di Andrea Pace
Scrivere di Leonardo da Vinci, e in particolare della Gioconda, può, con molta facilità, sfociare in luoghi comuni sedimentati da secoli nella mente e nell’immaginario di chiunque ne abbia sentito parlare: il genio dell’artista, il più importante ritratto – o addirittura il dipinto – mai fatto, lo sfumato di Leonardo e il sorriso enigmatico della Gioconda.
Un aspetto, a parer mio importante, spesso tralasciato o
magari solo considerato marginale è quello della filosofia della natura di
Leonardo, troppo importante per un uomo che ha votato l’intera sua esistenza
allo studio ossessivo di tutti gli aspetti della grande Madre, dalle conchiglie
fossili che trovava nel giardino di casa ai mari, dai fiumi alle montagne,
senza mai tralasciare di raffigurare ogni cosa attraverso il suo sublime
disegno e i suoi dipinti. Una filosofia della natura che, fra le tante
influenze, deve tantissimo alle Metamorfosi
di Ovidio, a partire dalla sua descrizione della genesi del cosmo e
dell’uomo, fino al quindicesimo libro, da cui l’artista fiorentino ricava gran
parte della sua concezione naturale.
Omo sanza lettere,
come si autodefiniva nei suoi scritti, Leonardo non poté studiare, al pari dei
suoi contemporanei umanisti, il latino e il greco; sentendosi in difetto andò
alla ricerca continua di una nuova forma di conoscenza, sottovalutata e
malconsiderata all’epoca, ovvero quella che lui definì la sperienza. Leonardo però non rifiutò mai di studiare i grandi
scrittori del passato, da lui definiti altori,
anzi tra i suoi innumerevoli manoscritti sono stati trovati diversi elenchi di
libri in suo possesso o anche solo desiderati. Tra tutti i suoi testi, come
spiega Carlo Vecce, le Metamorfosi ovidiane
sono il grande libro della natura per il
giovane Leonardo a Firenze negli anni Settanta[1]
da cui trasse spunto per scritti, disegni e dipinti.
Le Metamorfosi
Il poema latino, che probabilmente costò l’esilio al suo
scrittore, narra di forme mutate in corpi
nuovi, di trasformazioni, violenze fatte e subite, fughe e inseguimenti,
amori e tradimenti, ma soprattutto di una natura vitale, che nonostante le ire
e i progetti di distruzione divini non muore mai, ma anzi si trasforma in
altro, in qualcosa di migliore rispetto alla condizione precedente.
Nel Libro I Ovidio racconta che in principio era il Caos – descritto come il volto della natura (naturea vultus) al verso n.6 – ma una natura melior, una divinità – non importa quale – intervenne per
mettere ordine e così separò il cielo dalla terra, quest’ultima dall’acqua e
poi l’aria spessa dal cielo puro. Il passo successivo furono i quattro elementi
per dare ulteriore ordine all’universo, poi avvenne la separazione delle acque,
dei venti e delle aree climatiche, fino a giungere alle stelle scintillanti e palpitanti. In ultimo fu
creato l’uomo, proprio per guardare la meraviglia del cielo stellato.
Questa descrizione della creazione del cosmo, in molti
aspetti simile a quella biblica[2],
deve molto alla filosofia antica, in particolare a quelle anassagorea e pitagorica.
La prima non è mai citata esplicitamente, ma diversi termini del primo libro
sembrano essere diretti rimandi al pensatore di Clazomene – o almeno a un
contesto culturale influenzato dalle sue idee sul cosmo –: il Caos iniziale,
descritto come rudis indigesteque moles…
non bene iunctarum discordia semina rerum[3]e ordinato da una divinità – quisquis fuit[4]
–, è troppo simile alle anassagoree omeomerie
(termine dato da Aristotele ai semi
originari di Anassagora) inizialmente mescolate caoticamente, ma poi
ordinate da un non meglio determinato Nous,
una ragione ordinatrice, una forza separatrice che porta il filosofo a
comprendere che tutto è in tutto, che
in natura ogni cosa è unita alle altre.
