le Città invisibili: da ogni parte del mondo e in stili completamente diversi e personalissimi, hanno provato a rendere in forma visuale le descrizioni delle città immaginate da Calvino. Questo a dimostrazione del fatto che le parole e le immagini, fuse assieme, creano una rete di connessioni e condivisione che travalica i confini geografici, sociali e artistici.

Zenobia

Ora dirò della città di Zenobia che ha questo di mirabile: benchè posta su terreno asciutto essa sorge su altissime palafitte, e le case sono di bambù e di zinco, con molti ballatoi e balconi, poste a diversa altezza, su trampoli che si scavalcano l’un l’altro, collegate da scale a pioli e marciapiedi pensili, sormontate da belvederi coperti da tettoie a cono, barili di serbatoi d’acqua, girandole marcavento, e ne sporgono carrucole, lenze e gru. Quale bisogno o comandamento o desiderio abbia spinto i fondatori di Zenobia a dare questa forma alla loro città, non si ricorda, e perciò non si può dire se esso sia stato soddisfatto dalla città quale noi oggi la vediamo, cresciuta forse per sovrapposizioni successive dal primo e ormai indecifrabile disegno. Ma quel che è certo è che chi abita a Zenobia e gli si chiede di descrivere come lui vedrebbe la vita felice, è sempre una città come Zenobia che egli immagina, con le sue palafitte e le sue scale sospese, una Zenobia forse tutta diversa, sventolante di stendardi e di nastri, ma ricavata sempre combinando elementi di quel primo modello. Detto questo, è inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non e in queste due specie che ha senso dividere la città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati.

Zenobia, Maria Monsonet
Zenobia, Colleen Corradi Brannigan
Karina Puente

Despina

In due modi si raggiunge Despina: per nave o per cammello. La città si presenta differente a chi viene da terra e a chi dal mare. Il cammelliere che vede spuntare all’orizzonte dell’altipiano i pinnacoli dei grattacieli, le antenne radar, sbattere le maniche a vento bianche e rosse, buttare fumo i fumaioli,pensa a una nave, sa che è una città ma la pensa come un bastimento che lo porti via dal deserto, un veliero che stia per salpare, col vento che già gonfia le vele non ancora slegate, o un vapore con la caldaia che vibra nella carena di ferro, e pensa a tutti i porti,alle merci d’oltremare che le gru scaricano sui moli, alle osterie dove equipaggi di diversa bandiera si rompono bottiglie sulla testa, alle finestre illuminate a pian terreno, ognuna con una donna che si pettina.Nella foschia della costa il marinaio distingue la forma d’una gobba di cammello, d’una sella ricamata di frange luccicanti tra due gobbe chiazzate che avanzano dondolando, sa che è una città ma la pensa come un cammello dal cui busto pendono otri e bisacce di frutta candita, vino di datteri, foglie di tabacco, e già si vede in testa a una lunga carovana che lo porta via dal deserto del mare, verso oasi d’acqua dolce all’ombra seghettata delle palme, verso palazzi dalle spesse mura di calce, dai cortili di piastrelle su cui ballano scalze le danzatrici, e muovono le braccia un po’ del velo e un po’ fuori dal velo. Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone; e così il cammelliere e il marinaio vedono Despina, città di confine tra due deserti.

Despina, litografia, Colleen Corradi Brannigan
Despina, Ricardo Bonacho
Despina, Karina Puente

Ottavia

Se volete credermi, bene. Ora dirò come è fatta Ottavia, città – ragnatela. C’è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere il piede negli intervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Sotto non c’è niente per centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s’intravede più in basso il fondo del burrone. Questa è la base della città: una rete che serve da passaggio e da sostegno.Tutto il resto, invece d’elevarsi sopra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case fatte a sacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, otri d’acqua, becchi del gas,girarrosti, cesti appesi a spaghi, montacarichi, docce, trapezi e anelli per i giochi,teleferiche, lampadari, vasi con piante dal fogliame pendulo.Sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge. ma non posso più chiamarla con un nome, né ricordare come potevo darle un nome che significa tutt’altro.

Ottavia, Maria Monsonet
Ottavia, Eda Akaltun
Ottavia, Rebecca Chappell
Ottavia, acquerello, Colleen Corradi Brannigan

Note

(1) Francesca Serra, Calvino, p. 329, Salerno, Roma, 2006.

(2) Ivi. p. 324.

(3) Italo Calvino, Le città invisibili, p. VI, Mondadori, Milano, 2016 (Einaudi, 1972).

(4) Francesca Serra, Calvino, cit., p.322.

(5) Italo Calvino, Lezioni americane, p. 90, Mondadori, Milano, 2016 (Garzanti, 1988).

(6) Italo Calvino, Lezioni americane, cit., p 94.

(7) Italo Calvino, Le città invisibili, cit., p. X

(8) http://www.cittainvisibili.com/

Bibliografia e sitografia

Calvino Italo, Le città invisibili, Mondadori, Milano, 2016 (Einaudi, 1972).

Italo Calvino, Lezioni americane, Mondadori, Milano, 2016 (Garzanti, 1988).

Serra Francesca, Calvino, p. 329, Salerno, Roma, 2006.

http://www.cittainvisibili.com/

Pigmalione, o apologia di una giovane sposa

La seguente composizione, scritta da Valentina Monateri,  racconta la storia ed il rapporto tra Pigmalione e la Statua di cui è caduto innamorato. Quest’opera è frutto di un progetto sulle riscritture di opere classiche come Le Metamorfosi e L’Iliade.

