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FORMS, HISTORY, NARRATIONS, BIG DATA: MORPHOLOGY AND HISTORICAL SEQUENCE

Il Centro Studi “Arti della Modernità” intende organizzare a Torino,
il 20 e 21 novembre 2019, un convegno internazionale sul rapporto tra Forme, storia, narrazioni, big data: Morfologia e diacronia.

Il convegno si concentrerà sulla relazione tra storiografia, critica letteraria e la più vasta area di pratiche interpretative dell’opera d’arte, nel dialogo tra varie discipline e prospettive.
Lo scopo è quello di tornare a riflettere sulla tradizione del dibattito critico e filosofico sulla nozione di forma e sulle sue trasformazioni contemporanee, a partire dal modo in cui sono state definite da studiosi come Georg Simmel, André Jolles, Aby Warburg, Roland Barthes, Paul Ricoeur, e altri. La discussione si concentrerà sulla dialettica di morfologia e storia, sistema e diacronia, nozioni essenziali per la comprensione di questioni come quelle di trasformazione e struttura (centrali per lo strutturalismo e il post-strutturalismo) e di interpretazione artistica e letteraria (essenziali per l’ermeneutica).

Qui la call for papers.

L’‘altro’ allo stetoscopio: il racconto odisseico di François Beaune

Martedì 21 marzo 2018, presso il Campus Einaudi di Torino, il professor Benoit Monginot ha introdotto lo scrittore François Beaune, giovane autore gallimardiano. Nell’ambito delle Giornate della Francofonia (Torino 2018) promosse da “Alliance Française”, l’ospite ha dato agli studenti la possibilità di conoscere direttamente il piano della sua ultima opera, La lune dans le puits.

Sostanzialmente il libro è composto da più di centosettanta brevi storie direttamente prelevate dal reale, histoires vraies che parlano della realtà nuda e cruda e che la presentano senza abbellimenti, modificazioni o rimaneggiamenti, proprio come l’autore stesso le ha ascoltate. La sua fonte di ispirazione è stata l’esperienza da lui fatta tra il 2011 e il 2014, durante la quale, presi microfono e registratore, è partito per un tour del bacino mediterraneo intenzionato a collezionare un’ingente pluralità di voci che chiedeva solo di essere ascoltata.

 

Diversi sono stati gli argomenti principali della conferenza, così come tante sono le relazioni tra pensieri, fatti e parole da ricordare per comprendere la sua ricerca: innanzitutto il motivo che lo ha spinto verso questa impresa odisseica; poi il metodo, argomento fondamentale per realizzare un lavoro di questo respiro; il disegno finale del libro, fortemente collegato al suo titolo, cioè quello di costruire un ponte tra gli uomini che abitano il Mediterraneo; e infine l’augurio più significativo, ossia rendere sempre fecondo e mai deleterio l’incontro con l’‘altro’.

Il suo progetto prende le mosse da un disegno simile dello scrittore americano Paul Auster, il quale, per la National Public Radio, negli anni Zero ha portato a termine il volume True Tales of American Life, raccolta di singole e spontanee testimonianze di cittadini americani, nonché storia statunitense collettiva. Parimenti, Beaune decise di avviare un progetto gemello, dedicato però al mare nostrum e in particolare a Marsiglia, testa di ponte del Mediterraneo e culla di tutte le entità culturali lì presenti, con il saldo presupposto  di creare una biblioteca delle histoires vraies che rispecchiasse la storica frammentarietà dei tanti popoli di queste zone.

Reclamando il diritto alla parola di ogni essere umano, Beaune ha ripercorso questi territori intervistando diverse persone e proponendo loro uno scambio singolare: la loro sincerità nel raccontare per la verità nel riportare; ed è così che è arrivato alla scelta metodologica e narratologica di eclissarsi, unico modo per lasciar emergere agli occhi del lettore la storia di ognuno. Intento a trovare, come ha spiegato, la persona che racconta la storia attraverso la musica delle proprie parole, con il testimone da una parte e la verità dall’altra egli ha dovuto muoversi attentamente, come un equilibrista, per tentare di conservare l’emozione ascoltata e riprodurla così per come si era presentata a lui stesso.

