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“Continuare a imparare”: intervista a Salvatore Renna

Salvatore Renna, dottorando presso le Università di Bologna e dell’Aquila, ci racconta “gioie e dolori” dell’accesso in dottorato.

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Dove stai seguendo il tuo corso di dottorato? Trovi che ci siano differenze tra i programmi di dottorato dei diversi atenei italiani?

Sto seguendo il mio dottorato in Letterature comparate tra l’Università di Bologna e l’Università dell’Aquila. Non credo ci siano notevoli differenze tra i diversi dottorati in Italia. Mentre queste sono enormi rispetto ad altri paesi non solo europei ma anche rispetto agli Stati Uniti (durata, attività didattiche ecc. ecc.), tra i corsi di dottorato italiani le diversità si giocano tutte sui corsi offerti ai dottorandi dall’Università (molto spesso ad hoc, come l’insegnamento di lingue straniere specificatamente per l’ambito accademico o corsi di scrittura scientifica), la quantità di ore obbligatorie da spendere in missioni di ricerca (essenzialmente convegni) o corsi di laurea magistrale da seguire, e obblighi di consegna intermedi di capitoli della tesi (in alcuni dottorati bisogna, per esempio, ultimare il primo capitolo entro il primo anno, in altri il secondo capitolo entro il secondo anno mentre altri ancora non hanno alcuna consegna sino alla definitiva chiusura della tesi).

Quali sono le differenze rispetto ad un corso di laurea magistrale?

Le differenze sono molte e profonde. In primis le ore di didattica sono, con le menzionate differenze, infintamente inferiori a quelle di qualsiasi corso di laurea: la maggior parte del lavoro consiste nello sviluppo del proprio progetto di ricerca, condotto per la gran parte in solitaria. Non mancano certo incontri, spesso di altissimo livello: lezioni da parte di docenti della propria facoltà e di altre Università solo per i dottorandi e convegni a cui, solitamente, non si partecipa durante i corsi di laurea. Queste sono occasioni importanti soprattutto per quanto riguarda la metodologia della ricerca: offrono spunti, prospettive diverse e allargano orizzonti che rimarrebbero ristretti se si lavorasse unicamente in una torre d’avorio. Al contempo, però, il grosso della ricerca va compiuto da soli con l’aiuto del proprio tutor e, a differenza degli esami universitari, la ricerca della bibliografia, il suo studio e il continuo aggiornamento sono lasciati interamente ai dottorandi: da studenti si cerca di diventare studiosi.

Che cosa ti ha spinto a fare domanda?

Innanzitutto una grandissima passione: questa dev’essere sempre il primo motore, perché altrimenti la quantità di lavoro diventa difficilmente gestibile e forse lo studio in sé perde di senso e qualità. L’idea di continuare a studiare e approfondire mi stimolava molto e un corso di dottorato mi sembrava l’occasione migliore per provare a farlo.

Secondo quali criteri hai scelto il tuo corso di dottorato?

In base a due elementi: le linee di ricerca dell’Università e il tutor. Le prime, solitamente pubblicate nei bandi, sono importanti per capire non solo se il proprio progetto possa interessare e quindi essere accettato, ma anche per lavorare in un ambiente stimolante a arricchente. In questo senso è anche molto importante immaginare un possibile tutor che abbia compiuto studi su ambiti perlomeno vicini a quello in cui si pensa di lavorare e che possa ragionevolmente seguire la ricerca. Il dialogo e il rapporto col docente di riferimento sono infatti tra i fattori più importanti per la propria crescita intellettuale e per compiere un buon lavoro nei tre anni.

Come prepararsi per l’esame d’accesso?

Essendo il dottorato in letterature comparate e critica letteraria, ho cercato di prepararmi su testi abbastanza generali, in modo da poter aver un discreto quadro generale su cui orientarmi in sede d’esame. A posteriori posso però dire che il un buon 80% delle competenze utilizzate nell’esame le avevo acquisite durante i 5 anni di corsi universitari.

