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Oh, Dear

Marta Brentan, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva i personaggi shakespeariani di Postumo e Innogene, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Lo scambio epistolare riguarda due giovani sposi, Innogene, figlia del presidente degli Stati Uniti d’America e Postumo, siciliano, portato dalle difficoltà economiche a lasciare la sua patria e cercare fortuna nel Nuovo Mondo. Allontanati, i due innamorati non avranno altro legame che la penna. Fino alla partenza e morte di Innogene.

*

Se la Boemia fosse sul mare

Martina Gnorra, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva i quattro drammi romanzeschi di Shakespeare, nell’ottica dei corsi I drammi romanzeschi di Shakespeare I e II: Pericle, Cimbelino, Il racconto d’inverno e la Tempesta, Letterature Comparate B, modd. 1 e 2, prof. ssa Chiara Lombardi.

Ispirata dall’opera “La Boemia è sul mare” di Ingeborg Bachmann, ho composto questa poesia soffermandomi sugli aspetti e i temi più eloquenti dei quattro drammi romanzeschi di Shakespeare, attualizzandoli e proponendoli come scelte ipotetiche. La composizione si conclude lasciandoci intravedere l’esistenza di un possibile rifugio, di un luogo adeguato a soddisfare le ambizioni e i desideri di chi si è innamorato e di chi si innamora ogni giorno della letteratura e del rapporto che quest’ultima intrattiene con l’uomo. Un luogo magico e utopico come la Boemia sul mare.

*

Se la Boemia fosse sul mare, ci verresti a nuotare?
Se Miranda si fosse innamorata di Calibano, Prospero avrebbe accettato il loro amore?
Se ti avessero privato di tutto come Griselda, il duca Gualtieri lo avresti perdonato?
Se tua madre potesse ritornare in vita, quante statue scolpiresti?
Se la gelosia ti tesse il cuore, riusciresti a resisterle?
Se il vino ti facesse dimenticare il mostro che sei, quanti bicchieri berresti?
Se ti insegnassero a parlare al prezzo della tua libertà, accetteresti di essere muto?
Se una tempesta ti colpisse, ritorneresti in mare?
Se la meraviglia si trasformasse in amore, vorresti essere la mia Miranda?
Se per valere come donna dovessi travestirti da uomo, saresti disposto a farlo?
Se ti descrivessero la mia camera da letto, penseresti che ti abbia tradito?
Se un racconto potesse allietarmi dal dolore, mi racconteresti la storia della tua vita?
Se rinascessi con la primavera e fuori è inverno, saresti in grado di descrivermela?
Se potessi travestirti per un giorno, sceglieresti di essere regina come Perdita o Nessuno
come Ulisse?
Se i sogni attenuassero le passioni, ti sveglieresti?
Se ti volessero solo per il tuo corpo, crederesti ancora di avere un’anima?

Se la Boemia fosse sul mare,
io avrei un posto dove stare
dove chi si sente incompreso,
può liberarsi da ogni peso.
La Boemia è sul mare,
la mia anima è lì ad aspettare
un altro vulnerabile cuore,
un altro ingenuo sognatore.

PISANIO SULLA LUNA

Adele Ziano, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Cymbeline shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Come l’Orlando ariostesco perde il senno a causa dell’amore di Angelica per Medoro, così Postumo diventa folle per l’immaginario tradimento di Imogene con Iachimo. Allo stesso modo, in questo mio racconto, ho voluto comparare il personaggio di Pisanio a quello di Astolfo durante il suo viaggio sulla Luna, passando attraverso la dimensione onirica del sogno.

*

Un messaggero giunge da Roma al palazzo di Cimbelino; con sé reca una lettera destinata alla principessa Imogene, splendida come mattutina stella e giglio d’orto e rosa del giardino. Ella, conosciuto il luogo da cui le viene inviata la missiva, sente il cuore riempirsi di gioia poiché pensa che quelle siano le dolci parole del suo amato sposo. Ma dopo aver letto le prime righe, ecco mutare l’espressione sul suo volto: corrugata la fronte, lo sguardo si fa cupo, le gote rosee si scoloriscono lasciando spazio ad un pallore diffuso e le labbra, un tempo vermiglie, si torcono in una smorfia di dolore. Misera Imogene! quelle parole non suonano soavi bensì, come tanti chiodi, ti feriscono pungendoti il cuore. Ella va cercando in mille modi col pensiero di non credere a ciò che a suo malgrado crede. E subito una lacrima le disegna un rigo lungo il viso esangue. 

