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Narrations of Origins in World Cultures and the Arts – Program

THE DRAFT AGENDA

Tuesday 24.11.2020

Circolo dei Lettori

16.30 Opening event

Raccontare le origini: dal mito al Big Bang e oltre

Vincenzo Barone, Giorgio Ficara, Massimo Fusillo, Giulio Guidorizzi, Chiara Simonigh, Alberto Voltolini

Wednesday 25.11.2020

Aula Magna Cavallerizza Reale

9.00 Registration

9.30 Welcome Address

10.00 Plenary

Piero Boitani (Comparative Literature, University “Sapienza” Rome), “Principia”: Models of the Beginning in Western Culture.

Priyamvada Natarajan (University of Yale, Department of Astronomy and Physics), Conceptions of Cosmos from Then to Now.

11.15: Coffee break

11.30

Stefano Piano (Indology, University of Torino), The Origin of the Universe as Narrated in “Old” Texts of India.

Iain Hamilton Grant (Philosophy, University West England, Bristol)

Lunch (chiostro Rettorato)

14.30-16.00 Plenary

Claude Calame (Anthropologie et Histoire des Mondes Antiques, directeur d’études de l’École des Hautes études en Sciences Sociales, Paris), Narration des origines de la femme: la naissance d’Êve et la création de Pandôra en comparaison différentielle.

Maria Teresa Giaveri (Comparative Literature, Accademia delle Scienze, Chevalier des Arts et des Lettres), Sur l’Ébauche d’un serpent. L’origine selon Paul Valéry.

17.00-19.00 Parallel Sessions

Thursday 26.11.2020

Aula Magna Cavallerizza Reale

9.30 Plenary

Enrico Bertino (Pediatrics, University of Torino), Nature or Nurture? Where Inequalities Begin.

Silvia Romani (Mythology and Religions of the Classical World, University of Milano), Supernatural and Postnatural Births: Ancients Believes in Human Reproduction.

11-14

Parallel Sessions

OriginsPanelProgram

Lunch

15-17

Parallel Sessions

18.00-19.30 Auditorium “A. Vivaldi”, Biblioteca Nazionale Universitaria, Torino

Reading/Musical Performance: Alberto Rizzuti(History of Music Civilization, University of Torino), con Irene Zagrebelsky, Carlo Pestelli e Ugo Macerata.

Conference Banquet (Social dinner)

Friday 27.11.2020

Aula Magna Cavallerizza Reale

9.30 Plenary

José Alegría (Historia del teatro universal, Instituto Superior de Arte de La Habana), Bacantes, de Raquel Carrió: Mito de la permanencia y relectura cubana de Eurípides.

Alessandro Vitale Brovarone(University of Torino, Romance Philology), La création de la Bible au Roman de Renart.

11-14

Parallel Sessions

Excursion to The Palace of Venaria

Visit and plenary: Maria Beatrice Failla (Theory and History of Restoration of Cultural Heritage, University of Torino, Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale) ; Sergio Pace (Department of Architecture and Design, Politecnico of Torino).

Podcast: La peste di Camus e il Coronavirus. Riflessioni letterarie sulle reazioni umane

Veronica Pinti è una studentessa della laurea magistrale in Letteratura, Filologia e Linguistica italiana presso l’Università degli Studi di Torino. Si è laureata in Lettere nell’ a.a 2018, con una tesi in Geografia Linguistica dal titolo Tassonomia popolare di alcuni ittionimi di area abruzzese e molisana. Nel 2016 ha partecipato a Contro la guerra: l’Iliade riscritta da noi, a cura di C. Lombardi e M. Cravero.  Attualmente sta svolgendo un periodo di mobilità erasmus in Croazia, presso l’Università degli studi di Zara.

*

In questo podcast, riflette sul tema della peste nel romanzo di Camus e lo compara con il nostro tempo, dipanando alcune riflessioni letterarie sulle relazioni umane. [qui la Lettura originale]

Omnia mutantur, nihil interit. Le influenze ovidiane nella filosofia della natura di Leonardo da Vinci

di Andrea Pace

Scrivere di Leonardo da Vinci, e in particolare della Gioconda, può, con molta facilità, sfociare in luoghi comuni sedimentati da secoli nella mente e nell’immaginario di chiunque ne abbia sentito parlare: il genio dell’artista, il più importante ritratto – o addirittura il dipinto – mai fatto, lo sfumato di Leonardo e il sorriso enigmatico della Gioconda.