La filosofia pitagorica di Ovidio invece è esplicitamente
mostrata nel Libro XV, in cui è proprio il filosofo di Samo a parlare dalla sua
adottiva Crotone enunciando un discorso che mescola il pitagorismo con varie
filosofie, come quelle Anassimandrea – di cui Pitagora fu allievo –, Empedoclea
ed Eraclitea: la nuova filosofia deve portare i suoi acusmatici[5]
discepoli a elevarsi a non temere più la morte, poiché i corpi si dissolvono e
si decompongono, ma le anime sopravvivono e si reincarnano. Le forme cambiano,
così come i fiumi, le acque, il colore del cielo, i quattro elementi, la Luna,
le stagioni, gli uomini, i cadaveri, i popoli, le civiltà e i costumi, ma una
sola è la verità che permane nel tempo: Omnia
mutantur, nihil interit[6].
La filosofia della natura di Leonardo
A questo punto il passaggio alla filosofia della natura di
Leonardo è fin troppo semplice: tutte le sue tensioni epistemologiche riguardo le ragioni seminali del cosmo vengono a galla (parafrasando
l’introduzione di Carlo Vecce agli Scritti
di Leonardo) e
trovano espressione in quei fogli del
primo periodo milanese che in un discorso unitario, introdurranno il mito
vinciano della caverna scrigno dei segreti naturali…collegato all’esposizione
della dottrina di Pitagora nel XV libro delle Metamorfosi di Ovidio.[7]
In
quegli scritti Leonardo inventò e raccontò alcuni miti, di cui sarà utile al
presente discorso tenerne a mente tre: Il
mostro marino (Ar. 156), L’accrescimento
della terra (Atl.715) e La caverna (Ar.
155v). Nel primo si narra la storia di un oscuro e terribile mostro marino che
distrugge e intimorisce ogni cosa gli si ponga di fronte; ma anche questo
mostro è costretto a morire, come ogni elemento della natura, poiché il tempo, consumatore delle cose[8],in sé rivolgendole dà alle tratte vite nuove e varie abitazioni
e ora il mostro disfatto dal tempo,
paziente diace in questo chiuso loco. Colle ispogliate, spolpate e ignude ossa
ha fatto armadura e sostegno al sopraposto monte[9].
Il mostro è morto e decomposto, ma la legge che domina
l’universo vinciano è quella di Ovidio, quella dell’omnia mutantur, nihil interit, che in Leonardo diviene la legge di accrescimento della terra, che lo porta
a chiedersi: Or non s’è veduto le sassose
cime de’ monti, la viva pietra per lungo tempo col suo accrescimento aver
inghiottito una appoggiata colonna, e… aver lasciato nel vivo sasso la sua
accanalata forma?[10]
La necessità naturale prevede dunque che nulla si distrugga, nemmeno le rocce,
ma che ogni elemento si trasformi in un altro riassumendo in questo modo le
principali influenze prima descritte: Anassagora – citato esplicitamente da
Leonardo in Atl. 1067[11]
– e Pitagora, riassunti nella figura di Ovidio scrittore delle Metamorfosi.
Il mostro deceduto e decomposto non si trasforma in un
qualsiasi elemento naturale, ma in sostegno
al sopraposto monte, che sembra essere la Caverna di cui Leonardo aveva già
parlato nei suoi scritti con questi termini:
E
tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran copia delle varie e
strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto infra gli
ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi alla quale,
restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, piegato le mie reni in
arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio e colla destra mi feci tenebre
alle abbassate e chiuse ciglia e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se
dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la grande oscurità
che là entro era. E stato alquanto, subito salse in me due cose, paura e
desidero: paura per la minacciante e scura spilonca, desidero per vedere se là
entro fusse alcuna miracolosa cosa.[12]
Una
caverna che è il simbolo della vita di Leonardo, della sua brama di conoscenza
che, in quanto omo sanza lettere,
deve partire dall’esperienza sensibile del mondo, ma in quanto genio deve
essere accompagnata e stimolata dalla lettura di quegli altori tanto stimati, ma senza divenire uno dei trombetti
e recitatori delle altrui opere, che vanno sconfiati
e pomposi, vestiti e ornati non delle loro ma delle altrui fatiche[13].