«Pisanio! Pisanio! corri da me! sotto i colpi della Fortuna avversa, sento appressarsi la Morte!»

«Eccomi! Cosa succede mia signora?» e il fedele servo di Postumo si precipita appena in tempo perché riesca a sorreggerla.

Imogene non riesce a rispondere alle domande di Pisanio, la voce rotta da dolorosi singulti di pianto; così gli porge la lettera che stringe accartocciata nella mano.

La missiva recita così: 

“Vostra Altezza,

A scrivervi è un modesto soldato, nonché amico del vostro amato Postumo. Il mio nome è Filario e, come saprete, ospito nella mia dimora il vostro gentile sposo dal momento in cui fu esiliato dalle terre di vostro padre.

Vorrei potervi recare liete novelle a riguardo ma, aimè, mi farò portatore di infauste parole. Sembra che egli, da tutti conosciuto per il suo amino grande e virtuoso e che sì saggio è stimato, ora abbia perso il senno. E tutto ciò a causa di una scommessa perduta contro quell’uomo che di nome fa Iachimo, il quale credo che l’abbia vinta a torto. Lo ricordate essere venuto alla vostra corte tempo addietro, con l’intenzione di mettere alla prova, insidiandovi, quella fedeltà ed onore che di voi, spirito eccezionale, il vostro caro sposo assai lodava e che fu appunto motivo del loro patto.

Tornando a Roma, egli ci raccontò di come fosse riuscito nell’impresa, fornendoci una quantità tale di minuzie da rendere veritiera anche la più grande bugia. Da tempo conosco bene Iachimo e potrei dire la stessa cosa del vostro Postumo, nonostante la nostra amicizia sia recente: uno lo muovono l’astuzia e la spregiudicatezza e l’Invidia è al comando del suo cuore; l’altro è un animo puro e le sue parole sono frutto di tanta limpidezza e trasparenza. Ingiustamente, nel duello fra questi due temperamenti, il malvagio ha prevalso sul virtuoso, il cui sentire, già ingenuo di natura, temo fosse reso ancora più incerto da Amore che tutto soggioga e contro il quale è perdente anche colui che vinse tutte le altre cose. Se solo esistesse un modo per rintracciare il suo senno, ovunque si sia perduto, e così restituirglielo! Aimè, colui che per amor è divenuto pazzo furioso noi l’abbiamo perduto entrambi: io come amico e come soldato valoroso e impavido, le cui abilità sarebbero state decisive nel vincere una guerra contro la Britannia di vostro padre, la quale appare ormai imminente; voi, invece, come sposa oltremodo devota. 

Vostro umilissimo,

Filario

                                                                                                                                                             Terminata la lettera, Pisanio sente agitarsi nel petto un turbinio di sentimenti. Ma il suo smarrimento non dura a lungo; ecco che tra lo stupore e il turbamento si fa largo la ragione, imponendosi con il suo rigore. Cerca di rassicurare la bella Imogene e l’accompagna fin sulla soglia della sua camera. «Si riposi mia signora, provi a trovare nel sonno un po’ di requie» e con la promessa di restituirle l’uomo di cui si era innamorata si accomiata. 

Pisanio inizia a camminare su e giù per il palazzo; nel mentre pensa al suo signore, a come il discorso menzognero di Iachimo abbia scaturito in questi un dolore così insormontabile da generare una tale rabbia, un tale furore da far rimanere ogni suo senso offuscato. Gli vengono alla mente immagini terrificanti: accecato dall’ira, la forza di Postumo risulta ora pari a quella di un ciclone o di un terremoto e in questo modo sradica alberi e uccide chiunque gli si pari davanti, uomini o bestie che siano. Figurandoselo in quello stato, vedendolo correre come un ossesso per i boschi, a Pisanio si stringe il cuore dal dispiacere. Era convinto di dover agire per salvare il proprio signore, perché nel profondo è spinto da quei voti di fedeltà e di affetto che a questi lo legano.