Dunque, il suo libro è interattivo, viaggia in due direzioni: al lettore non viene proposto soltanto la lettura, ma, allo stesso tempo e con un procedimento parallelo, la riscoperta di se stesso: solo specchiandosi nel diverso potrà capire meglio se stesso, interrogarsi sulla propria coscienza di sé e ridefinirsi in funzione degli altri. Insomma, se da un lato l’uomo ha il diritto di parlare, dall’altro ha anche il dovere di ascoltare e conoscere le esistenze degli altri, senza fermarsi soltanto a se stesso e chiudersi nell’individualismo. E questo è anche il messaggio del titolo, che allude ad una citazione di Leonardo Sciascia: “La vérité est au fond du puits. Vous regardez dans un puits: vous y voyez le soleil ou la lune, mais si vous vous jetez dans le puits il n’y a plus ni soleil ni lune; il y a la vérité”. Secondo il siciliano, perciò, soltanto al fondo del pozzo c’è la verità; Beaune, invece, non è interessato direttamente ad essa, quanto più – come spiega restando nella metafora sciasciana – al sole e alla luna che si riflettono sull’acqua del pozzo, cioè al racconto della storia così per come viene narrata dai suoi testimoni. Pertanto ognuno può riscoprirsi e, come la luna, riflettersi sulla superficie dell’acqua, non dimenticando mai, come diceva già Primo Levi, che “parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta” (Se questo è un uomo, 1947).

Il messaggio più evidente di La lune dans le puits è proprio quello che riguarda chi e cosa è ‘altro’ da noi, quello che concerne il sentimento del diverso, quello che al giorno d’oggi è sempre più improntato verso la diffidenza, l’odio e il male. L’augurio con cui l’autore conclude l’incontro riassume alla perfezione il suo spirito: Beaune vorrebbe che il progetto da lui iniziato, sulla scia del suo esempio, diventasse sempre più importante e guadagnasse sempre più sostenitori, fino a farsi mondiale. Soltanto se si avesse a che fare con tutto il mondo, infatti, ci si potrebbe avvicinare notevolmente all’ideale da cui il progetto ha mosso i primi passi. Un ideale che, al giorno d’oggi, sembra venire sempre meno, ma che non per questo merita di passare in secondo piano.

Topos e tema: una distinzione teorica. Incontro con Guido Paduano

Giovedì 15 febbraio si è tenuto nella Sala Lauree della Scuola di Scienze Umanistiche un incontro con Guido Paduano, Professore Emerito di filologia classica e di letterature comparate all’Università di Pisa. Paduano si è distinto nel corso della sua lunga carriera accademica per varie traduzioni e commenti ad opere della classicità greca e latina, oltre che studi in ambito musicale e di teoria della letteratura (due suoi libri a riguardo sono: La nascita dell’eroe. Achille, Odisseo, Enea: le origini della cultura occidentale (2008) e Il testo e il mondo. Elementi di teoria della letteratura (2013) ). Il discorso di Paduano, per la sua tematica, si intreccia, sin dall’introduzione del professor R. Gilodi, alla fondamentale opera di E. R. Curtius, Letteratura europea e Medioevo latino (1948), pubblicata in traduzione italiana soltanto nel 1992, in cui l’autore aveva dimostrato la continuità della letteratura europea dall’antichità greca e romana al ‘700 attraverso la persistenza di alcuni topoi fondamentali.

