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Italiano: la libertà di una lingua classica

Venerdì 18 ottobre 2019
Incontro al Circolo dei lettori con Gian Luigi Beccaria

La lingua italiana è nata e si è sviluppata fortemente ancorata al suo retroterra greco-latino, ma non necessariamente questo modello illustre ha costituito una costrizione o un ostacolo al suo evolversi; l’intervento di Gian Luigi Beccaria al Circolo dei lettori sviscera in una prospettiva storica la ricchezza, la fecondità e la libertà di quella che può essere definita, in tutti i sensi, una lingua classica. 

*

La lingua dei classici non ha costituito per l’italiano un impaccio, ma ha collaborato a mettere a disposizione una più libera e ricca varietà di registri, agendo anche come spinta al rinnovamento neologico sia nella forma che nel significato.

Rispetto alle altre lingue europee l’italiano contiene una straordinaria quantità di tratti greco-latini, che non hanno costituito una verniciatura di stantio, bensì un segno distintivo di nobiltà. Se le altre lingue sorelle hanno in molti casi adottato parole dal sapore più quotidiano e dimesso, l’italiano ha invece amato coloriture dotte e anticheggianti. Le opposizioni tra parole italiane dall’origine dotta e parole francesi più umili sono innumerevoli: basti pensare alla nostra cipria, che prende il nome dall’isola di Cipro mentre l’equivalente francese poudre può vantare un’origine molto meno nobile, oppure al piroscafo, chiamato più semplicemente dai francesi bateaux, o al nostro solenne fiammifero paragonato al più dimesso alumette.

Molte rivalità lessicali hanno rivolto il conflitto a favore della soluzione anticheggiante: il telescopio venne preferito al cannocchiale di Galileo, e il dotto Pietro Giordani, che nell’Ottocento suggeriva di utilizzare radici italiane per modellare nuovi termini scientifici, sostituendo grecismi come termometro e anemometro con coniazioni italianeggianti come segnacaldo, misuravento, non vide realizzato il suo desiderio.

Innumerevoli cultismi e latinismi sono entrati nell’uso medio-alto della nostra lingua, tanto incombenti da portare a un’esibizione del latino foneticamente non adattato (aurea medietas, est modus in rebus), che nel pomposo italiano avvocatesco conobbe il suo terreno più fertile. Negli scrittori la classicità ha poi ricoperto svariate funzioni: non solo ha steso una patina anticheggiante sul lessico e sulla sintassi, ma è diventata un ingrediente essenziale del ribollio espressionistico di tanti autori che hanno voluto intenzionalmente accostare l’alto e il basso, il sublime e l’antico con il dialettale, da Dante a Gadda a Michele Mari.

L’antico ha insomma costituito un elemento fondamentale della nostra tradizione letteraria e le ha fornito una gravità segreta che pescava dal passato, una scelta anticheggiante che sembra minore nella tradizione di altri paesi: l’italiano ha conservato più a lungo il senso robusto del periodo, l’onda lunga latineggiante e compatta che ricerca la simmetria, gli effetti retorici delle clausole medievali, il parallelismo delle rispondenze di concetti e di ritmi. Il latino ha arricchito sin dalle origini le risorse del volgare, e la prosa medievale nasce già ricca dell’ornatus ciceroniano, il cui impianto durerà fino ai prosatori dell’Ottocento.

In particolare è nell’ambito della poesia che in Italia si è guardato alla tradizione classica: Alfieri amava in maniera appassionata i costrutti con sapore latino e greco, si estasiava di fronte alle inversioni, alla posizione innaturale dell’aggettivo prima del nome. Eloquente è la sua annotazione autografa sul sonetto 162, “Ad alte cose io nato me sentiva”, e ancora di più lo è il modo in cui definisce l’ordine non marcato della frase: “fiacchissimo verso”.

Dovremmo parlare di un modello o piuttosto di una costrizione? Che tipo di libertà può avere una lingua che guarda costantemente all’indietro?

La realtà è che i modelli antichi non hanno mai stretto in ceppi la nostra lingua, ma al contrario le hanno dato vigorose spinte verso un progressivo miglioramento. La frequenza dei latinismi lessicali e sintattici non è causata dalla debolezza di una prosa neonata che si va formando e che ha bisogno di stampelle, ma dalla ricerca consapevole e libera di una guida forte. Non a caso i grecismi e i latinismi apportano una fortissima spinta alla neologia, non solo di forma ma anche di significato: il latino captivus passa dal significato di “prigioniero” a quello di “malvagio”, sotto l’influsso del cristianesimo; sul significato di tradire il cristianesimo opera poi un passaggio semantico notevole, da “consegnare” a “consegnare qualcosa al nemico con l’inganno” – ai tempi delle persecuzioni infatti i vescovi traditores consegnavano i libri sacri alle autorità.

