Beatrice Robaldo parte dall’idea e dall’immagine visiva del rispecchiamento, fonte di contatto intimo e profonda conoscenza, per sviluppare un racconto dove i protagonisti sono evocazioni di sentimenti, riflessi emozionali legati al desiderio che cadono l’uno nell’altro e possono accogliere indistintamente le esperienze personali dei lettori, nell’ambito del seminario Scritture del desiderio, legato al corso di Letterature comparate B, 2021/20221, Prof.ssa Chiara Lombardi.
“Quel mondo non sapeva guardare i riflessi, non vedeva la bellezza nell’unione, era insofferente al dolore, ingenuamente, egoisticamente, pericolosamente insofferente al dolore, quel mondo vedeva tutta l’aria che separava l’acqua e il cielo e aveva deciso di riempirla, con la morfina.”
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Cosa può essere più superficiale di uno specchio che riflette? Cosa più fragile, mutevole, inafferrabile di un riflesso, si chiese accarezzando il cielo con le dita, che già scompariva in milioni di rughe ondulanti. Sembrava quasi che l’acqua aggrottasse la fronte ogni volta che lei cercava di toccare le sue nuvole. Amava guardare il cielo riflesso nell’acqua, lí ogni distanza si annullava, ogni affanno si spegneva, il cielo era nell’acqua e l’acqua nel cielo, non li separava neppure un granello d’aria, il loro abbraccio era troppo stretto. Forse non erano neanche più abbracciati, erano solo insieme, così insieme da essere uno.
Che riflesso bugiardo, che riflesso eterno.
Un passo indietro dalla riva, continuava a guardarli.
Si passò le dita sul viso e questa volta ciò che incontrarono non si deformò, non sparí, al contrario, solida, fredda, ruvida, si fece sentire in tutta la sua materialità, in tutta la sua presenza.
Aveva ormai imparato la differenza fra le cose della vita, differenza che si esauriva essenzialmente nella contrapposizione fra ciò che si sente e ciò che si tocca. Ciò che si sente non può essere ne stretto ne toccato, eppure è vero il contrario, ciò che si tocca può essere sentito. Lei ad esempio lo sentiva, il peso della sua maschera tra le dita, il peso sul suo volto, sul suo cuore. Ma quel mondo, il suo mondo, sembrava non essere capace di sentire. Forse non gli piaceva, ascoltare.
C’era un altro aspetto del mondo che aveva imparato a conoscere: il mondo era insofferente al dolore, così insofferente da cercare ossessivamente un modo per esserne indifferente. E anche per il dolore le cure erano due, una che si poteva sentire, l’amore – forse quella non l’avrebbe mai conosciuta – e una che si poteva toccare, la morfina. Facile capire quale aveva preferito il mondo.
Ah, che mondo strano, pensò facendo un passo verso la riva.
Quel mondo non sapeva guardare i riflessi, non vedeva la bellezza nell’unione, era insofferente al dolore, ingenuamente, egoisticamente, pericolosamente insofferente al dolore, quel mondo vedeva tutta l’aria che separava l’acqua e il cielo e aveva deciso di riempirla, con la morfina. Che mondo strano. Chissà quanti cieli e quante acque c’erano stati prima che il mondo avesse smesso di guardare i riflessi, di sentire, di ascoltare… Prima che avesse avuto troppa paura di essere.
Si tolse la maschera e trattenne il respiro. Quella maschera non le permetteva di stare bene, le impediva di respirare morfina e questo significava non essere anestetizzati al dolore. Avrebbe potuto farlo, un piccolo sospiro e anche lei sarebbe diventata indifferente, avrebbe guardato il cielo dal basso e non avrebbe più sentito il peso della mancanza, della lontananza. Sarebbe stato normale, l’indifferenza sarebbe diventata normale. Non essere significava stare bene.
Trattenne il respiro e fece un ultimo passo avanti. Guardò il suo riflesso nell’acqua, nel cielo, il suo volto nudo, il suo essere. Perderlo, perdersi, la terrorizzava.