Un aspetto, a parer mio importante, spesso tralasciato o magari solo considerato marginale è quello della filosofia della natura di Leonardo, troppo importante per un uomo che ha votato l’intera sua esistenza allo studio ossessivo di tutti gli aspetti della grande Madre, dalle conchiglie fossili che trovava nel giardino di casa ai mari, dai fiumi alle montagne, senza mai tralasciare di raffigurare ogni cosa attraverso il suo sublime disegno e i suoi dipinti. Una filosofia della natura che, fra le tante influenze, deve tantissimo alle Metamorfosi di Ovidio, a partire dalla sua descrizione della genesi del cosmo e dell’uomo, fino al quindicesimo libro, da cui l’artista fiorentino ricava gran parte della sua concezione naturale.

Omo sanza lettere, come si autodefiniva nei suoi scritti, Leonardo non poté studiare, al pari dei suoi contemporanei umanisti, il latino e il greco; sentendosi in difetto andò alla ricerca continua di una nuova forma di conoscenza, sottovalutata e malconsiderata all’epoca, ovvero quella che lui definì la sperienza. Leonardo però non rifiutò mai di studiare i grandi scrittori del passato, da lui definiti altori, anzi tra i suoi innumerevoli manoscritti sono stati trovati diversi elenchi di libri in suo possesso o anche solo desiderati. Tra tutti i suoi testi, come spiega Carlo Vecce, le Metamorfosi ovidiane sono il grande libro della natura per il giovane Leonardo a Firenze negli anni Settanta[1] da cui trasse spunto per scritti, disegni e dipinti.

Le Metamorfosi

Il poema latino, che probabilmente costò l’esilio al suo scrittore, narra di forme mutate in corpi nuovi, di trasformazioni, violenze fatte e subite, fughe e inseguimenti, amori e tradimenti, ma soprattutto di una natura vitale, che nonostante le ire e i progetti di distruzione divini non muore mai, ma anzi si trasforma in altro, in qualcosa di migliore rispetto alla condizione precedente.

Nel Libro I Ovidio racconta che in principio era il Caos – descritto come il volto della natura (naturea vultus) al verso n.6 – ma una natura melior, una divinità – non importa quale – intervenne per mettere ordine e così separò il cielo dalla terra, quest’ultima dall’acqua e poi l’aria spessa dal cielo puro. Il passo successivo furono i quattro elementi per dare ulteriore ordine all’universo, poi avvenne la separazione delle acque, dei venti e delle aree climatiche, fino a giungere alle stelle scintillanti e palpitanti. In ultimo fu creato l’uomo, proprio per guardare la meraviglia del cielo stellato.

Questa descrizione della creazione del cosmo, in molti aspetti simile a quella biblica[2], deve molto alla filosofia antica, in particolare a quelle anassagorea e pitagorica. La prima non è mai citata esplicitamente, ma diversi termini del primo libro sembrano essere diretti rimandi al pensatore di Clazomene – o almeno a un contesto culturale influenzato dalle sue idee sul cosmo –: il Caos iniziale, descritto come rudis indigesteque moles… non bene iunctarum discordia semina rerum[3]e ordinato da una divinità – quisquis fuit[4] –, è troppo simile alle anassagoree omeomerie (termine dato da Aristotele ai semi originari di Anassagora) inizialmente mescolate caoticamente, ma poi ordinate da un non meglio determinato Nous, una ragione ordinatrice, una forza separatrice che porta il filosofo a comprendere che tutto è in tutto, che in natura ogni cosa è unita alle altre.

La filosofia pitagorica di Ovidio invece è esplicitamente mostrata nel Libro XV, in cui è proprio il filosofo di Samo a parlare dalla sua adottiva Crotone enunciando un discorso che mescola il pitagorismo con varie filosofie, come quelle Anassimandrea – di cui Pitagora fu allievo –, Empedoclea ed Eraclitea: la nuova filosofia deve portare i suoi acusmatici[5] discepoli a elevarsi a non temere più la morte, poiché i corpi si dissolvono e si decompongono, ma le anime sopravvivono e si reincarnano. Le forme cambiano, così come i fiumi, le acque, il colore del cielo, i quattro elementi, la Luna, le stagioni, gli uomini, i cadaveri, i popoli, le civiltà e i costumi, ma una sola è la verità che permane nel tempo: Omnia mutantur, nihil interit[6].