L’impronta latina sul significato delle parole nei primi secoli della letteratura italiana è particolarmente evidente in quanto conferisce ai singoli termini una potenza etimologica che col tempo è andata lentamente svanendo: nella Commedia gli aggettivi molesto e mesto compaiono in situazioni di particolare drammaticità e il loro valore è notevolmente più connotato in senso gravoso rispetto a quello odierno, è più forte in quanto desunto direttamente dal latino. Il latinismo quindi non fornisce solo una patina di vetusto e arcaico, ma riporta la parola ad un significato potente originario, per forza di etimo, che viene sfruttato sapientemente dagli scrittori per conferire sfumature ai loro testi.

La ripresa neoclassica ottocentesca e il conseguente incremento dell’uso del latino costituiscono una spinta di ardimento innovativa, che sarà intensificata con i contributi di D’Annunzio e Carducci – quest’ultimo in particolare esprime la sua preferenza nei confronti dei latinismi anche nello schema accentuale dei termini da lui scelti, tendenzialmente proparossitoni (colubro, adamantino, cuculo).

Gli agganci alla classicità continuano ancora nella seconda metà del Novecento; proprio quando tutte le vie per segnare la distanza dal passato sono state attraversate gli echi del passato continuano ad affiorare, anche quando si dà l’addio al tono liricamente aulico non ci si riesce a staccare dall’ancoraggio all’antico. Un esempio lampante di questa persistenza è l’iperbato, figura nobile e anticheggiante che viene ripresa spesso nel secondo Novecento, proprio quando la poesia simula maggiormente il parlato e l’oralità. Gli autori del secolo scorso quando scendono verso il parlato non vogliono mostrare nessun sintomo di depressione stilistica, e corrono a mettersi al riparo di coperture anticheggianti: Sereni e Caproni preferiscono spesso una sintassi antilineare, che però non assume il significato di esposizione di antiquariato, bensì viene applicata all’interno dei loro andamenti più colloquiali, per innalzare il tenore di una sintassi che tende all’oralità.

Se il Novecento è caratterizzato da versi moderni che scrivono a tratti all’antica in una voluta ed esibita innaturalità, possiamo ravvisare in Leopardi l’ultimo ad aver scritto per arcaismi nel modo più naturale, ad aver saputo coniugare l’attualità e la spontaneità con il cultismo, ad aver espresso messaggi di contenuto nuovo tramite strumenti antichi. La libertà e l’antico in lui collimano, nella sua poesia si condensano tutta la tradizione antica e quella moderna e i classici si fanno davvero carne, non solamente sterili citazioni: i fuochi di Troia e le luci di Recanati diventano la stessa cosa, la sua luna domestica coincide con quella di Virgilio e di Omero.

Volgendo il capo ai predecessori Leopardi ha saputo raccogliere i frutti migliori, i cosiddetti “frutti freschi fuori di stagione”, come lui definiva gli arcaismi, pensando la letteratura italiana come una corrente dal suono familiare e insieme antico. In lui più di ogni altro la lingua dei classici non ha rappresentato una prigione o un freno, ma ha suscitato una continua libertà espressiva.

Linda Dellacroce

Una storia di redenzione

Gioele Roccia, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Winter’s Tale shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare II: Il racconto d’inverno e La Tempesta. Letterature comparate B, mod.1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Il progetto di questa riscrittura parte dal lavoro della compagnia Inteattrabili basato sullo studio e sulla comprensione dei limiti. Da qui è nata l’idea di analisi introspettiva di Leonte e di quali sono i limiti che lo tormentano e le portano ad agire in quel modo.    

*

Ho deciso di scrivere queste poche parole per trovare nell’animo sollievo, e forse per far si che voi leggiate questo e mi capiate… credo che solo così potrete perdonare i gesti di un folle. Perché si, i miei gesti son stati follia, ma non di quella che muove l’uomo nel suo fare quotidiano, ma di quella che annebbia inesorabilmente la ragione e porta alla sofferenza, personale e collettiva. Non so cosa generò realmente in me quell’amore diventato malsano, avevo forse paura di perdere tutto ciò che c’era attorno a me. La gelosia bruciò tutto attorno a me.