La tesi di Paduano viene immediatamente esplicitata: la distinzione, o meglio, opposizione tra topos e tema è “teorica” in quanto appartenente più al linguaggio metacritico che ad una realtà effettiva. Essi sarebbero, infatti, più vicini di quanto si sia soliti pensare. Entrambi sono legati al fenomeno dell’intertestualità e caratterizzati dalla ricorsività di un’unità fondamentale all’interno di macrotesti appartenenti ad una sola cultura oppure a culture ed epoche totalmente diversi. Il tema (parola nata in ambito musicale attorno al 1830 e legata da un rapporto definitorio a “variazione”) però viene generalmente visto come un’unità mobile e metamorfica; invece il topos, termine preso in prestito alla retorica classica, è in genere associato ad un’idea di staticità, di forte stereotipizzazione, di fissità. L’opposizione così posta si riflette perfettamente nelle recensioni all’opera di Curtius, che subì alcune critiche, pagando, secondo Paduano, la “cattiva fama” del topos, ovvero la sua supposta rigidità. Le critiche sorsero principalmente proprio dall’aver scelto il topos come concetto portante del libro, ad esempio sostenendo che gran parte dell’erudizione dell’opera mostra semplicemente che “a commonplace remained a commonplace”, oltre al fatto di essersi concentrato più sui fenomeni di persistenza piuttosto che su quelli di mutamento, di innovazione. In verità, nota Paduano, già Roberto Antonelli, nella prefazione all’edizione italiana del volume, contraddice questa visione attribuendo al metodo topologico di Curtius la capacità di entrare nella dialettica “testo-sistema”, indirizzando quindi la fruizione di Letteratura europea verso la critica tematica.

Paduano definisce dunque il topos “un tema di cui si parla male” e la sua opposizione con il tema come frutto di un’analisi viziata dal “pregiudizio” di valore, cioè da un giudizio che precede l’analisi contestuale. Al contrario Paduano propone una definizione che lega le due categorie secondo rapporti differenti: definisce il topos come “un tema in un certo senso abortito”, cioè che non ha trovato una creatività capace di rigenerarlo (un non-evento, una creatività non intervenuta) e il tema invece come un topos che “si afferma attraverso le sue mutazioni”, un terremoto di valori che spesso porta allo stravolgimento, alla vera e propria “esplosione di un senso nuovo”. Ed illustra questa seconda idea attraverso tre esempi letterari di altissimo livello, tre topoi che, a partire dalla loro origine antica, subiscono nel corso della storia stimolanti e imprevedibili trasformazioni, e che dimostrano una vitalità che contraddice la comune visione immobilistica e sterile di questa categoria. Il primo di questi esempi è il topos dell’insufficienza del tempo amoroso che troviamo per la prima volta nell’Odissea (la notte, prolungata da Atena, in cui Odisseo e Penelope, ricongiunti, si raccontano a vicenda gli anni trascorsi) e che viene ricreato e rielaborato finemente nel Romeo and Juliet shakespeariano, nel contesto della separazione degli amanti al sorgere del sole. Nell’opera esso si manifesta attraverso un interessante scambio delle parti: Giulietta nega l’evidenza dell’alba che sopraggiunge (affermando che il canto dell’allodola è invece il canto notturno dell’usignolo), Romeo l’asseconda, ed infine Giulietta ribalta quanto detto in precedenza, comprendendo la pericolosità della loro situazione, e lo congeda. In Romeo e Giulietta questo topos dell’alba demonizzata “si scontra”, inoltre, con un altro topos, anch’esso molto antico e di valenza quasi antropologica: quello dell’opposizione luce-buio, secondo cui la luce (e il giorno) è associata al polo della positività, della vita, mentre il buio (e la notte) a quello della negatività, della morte e del disvalore. Lo scambio che avviene nella scena della separazione degli amanti viene infatti anticipato e contraddetto da un passo in cui Romeo definisce Giulietta come “un sole”, che lui invita a sorgere scacciando la luna invidiosa.

Il secondo topos trattato è quello, invece, del “dialogo con se stessi” nel racconto Lenz di Georg Büchner, un topos antico quanto l’Iliade, che però nella sua formulazione originaria presupponeva la fondamentale unitarietà del soggetto in cui avviene il monologo interiore. Al contrario, nel personaggio di Lenz, poeta folle, viene sancita l’impossibilità di questa unità proprio dall’incapacità stessa di avviare questa comunicazione con se stesso e dalla conseguente affermazione del soggetto come entità frammentaria e scissa.