Sforza l’ingegno Pisanio e pensa e ripensa a come far rinsavire Postumo e a porre così fine ai suoi dispiaceri, oltre che a quelli della sua bella Imogene. Nel mentre scende la notte e, stremato da tutto questo lavorio della mente, da tutto questo suo vano congetturare, Pisanio si siede, abbandonandosi con un po’ di sconforto. Guardando fuori da una finestra, alza lo sguardo al cielo stellato e fissa gli occhi su quel globo d’acciaio il cui freddo riverbero brilla sulla terra buia. Comincia così a contemplare la Luna che, splendida e silenziosa, sorge ogni sera a rimirare deserti e valli, eterna pellegrina; in questo modo, vinto dalla stanchezza, è abbracciato dal sonno. Ancora il fedele servo non sa che quel suo gran fantasticare sulla Luna lo porterà ad approdarvi sopra. 

Lassù Pisanio rimane meravigliato dalla grandezza del luogo e guardandosi intorno vede che vi sono fiumi, laghi e campagne simili a quelle sulla Terra, ma che tuttavia appaiono diverse. In quel luogo Pisanio si sente un po’ spaesato; sicuramente un’altra presenza umana lo rassicurerebbe, ma per il momento lì vicino non sembra esservene traccia. Anche se, leggermente più in là, verso l’orizzonte, gli pare di vedere un vecchio canuto tutto intento a scrivere chino su se stesso. 

«Mi scusi buon uomo, saprebbe dirmi dove mi trovo?», dice Pisano una volta andatogli vicino, «questa mi pare essere la Terra che io abito ma ora sembra apparirmi diversa…»

«Appunto, perché questa non è la Terra; quella si trova laggiù», e il vecchio indicò verso il basso una piccola palla che Pisanio riuscì a distinguere a malapena strizzando gli occhi; questo perché la Terra, con il mare che la circonda e la chiude proprio come la Luna, non emette luce. 

«Questa invece, caro straniero, è la Luna, nonché il paese dei poeti, di coloro che, servendosi di pochi semplici arnesi, scrivono di cose vedute e non vedute; di cose che sono, che potrebbero e non potrebbero essere; di ciò che è divino e sommo e di ciò che è infimo e triviale; del comico e del tragico. Noi siamo i profeti di una lettera sempre pronta a crescere su se stessa e ad ornarsi dei fiori del sublime.» 

Tra una parola e l’altra, ecco che quei due si ritrovano a passeggiare per i sentieri della Luna; discutendo delle grandi questioni dell’esistenza, il vecchio poeta guida Pisanio per quei luoghi che gli si svelano a poco a poco: lì vi sono altre pianure, altre valli, altre montagne, ognuna con le sue città e castelli, con case così grandi mai vedute prima d’ora da Pisanio. Così giungono all’ingresso di un vallone stretto tra due montagne.

«Qui dentro si raccoglie ciò che si smarrisce sulla Terra o per colpa degli uomini, o a causa del tempo o della Fortuna», dice il poeta; infatti il servo vi trova le lacrime e i sospiri degli amanti, il tempo che si butta via inutilmente nel gioco d’azzardo, il lungo ozio di uomini ignoranti, disegni vani che non si sono concretizzati mai e anche alcuni suoi fatti e giorni che aveva perduto. Arriva poi ad un mucchio più alto delle altre cose descritte; in esso vi sono numerose ampolle, quali più, quali meno capienti, tutte etichettate e contenenti un liquido poco denso e fluido, rapido a esalare se non si tiene ben chiuso.

«Questo che tu vedi è quella cosa che voi terrestri pensate di avere in abbondanza, ovvero il senno. Alcuni lo perdono in amore, altri nel ricercare gli onori, altri cercando le ricchezze per mare; altri nelle speranze dei signori, altri dietro alle sciocchezze della magia; altri in gemme, altri nelle opere dei pittori, ed altri in altre cose che apprezzano più di altro. La pazzia invece qui non è né poca né molta, poiché essa sta sulla Terra e non se ne allontana mai.»