In che cosa consisteva l’esame?

L’esame consisteva di uno scritto e un orale. Il primo era di carattere piuttosto generale e permetteva a tutti, nonostante le diverse specializzazioni, di poter avere qualcosa di sensato da dire. Superato lo scritto da circa il 15% dei partecipanti, l’orale verteva maggiormente sul progetto di ricerca. La commissione valutava generalmente il suo grado di innovazione, se fosse un argomento su cui si aveva già una certa consuetudine (spesso sono infatti proseguimenti di studi iniziati con la tesi magistrale) e quanto si fosse preparati sulla bibliografia, oltre al grado di motivazione nel presentare il progetto e nell’intenzione di proseguire la ricerca. L’ultima parte dell’esame consisteva in un breve accertamento della conoscenza di una lingua straniera, scelta dal candidato (inglese, francese, tedesco o spagnolo).

Avevi esperienze pregresse di pubblicazioni o collaborazioni di valore scientifico?

No, mi ero laureato da circa due mesi e non avevo ancora alcuna esperienza di pubblicazione scientifica.

Quali aspettative nutri su questo dottorato?

A costo di risultar banale, credo che l’aspirazione più grande sia quella di continuare a imparare e conoscere: senza questa profonda e sincera curiosità credo che nessuna ricerca autentica sia possibile e si corra invece il rischio di un’erudizione fine a sé stessa. Oltre a ciò, spero di condividere il più possibile- con docenti più esperti, colleghi e studenti- i miei studi e le mie idee: insieme alla curiosità, sono il dialogo continuo e la condivisione del sapere a stimolare e a dare senso a un percorso di questo tipo.

E per il futuro?

Domanda difficile, ma credo che continuare a studiare cercando di comprendere in profondità, mettere in comune idee e punti di vista ed essere a mia volta spinto in territori inesplorati potrebbero essere le componenti adatte per essere felici vivendo immersi nella letteratura (e non solo, come la buona comparatistica insegna).

Recalling Warwick: l’esperienza di Barbara

Barbara, neolaureata in Culture Moderne Comparate, racconta il suo Erasmus a Warwick, cittadina situata nel cuore dell’Inghilterra.

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Barbara, Anna, Annagiulia e Luca a Warwick

In questi giorni post laurea di noia e di domande, mi sono messa a fare pulizie in camera mia. Tra i cumuli di polvere e gli scontrini della panetteria ho trovato due cose: il mio “dossier dell’Erasmus”, una busta piena di tutta la carta che ho portato dall’Inghilterra, e il mio diario di quei giorni. In realtà sapevo benissimo dove fossero entrambe le cose, ma la maggior parte del tempo fingo non esistano per paura di quello che rappresentano.

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In viaggio con Ryszard: la mia esperienza in Polonia

Quando all’alba del terzo anno di triennale decisi di lanciarmi e fare richiesta per l’Erasmus stilai una breve lista dei posti papabili. Mi prefissai di fare un po’ di ordine prima d’inoltrarmi nel mondo della mobilità internazionale, ma credo di aver saputo fin dal principio che la meta prescelta doveva in qualche modo inserirsi con coerenza nella storia delle mie passioni (od ossessioni, nel mio caso la distinzione è molto labile). A primeggiare nella lista s’è imposto subito un nome: Varsavia.

Fin dagli anni del liceo ho nutrito un sincero amore per le culture slave, coronato da numerosi viaggi in quelle terre. Della Polonia conoscevo Cracovia, ma non Varsavia: in effetti la capitale polacca me l’ero figurata solo attraverso i libri -e nella fattispecie assumeva il più delle volte le fattezze del ghetto: in tal senso è testimonianza irrinunciabile il diario di Mary Berg, pubblicato da Einaudi col titolo Il ghetto di Varsavia. Diario (1939-1944).