Su tutti i pensier si pone il limite
della strana ragione detta amore.
Che poi silente si innesta in testa,
vorticano emozioni in un non dialogo
Vogliono giungere ad una decisione:
oscurar nel cuor l’angusta rabbia.

Fu così che da solo mi posi un limite, l’amore assunse strani colori verdi. La gelosia stava prendendo il suo posto. Se soli fossi stato più saggio e razionale avrei capito che le mie passioni mi stavano ingannando, ma forse non ho voluto vedere il vero. Ho lasciato che i dubbi oscurassero la mia mente e distruggessero quel dialogo interno fra le sfere emotive. In preda alla paura pensavo che il mio amore si fosse rivelato una menzogna, la paura divenne così dubbio e infine certezza. Fui accecato dal mio stesso pensiero.  Nella cecità e nel dolore, per cercar sollievo, decisi di agire mosso dalla rabbia: condannai ogni cosa intorno a me. Qualsiasi cosa che fosse da lei stata contaminata, precludendomi gli affetti e soffocandoli nell’ira distruttiva.

Ma mi chiedo, cosa mi dà rabbia?!
E’ quell’invalicabile limite
che mi impedisce di prender decisione?
Strano esser bloccato da te, Amore.
Dammi tempo e concedimi il dialogo.
Placa le paranoie che ho in testa.

Non ho ancora capito cosa crei in me rabbia, se il fatto di non saper agire e prender decisioni nei confronti di una giovine creatura o se sia solo l’odio che provo per lei a generare questo malessere. Forse non ero ancora completamente corrotto dalla mala passione, con l’io cercavo ancora di dialogare; cerco di capire perché ho fatto tutto ciò ma la rabbia è comunque ancora forte. O magari sono adirato con Amore? Per il suo avermi abbandonato e condannato, ed è lei a non permettermi di decidere? In futuro avrei solo ringraziato che mi avesse fatto esitare. Forse in un ultimo disperato grido per lei volevo ritrovare il senno, che pareva esser sigillato in altri mondi. Un’ultima preghiera vana rimane inesaudito e inizia così un viaggio in un abisso senza fondo.

E ancora corrono i pensieri in testa,
il poco controllo genera rabbia.
Ora nego il possibile dialogo…
E mi par di relegarmi nel limite,
Illuso rinnego i gesti d’Amore
Torno a pensar alla sciocca decisione.

Ho ormai raggiunto il limite, non controllo più me stesso e ciò che corre nel mio animo. La gelosia che era stata padrona delle mie passioni mi lascia in un senso di vuoto. Di rabbia. Ha cancellato la mia vita.  Non riesco a comprenderla e il solo pensare a questa rabbia accende in me una nera fiamma che brucia l’io e mi impedisce il dialogo. E’ un cane che si morde la coda, aizzandosi ancora di più contro sè stesso. Più cieco che mai non posso capire il disegno superiore di Amore e Provvidenza, tanto tolgono ma altrettanto regalano. L’unica cosa è inveire contro di lei per il blocco che mi ha causato; ripenso e trovo stupida la scelta di lasciare in vita una innocente creatura. Che di lei mi ricorderà sempre.

Ho ansia per una sola decisione?
Non so più cosa mi succede in testa.
Ho perduto speranza nell’amore,
piango, solo, sono in preda alla rabbia.
Ora trovo il mio più basso limite,
ma con chi posso instaurare un dialogo?

Mi sono finalmente accorto che nel buio più profondo si può vedere in alto la luce calda e accogliente della rinascita, è quando hai perso tutto che forse nell’ultimo atto di folle lucidità capisci cosa hai perso, e quanto hai sofferto. Mi è stata data la possibilità di vedere di nuovo. Inizio a capire i miei errori, l’ansia del passato bracca la sua prede con il fiato sul collo. La mia mente viaggia sregolata ma ora è più facile comprenderla, devo solo poter tornare a parlare con qualcuno del peso che grava su di me. Ho ancora il peso di quella scelta addosso, e deve esser cancellato.

Certo con l’io reinizio il dialogo
svelto troverò una decisione
per trovare e superare quel limite.
E così alleggerir la mia testa,
sopprimere ogni forma di rabbia
e consacrar la vita nell’Amore.