Infine, Paduano ha trattato l’antico topos della “natura che ride”, ovvero della natura che riflette lo stato d’animo dell’uomo, la sua letizia, e la sua profonda trasformazione nel III atto del Parsifal di Wagner. Nel Parsifal il riso assume più di una connotazione: è risata denigratoria quella di Kundry, la donna che ride di Gesù sulla Croce, e che per questo verrà punita con una maledizione secolare, quella di non poter piangere. Solo dopo un lungo percorso di redenzione Kundry riuscirà di nuovo a erompere nel pianto, in contemporanea alla rinascita della natura nell’incantesimo del Venerdì Santo. Le parole di Parsifal saranno: “Tu piangi, vedi! il prato ride”. In questo caso, a differenza dell’originaria declinazione del topos, la natura e l’uomo hanno due manifestazioni opposte, eppure coincidenti ad un livello più profondo.

Gli spunti di riflessione suscitati dalle considerazioni di Paduano sono molti. Le operazioni della comparatistica, così come lo studio dei topoi attraverso i secoli e le letterature, non devono limitarsi esclusivamente ai rapporti di discendenza genetica tra i testi, all’automatismo dell’imitatio. E allo stesso tempo non si può ritenere come frutto di coincidenza o caso tutto ciò che non può essere ricondotto alla filiera genetica, come non si può ricondurlo al modello degli archetipi junghiani, strutture che, secondo Paduano, non possono servire alla critica letteraria, in quanto distruttive di ogni differenziazione e significato. Ciò che invece dev’essere indagato è, analizzando singolo testo per singolo testo, come in diverse circostanze storiche siano state stimolate risposte simili, dando vita a interessanti parallelismi, e privilegiando nello studio i fenomeni di ricreazione autonoma rispetto alla semplice meccanicità dell’imitatio o aemulatio. Ciò che rende un testo un capolavoro non è, infatti, la sterile ripetizione di pattern letterari precedenti, di topoi, bensì l’elemento di novità, di scarto, di originalità, così come emerge dagli esempi letterari citati. Una delle linee di accesso più interessanti a questo aspetto, come suggerito dal professor Gilodi in commento alle tesi di Paduano, è stato forse proprio quel “senso dell’individuale” in relazione all’opera letteraria, in cui per “individuale” si intende “unico nella sua irrepetibilità”, assunto dal circolo protoromantico di Jena come cifra del loro pensiero nonché come essenza della poesia moderna rispetto a quella antica.

Dire la morte. Forme della consolatoria in Italia tra Tre e Cinquecento

L’Università di Torino organizza il Convegno di studi “Dire la morte. Forme della consolatoria in Italia tra Tre e Cinquecento”, che si terrà giovedì 15 e venerdì 16 marzo a Torino, nel Palazzo del Rettorato in Via Giuseppe Verdi 8. Questo seminario intende indagare le forme plurali del discorso consolatorio che si sviluppa dopo Petrarca e attraversa il Cinquecento italiano.

La locandina e il programma del Convegno, con l’indicazione di orari e sedi degli interventi, sono consultabili al link:

https://www.facebook.com/DirelamorteTO/?hc_ref=ARTtX4dJlqzZHI4hMPtjfFdNnEiDkFBEeo21fL5RkvZsmEb2vl3mJd2E2tWXWtwNj8o.

Pasolini Pittore

Il breve articolo di Federico Masci segue sommariamente parte del percorso artistico pasoliniano, soffermandosi su alcuni tratti della sua produzione pittorica, nel tentativo di stabilire costanti con altre modalità d’espressione.

* * *

Potrei anche tornare alla stupenda fase
della pittura…..
Sento già i cinque o sei
miei colori amati profumare acuti
tra la ragia e la colla
dei telai appena pronti…..”