A quel punto Pisanio, colto da una straordinaria intuizione, si ridesta di colpo dal suo sogno. «La Luna! la Luna! Lassù dovrò volare per recuperare il senno del mio signore!» Detto ciò, sentendosi rinvigorito nel corpo e nella mente, balza in piedi con uno scatto e prende a correre verso la camera della bella Imogene. 

Chissà se sulla Luna avrebbe trovato anche il suo di senno. 

Bibliografia:

W. Shakespeare, Cimbelino, Garzanti, 2015

L. Ariosto, Orlando Furioso, Feltrinelli, 2016

I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, Mondadori, 2016

La nona onda

Camilla Montanaro, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Questo testo nasce con l’intenzione di descrivere un episodio banale di vita quotidiana e trascinarlo su piani inattesi grazie all’attualità del Pericle shakespeariano e alla potenza del dialogo artistico.

*

-3 gradi, nuvole grigie e un freddo pungente sulla pelle. 
Entrare nell’atrio del museo e togliersi il cappello è una liberazione per Emma e Federico.
Le decorazioni natalizie per le strade riscaldano l’inverno russo, ma ciò non impedisce ai soffi gelati di vento di lambire le poche porzioni di pelle nuda.
La statua bronzea di Puskin, posta proprio nel centro di Piazza delle Arti con il braccio teso e fiero, sembra esortare i turisti ad entrare il prima possibile nel Palazzo Michajlovskij per cercare calore, più che per inebriarsi di arte.
Emma aveva sviluppato una passione per i musei fin da piccola grazie ai giochi di suo padre: 
«Scegli il quadro più bello.»
«Mimi, trova i tre quadri più rossi del corridoio.»
«Cerca quello che ti rende più allegra e quello che ti fa più paura.»
E lei sfrecciava per i corridoi desiderosa di completare il test per vincere il preziosissimo premio in palio: una zeppola con panna. 
La raffinatezza di ogni dettaglio del Palazzo Russo fa tornare Emma al suo mondo di bambina: per un attimo si immagina duchessa, con un vestito bello e lungo, mentre cammina per il corridoio e… «Ticket?» risuona una voce. 
«Sure, one second. Li hai tu, no?»
Federico sfila dalla tasca destra del cappotto il CityPass, abbonamento che permette di accedere ai numerosi musei di San Pietroburgo. Prova un senso di soddisfazione nel saltare le code e illudersi che siano tutti gratis. «Se non lo avessi fatto – si compiace – ora saremmo ancora fuori al freddo.»
Percorrono i corridoi con l’intenzione di mantenere un ritmo costante fino alla fine ma, quando scoprono che mancano ancora due piani del museo, si arrendono. La panchina, che è solo un asse di legno, pare una poltrona di piume d’oca. Davanti a loro, in una sfavillante cornice dorata, un’onda bagna la tela. 
La luce del quadro è talmente particolare che Emma sente il bisogno di socchiudere leggermente gli occhi per osservare i dettagli. La curiosità la costringe ad alzarsi per guardare il cartellino sottostante: La nona onda di Ajvazovskij (1850). 
Dicerie marinaresche raccontano che le onde si ripetano periodicamente a gruppi di nove e che sia proprio la nona ad essere la più grande e la più pericolosa, quella contro la quale l’uomo non ha potere.
L’acqua verdastra scolorisce in un manto di spuma. Le nuvole sembrano estranee agli sconvolgimenti del mare, proseguono inalterate il loro percorso. L’agitazione dei naufraghi stona con un cielo tanto luminoso. «Come lo trovi?»
«Quello?»
«Sì, Fè.»
«Bello.» 
«Perché?»
«Bella luce.»
Lo osservano ancora qualche secondo.
«Mimi, dobbiamo tornare qualche giorno nella casa al mare.»
«Hai ragione, ho bisogno di aria fresca.»
«Non smetteremo di andarci, vero?»
«Ma no, basta organizzarsi.»
«Magari diventa un tuffatore.»
«O magari un’atleta di nuoto sincronizzato.»
Emma si sfiora il ventre appena arrotondato.