***

STATUA:
Ero l’arte che nell’arte si cela.
Ora sono donna e carne vera.
Dice sempre che l’arte è come me:
Viva un bel giorno, senza un perché.
Lui mi istruisce e mi spiega la vita,
È convinto di avermi capita,
Di conoscere la donna perfetta,
Colei che ha pace, lei che aspetta.
Lui pensa: “Tu sei lì che aspetti me”,
E davvero son corpo appoggiato
– Come mobilia nella grande casa –
Per anni e anni io ho pensato
Di essere la più felice sposa.
Passo scalza sul freddo pavimento
E leggo i romanzi che mi ha dato,
Amo le eroine che son fantasia
E giorno per giorno sento lui dire
Che il mio corpo è pura poesia.
Io sto qui e aspetto il Natale
– Qui leggo i romantici inglesi –
Non so bene cosa desiderare,
Forse giorni pieni di avventura…
Ma si sa, son stupida, un po’ lenta
– Io ho il cervello in pietra dura –
Dice: “Se istruita, sarai contenta”.

PIGMALIONE:
Guardatela lì: sempre si lamenta.
Rientrato a casa trovo te, sposa,
Che premurosa dovresti soltanto
Accogliermi e assistermi in casa.
Non chiedo molto, dopotutto, dài,
Son gentiluomo a tutti gli effetti,
Non chiedo molto dopotutto, sai,
Ho aperto la tua mente ai concetti.

STATUA:
Tu fai l’errore di credermi tua,
Caro, tu non conosci la vera Natura:
Tu credi ch’io sia una tua creatura.
Come Creatore dalla tua altura
Ti sei illuso di dar forma alla vita
-Diversa da ciò che hai tra le dita-
Così diversa da ciò che tu credi,
Così imprevedibili e segreti
Sono tutti i suoi movimenti.
È stata un’illusione pensare
Che ciò che è e ha ragionamento
Veramente si potesse educare,
Che ciò che ama e ha turbamento
Non desideri amore e amare.
Ma lo sai: la vita tu non l’hai compresa,
Nonostante tu abbia tanto letto.
Siamo qui noi due, moglie e marito
Già legati nel connubio perfetto,
Eppure ti dico caro, quest’anno,
Quando qui noi vivremo il Natale,
Fissando le stelle, gli dei che vanno,
Io oserò poter desiderare.
Al cielo per commuoverli ardita
Esprimerò il segreto desiderio:
Forse per la mia forma di vita
– Imparando da te, senza criterio –
Chiederò una nuova forma,
Forse chiederò un nuovo amore
E farò ciò che sfugge alla ragione.
Tu questo non lo avevi previsto,
Tu hai osato crederti un dio,
Tu hai osato poter pretendere
La pura potenza della bellezza.
Ma ora la bellezza ti insegna
Che non tutto è poi prevedibile;
Ora la pura e bella forma dice,
A te che apri la mia fantasia,
Che esiste il caos dopo l’armonia.
La verità è che è poco sacro
Amare una cosa, un simulacro,
E desiderare l’inanimato.
Creatore hai confuso i confini
Di tutta la tua enorme distesa,
Come se proprio tu non lo sapessi
Fino a dove la terra è stesa
E fino a dove arriva il mare,
Quanto in là la vita può arrivare,
E dove regna solo l’irreale.

PIGMALIONE:
È così che si rimprovera un “dio”?
Così ci si inizia a insuperbire?
La tua forma è quanto amo io,
E questo è facile da capire,
Ma amo anche questa donna distruttiva,
Io amo colei che è prova viva
Di una vita vissuta come sogno,
Rara come i frutti di cotogno.0
Sì, io voglio tutti i tuoi turbamenti
E voglio la verità della cosa
Perfetta e unica che tu sei,
Voglio l’ordine dei tuoi sentimenti.

STATUA:
Io credo tu sogni l’impossibile,
Io credo, sai, sia irraggiungibile,
La meta che stavamo cercando.
Conosci la forma che mi stai dando,
Mentre io, vedi, la voglio creare:
Ami la donna che è qui a parlare,
Mentre io la sto ancora scoprendo.
Allora, per risolvere, ti chiedo
Per Natale mi farai un regalo:
Che questa terra che posso essere
Resti sempre pura e intoccata,
Che nessuna pianta sia calpestata,
Così che tu impari a capire
Come guardare una sponda fiorire,
Così che tu impari a credere
In una terra solo da vivere.

Alle “Soglie del visibile”: intersezioni fra letteratura e fotografia

Centro Studi Arti della Modernità | Centre for Comparative Modernisms organizza la Conferenza Internazionale “Borders of the Visible. Intersections between Literature and Photography”, che si terrà nei giorni di mercoledì 15, giovedì 16, venerdì 17 e sabato 18 novembre a Torino, tra il Palazzo del Rettorato, il Circolo dei Lettori, Palazzo Badini e la Cavallerizza Reale. Il programma dettagliato, con indicazione di orari e sedi di svolgimento degli interventi, è reperibile al seguente link:

http://centroartidellamodernita.it/wp-content/uploads/2012/11/CSAM-Borders-of-the-Visible-Programme-20-Oct-2017.pdf.

Per informazioni scrivere a info@centroartidellamodernita.it.

Riscrivendo Shakespeare: i Sonnets dalla poesia al teatro

Qui allegato il file contenente il prodotto finale del seminario Riscritture dell’a. a. 2017-2018, incentrato sul tema La bellezza in Shakespeare: Venus and Adonis, The Sonnets: fonti e confronti nell’ottica del corso Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

seminario Riscritture – Sonnets di Shakespeare