P. P. Pasolini, La ricerca di una casa, in Poesia in forma di rosa

P.P. Pasolini, Autoritratto col fiore in bocca (1947)

Tra le varie suggestioni che contribuiscono a definire la magmatica tensione produttiva di Pasolini, risalta, con ingenua e limpida evidenza, la pittura. Questa è intesa non solo come lucido interesse e saldo punto di confronto con una certa parte della storia dell’Arte italiana, ma anche, più in particolare, come una costante abitudine a prodursi “tecnicamente” nell’attività pittorica, parallelamente alle altre espressioni artistiche (poesia, cinema, narrativa).

Le prime acerbe esperienze si collocano durante l’infanzia (inizia a disegnare ancora prima di comporre versi), ma è solo all’università di Bologna che, tramite l’incontro fondamentale con Roberto Longhi, questa sotterranea “vocazione” assume un aspetto più definito.

Le lezioni e le ricerche dell’illustre critico d’arte, che allora spaziavano dai fatti di Masolino e Masaccio a Piero della Francesca, dalla pittura duecentesca e trecentesca al Caravaggio, furono quasi un’illuminazione per il giovane e timido studente friulano: “...Allora, in quell’inverno bolognese di guerra, egli è stato semplicemente la Rivelazione.1; egli esprime la sua gratitudine e precisa i termini di questa decisiva influenza in una sua recensione per il volume Da Cimabue a Morandi, curato da Contini, che antologizza gli scritti del vecchio professore.

Le sue “meravigliose capacità istrioniche”2, le sue “gioiellerie severe”3, consumate nelle anguste aule di via Zamboni, corrispondono in toto con un “lucido, umile ascetismo di osservatore del moto delle forme”4.

Ciò che Pasolini filtra dalla lezione Longhiana è proprio un tentativo di approccio, privo di utopie o terrorismi progressisti, ad una storia dell’Arte che in sé e per sé si realizza come struttura ed evoluzione delle forme che la reggono e la compongono, secondo una rigida logica interna.

Un’evoluzione da intendere in senso “puramente critico, vitale, concreto della parola”, 5in completa coincidenza con l’aspetto che la realtà assume nella visione dei pittori lungo i secoli, e nella quale verità critica e verità sempre si accompagnano.

Quasi contemporaneamente a questa riconosciuta filiazione, si avviano i primi consapevoli esperimenti pittorici pasoliniani, i quali presentano disegni a inchiostro, bozzetti di figure che ritraggono la vita quotidiana della gioventù con la netta e semplice evidenza, dal sapore pascoliano, di una realtà familiare, tenera, a tratti idillica.

“Ragazzo che legge”, 1942.
“Ragazza di San Vito”, 1943.
“Donna nel canneto”

A distanza di qualche anno, ecco altri tentativi che risentono dell’influenza dei paesaggi alla De Pisis, o a una verificata ammirazione per alcune opere di Bonnard.

“Autoritratto con la vecchia sciarpa” 1946
“Casarsa”

Forse meno visibile, ma comunque estremamente importante, l’effetto che la frequentazione della bottega longhiana e la conseguente formazione artistica hanno sul Pasolini narratore puro, cioè il cineasta.

In veste di regista, Pasolini abilmente recupera e utilizza questa sensibilità per strutturare formalmente le scene, a favore dunque di una scenografica visibilità, arricchendola di connessioni con la più importante cultura pittorica italiana. A partire dalla sua prima prova, Accattone, del 1961, Pasolini riconosce proprio l’influenza di Masaccio (“Mentre lo giravo il solo autore al quale ho pensato è stato Masaccio”6), che sembra tradursi in un’ansia di figurativa e austera sacralità tale da non poter che produrre scene virginali, vivide e epiche, nel senso di “epicità naturale,che si lega alle cose, ai fatti, ai personaggi7.

Il mondo pre-borghese di Accattone, quindi, immerso in una congèrie epica-mitica-fantastica, sconta i suoi debiti con una certa tradizione figurativa e vorrebbe, nelle intenzioni dell’autore, porsi in opposizione al contesto a tratti liricizzato e soggettivo, a tratti pseudo-naturalistico, del neorealismo, di cui comunque può essere considerato un ambiguo prodotto.