Mentre parlano osservando il quadro, l’onda sembra gonfiarsi. La rabbia del mare stride con la serenità del cielo. Si tratta di una sensazione che Emma ha già provato. Un senso di angoscia la pervade. Ripensa alla pila di fogli che ha lasciato sul tavolo prima di partire. Avrebbe dovuto preparare la lezione per il rientro in classe dopo le vacanze e ancora non aveva scelto i saggi da proporre. ‘Amleto’ è un’opera colossale e lei vorrebbe farne conoscere una minore come Pericle, Principe di Tiro.
«Marina!»
«Cosa?»
«Se è una femmina voglio chiamarla Marina.»
«Manco per sogno.»
«Oh, Federico, è un nome bellissimo.»
«Perché Marina?»
«Sto pensando al Pericle di Shakespeare.»
«Ecco, ci risiamo…»
«E’ un personaggio stupendo.»
«Emma, nostra figlia vivrà nel mondo reale, non in un’opera letteraria. Marina è un nome da sirena, non da    bambina.»
«Ti racconto la storia. »
Federico aveva conosciuto Emma a Oxford, durante una vacanza studio. Lei era già allora appassionata di letteratura inglese, ma aveva deciso di farne una professione andando avanti con gli studi universitari.
Quando la chiamarono per una supplenza annuale stapparono una bottiglia e ordinarono la pizza.
«Pericle si reca dal re Antioco e scopre la soluzione di un indovinello grazie al quale ottiene la mano della figlia.»
«Fine della storia?»
«Ma capisce che la figlia ha un rapporto incestuoso con il padre.»
«Si fa interessante.»
«Il re allora manda dei sicari per ucciderlo.»
«E lui scappa, immagino.»
«Lascia provvisoriamente il suo regno, Tiro, all’amico Elicano e va a Tarso dove aiuta i sovrani.»
«Poi?»
«Una tempesta lo scaraventa a Pentapoli.»
«Te la stai prendendo comoda, Mimi, non ho ancora sentito il nome Marina.»
«Qui vince un torneo per sposare la figlia del re, Taisa.»
«E’ un vizio insomma.»
«Insieme partono per tornare a Tiro e Taisa è incinta.»
«Precoce il ragazzo.»
«Subiscono un altro naufragio e Taisa sembra morire di parto.»
«Sembra morire o muore?»
«Tutti credono che sia morta, ma in realtà è viva; sta di fatto che viene gettata in mare. E’ un momento di    sofferenza assoluta.»
«E per quale assurdo motivo vuoi chiamare mia figlia Marina?»
«La bambina, però, sopravvive. Le viene dato il nome di Marina.»
«Tiè! Vorrei una notte tranquilla il giorno del parto, per piacere.»
«Poi ci sono una serie di peripezie, Marina viene cresciuta dai sovrani di Tarso.»
«I sovrani di Tarso? Ah sì, quelli dell’inizio.»
«Taisa è salvata da un mago, Marina rischia di essere ammazzata, finisce in un bordello…»
 «Di bene in meglio, insomma.»
«Pericle è disperato. E’ convinto che sia la moglie che la figlia siano morte. Si taglia i capelli,  indossa un saio, decide di non parlare più.»
«Speri che chiamando nostra figlia Marina io smetta di parlare?»
«Alla fine, però, Pericle incontra nuovamente sua figlia. Inizialmente non crede sia lei, ma poi la riconosce.»
«E Taisa?»
«Si ricongiungono tutti e tre.»
«Storia molto carina. Ora dimmi, per quale accidenti di motivo vuoi chiamare mia figlia come una    sirenetta?»
«Perché Marina è un personaggio mitico, Fè. E’ in grado di aprire ogni comunicazione. Grazie solo alla      parola cambia la realtà in cui vive. Quando viene trascinata nel bordello, converte ogni cliente e non si fa  toccare. Riesce a parlare perfino con suo padre che si è chiuso a qualsiasi tipo di comunicazione. E’ il ruolo che Shakespeare affida all’arte e al teatro. Marina ricrea la vita.»
Federico si ferma a riflettere. Il nome Marina proprio non gli piace, ma la passione con cui Emma parla della letteratura lo intenerisce profondamente.
«Perché ti è venuto in mente ora?»
«Stavo guardando il quadro. Penso di averlo associato alla tempesta. Pericle stava vivendo la sua nona onda, ma Shakespeare sapeva che si sarebbe sgonfiata. Vedo Marina in quel cielo arancio.»
«Tutta colpa di Ajvazovskij, insomma.»
«E’ un sì?!»
«E’ un ‘vedremo’.»
«Che bello, Fè! Marina è un nome stupendo, non è banale, dobbiamo trovare il soprannome e…»
«Speriamo nasca maschio.»
Emma e Federico escono due ore dopo dal Palazzo.
Non vedranno mai più la statua di Puskin, non torneranno sotto le luci natalizie russe e non finiranno mai l’ultimo piano del museo.
Ma ricorderanno, sempre, La nona onda. 