La filosofia della natura di Leonardo

A questo punto il passaggio alla filosofia della natura di Leonardo è fin troppo semplice: tutte le sue tensioni epistemologiche riguardo le ragioni seminali del cosmo vengono a galla (parafrasando l’introduzione di Carlo Vecce agli Scritti di Leonardo) e

trovano espressione in quei fogli del primo periodo milanese che in un discorso unitario, introdurranno il mito vinciano della caverna scrigno dei segreti naturali…collegato all’esposizione della dottrina di Pitagora nel XV libro delle Metamorfosi di Ovidio.[7]

In quegli scritti Leonardo inventò e raccontò alcuni miti, di cui sarà utile al presente discorso tenerne a mente tre: Il mostro marino (Ar. 156), L’accrescimento della terra (Atl.715) e La caverna (Ar. 155v). Nel primo si narra la storia di un oscuro e terribile mostro marino che distrugge e intimorisce ogni cosa gli si ponga di fronte; ma anche questo mostro è costretto a morire, come ogni elemento della natura, poiché il tempo, consumatore delle cose[8],in sé rivolgendole dà alle tratte vite nuove e varie abitazioni e ora il mostro disfatto dal tempo, paziente diace in questo chiuso loco. Colle ispogliate, spolpate e ignude ossa ha fatto armadura e sostegno al sopraposto monte[9].

Il mostro è morto e decomposto, ma la legge che domina l’universo vinciano è quella di Ovidio, quella dell’omnia mutantur, nihil interit, che in Leonardo diviene la legge di accrescimento della terra, che lo porta a chiedersi: Or non s’è veduto le sassose cime de’ monti, la viva pietra per lungo tempo col suo accrescimento aver inghiottito una appoggiata colonna, e… aver lasciato nel vivo sasso la sua accanalata forma?[10] La necessità naturale prevede dunque che nulla si distrugga, nemmeno le rocce, ma che ogni elemento si trasformi in un altro riassumendo in questo modo le principali influenze prima descritte: Anassagora – citato esplicitamente da Leonardo in Atl. 1067[11] – e Pitagora, riassunti nella figura di Ovidio scrittore delle Metamorfosi.

Il mostro deceduto e decomposto non si trasforma in un qualsiasi elemento naturale, ma in sostegno al sopraposto monte, che sembra essere la Caverna di cui Leonardo aveva già parlato nei suoi scritti con questi termini:

E tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, piegato le mie reni in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio e colla destra mi feci tenebre alle abbassate e chiuse ciglia e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era. E stato alquanto, subito salse in me due cose, paura e desidero: paura per la minacciante e scura spilonca, desidero per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa.[12]

Una caverna che è il simbolo della vita di Leonardo, della sua brama di conoscenza che, in quanto omo sanza lettere, deve partire dall’esperienza sensibile del mondo, ma in quanto genio deve essere accompagnata e stimolata dalla lettura di quegli altori tanto stimati, ma senza divenire uno dei trombetti e recitatori delle altrui opere, che vanno sconfiati e pomposi, vestiti e ornati non delle loro ma delle altrui fatiche[13].

La Gioconda

Per Leonardo dunque le forme non sono mai fisse o stabili, la natura non è mai sempre la stessa; riprendendo le antiche filosofie ricorda alla sua epoca che l’universo muta costantemente e senza riguardi per gli esseri che lo popolano, compresi gli uomini. Tutto si trasforma, nulla perisce è il suo insegnamento, che porta con sé tante questioni esistenziali che saranno care ad altri pensatori e scrittori del futuro[14]. Leonardo è ben cosciente che queste teorie possano spaventare gli uomini, che la necessità naturale con il suo ciclo fatto di nascita, vita, morte e rinascita in altra forma atterrisca ogni individuo che ignori le ragioni ultime, seminali, del cosmo, ma proprio per questo propone un dipinto come mai ne furono realizzati prima: la Gioconda.

L’esperienza – unita alla ragione e allo studio – deve portare alla ricerca delle suddette ragioni, alla comprensione delle leggi naturali e alla loro rappresentazione nei dipinti e negli infiniti disegni e abbozzi[15], che culminano nella Monna Lisa, che forse più che un ritratto può essere considerato un trattato di filosofia della natura[16]. Leonardo nel Trattato sulla pittura dimostra come ogni figura per essere perfettamente dipinta debba partecipare della luce e dell’ombra: le due non devono mai essere separate, anzi devono sfumare l’una nell’altra in una coincidentia oppositorum che ancora rimanda alle filosofie precedentemente menzionate e si rafforza con l’uso di colori opposti affiancati; questa teoria in Leonardo prende il nome di recto contrario ed elimina la concezione del simile conosce il simile, conducendo lo spettatore in un dipinto che si fa specchio, interpretazione e ricreazione della natura, cercando di unire opposti apparentemente inconciliabili (luce e ombra, bianco e nero, necessità e libertà, distruzione e rinascita, paura e ardente desiderio).