Come Accattone è tutto “sottoproletariato”, Mamma Roma, dedicata a Longhi,(1962) è quasi “piccolo borghese”. Se da una parte baraccopoli e rovine dominano lo spazio , dall’altra si stagliano all’orizzonte caseggiati, si sentono rumori di Tv e radio provenire da lontano. In quest’ultima fatica si segue l’itinerario che il vecchio sottoproletariato percorre, icasticamente rappresentato dal rapporto tra Bruna e il figlio Ettore ,quando inizia a trasformarsi in piccola borghesia, in una piccola borghesia meschina, fascista, conformista. Anche qui si staglia netta (in particolare nella scena finale del film, dove viene ripresa la morte del giovane Ettore) una precisa parentela artistica che però lo stesso Pasolini duramente corregge invece di suggerire, riferendosi agli erronei tentativi di individuazione da parte di alcuni critici:

Ma non hanno occhi questi critici? Non vedono che bianco e nero così essenziali e fortemente chiaroscurati della cella grigia dove Ettore [canottiera bianca e faccia scura] è disteso sul letto di contenzione, richiama pittori vissuti e operanti molti decenni prima del Mantegna? O che se mai si potrebbe parlare di un’assurda e squisita mistione tra Masaccio e Caravaggio?… 8

Per quanto riguarda La Ricotta (1963), invece, una simile vocazione,viva in un senso felicemente costruttivo, arriva a opporsi al disordine cialtronesco e buffonesco che presiede l’organizzazione delle riprese per un fantomatico film sulla passione di Cristo. In mezzo al folleggiare delle comparse, alle ciniche considerazioni di un falso regista, impersonato da Orson Welles, che terminano nella recita di una poesia tra le più conosciute ed eloquenti di Pasolini (“Io sono una forza del passato…”) si stagliano, monumentalmente, scene dalla cristallina e diretta ascendenza artistica; che letteralmente ricalcano opere di Rosso Pontormo e di Rosso Fiorentino.

Immagine dal film “La Ricotta”- “Deposizione ”, Rosso Pontormo (1525-1528)
Immagine dal film “La Ricotta”- “Deposizione di Cristo” di Rosso Fiorentino ( 1521)

Il materiale che invece appare nella messa in scena del Vangelo secondo Matteo viene utilizzato con una diversa funzione, utile al raggiungimento di una distanza “critica”. Nel tentativo di non proporre solo una ricostruzione storica per via cinematografica, Pasolini, in un intervista dove gli si chiede di ripercorrere l’itinerario dei suoi riferimenti estetici ,afferma di aver ricercato la “massima sincerità”, e di averlo fatto evitando programmaticamente la sistemazione delle scene come quadri: “Uno di questi momenti di sincerità era evitare la ricostruzione di quadri, in tutto il Vangelo non c’è mai un quadro ricostruito.9 Tuttavia, poco dopo, confessa che nella creazione del film risulta comunque essere determinante il rapporto con una certa cultura pittorica, perché “ io studiavo a Bologna col professor Longhi, dovevo laurearmi con lui, quindi l’elemento pittorico per me è un elemento molto importante della mia cultura” 10 e ancora: “ non potevo dimenticarmi di conoscere e quindi amare, addirittura venerare, i pittori dell’Umanesimo, del Rinascimento o del Trecento italiano, non lo potevo dimenticare”.11

Se quindi, questo confronto da una parte apre ai pregiudizi e alle problematiche di un certo tipo di rappresentazione estetizzante, dall’altra è anche un punto di riferimento imprescindibile per raffinare e definire in maniera polemica un atmosfera non documentaria, tutta giocata sul “gusto”, sullo sfumato pastiche di stili che suggerisce un epoca, piuttosto che visibilmente (e falsamente) restaurarla. 