Bibliografia:

William Shakespeare, Pericle, Principe di Tiro, Bergamo, Lemma Press, 2019

Vladimir Stoyanov, Ivan Aivazovsky: Selected Paintings, CreateSpace

Indipendent Publishing Platform, 2017

Renée

Sara Cofone, in questa composizione, riscrive, in forma di lettera, il Pericle shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I/II, letterature comparate B, mod. 1 e 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

Sulle orme dell’intima scrittura di Marcel Proust, ho voluto mettere in luce la potenzialità della parola che, se scritta, può vincere il tempo che passa e perpetuare i legami. Una parola che cerca di fermare, tra carta e penna, la tempesta di un’esistenza e che conduce alla rinascita di una vita.

*

Cari mamma e papà,

l’ultima volta che mi trovai in mare fu la più crudele di tutte. L’abisso, come risvegliato dalla furia di Nettuno, si agitò sempre più forte, sempre di più. In un tempo poco più lungo di un batter di ciglia, quella stessa nave che per me, Marina perché nata dal mare, fu culla, si trasformò sotto i miei occhi  in letto di Moira. La furia del mare vi vinse e vi seppellì sotto un’onda più pesante della terra consacrata che sigilla il ricordo di una presenza. Tutto finì, all’apparire di un’alba che ha portato la notte in cui assaporai il vero gusto del sale che, dal primo mio respiro, aveva profumato la mia esistenza. Una lacrima salata  arrivò alle mie labbra e, dopo avermi scalfito il viso marmoreo e pallido, mi bruciò in gola e scatenò la più violenta delle tempeste: quella del cuore. In un attimo finì quella vita felice che vissi con voi, dopo che lo stesso crudele mare ci aveva fatti rincontrare,  e, con questa, quel dolce canto che intonavamo insieme.  Il mare è stato per noi mondo, un’incognita insieme dolce e amara; è stato il misterioso specchio dell’esistenza che, come la nostra nave, scivolava su di una distesa di tutto e di nulla verso non precisate destinazioni, non precisati incontri. Quella coperta salata, che a guardarla da riva faceva  paura, è stata per noi il nodo delle nostre esistenze incrociate, l’intreccio che abbiamo sfidato seguendo la stella dell’amore, la navigazione delle emozioni.  Eppure, in me, più nulla cantava;  Amore, da poeta e pittore delle mie giornate, si era trasformato in pesante pietra che mi portava a fondo, in un corpo che si muoveva senza sapere dove e perché andare.  Non più una goccia di vita scorreva nel mio corpo impietrito dalla perdita, da quello che non avevo più e che mai più potevo avere.  Avevo perso voi e, quindi, me stessa perché voi siete sempre stati me e più di me. Ho pazientato a lungo nella speranza di vedervi ritornare, ma sentivo che non c’era fuoco o musica che potesse ridarvi la vita, né voce che potesse guidarvi sulla via per ritornare al mondo insieme a me.