Ho, ora capito, dopo decenni che devo essere io il primo a perdonarmi, devo tornare a parlare con me comprendermi, compatirmi e trovare la strada della redenzione. Ora voglio cercare il modo per redimere il mio peccato… Bhe, forse è impossibile tornar puro. Però sono sicuro: devo impiegare la mia vita al bene e consacrarla nell’Amore delle persone, perché è solo donando amore che la propria vita ottiene gioia. Guardate il mio passato seminando dubbi ho raccolto solo sofferenza e morte, e per tutte le cose di cui mi son privato voglio donar vita a qualcosa di nuovo. Un giorno donando bene e gioia, Amore mi permetterà di tornar ad il esser suo fedele araldo.

Risorgo nella luce dell’Amore,
a tutti elargirò il mio dialogo.
Dottrina sublime annulla la rabbia
E in voi nascerà questa decisione.
Spinta dal fuoco come scintilla in testa
Ogni azione andrà a superare il limite.

E nell’amore per me stesso ed il prossimo che si è compiuta una rinascita. Certo è nata da una sofferenza che io ho creato, e che ho cercato di risanare. Voglio gridare al mondo l’importanza del fare del bene agli altri. Come insegnava un antico eremita ridente: solo il superamento della rabbia e dolore ci potrà portare in un posto migliore, questa è da molti definita sublime dottrina… Voglio che questa dottrina instilli in voi il dubbio, quello della scoperta e dell’elevazione sicchè un nuovo fuoco alimenti il vostro animo nella mente sopito, ogni nostro gesto sarà atto a conoscere i nostri limiti per infrangerli e superarli nelle gioia finale e nella condivisione comune.

Devo dire che però senza l’intervento divino, della magia o della provvidenza tutto ciò non sarebbe mai accaduto. Son stato forse l’uomo più soggetto a buona sorte, tutto ciò che perso mi è stato ridato. Solo nell’assenza dei miei affetti ho capito quanto in realtà loro erano importanti per me, ho così iniziato un lento cammino di redenzione. Questo è stato osservato e ammirato dai cieli, e le mie donne sono ora di nuovo con me. Ho un solo rimpianto, ma dedicherò la mia vita a distruggere con la parola quei dolori dell’animo che hanno portato via un angelo. Amore mi ha tolta una gioia della vita ma il ri-trovare tutti quegli affetti persi è come vederli di nuovo nascere, ogni nuova vita porta con sé novità. Altra conoscenza che mi permetterà di essere migliore per voi.

Pensa come il dialogo crei Amore
E come la rabbia ponga il limite
Per la decisione nata in testa.

Bibliografia
William Shakespeare, Winter’s Tale, Independently published, 2019

The Rhymes of Prince

Letizia Scozzi, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.  

La riscrittura tratta della vicenda di Pericle, principe di Tiro, e nasce dalla passione per la poesia in rima: in particolare di quella baciata, forse un po’ infantile è vero, semplice, ma proprio per questo rende tutta la sua bellezza e la sua emotività.

*

Prologo
Il primo a parlare è John Gower nel racconto
E la mia funzione è fare un resoconto;
Shakespeare mi ha richiamato dalla mia cenere
Per deliziare tutti, con questo genere.
Qui comincio a narrare,
Di un padre e di una figlia pare
Peccaminosi perché uniti
Da sentimenti proibiti.
Incesto si chiama il crimine
Causato dalla travolgente libidine.
Tutto questo è nascosto da un indovinello
Che se svelato, alla principessa porta un sanguinario anello.
Ma ora lascio a voi giudicare
Visto che la favola deve iniziare.

Atto I
Entra Pericle principe di Tiro,
Colui che ha visto dei suoi rivali il ritiro
Per la mano della figlia del re Antioco,
Desideroso di risolvere un enigma demoniaco.
Nessuno lo risolve tranne il nostro valoroso:
Ma l’esito di morte sarà comunque doloroso.
Per sfuggire al verdetto ritorna nella sua terra,
Ma non essendo sicuro, l’idea afferra
Di sfuggirle per un’altra località.
Nomina Elicano reggente della città
E si reca a Tarso, da Dionisa e Cleone
Per poi tornare in patria da leone.