Nella Gioconda, tralasciando tutte le questioni riguardo l’identificazione storica, la donna ritratta viene mostrata dall’artista come altro rispetto al pensabile e al dicibile[17], come l’unione di tutti gli archetipi umani, delle figure di donne viste e immaginate: le linee sfumate e il colore perfettamente distribuito rendono quel volto inafferrabile e non commentabile. Il suo volto si fa specchio, si lascia guardare, ma prima di tutto guarda: ricambia lo sguardo dello spettatore, ma in realtà è lei stessa che lo sta aspettando da secoli. Questo sguardo che dura secoli trascina lo spettatore all’interno del dipinto e attraverso i contorni levigati e sfumati lo trasporta direttamente nel paesaggio retrostante, desolato, triste e dai colori uggiosi: montagne stanno per crollare, fiumi in piena stanno per inondare e distruggere ogni cosa, i ponti sono sul punto di essere abbattuti dalle acque e il mondo intero sembra dover cambiare totalmente. Lei però, divina figura, ammicca e sorride, quasi indifferente a tutto ciò; in questo rapporto di singolo a singolo, o meglio di singolo a incomprensibile divinità Leonardo mostra il suo più grande lascito: ha oramai fuso completamente uomo e natura, ha compreso l’indivisibile unione tra tutti gli opposti, tra chiaro e scuro, distruzione e rinascita, necessità e forza creatrice carica di bellezza e armonia; ma non è solo questo, anzi sta dicendo che il mondo fuori di noi è sì meraviglioso, ma è anche terrificante poiché c’è sempre quel mostro marino, scuro e gigantesco, simbolo della necessità naturale che è pronto a distruggerci con diluvi, tempeste, eruzioni vulcaniche e il debole uomo nulla può fare se non cogliere la divina armonia in tutto questo, o meglio trasformare quel mostro nel volto meraviglioso di una donna storica che forse non è mai esistita, che più che una donna forse è la personificazione di quel naturae vultus descritto da Ovidio.

Sulle orme del Pitagora ovidiano insegna a non temere la morte e la distruzione, poiché i corpi, una volta che li ha dissolti il rogo con la fiamma, o il tempo con la decomposizione, non soffrono più[18], idea che per Leonardo si traduce nel meraviglioso ed enigmatico volto di una dama, in un dipinto che non fa altro che riprendere e rendere più diretto e comprensibile il poema ovidiano e le sue teorie pitagoriche – ciò non deve stupire in Leonardo, che appena poteva spendeva parole per sottolineare la superiorità della pittura su tutte le forme artistiche e in particolare sulla poesia, troppo complessa e prolissa, che rischia costantemente di annoiare e rimanere ermetica, mentre il dipinto, con l’uso delle suddette conoscenze e tecniche, è immediato, diretto e facilmente comprensibile.

Insomma il terrificante mostro marino è morto, il suo scheletro simbolo della necessità naturale ha subito la metamorfosi in caverna e infine in dama rinascimentale, ma ora non spaventa più; ora l’uomo, seguendo Leonardo – che per primo si è avventurato in essa caverna –, ha le armi per comprendere che il sorriso della Gioconda è sì ambiguo, ma che solo lo studio e la conoscenza della natura possono renderlo rassicurante e non più qualcosa di beffardo e incomprensibile: qui sta per Leonardo la libertà umana, nell’inserirsi nel sistema della natura, nella necessità che la domina e ricercando le ragioni seminali delle innumerevoli metamorfosi che la contraddistinguono trovarne l’infinita bellezza.

Bibliografia

Ovidio (2015), Metamorfosi, trad. it. a cura di P.B. Marzolla, Torino, Einaudi.

L. da Vinci (1992), Scritti, a cura di C. Vecce, Milano, Mursia.

G. Cuozzo (2013), Dentro l’immagine. Natura arte e prospettiva in Leonardo da Vinci, Bologna, Il Mulino.

Carlo Vecce (2017), La biblioteca perduta. I libri di Leonardo, Roma, Salerno editrice.