  Tutto d’un tratto, mesi fa,  involontario richiamo del cuore:  camminavo sulla riva del mare, sul sottile filo tra terra e acqua, quando la brezza marina mi strinse in un abbraccio materno, portando al mio naso uno strano profumo, il vostro, quello che mi ha riportata indietro nel tempo e che per un effimero, ma potente secondo mi ha fatto percorrere qualche metro di sabbia con voi al mio fianco.  Improvvisamente, ho capito che quell’antico canto era sempre rimasto chiuso in me e che a salvarmi, una volta ancora, sarebbe stata la più bella delle arti che voi mi regalaste: l’arte magica del dire, la mia parola.  Ho incollato ogni brandello del mio cuore lacerato con il potente collante della comunicazione che sfida ogni tempo e spazio. Tutto in me era soffocato dal disordine degli eventi e, con la parola, ho trovato il luogo più sicuro per rifondare la mia leggera città di sogni di donna. Ho preso carta e penna e mi sono addentrata nella foresta dei ricordi, foresta fitta di immagini, profumi, momenti e voci che mi hanno permesso di riporre la mia anima scossa e turbata in ciò che mi era familiare, e che era sempre stato in me, senza che io lo sapessi.  Sono rinata. Sono Renée.  Mi avete cresciuta nel culto del verbo e io,  da fedele discepolo, ho sempre creduto nella potenza della parola che , se detta è magica, scritta può essere miracolosa. Amati genitori, oggi vi scrivo per rivendicare un tempo di gioia che ci è stato negato. Per riportare al palato il gusto felice di un ricordo inzuppato di vita, anche se fragile come una gocciolina su un filo al passare rapido del vento e per fermare, nero su bianco, le intermittenti emozioni che ancora mi legano a voi e turbano dolcemente la mia mente cresciuta, ma ancora bambina. Vi scrivo per ricercarvi accanto a me come quel giorno in riva al mare e perché ogni mia nuova parola possa schiudere, come conchiglia di mare, la perla più preziosa di un tempo perduto.

Dal giorno in cui l’onda amara vi strappò da me,  mi rifugiai in un’isola deserta e mi assicurai che il mio sposo Lisimaco mi credesse morta. So papà quanto è dolorosa una tale notizia all’orecchio di un uomo che ama, ma non ho mentito: Marina era morta davvero. Ho accettato e accolto, ma non ero più la Marina che voi lasciaste sola sulla terra prima di sparire tra la braccia della Morte.  Quando rinacqui Renée, capii che era arrivato il tempo di portare la dolce primavera che,  mi aveva fatta rifiorire,  anche a Mitilene. Vi trovai il mio sposo, che da anni tesseva la speranza di vedermi ritornare, fedele e vinto dal più tenero amore che con il tempo non era sfumato, proprio perché, come ho imparato a cercarvi io,  mi aveva trovata nel ricordo delle parole che  la voce spensierata, di quella che un tempo fu Marina, gli intonava ogni sera sulle note di una piccola cetra. Nelle sue mani era scolpita la fatica. Mi disse che l’arazzo della speranza si intrecciava nel coraggio del giorno e si disfaceva  nella paura della notte; mi confessò che il suo palazzo era invaso dal timore e dall’impazienza di sentire di nuovo la mia voce. Era tempo di ricominciare, per tutti. Raccontai a Lisimaco il miracolo della parola e gli mostrai il quaderno, quell’insieme di fogli  su cui si riversava il mio impeto di doloroso amore, in cui voi rivivevate. La parola si faceva, lettera dopo lettera, corpo e il corpo diventava nuova vita. Come ogni lettera componeva una parola e ogni foglio componeva il libro della mia ricerca, quel libro componeva la mia, la nostra storia, che tra lacrime sorrisi e singhiozzi, regalo all’eternità schiusa in ogni piccolo gesto d’amore.

In quella primavera che emanava effluvi di armoniosa lietezza, Lisimaco colse la mia rosa e, dentro di me, in quel terreno una volta arido di dolore, sbocciò il più bello dei germogli: nostra figlia  Emma.  Sì, siete nonni ora. Da piccola era una bambina bellissima, ma dovreste vederla adesso come è splendida! Sai mamma, se fossi qui con noi,  riconosceresti in lei gli stessi tuoi capelli ondulati e profumati di amore, le tue gote alte e rosate e la bocca che, come scrigno, schiude il  più dolce mistero che possa giacere in una donna. Papà, la tua forza e la tua tenacia da sovrano rivivono, in abiti femminili, nella nostra Emma.  A Lisimaco assomiglia solo per bontà d’animo; da me, la natura ha voluto che ereditasse la potente arte, che esercita in modo diverso da me. Parla poco, solo all’occorrenza, ma le sue parole di miele addolciscono il grezzo della carta. Emma legge molto, vive ogni giorno un’illusione diversa in ogni nuovo libro; illusione che non la inganna, ma che sa filtrare e scatenare, con controllata forza, per dar valore alla realtà. 