Atto II
Una tempesta sorprende il protagonista,
Ma lei altruista,
Gli fa raggiungere le spiagge di Pentapoli,
In premio la figlia del re al vincitore degli scapoli.
Pericle ne approfitta
E trionfa senza sconfitta:
A lui viene così donata la principessa
La sua mano come promessa.
Ma facciamo un passo a ritroso:
Ricordate di Antioco e la figlia il legame amoroso?
La mano divina li ha puniti:
Con la morte li ha assaliti.
Il popolo vuole affidare ad Elicano la corona
Ma il consigliere rifiuta e l’idea abbandona
Solo se il patto viene rispettato,
cioè giunta la notizia della morte del re adorato
Allora prenderà il comando:
Manda una pattuglia per notizie buone sperando.

Atto III
A Pentapoli arriva la notizia della spedizione spinta
E Pericle si rimette in viaggio per Tiro con Taisa incinta.
Ma ahimè, un’altra tempesta è in agguato
Così non permette al duo di essere accontentato.
Nasce la creatura del grembo materno,
Però alla donna dona l’inverno.
Il re addolorato, getta in mare l’amata
Per calmare degli dei la collera armata.
Così Marina, è il nome della figlia del mare
E che Pericle porta a Tarso per salvare.
Il destino con Taisa è tuttavia premuroso
La sua cassa approda ad Efeso con fare misterioso;
Trovata dal vecchio mago Cerimone
Rivive grazie alla sua prodigiosa applicazione.
Una volta risvegliata, smarrita
Crede che il suo amato sia defunto: così ferita
Decide di rimanere ad Efeso e sacerdotessa diventare
Nel tempio di Diana per avanti andare.
Pericle lascia Marina a Cleone e Dionisa
E poi parte per Tiro che avvisa.

Atto IV
Il tempo scorre, non ci si accorge del suo sfuggire:
Marina, fanciulla così bella, invidiato è il suo apparire.
La figlia di Cleone e Dionisa è detta carina,
Ma la bellezza è cosa più di Marina.
Questo, più di tutti, Dionisa non lo accetta
E organizza la strategia perfetta.
Fatto chiamare Leonino, un suo servitore
Lo incarica di essere il suo uccisore.
Ma il suo piano fallisce,
Il valletto la sua azione non finisce
Perché la fanciulla viene rapita dai pirati
E portata a Mitilene al bordello degli affamati.
Poiché la giovinetta è assai virtuosa,
Mantiene la sua innocenza preziosa
Grazie all’arte del cantare, del suonare
Ma soprattutto del parlare.
Pericle finiti i suoi viaggi,
E dopo aver visto molti paesaggi,
Torna a Tarso per riprendere la sua erede.
Ma di una menzogna si fida e Pericle cede.
Così per il dolore afflitto,
Riprende la ricerca della figlia su un nuovo tragitto.

Atto V
Dopo varie traversate, ebbene,
La sorte porta il vecchio Pericle a Mitilene.
Marina che qui si trova,
Ha il titolo di colei che gli animi rinnova.
Così Lisimaco, sovrano di Mitilene, presenta
Marina a Pericle, così di rincuorarlo tenta.
Il principe di Tiro non vuole abusare della ragazza
E pertanto vuole raccontare la sua storia pazza.
Di conseguenza anche Marina espone le sue vicende
Ed è così che il legame padre e figlia si riprende.
La dea Diana appare a Pericle in sogno
E gli rivela il suo bisogno:
Lo invita a recarsi al suo tempio
Per dimostrargli di carità un esempio.
Infatti lì incontra la sua cara moglie
E con molto stupore lo accoglie.
Ora la famiglia è riunita
E la felicità è di nuovo sentita!

Epilogo
E di nuovo l’ultimo a parlare è colui che è stato il primo
E le conclusioni vi esprimo.
Le vicende di Pericle, Taisa e Marina avete vissuto
Con peripezie e ostacoli ma con un fine benvenuto.
Conosceste personaggi come Elicano e Cerimone,
Con lealtà e conoscenza, hanno contribuito alla soluzione.
La notizia del tradimento di Dionisa e Cleone fu divulgata
E in Pericle accese una vendetta affamata:
Così nel loro palazzo furono bruciati
E per l’eternità rimarranno dannati.
Allora lo spettacolo è compiuto
A voi ogni ringraziamento è dovuto.