Nel corso poi dei miei studi universitari la Polonia ha sempre fatto prepotentemente capolino, dalla scoperta di Wisława Szymborska attraverso l’avanguardia teatrale di Jerzy Grotowski fino alle affascinanti prese dirette sulla realtà di Ryszard Kapuśiński. È stato proprio questi, con l’abilità propria di chi pratica il proprio mestiere con un profondo surplus d’emotività e passione, ad avermi insinuato il dubbio che forse, proprio per la tortuosità della loro storia, i polacchi sono naturalmente votati alla narrazione, spesso introversa ma sorprendentemente verace.

Che poi ero ben cosciente delle perplessità diffuse tra i più sull’”attrattività” del clima, sul tenore di vita e sulla desolazione della facies urbana -e ammetto di averci rimuginato sopra anche io: in fin dei conti l’Est Europa lo avevo frequentato da semplice turista, in qualche modo stuzzicata dall’immota lontananza di quei Paesi eppur così vicini a noi.

Poi in quei giorni di vaglio ripresi in mano Il cinico non è adatto a questo mestiere: conversazioni sul buon giornalismo, sempre di Kapuśiński, e sulla scorta d’inevitabili associazioni ecco davanti a me il biglietto d’andata: il pregiudizio non è adatto a questo viaggio. Ho pensato che vivermi per sei mesi quell’Est mi avrebbe permesso di vedere se, rimosso dallo spazio vagamente “esotico” in cui lo avevo collocato, avrebbe acquisito volto e voce diversi. Me ne convinsi, e Varsavia rimase la prima della lista.

L’APPRODO A VARSAVIA

Il punto fondamentale da cui partire per affrontare la Polonia è smantellare tutta l’accozzaglia di preconcetti, quasi superstizioni che vi orbitano attorno. Là non sono tutti inclini all’alcolismo, non si soffre un freddo subpolare e l’atmosfera non è (sempre) grigia e opprimente. Varsavia si trova nel voivodato (provincia) della Masovia, nella parte centro-orientale del paese, sorge in riva alla Vistola ed è spesso coperta di neve: questo fa sì che il clima sia tendenzialmente rigido, ma ovunque i luoghi al chiuso sono riscaldatissimi. Questa discrepanza tra il dentro e il fuori in realtà costituisce un vantaggio: le traversate all’aperto diventano molto più sopportabili in prospettiva della tappa al chiuso. Anche i mezzi pubblici (incredibilmente efficienti e puntuali) sono dotati di riscaldamento. Muoversi, quindi, non è impossibile e certamente non si rischia l’ibernazione.

Essendo partita a settembre per fare poi ritorno a febbraio mi ero ben equipaggiata contro il freddo, ma ben presto si capisce che un abbigliamento “a cipolla” è il più funzionale e così vestirsi la mattina diventa molto più semplice. I mesi di settembre e ottobre poi sono ottimali per recarsi a Varsavia, quando l’”autunno dorato” (złota jesień) trasforma Parc Łasienki in una festa di caldi colori, accarezzati anche da temperature piacevoli.

Sicuramente non si può rimanere indifferenti di fronte alle file di piccoli empori 24h che vendono alcolici. Sul fatto che i polacchi amino la vodka e che sia vanto nazionale ci sono pochi dubbi, ma questo non cancellò lo stupore dal mio viso quando, appena entrata nello studentato in cui avrei alloggiato, la signora delle pulizie mi offrì un bicchierino di vodka alla nocciola. E se sei italiano, ancor meglio: i polacchi nutrono una spiccatissima simpatia per il nostro popolo. Basti pensare che Bona Sforza, figlia di Gian Galeazzo e Isabella d’Aragona, fu regina di Polonia dal 1518 al 1556 e introdusse nella cucina polacca il mazzetto di odori composto di sedano, porro, prezzemolo e carota da utilizzare per il brodo. Lo chiamano włoszcyzna, “roba italiana”…e non c’è pasto polacco senza un poco di brodo o zuppa. Mi accorsi dunque molto rapidamente che in quanto studentessa italiana godevo di qualche occhiata d’approvazione in più (ma ero anche oggetto di grandissime aspettative, ben presto deluse, sulle mie doti culinarie…).