Ma essere era così difficile, così dannatamente difficile.
Era davvero?
L’acqua si increspò, il volto sembrò cambiare le sue sembianze.
Si era persa?
Morfina nell’aria, un mondo senza amore, un’anima senza amore.
Si sarebbe mai ritrovata?
Altrove.
Il cielo si rannuvolò, si fece sempre più buio, l’acqua si ghiacciò, divenne dura, scintillante, divenne uno specchio. Era buio, ma riusciva a vedersi, aveva gli occhi chiusi, ma riusciva a specchiarsi. E come al solito non andava bene. Era buio e non andava bene. Era buio. Lei non andava bene.
Gli diede un pugno, non gli era rimasto neanche un briciolo di forze, le aveva risucchiate tutte, le aveva buttate, sprecate, ne era soffocata, e il braccio, quel braccio molle di un corpo molle, mosso da una mente molle, molle e debole, si alzò con una violenza isterica, insulsa e impattò contro la superficie piatta e fredda, fredda del vetro e spaccò in mille pezzi, un milione di schegge e quelle piccole piccole si conficcarono ovunque, sotto le unghie, sotto la pelle, sotto le ciglia. Scorreva l’acqua, era rossa, rossa come il sangue che si ostinava a passare, nelle vene, nel cuore, negli occhi, sanguinavano gli occhi e i polmoni e le mani e i capelli ne erano incrostati. Tirò i capelli, li tirò forte e il vetro si ruppe di nuovo, urlò e il vetro si ruppe ancora, stette immobile e le schegge si conficcarono più a fondo, respirò, e loro andarono più giù, sempre più giù e ancora e ancora. Ancora e ancora. Il petto era un pozzo, un pozzo stretto stretto. Si dimenò, era caduta in un pozzo. Non c’era aria, non c’erano appigli, ma l’aria doveva passare di lì, doveva uscire dal pozzo, ma non poteva, perché lei occupava tutto lo spazio, si stava togliendo l’aria da sola. Il pozzo cercò dolorosamente di aumentare le sue dimensioni e la pelle si stirò innaturalmente. Vide le pareti deformarsi nel buio, innervate dal dolore le fibre risplendevano. Vide il colore del dolore e desiderò di essere cieca, poi ne sentì il rumore e desiderò di essere sorda, poi il sapore e desiderò di non sentire mai più un gusto, poi la consistenza e desiderò che le mani diventassero insensibili – come facevano a non esserlo con tutto quel sangue, con tutte quelle ferite? – poi lo sentì di nuovo, non era un suono, non un colore non un gusto, non lo sentì con le orecchie non con gli occhi non con la lingua, lo sentì e basta e desiderò di non avere un cuore, mai più, di essere abbastanza grossa per non far passare l’aria, mai più. Ma lei era piccola, piccola e insulsa, piccola e inutile, piccola e debole, piccola e isterica, piccola e disgraziata e un filo d’aria passò lo stesso, un filo più sottile dello stelo di una margherita di campo fu abbastanza per squarciarla. Era una margherita, una margherita rossa, squarciata dalla terra e stritolata in un pugno. Strinse i pugni e le lenzuola si strinsero, ballavano, bianche, bianche macchiate di rosso le lenzuola ballavano e si stringevano, sulla bocca, attorno al collo. Ne fece una corda per fuggire, la tirò e poi se ne aggrappò, saltò fuori aggrappandosi alle lenzuola e quelle sostennero il peso del suo corpo, strette intorno al collo le lenzuola sostenevano il suo corpo, sempre più strette le impedivano di cadere, sempre più strette le impedivano di respirare.
Il buio avvolgeva ancora ogni cosa, mentre il mondo riposava lei precipitava.
Lui invece era ancora in bilico, sull’orlo di un precipizio, cercando di non fare ciò che sapeva di non dover fare, guardare giù.