Bibliografia
William Shakespeare, Pericles-Prince of Tyre (Pericle- Principe di Tiro), Bompiani, 2019

Ricorderò sempre quei momenti felici

Lucrezia Cimino, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Partendo da fatti realmente accaduti ho deciso di trasportare l’opera di Shakespeare in un’altra epoca per sottolinearne l’attualità e la forza emotiva. 

*

A nonna Agata,
ai tuoi insegnamenti e alle tue letture.

Giravo per la biblioteca in cerca di un libro ma non riuscivo a trovarlo, eppure era lì, doveva esserci, semplicemente ancora non l’avevo trovato.
Mi addentravo tra i corridoi ombrosi, una volta illuminati dai grandi lampadari che pendevano dal soffitto dando luce ad un mosaico di pagine vive e allo stesso tempo silenziose.
Come era stata bella quella biblioteca negli anni passati, prima delle bombe, della cenere, della desolazione.
Mi muovevo lentamente tra uno scaffale ribaltato e un masso caduto dal soffitto in quel luogo ormai freddo, bianco, solo, abbandonato. Camminavo e mi venivano in mente i racconti di mia nonna “Sai Federico, passavo molto tempo in biblioteca da ragazza, mi ci portava mio padre quando lavorava qui. Mi piaceva sfogliare quei grandi libroni pieni di polvere, mi sentivo parte di una storia più grande di me, mi sentivo parte di quel mondo passato che tanto mi affascinava e allora mi sedevo per terra, incrociavo le gambe e leggevo per ore. Una volta all’anno, poi, rileggevo un libro che mi piaceva tanto, un dramma di Shakespeare, il Pericle, te ne ho parlato, ti ricordi?”.
Oh, nonna, se solo fossi qui, se solo quegli inglesi non ci avessero bombardati, se solo tu e nonno fosse stati a casa con noi, quella sera, se solo…

Ero nel mio letto quella notte, come tutte le notti, come tutti. Ero nel mio letto e leggevo uno dei libri che mi avevi portato nonna, leggevo Moby Dick, me lo avevi regalato per il mio decimo compleanno “Così impari bene l’inglese, Federico, abbiamo fatto molta pratica insieme e penso che tu questo possa riuscire a leggerlo da solo”. Leggevo e ad un tratto sentii l’allarme bomba risuonare forte per le vie della città. Guardai fuori dalla finestra: le finestre iniziarono ad illuminarsi a momenti alterni, mi ricordavano le luci del nostro albero di Natale. Mia madre mi chiamò con voce tremante. Mi infilai le pantofole e una vestaglia e corsi verso la camera dei miei genitori. Li trovai in corridoio, stavano parlando, mio padre teneva stretta la mano di mia mamma, ricordo che se la portò vicino al cuore e poi la baciò dolcemente, mi guardò, si avvicinò a me e mi disse: “Federico, prenditi cura della mamma, io vado a cercare i nonni”. La mamma mi prese per un braccio e mi trascinò giù per le scale correndo, facendosi strada tra tutte le altre anime private dal sonno che come zombie cercavano di correre più velocemente possibile per raggiungere un luogo sicuro.
Nelle strade dominava il caos: l’allarme continuava a suonare forte e pungente, la gente urlava, i bambini piangevano, le mamme correvano stringendo al petto neonati spaventati.
Correndo passammo davanti alla mia scuola, al parco, al ristorante dove la domenica andavamo sempre a festeggiare dopo la messa e tutti quei luoghi, quei luoghi conosciuti e noti ai miei occhi, mi sembravano in quel momento così diversi, così distanti, come se non li avessi mai visti. Eravamo quasi arrivati al punto di ritrovo quando, in lontananza, sentimmo il rumore degli aerei, ci fermammo, dirigendo lo sguardo verso il cielo scuro ed ecco che vedemmo arrivare gli aerei del RAF: sganciavano bombe su di noi, sulle nostre case, sulla nostra città. Ci buttammo per terra in un vicolo buio, mia madre mi coperse il viso con il suo corpo continuando a ripetermi che sarebbe andato tutto bene, di non preoccuparmi, che presto sarebbe tutto finito. Avevo paura e stringevo le mani sulle orecchie per allontanare almeno un po’ quel terribile rumore, ma i miei occhi non potevano fare a meno di vedere la nostra città ardere indifesa sotto quelle fiamme rosse.