La Gioconda
Per Leonardo dunque le forme non sono mai fisse o stabili, la natura non è mai sempre la stessa; riprendendo le antiche filosofie ricorda alla sua epoca che l’universo muta costantemente e senza riguardi per gli esseri che lo popolano, compresi gli uomini. Tutto si trasforma, nulla perisce è il suo insegnamento, che porta con sé tante questioni esistenziali che saranno care ad altri pensatori e scrittori del futuro[14]. Leonardo è ben cosciente che queste teorie possano spaventare gli uomini, che la necessità naturale con il suo ciclo fatto di nascita, vita, morte e rinascita in altra forma atterrisca ogni individuo che ignori le ragioni ultime, seminali, del cosmo, ma proprio per questo propone un dipinto come mai ne furono realizzati prima: la Gioconda.
L’esperienza
– unita alla ragione e allo studio – deve portare alla ricerca delle suddette ragioni,
alla comprensione delle leggi naturali e alla loro rappresentazione nei dipinti
e negli infiniti disegni e abbozzi[15],
che culminano nella Monna Lisa, che forse più che un ritratto può essere
considerato un trattato di filosofia della natura[16].
Leonardo nel Trattato sulla pittura dimostra
come ogni figura per essere perfettamente dipinta debba partecipare della luce e
dell’ombra: le due non devono mai essere separate, anzi devono sfumare l’una
nell’altra in una coincidentia
oppositorum che ancora rimanda alle filosofie precedentemente menzionate e
si rafforza con l’uso di colori opposti affiancati; questa teoria in Leonardo
prende il nome di recto contrario ed
elimina la concezione del simile conosce
il simile, conducendo lo spettatore in un dipinto che si fa specchio,
interpretazione e ricreazione della natura, cercando di unire opposti
apparentemente inconciliabili (luce e ombra, bianco e nero, necessità e
libertà, distruzione e rinascita, paura e ardente desiderio).
Nella
Gioconda, tralasciando tutte le questioni riguardo l’identificazione storica,
la donna ritratta viene mostrata dall’artista come altro rispetto al pensabile e al dicibile[17], come l’unione di
tutti gli archetipi umani, delle figure di donne viste e immaginate: le linee
sfumate e il colore perfettamente distribuito rendono quel volto inafferrabile
e non commentabile. Il suo volto si fa specchio,
si lascia guardare, ma prima di tutto guarda:
ricambia lo sguardo dello spettatore, ma in realtà è lei stessa che lo sta
aspettando da secoli. Questo sguardo che dura secoli trascina lo spettatore
all’interno del dipinto e attraverso i contorni levigati e sfumati lo trasporta
direttamente nel paesaggio retrostante, desolato, triste e dai colori uggiosi:
montagne stanno per crollare, fiumi in piena stanno per inondare e distruggere
ogni cosa, i ponti sono sul punto di essere abbattuti dalle acque e il mondo
intero sembra dover cambiare totalmente. Lei però, divina figura, ammicca e sorride,
quasi indifferente a tutto ciò; in questo rapporto di singolo a singolo, o
meglio di singolo a incomprensibile divinità Leonardo mostra il suo più grande
lascito: ha oramai fuso completamente uomo e natura, ha compreso l’indivisibile
unione tra tutti gli opposti, tra chiaro e scuro, distruzione e rinascita,
necessità e forza creatrice carica di bellezza e armonia; ma non è solo questo,
anzi sta dicendo che il mondo fuori di noi è sì meraviglioso, ma è anche
terrificante poiché c’è sempre quel mostro marino, scuro e gigantesco, simbolo
della necessità naturale che è pronto a distruggerci con diluvi, tempeste,
eruzioni vulcaniche e il debole uomo nulla può fare se non cogliere la divina
armonia in tutto questo, o meglio trasformare quel mostro nel volto meraviglioso
di una donna storica che forse non è mai esistita, che più che una donna forse
è la personificazione di quel naturae vultus
descritto da Ovidio.
Sulle
orme del Pitagora ovidiano insegna a non temere la morte e la distruzione,
poiché i corpi, una volta che li ha
dissolti il rogo con la fiamma, o il tempo con la decomposizione, non soffrono
più[18], idea che per
Leonardo si traduce nel meraviglioso ed enigmatico volto di una dama, in un
dipinto che non fa altro che riprendere e rendere più diretto e comprensibile il
poema ovidiano e le sue teorie pitagoriche – ciò non deve stupire in Leonardo,
che appena poteva spendeva parole per sottolineare la superiorità della pittura
su tutte le forme artistiche e in particolare sulla poesia, troppo complessa e
prolissa, che rischia costantemente di annoiare e rimanere ermetica, mentre il
dipinto, con l’uso delle suddette conoscenze e tecniche, è immediato, diretto e
facilmente comprensibile.