DALL’UNIVERSITÀ AI PIEROGI

Prima ancora di gettarsi per le varie ulicach della città avanza imperterrito lo scoglio più grande: la lingua. Notoriamente ostico e a primo impatto ben poco comunicativo, il polacco va saputo almeno pronunciare, altrimenti diventa difficile anche solo dire il nome della fermata del tram a cui si deve scendere. Il dramma aumenta quando ci si accorge (e ciò accade subito) che solo gli under 30 parlano inglese. La stragrande maggioranza della popolazione non ne sa neanche una parola, e non bisogna farsi troppe illusioni in merito: di fronte allo straniero non si sforzeranno di farsi capire. Ricorrere ai gesti diventa inevitabile, e di solito nei negozi funziona: nelle banche e nelle poste è bene munirsi di dizionarietto.

Nelle Università la musica cambia decisamente. Lo studente Erasmus è seguito per mano dall’inizio alla fine (in inglese, naturalmente). Lo zelo e l’operosità delle segreterie e dei servizi universitari in genere mi ha sbalordito, soprattutto perché in Italia la trafila si è rivelata lunghissima e farraginosa tanto prima quanto dopo la partenza. I corsi (tenuti in inglese) hanno temi e argomenti molto specifici, lasciando dunque ampio spazio all’approfondimento e alla ricerca. Ciò è facilitato inoltre dal metodo di valutazione, dall’impronta molto anglosassone: lo studente è tenuto a seguire le lezioni, spesso seminariali, e vengono esaminati man mano che i corsi vanno avanti attraverso la scrittura di papers, relazioni orali e lavori di gruppo (di solito durante la sessione d’esame bisogna solo sostenere un test a domande aperte o a crocette). Ho trovato questo metodo molto valido e produttivo, perché lo studente partecipa attivamente e non dimenticherà ciò su cui ha lavorato.

Da queste prime tiepide aperture per me è stato un dischiudersi di mondi inattesi, e non solo tra le mura di scuola. Per vivere in questi Paesi la chiave è la curiosità –e allora ti torna in mente che in effetti Chopin, Marie Curie e Copernico erano nati in Polonia e vedrai che nel centro di Varsavia c’è un museo dedicato a ciascuno di loro; scopri che l’arte contemporanea è uno dei cardini dell’espressività polacca; sonderai l’universo ebraico nel maestoso museo POLIN; ti accorgerai che oltre a patate e crauti si mangiano i pierogi (ravioli tipici ripieni di carne, funghi o formaggio)…e dovrai ammettere che sono parecchio buoni.

“PATRIA MIA! TU SEI COME LA SALUTE…”