Più che continuare su questa linea, adesso, dopo aver parzialmente evidenziato la ricezione della dimensione artistica in una parte dell’opera pasoliniana, andrebbero evidenziati gli ultimi risultati, tra il ritratto e l’informale, in cui si realizza il lavoro pittorico. L’ultimo Pasolini, audacemente, non cessa di sintetizzare da un empito vitale un continuo tentativo di espressione, di tradizionalmente collaudata sperimentazione, sulle forme, per le forme, dalle forme. Questa sorta di eccitazione, causa e conseguenza del pericoloso cortocircuito comunicativo che sembra permeare i rivolgimenti amaramente confessionali in cui si esaurisce la sua più tarda produzione poetica, può trovare un incerto corrispettivo nelle tele che le sono coeve. Ecco infatti , da contrapporre alla pacata omogeneità delle prove giovanili, la scelta intrepida di materiali e tecniche, tutti elementi in un primo momento sfruttati, poi abbandonati e ripresi dopo almeno trent’anni ( dagli anni’40 agli anni’70).

Invece di utilizzare matite o chine, dipinge con la colla, caratterizza volti e immagini con dita macchiate direttamente dal colore, si ritrae e ritrae anche nuovi amici, amori e antichi maestri (Laura Betti, Ninetto Davoli, Roberto Longhi) ,punteggiando e schizzando in libertà, a volte sfruttando sacchi e cellophane:

Anche trent’anni fa mi creavo delle difficoltà materiali. Per la maggior parte i disegni di quel periodo li ho fatti col polpastrello sporcato di colore direttamente dal tubetto, sul cellophan; oppure disegnavo direttamente col tubetto, spremendolo. Quanto ai quadri veri e propri, li dipingevo su tela di sacco, lasciata il più possibile ruvida e piena di buchi, con della collaccia e del gesso passati malamente sopra. Eppure non si può dire che fossi (e eventualmente sia) un pittore materico. Mi interessa più la «composizione» — coi suoi contorni — che la materia. Ma riesco a fare le forme che voglio io, coi contorni che voglio io, solo se la materia è difficile, impossibile; e soprattutto se, in qualche modo, è «preziosa». 12

“Pali e reti del Safòn”,1970,tecnica mista su carta
“Ritratto di Roberto Longhi”,1975, pastello su carta
“Ninetto e Laura”, 1975

L’ingenuità ambiziosa con cui tenta di reinventare e ridefinire praticamente il linguaggio pittorico che dovrà usare risulta comunque coerente con la tensione sperimentale (e sotterraneamente distruttiva nei confronti di strumenti già acquisiti) della sua poetica:”Solo l’idea di fare qualcosa di tradizionale mi dà la nausea, mi fa stare letteralmente male”.13 La quale, in lungo e in largo, (come ha peculiarmente osservato Walter Siti nella curatela per i meridiani mondadori) attraversa e sorregge tutti gli sforzi Pasoliniani, rammentando, se vista “dall’alto”, una mostruosa progettualità: “Perché realizzare un opera quando è così bello sognarla soltanto?”.14

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NOTE

Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Garzanti, Milano, 2016, cit. p.331.

Ibidem, p.335.

Ibidem.

Ibidem.

Ibidem, p.334.

Pier Paolo Pasolini, Marxismo e Cristianesimo, in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, 1999, cit. p. 809.

Ibidem.

8  Vie Nuove, n. 40, a. XVII, 4 ottobre 1962, ora in Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere, cit., p. 198.

Pier Paolo Pasolini, Pasolini su Pasolini in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, 1999, cit. p. 1338.

10 Ibidem.

11 Ibidem.

12 Achille Bonito Oliva, Giuseppe Zigaina, Disegni e Pitture di Pier Paolo Pasolini, 1984, Balance Rief SA, Basilea .

13 Ibidem.

14 Citazione tratta dal film “Il Decameron”, 1971.

BIBLIOGRAFIA

Achille Bonito Oliva, Giuseppe Zigaina, Disegni e Pitture di Pier Paolo Pasolini, Balance Rief SA, Basilea, 1984.

Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Garzanti, Milano, 2016.

Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano, 1999.