Insomma
il terrificante mostro marino è morto, il suo scheletro simbolo della necessità
naturale ha subito la metamorfosi in caverna e infine in dama rinascimentale,
ma ora non spaventa più; ora l’uomo, seguendo Leonardo – che per primo si è
avventurato in essa caverna –, ha le armi per comprendere che il sorriso della Gioconda
è sì ambiguo, ma che solo lo studio e la conoscenza della natura possono
renderlo rassicurante e non più qualcosa di beffardo e incomprensibile: qui sta
per Leonardo la libertà umana, nell’inserirsi nel sistema della natura, nella
necessità che la domina e ricercando le ragioni seminali delle innumerevoli metamorfosi
che la contraddistinguono trovarne l’infinita bellezza.
Bibliografia
Ovidio (2015), Metamorfosi,
trad. it. a cura di P.B. Marzolla, Torino, Einaudi.
L. da Vinci (1992), Scritti,
a cura di C. Vecce, Milano, Mursia.
G. Cuozzo (2013), Dentro
l’immagine. Natura arte e prospettiva in Leonardo da Vinci, Bologna, Il
Mulino.
Carlo Vecce (2017), La
biblioteca perduta. I libri di Leonardo, Roma, Salerno editrice.
Genesi, in La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, ed.
Dehoniane.
[1] Carlo Vecce (2017), La biblioteca perduta. I libri di Leonardo,
Roma, Salerno editrice, pag. 156.
[2] Si vedano, come più lampanti
esempi, in Genesi 1-2 la cosmogonia derivante da un
processo di separazione delle forze e di ordinamento da parte di Dio e la
creazione di un uomo a Sua immagine e
somiglianza per mezzo della polvere del suolo, mentre per Ovidio avviene
attraverso la terra ancora recente,
che ancora ha in sé parte del cielo divino.
[3] Ovidio, Metamorfosi, Libro I, vv. 8-9, pag. 4. Mole informe e confusa… ammasso di germi
discordi di cose mal combinate.
[4] Ivi, v. 32, pag. 6. Chiunque
egli fosse.
[5] Ivi, Libro XV, pag. 607. Schiere
di discepoli muti e compresi d’ammirazione.
[6] Ivi, v. 165, pag. 612. Tutto
si trasforma, nulla perisce.
[7] C. Vecce (1992), Introduzione, in Leonardo da Vinci. Scritti, Milano, Mursia, pag. 7.
[8] Traduzione letterale del Tempus edax rerum di Ovidio in Metamorfosi, Libro XV, v. 234.
[9] L. da Vinci, Il mostro marino, in Leonardo da Vinci. Scritti, pagg.
164-65.
[10] Ivi, L’accrescimento della
terra, pagg. 163-64.
[11] Anassagora. Ogni
cosa viene da ogni cosa, e d’ogni cosa si fa ogni cosa, e ogni cosa torna in
ogni cosa, perché ciò ch’è nelli elementi è fatto da essi elementi.
[12] Ivi, La caverna, pag. 162.
[13] Ovvero coloro i quali non
fanno altro che citare e allegare le tesi dei grandi uomini del passato senza
però conoscerne le ragioni seminali, senza sperimentarne la verità.
[14] Si pensi anche solo a
Leopardi e alla sua ripresa del tema leonardiano della natura madre e matrigna
e della sua indifferenza verso l’uomo, ben rappresentata nel Dialogo della
Natura e di un Islandese.
[15] Si può dire che con il disegno Leonardo mette in ordine la
realtà, ne comprende le forme originarie, ma con la pittura fa ciò che Ovidio fece con la poesia: spiega ai comuni
mortali ciò che ha scoperto della natura ricreandola con forme e colori. Come
detto nel retro del ritratto di Ginevra de’ Benci: Virtutem Forma Decorat, ovvero la forma adorna la virtù, interpretabile anche come la bellezza adorna la conoscenza.
[16] Come sostiene G. Cuozzo
(2013) in Dentro l’immagine. Natura, arte e
prospettiva in Leonardo da Vinci, Bologna, Il Mulino.
[17] Ivi, pag. 121.
[18] Ovidio, Metamorfosi, Libro XV, vv. 156-57.