L’aspetto economico si rivela essere fin dall’inizio il più vantaggioso. La moneta in vigore è lo złoty, il cui valore equivale approssimativamente a un quarto di euro. Ecco dunque che tutto diventa molto più accessibile rispetto all’Italia, dagli affitti alla spesa al supermercato fino alla vita notturna. Anche da questo punto di vista la Polonia non si è rivelata deludente: di locali ce ne sono moltissimi, caratterizzati tutti da un’impronta molto occidentale, e questo mette in luce un aspetto fondamentale della Weltanshauung polacca: la loro visione di noi. Dagli anni dell’Indipendenza a questa parte i polacchi hanno sempre dovuto confrontarsi con la spinta all’omologazione e l’insopprimibile attaccamento alla loro identità, da sempre tacitata e messa a repentaglio (e riecheggiano qui le sconsolate parole di Adam Mickiewicz, maestro della poesia romantica: «Patria mia! tu sei come la salute/Quanto ti si deve apprezzare, può solo testimoniarlo/Chi ti ha persa. Oggi la bellezza tua nei suoi ornamenti tutti/Vedo e descrivo, poiché a te anelo»). Infatti a livello di concezione di abbigliamento, vita sociale, impostazione della cultura giovanile la Polonia cerca sempre più di affiancarsi ai Paesi centrali, come a voler cercare un riscatto laddove le dinamiche storiche non l’hanno concesso. Ma quello polacco è anche un popolo estremamente leale con se stesso, innamorato della propria cultura e tuttavia ancora coperto dei lividi della Storia: la loro proverbiale ruvidità e lo smodato rigore delle loro istituzioni si sono costituite nel tempo come baluardi di difesa, e questo rapidamente conduce alla diffidenza verso lo straniero se non proprio all’astio. Ecco perché la generazione più giovane mostra un’apertura diversa: non ha fatto esperienza diretta della dominazione, di un socialismo non troppo reale e di mortificazioni ancora brucianti. Vi è una sorta di schizofrenia nel cuore polacco e ne è specchio riflettente la stessa conformazione del territorio: a città rigogliosamente rimessesi in piedi come Cracovia, Varsavia, Danzica, Breslavia e Poznan si affiancano i melanconici massicci dei monti Tatra, il buio di tanti paesi ancora arretrati e depressioni vallive con paludi, torbiere e foreste. Viaggiare in Polonia, dunque, diventa fondamentale per toccare con mano questo stato di cose -e visti i prezzi e la comodità dei mezzi con cui si può farlo, diventa d’obbligo almeno provarci.

(RI)SCOPRIRE L’EST EUROPA

Per capire Varsavia e la Polonia tutta bisogna dare una spallata ai pregiudizi. Questo compito spetta specialmente al viaggiatore che intende vincere l’ultimo resto d’irrazionale e sceglie consapevolmente di esperire la forza immensa di questo Paese. La sua capitale è generosa, seppur facilmente suscettibile; la sua anima storica e culturale è protetta con cura dagli abitanti, per i quali la Polonia vive soprattutto dentro di loro. Ho riflettuto spesso, in quei brevissimi giorni di luce a Varsavia, sulle antinomie di questa nazione, efficiente ed irrisolta insieme: ma si può giungere ad una coerenza, quando si è appena risorti dalle proprie ceneri?

In definitiva, l’opinione formata direttamente sul campo butta giù ogni barriera, perché alla fine per la maggior parte delle persone (anche noi più a Ovest) il mondo reale finisce sulla soglia di casa. Ogni resistenza, quando si tratta di “intraprendere” il mondo, dovrebbe essere acquietata. La Polonia mi ha convinto più che mai di questo –e il mio viaggio si è chiuso di nuovo con la saggezza di Kapuśiński: «Il nostro mondo, in apparenza globale, in fin dei conti non è che un pianeta con migliaia e migliaia delle più svariate province che non si incontrano mai».

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“Nel guscio” di Ian McEwan

La recensione del nuovo romanzo di Ian McEwan, Nel guscio, invita a riflettere sulla capacità della letteratura di interrogare ancora oggi le proprie origini e i propri maestri (Ian McEwan, Nel guscio, trad. it. di Susanna Basso, Einaudi, Torino 2017). 

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O God, I could be bounded in a nutshell, and
Count myself a king of infinite space, were it not that
I have bad dreams.
(Shakespeare, Hamlet, II, ii, vv. 255-257)

Spesso nelle prime pagine di ogni nuovo libro si gioca una partita decisiva per il lettore che, tra aspettative, fiducia e attesa di approvazione, deciderà le sorti del seguito della lettura. Così il nuovo romanzo di Ian McEwan traccia da subito le linee guida e i motivi d’attrazione che nel corso del testo trovano poi brillante conferma.