Una tiepida mattina d’estate, mentre districavo i più ostinati nodi dalla sua chioma ondulata, ho sentito lo stesso profumo di rose e di viole che si spargeva nella mia stanza quando tu, mamma, intrecciavi i capelli di quella giovane fanciulla, ora mamma come te. Sulle sfumature di quel tenero profumo floreale, senza spostarmi di un passo dalla mia dolce creatura, sono ritornata in quella stanza piena di mattina che accoglieva le nostre chiacchierate complici. Ricordo con quanta elasticità queste cambiavano argomento e come mi sentivo libera tra le parole che echeggiavano nella stanza e mi parlavano di vita pura. Avevi sempre un grande controllo in quello che dicevi, mentre mi insegnavi a essere una donna.

Vorrei poter dare a Emma, ancora giovane e inesperta, la meraviglia che mi avete insegnato a coltivare e che oggi, anche se non siete più, con il corpo, insieme a noi, parla di voi e fa splendere la terra della vostra grazia da sovrani, prima di Tiro, del regno dell’amore e della vita semplice che mi lasciaste in eredità prima di soffocare tra i furiosi flutti di sale.

Più questa lettera conquista spazio sul bianco del foglio, più io vi sento accanto a me : la mamma alla mia destra che mi dice di non piangere perché il nostro amore è arte e, si sa: l’arte sola salva dalla morte. Papà, tu, sei alla mia sinistra e, con le tue possenti mani da guerriero che ha infinitamente sopportato, mi stringi le spalle e diventi scudo nella mia guerra, che solo questa sequenza illogica di parole può vincere. Così, armata di penna nel campo bianco cosparso di nero, ritrovo le emozioni più profonde, ritrovo racchiusi i beni interiori che, come quelli materiali, pensavo che la fatale tempesta avesse perduto per sempre. Vedo parole che sembrano scritte in una lingua solo per me che ricrea la mia realtà e vi restituisce al mio amore di figlia.  Ritrovo, nello spazio tra una parola e l’altra, il respiro che la vista della vostra morte ha soffocato nella mia  gola che ,per anni, ha smesso di cantare.  Per ritornare a cantare un canto che un tempo fu cantato, “to sing a song that old was sung”, iniziai a scrivere la mia ricerca. Sono passati anni da quando, per la prima volta, presi in mano quella bacchetta magica che è la penna, da quando l’antico canto ha ristorato il mio presente, un meraviglioso  presente di cui mai mi sarei detta destinata e che canta un canto nuovo, ma sulle stesse dolci ed eterne note d’amore e di vita.

 Mamma, papà, lasciate che la parola vi raggiunga, ovunque voi siate e che riempia il vuoto che vi separa da me, da noi perché ogni parola è come un fragile fiore sospeso tra memoria e presente, tra dolore e nuovo inizio; insieme loto che dona l’oblio e girasole che segue la luce celeste e sconfigge le tenebre, cantando l’armonia della vostra voce che urla sul muto foglio e, proprio come un tempo, intona il dolce canto insieme a me . Adesso che scrivo vi riscopro, cade il travestimento e, in quella cicatrice di dolore rivedo il mio passato che ritrovo presente. Anche quando la morte cancella, sapete, la parola rigenera e nel mio scrivere ricostruisco in nome dell’amore perché dopotutto, come scrive Proust, c’è sempre una sopravvivenza negli abissi del cuore e, nel fluire implacabile e incontrollato del finito,  la nave scivola verso la ricerca dell’eternità del nostro  prezioso tempo perduto.

La vostra Marina, oggi Renée.

Bibliografia:

Flaubert G. (1857), Madame Bovary, Gallimard 2001

Omero, Odissea, traduzione di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2014

Marcel P. (1913) , Le intermittenze del cuore, traduzione di M. Noja, La Vita Felice, Milano 2018