Chissà perché sapere non è mai sufficiente.
Era giunto il momento del giorno in cui ogni attività rallentava il suo corso, si faceva più distesa e meno frenetica, il cielo aveva smesso di cambiare pelle e sonnecchiava placido, in quel blu profondo che non avrebbe chiuso i suoi mille occhi ancora per un po’. Le onde della strada si infrangevano sempre più rade alle finestre incappucciate. Le poche auto si sentivano arrivare da lontano, il rumore nasceva, impercettibile, si avvicinava, cullante, passava, deciso e poi sempre più sospirante, sempre più lontano. I singhiozzi dei cani erano radi, ancor di più i brontolii degli aerei, il respiro dell’aria costante e ritmato, rotto soltanto da qualche sospiro profondo di vento. La notte era un corpo dalla fisiologia comune, si agitava mollemente, ma non abbastanza per svegliarsi. Era viva, stanca, serena, addormentata, altrove. Anche lui avrebbe voluto essere altrove, ma non era ancora il momento, inutile mettersi a letto ora, il nervoso avrebbe reso l’attesa oltre che noiosa insopportabile e aveva imparato a muoversi con attenzione quando si ritrovava in equilibro. Sapeva che restare immobili non esimeva dal cadere, come sapeva anche di non esserci mai stato davvero, in equilibrio, di non esserne mai stato capace, ma in quei momenti, quelli in cui riusciva a sincronizzare i suoi respiri con quelli del mondo – e solo di notte c’era abbastanza silenzio per poterlo fare – cadere non faceva male, era più semplice e più rasserenante di tentare di mantenersi in equilibrio. All’improvviso sentì un piagnucolio, un gemito provenire dalla boscaglia e si ritrovò a chiedersi se fossero gli animali ad essere più umani di notte o gli uomini ad essere più animali, il risultato in ogni caso era stato lo stesso, la vicinanza. Quel piccolo verso, così caldo e umido, gli scivolò sulla schiena. Un brivido alla volta la mancanza gli ricordò la sua presenza. Eccola, la goccia, il soffio d’aria, la spinta, l’onda. La vicinanza. Una vicinanza fittizia, insufficiente, irraggiungibile. Cadere ricominciò a fare male.
Le urla dei grilli coprivano i respiri della notte, impossibile cercare di seguirli. Ora tutto stonava, non un’auto, non un aereo, non un cane. Soltanto urla e silenzio, urla e silenzio. Il volto sereno della notte rimaneva imperturbato, sereno, altrove. Anche lui era finito altrove, ma il suo cielo era diverso, il suo cielo non aveva stelle.
Un cielo senza stelle, un cielo di sabbia, un cielo soffocante.
Scorreva sotto le dita senza fare rumore, era pelle, seta, le corde dell’arpa, i crini biondi di un cavallo senza padrone, scorreva e graffiava, graffiava i polpastrelli incappucciati da calli invecchiati sotto entusiasmo e frustrazione, graffiava senza fare male, le mani non facevano mai male, il cuore sempre. Era così facile, bastava un respiro a muoverla e mille per decidere di farlo, come quando perché, era così difficile, ogni idea sfumata un rimpianto, ogni idea realizzata una delusione, niente andava mai come doveva andare. Lui sentiva, ma non sapeva trascrivere, la sabbia sbagliava il suo corso, sempre, spingendolo a chiedersi ossessivamente chi fosse a mentire, il cuore o le mani? Il cuore non mentiva mai e lui sapeva ascoltarlo, ma le mani, oh le mani, quelle sapevano solo sbagliare… e ancora, era la sabbia ad essere indomabile o le mani incapaci di essere domate? Se il desiderio che il cuore non smetteva di urlare alle sue orecchie era così facile da sentire, perché, si chiedeva, perché era così difficile da nutrire… la mancanza era assordante, accarezzava la sabbia sperando ingenuamente di trovare sollievo laddove aveva conosciuto solo tormento. Le mani avevano fatto il callo ai graffi, il cuore no, eppure continuava, accarezzava la sabbia, viveva di graffi, tra solchi insoddisfacenti e sfumature sbagliate, viveva di desideri urlanti, tra mani disobbedienti e cuori biascicanti, viveva di inizi e di fini, trascrivendo storie che non gli sarebbero mai appartenute.