Nel guscio si presenta, già a partire dal titolo e dall’epigrafe che introduce la storia, come un’intrigante riscrittura e rivisitazione dell’Hamlet, a tratti quasi una sua ironica parodia. Infatti i nomi dei personaggi riecheggiano sfacciatamente quelli della tragedia originaria e la vicenda, ambientata nella cupa e caotica Londra dei nostri giorni, viene costruita a partire dallo schema shakespeariano: il tradimento, l’omicidio, il desiderio di vendetta. Trudy, moglie di un misconosciuto poeta, pianifica l’assassinio di suo marito insieme all’amante Claude, fratello di questi. A differenza di Hamlet però, nel romanzo l’atto deve ancora compiersi e il protagonista, un feto quasi-nato, è spettatore inerme della macchinazione del piano e dell’omicidio. Per non lasciarsi sopraffare dai triti meccanismi di una storia già – ampiamente – conosciuta, McEwan ha giocato la sua carta vincente proprio sulla creazione del protagonista e narratore: il feto in attesa di nascere nel ventre di Trudy. È suo il punto di vista di tutta la vicenda, interrotto di tanto in tanto dai dialoghi degli altri personaggi e da improvvise sollecitazioni sensoriali della realtà. Il romanzo chiede quindi al lettore di sottoscrivere un patto obbligato: osservare dal guscio, limitato nei movimenti proprio come il feto, gli avvenimenti del mondo esterno.

L’udito è l’unico strumento per conoscere la realtà, in un susseguirsi di conversazioni origliate e motivetti musicali canticchiati. Alle volte, però, questa facoltà di ascolto si rivela limitata e, paradossalmente, sorda: capita così che alcuni discorsi dei due amanti si perdano; oppure che il protagonista si smarrisca nelle proprie profondità psicologiche, nei propri dubbi, lasciandosi sfuggire parte della cospirazione (la parte più significativa); o ancora può succedere che sia il feto stesso a decidere di sospendere volontariamente l’ascolto, per sfuggire la crudeltà e l’amore depravato della madre e dello zio, costringendo di conseguenza anche il lettore a seguirlo negli abissi della sua insicurezza e debolezza. È insomma un romanzo di attese, di sospensioni e di atti mancati o fallimentari. Così, anche quando il protagonista decide di agire, spinto dal desiderio di vendetta, si perde nella progettazione dei suoi piani e nell’anticipazione delle possibili conseguenze, sempre catastrofiche.

Nel guscio prende forma intorno a una serie di dicotomie forti, come senso di colpa e innocenza, impossibilità di agire e desiderio di vendetta, per non parlare della più esplicita dualità vita-morte. Rientrano in questa dimensione oppositiva anche i sentimenti di amore e odio che si alternano e si confondono nel protagonista: la madre assassina è disprezzata per ciò che è capace di fare, ma allo stesso tempo amata per il dono della vita che è sul punto di offrirgli; lo zio è odiato non solo in quanto usurpatore ma anche perché convince Trudy ad abbandonare il bambino appena dopo la nascita; il padre viene teneramente amato in quanto vittima destinata a non essere salvata, ma allo stesso tempo è odiato perché incapace di prendersi cura del proprio figlio e in fondo mai davvero intenzionato a farlo.

Assediato da questo impasto sentimentale, il feto tradisce però un impulso più forte ancora: la voglia di venire al mondo, la voglia di diventare. Ed è proprio in questo egoismo di vita che si nasconde il germe di ogni azione fallimentare: la mancata vendetta del padre che diviene presto senso di colpa, l’odio nei confronti della madre che diventa compatimento, il tentato suicidio. Di conseguenza il fantasma del padre non può chiedere al figlio, come avveniva in Shakespeare, di essere vendicato; semmai è costretto lui stesso a tornare dal mondo dei morti e a farsi giustizia con le proprie mani. Imprigionato e immobile nello spazio ristretto del guscio materno, che riflette la sua parzialità e passività rispetto agli eventi, il protagonista riesce a compiere soltanto pochi atti violenti, egoistici, quasi insani, come i calci volutamente assestati alla madre durante la notte e la nascita forzata che, più che una vendetta finale, è l’estremo desiderio di autoaffermazione. Pertanto il lettore, che sin dall’inizio e per buona parte della vicenda patteggia per il protagonista, a volte si trova a prendere le distanze, a guardare con diffidenza i desideri turbati del feto, come di fronte ad un’ecografia che dice qualcosa ma non proprio tutto.