Genesi, in La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, ed. Dehoniane.


[1] Carlo Vecce (2017), La biblioteca perduta. I libri di Leonardo, Roma, Salerno editrice, pag. 156.

[2] Si vedano, come più lampanti esempi, in Genesi 1-2 la cosmogonia derivante da un processo di separazione delle forze e di ordinamento da parte di Dio e la creazione di un uomo a Sua immagine e somiglianza per mezzo della polvere del suolo, mentre per Ovidio avviene attraverso la terra ancora recente, che ancora ha in sé parte del cielo divino.

[3] Ovidio, Metamorfosi, Libro I, vv. 8-9, pag. 4. Mole informe e confusa… ammasso di germi discordi di cose mal combinate.

[4] Ivi, v. 32, pag. 6. Chiunque egli fosse.

[5] Ivi, Libro XV, pag. 607. Schiere di discepoli muti e compresi d’ammirazione.

[6] Ivi, v. 165, pag. 612. Tutto si trasforma, nulla perisce.

[7] C. Vecce (1992), Introduzione, in Leonardo da Vinci. Scritti, Milano, Mursia, pag. 7.

[8] Traduzione letterale del Tempus edax rerum di Ovidio in Metamorfosi, Libro XV, v. 234.

[9] L. da Vinci, Il mostro marino, in Leonardo da Vinci. Scritti, pagg. 164-65.

[10] Ivi, L’accrescimento della terra, pagg. 163-64.

[11] Anassagora. Ogni cosa viene da ogni cosa, e d’ogni cosa si fa ogni cosa, e ogni cosa torna in ogni cosa, perché ciò ch’è nelli elementi è fatto da essi elementi.

[12] Ivi, La caverna, pag. 162.

[13] Ovvero coloro i quali non fanno altro che citare e allegare le tesi dei grandi uomini del passato senza però conoscerne le ragioni seminali, senza sperimentarne la verità.

[14] Si pensi anche solo a Leopardi e alla sua ripresa del tema leonardiano della natura madre e matrigna e della sua indifferenza verso l’uomo, ben rappresentata nel Dialogo della Natura e di un Islandese.

[15] Si può dire che con il disegno Leonardo mette in ordine la realtà, ne comprende le forme originarie, ma con la pittura fa ciò che Ovidio fece con la poesia: spiega ai comuni mortali ciò che ha scoperto della natura ricreandola con forme e colori. Come detto nel retro del ritratto di Ginevra de’ Benci: Virtutem Forma Decorat, ovvero la forma adorna la virtù, interpretabile anche come la bellezza adorna la conoscenza.

[16] Come sostiene G. Cuozzo (2013) in Dentro l’immagine. Natura, arte e prospettiva in Leonardo da Vinci, Bologna, Il Mulino.

[17] Ivi, pag. 121.

[18] Ovidio, Metamorfosi, Libro XV, vv. 156-57.

Linee e profili: la poesia di Franco Buffoni

Il collettivo Sul Ponte DiVersi. I poeti d’oggi organizza il terzo incontro di una rassegna dedicata ai poeti italiani contemporanei. L’evento fa parte del Salone Internazionale del Libro Programma #SaloneOFF 2018 e si terrà sabato 12 maggio alle ore 19 presso la libreria Il Ponte sulla Dora in Via Pisa 46 (Torino). Ospite della serata sarà Franco Buffoni, poeta scrittore, traduttore e saggista. Dialogano con lui Riccardo Deiana, Federico Masci, Jacopo Mecca e Francesco Perardi.

Le informazioni relative all’evento sono reperibili al seguente link:

https://www.facebook.com/pontediversi/ 

 

L’‘altro’ allo stetoscopio: il racconto odisseico di François Beaune

Martedì 21 marzo 2018, presso il Campus Einaudi di Torino, il professor Benoit Monginot ha introdotto lo scrittore François Beaune, giovane autore gallimardiano. Nell’ambito delle Giornate della Francofonia (Torino 2018) promosse da “Alliance Française”, l’ospite ha dato agli studenti la possibilità di conoscere direttamente il piano della sua ultima opera, La lune dans le puits.

Sostanzialmente il libro è composto da più di centosettanta brevi storie direttamente prelevate dal reale, histoires vraies che parlano della realtà nuda e cruda e che la presentano senza abbellimenti, modificazioni o rimaneggiamenti, proprio come l’autore stesso le ha ascoltate. La sua fonte di ispirazione è stata l’esperienza da lui fatta tra il 2011 e il 2014, durante la quale, presi microfono e registratore, è partito per un tour del bacino mediterraneo intenzionato a collezionare un’ingente pluralità di voci che chiedeva solo di essere ascoltata.