I suoi disegni erano così fragili.
Si ritrovò a disegnare una bambolina, con gli occhi grandi e le ciglia lunghe. Non sapeva dire se fosse fosse felice oppure no, sicuramente, come tutti i suoi disegni, era fragile e presto non sarebbe esistita più.
Ah che bambolina fragile e mortale, qualcuno si sarebbe ricordato di lei?
Una bambolina si guardò allo specchio. Aveva gli occhi grandi e le ciglia lunghe, cercò di scrutare più a fondo, nei suoi occhi. Non riusciva a capire se fosse felice o no e si chiese se lo fosse mai stata davvero, se sapeva cosa volesse dire, se sapeva cosa voleva. Era tutto troppo grande, i sogni, le aspettative, le delusioni. Solo di una cosa era sicura. Era fragile, fragile di un fragilità odiosa, non come quella fiera di un cristallo che deve essere maneggiato con cura e che può essere rotto solo con la violenza, la sua fragilità era quella sciocca e molle dei petali dei fiori, delle ali delle farfalle o delle bolle di sapone, bastava niente per farle del male, ogni carezza uno schiaffo, ogni emozione uno sconvolgimento. Si guardò ancora. Era un petalo accarezzato da decine di mani indiscrete ognuna delle quali faceva capo ad una delle sue paure, era un paio di ali che sentiva il desiderio di volare e non aveva la capacità di farlo, era una bolla di sapone, una bolla di sapone che sapeva fare soltanto una cosa, scoppiare.
Scoppiare. Scoppiava. Tutto crollava.
Il cielo crollava, anzi no, erano le case a crollare, il cielo… era lui il colpevole. L’aria esplodeva e non era più aria, era polvere, era gesso, era irrespirabile. Il cielo non era più il cielo, le case non erano più le case, l’aria non era più l’aria.
Gli uomini erano sempre uomini invece. I bambini sempre bambini. Sempre fragili, sempre vulnerabili, sempre mortali. Ma il mondo stava attraversando uno di quei momenti in cui non ricordava che gli uomini erano uomini e che i bambini erano bambini, li calpestava e basta.
Ah che uomini fragili e mortali, qualcuno si sarebbe ricordato di loro?
Non un fiore, non un farfalla, non una bolla di sapone.
Non un volto, non un nome.
“Morfina, serve della morfina, adesso, fate presto!”
“Non ne abbiamo più, mi dispiace, l’abbiamo finita. L’abbiamo finita”
Morfina nell’aria, nell’anima del mondo.
È questa la soluzione? L’indifferenza al dolore. O è questa la colpa? Si chiese l’Umanità guardandosi allo specchio. Il riflesso era quello di un corpo vecchio, vecchio e mutilato, vecchio e dolorante, vecchio e pesante, vecchio e sbagliato, vecchio e mancante, vecchio e sofferente.
Ma c’era un ‘eccezione, c’è sempre un’eccezione. Male nel bene, bene nel male.
Eccezionali, così erano i suoi occhi, occhi bambini, occhi speranza.
Quanti cieli avevano visto cadere, quanti ancora ne dovevano vedere.
Ma per qualche misterioso e arcano motivo non avrebbero mai smesso di brillare.
E ridere.
E piangere.
E ridere.
Perché?
Perché si ama?
Perché si odia?
È la storia di tutti, di tutto, è la storia del mondo.
Che non ha volto, che non ha nome,
che sa solo chiedere e non sa rispondere,
che è, sempre sarà desiderante, mancante, errante.
Che sa amarsi e non osa farsi del male.
Che decide di farsi del male e dimentica di amarsi.