La densa scrittura del romanzo, resa magistralmente dalla traduzione di Susanna Basso, è scandita sapientemente in venti brevi capitoli e per tutta la sua durata riesce a mantenere una tensione massima che si intensifica ancor più nei finali di capitolo, costringendo il lettore a rimanere, sospeso e curioso, incollato alla pagina. Tutti i personaggi, con la loro fragilità e precarietà, testimoniano che ciò che davvero conta non sono tanto il tradimento degli affetti o l’omicidio vero e proprio, quanto l’inclinazione a scrutare e indagare, attraverso la voce monologante del feto, la condizione drammatica dell’uomo moderno, paralizzato dal dubbio e dalla riflessione. In fondo, essere o non essere è, oggi come ieri, l’interrogativo che la vita ci mette di fronte da quando nasciamo, il caro “prezzo da pagare per il complicato dono della coscienza”. È in definitiva un romanzo di vita, di morte, d’amore e di odio in cui le passioni dell’individuo contemporaneo, destinato ad essere solo e a camminare su una via deserta, rimangono le stesse dell’uomo messo in scena da Shakespeare.

Jacopo Mecca

Un inno alla libertà: Prometeo Liberatore

La seguente composizione, scritta da Stefano Morello, è un inno alla presa di coscienza pronunciato da Prometeo. Quest’opera è frutto di un progetto sulle riscritture di opere classiche come Le Metamorfosi e L’Iliade.

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Prometeo liberatore

And now I see the face of god, and I raise this god over the earth, this god whom men have sought since men came into being, this god who will grant them joy and peace and pride. 
This god, this one word: ‘I.’
(Ayn Rand)

Ma ancora manca l’esser più nobile del creato,                                        argilla nelle mie mani di dio rinnegato

Respira il soffio della vita
Tu, reso
a immagine e somiglianza del caosVolontà di questi falsi dèi è
oltraggiarti coi loro capricci
recluderti in questa cella d’oro e linfa,
rubarti la tua vera dimora
soggiogare con la muta complicità delle Parche
il tuo seme divino e
terminare il tuo regno non ancora

Iniziato

Uomo, figlio di Cielo e Terra

Spezza le catene
con cui fummo creati
Ignobili legacci
Rinnega anche me, figlio di Giapeto

e librati negli oscuri oceani

Conoscenza sarà la tua arma

Oscurità sarà la tua nemica
Nessun confine ti sarà precluso
maestro del fuoco e del sangue
Ergiti ora, reclama la tua dimora fra gli astriFa che la tua fiamma arda la trama
intessuta dai crudeli carcerieri del fato
Che la creazione rimanga nuda
così come si è venuta a generareTu,
sola creatura che possa veder le stelle
nella loro magnificenza
Volta il tuo viso al cielo e non curarti

dell’aurea magnificenza del tuo carcere

Lascia che queste sbarre cadano

assumendo la tua forma
nello sciogliersi della loro fragile durezza
e fa che formino
simulacri della tua gloriaAttraversa
questa rigogliosa desolazione
di granitiche ossa,
cammina nella maledizione
di un sentiero benedetto
e irradia col tuo etere
le oscure acque dell’eternitàChe gli dèi temano il tuo incedere,
il tuo bruciante desiderio,
la tua insolenza
Poiché sarà la loro fine
il tuo più grande trionfoLa tua fiamma danzante
disegnerà con le sue ceneri
le finestre sul trono
della vacuità che tutto genera
affinché la tua stirpe
vi possa sedereQuesto è il mio umile desiderio:
Riconquistar il cielo e gli astri
col parto delle mie fatiche
Col frutto del mio respiroE chissà se mai riuscirai
a estòllere fino alle dimore d’etere
il mortal grado,
fragile fiore di una terra crudele
Già, chissà…