 

Diversi sono stati gli argomenti principali della conferenza, così come tante sono le relazioni tra pensieri, fatti e parole da ricordare per comprendere la sua ricerca: innanzitutto il motivo che lo ha spinto verso questa impresa odisseica; poi il metodo, argomento fondamentale per realizzare un lavoro di questo respiro; il disegno finale del libro, fortemente collegato al suo titolo, cioè quello di costruire un ponte tra gli uomini che abitano il Mediterraneo; e infine l’augurio più significativo, ossia rendere sempre fecondo e mai deleterio l’incontro con l’‘altro’.

Il suo progetto prende le mosse da un disegno simile dello scrittore americano Paul Auster, il quale, per la National Public Radio, negli anni Zero ha portato a termine il volume True Tales of American Life, raccolta di singole e spontanee testimonianze di cittadini americani, nonché storia statunitense collettiva. Parimenti, Beaune decise di avviare un progetto gemello, dedicato però al mare nostrum e in particolare a Marsiglia, testa di ponte del Mediterraneo e culla di tutte le entità culturali lì presenti, con il saldo presupposto  di creare una biblioteca delle histoires vraies che rispecchiasse la storica frammentarietà dei tanti popoli di queste zone.

Reclamando il diritto alla parola di ogni essere umano, Beaune ha ripercorso questi territori intervistando diverse persone e proponendo loro uno scambio singolare: la loro sincerità nel raccontare per la verità nel riportare; ed è così che è arrivato alla scelta metodologica e narratologica di eclissarsi, unico modo per lasciar emergere agli occhi del lettore la storia di ognuno. Intento a trovare, come ha spiegato, la persona che racconta la storia attraverso la musica delle proprie parole, con il testimone da una parte e la verità dall’altra egli ha dovuto muoversi attentamente, come un equilibrista, per tentare di conservare l’emozione ascoltata e riprodurla così per come si era presentata a lui stesso.

Dunque, il suo libro è interattivo, viaggia in due direzioni: al lettore non viene proposto soltanto la lettura, ma, allo stesso tempo e con un procedimento parallelo, la riscoperta di se stesso: solo specchiandosi nel diverso potrà capire meglio se stesso, interrogarsi sulla propria coscienza di sé e ridefinirsi in funzione degli altri. Insomma, se da un lato l’uomo ha il diritto di parlare, dall’altro ha anche il dovere di ascoltare e conoscere le esistenze degli altri, senza fermarsi soltanto a se stesso e chiudersi nell’individualismo. E questo è anche il messaggio del titolo, che allude ad una citazione di Leonardo Sciascia: “La vérité est au fond du puits. Vous regardez dans un puits: vous y voyez le soleil ou la lune, mais si vous vous jetez dans le puits il n’y a plus ni soleil ni lune; il y a la vérité”. Secondo il siciliano, perciò, soltanto al fondo del pozzo c’è la verità; Beaune, invece, non è interessato direttamente ad essa, quanto più – come spiega restando nella metafora sciasciana – al sole e alla luna che si riflettono sull’acqua del pozzo, cioè al racconto della storia così per come viene narrata dai suoi testimoni. Pertanto ognuno può riscoprirsi e, come la luna, riflettersi sulla superficie dell’acqua, non dimenticando mai, come diceva già Primo Levi, che “parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta” (Se questo è un uomo, 1947).

Il messaggio più evidente di La lune dans le puits è proprio quello che riguarda chi e cosa è ‘altro’ da noi, quello che concerne il sentimento del diverso, quello che al giorno d’oggi è sempre più improntato verso la diffidenza, l’odio e il male. L’augurio con cui l’autore conclude l’incontro riassume alla perfezione il suo spirito: Beaune vorrebbe che il progetto da lui iniziato, sulla scia del suo esempio, diventasse sempre più importante e guadagnasse sempre più sostenitori, fino a farsi mondiale. Soltanto se si avesse a che fare con tutto il mondo, infatti, ci si potrebbe avvicinare notevolmente all’ideale da cui il progetto ha mosso i primi passi. Un ideale che, al giorno d’oggi, sembra venire sempre meno, ma che non per questo merita di passare in secondo piano.