Ricordo di essermi svegliato con la testa appoggiata al petto di mia madre. Avevo gli occhi stanchi e pesanti. Ricordo ancora il suo viso, i suoi occhi dolci pieni di lacrime che mi guardavano amorevolmente, incapaci di darmi spiegazioni. Mi guardai in giro e tutto quel rumore, quel calore, quel rosso, non c’erano più. Era tutto silenzioso, terribilmente silenzioso. Dai tetti salivano al cielo alte colonne di fumo, l’aria era grigia e pesante.
“Mamma, dov’è papa?” le chiesi, con un filo di voce. “Papà sta bene, non ti preoccupare tesoro mio, arriverà presto”.
Passarono dei giorni difficili, eravamo tutti sotto choc per quel che era successo, ci avevano colpiti dritti al cuore e queste ferite sono dure da curare.
Papà era distrutto, non ferito, questo no, ma distrutto dalla perdita che quelle bombe gli avevano causato. Me lo dissero solo dopo qualche giorno: “Vedi Federico, l’altra sera nonno e nonna non sono venuti con noi, erano lontani dal nostro punto di ritrovo e sono andati a rifugiarsi vicino alla biblioteca. Ecco Fede, la biblioteca ora non c’è più”. Mia madre scoppiò a piangere e a malapena riuscì a finire la frase. Ero un bambino sveglio, capii subito cosa volesse dire.

Così, ripensando a quella notte, giravo nella biblioteca, o per meglio dire, in quel che ne restava. Cercavo quel libro di cui tanto mi avevi parlato nonna, volevi tanto che lo leggessi ma io avevo sempre preferito altro e così ti promettevo che sì, che un giorno l’avrei letto, “tanto c’è tempo”, te lo dicevo sempre. Mi tormentavo di domande mentre con la mia torcia in mano rovistavo tra le macerie e cercavo di ricordare le tue parole.
“Sai Federico, la prima volta in cui ho letto il Pericle fu per il mio sedicesimo compleanno, me lo aveva regalato il mio papà. Ci eravamo appena trasferiti in Italia da Bristol perché mio padre aveva trovato un lavoro qui a Torino. Insieme al pacchetto c’era un bigliettino: Cara Agata, spero che questo libro possa emozionarti quanto ha emozionato me, che possa insegnarti ad apprezzare l’amore nelle sue più svariate forme, che possa insegnarti a non perdere mai la speranza perché un giorno, chissà, potresti sempre ritrovare quello che da tempo temevi di aver perduto. Con affetto, il tuo papà. Ho sempre amato questo libro, il momento dell’incontro tra Pericle e Marina è uno dei miei preferiti di sempre, mi ricorda un po’ la storia di me e di mio padre, tornato a casa dopo molti anni, avendomi lasciata molto piccola sola con mia madre. Ecco vedi, mi porto sempre questo foglietto dietro con le parole che mio padre scrisse nella prima pagina del libro:

Call’d Marina for I was born at sea.
At sea! what mother.
My mother was the daughter of a king;
Who died the minute I was born,
As my good nurse Lychorida hath oft
Deliver’d weeping.
Oh, stop there a little!
This is the rarest dream that e’er dull sleep
Did mock sad fools withal: this cannot be:
My daughter’s buried.

Per giorni sono tornato dentro a quella biblioteca distrutta, stavo lì dalle prime luci del mattino fino alle ultime della sera per trovare quel libro che per te era stato così importante e che io, stupidamente, egoisticamente, non avevo mai voluto leggere. Mia madre era molto preoccupata “E se dovesse crollare? Non è sicuro Federico, ti prego non ci tornare più, non possiamo perdere anche te”. “Sì mamma, va bene mamma”. Non ero mai stato un bambino molto obbediente ma non volevo più vedere soffrire la mamma e non ci tornai più.

Crebbi e me ne andai da Torino per fare degli studi in Inghilterra, lì avevano da poco aperto un’ottima scuola di legge e di stare in Italia, dopo la morte dei miei genitori, proprio non ne avevo più voglia.
Ero arrivato da poco a Londra quando, camminando per strada in cerca di un ufficio postale, vidi un cartellone: “Pericles, Prynce of Tyre. 6th September 1958. Shakespeare Memorial Theatre, Stratford”. Mi tolsi gli occhiali, passai le lenti tra le mani e il bordo della camicia per pulirli, li indossai di nuovo e riguardai il cartellone: Pericle, l’eroe di mia nonna, rappresentato qui, domani.
Non ci potevo credere: erano passati quindici anni dall’ultima volta in cui avevo pensato a quel libro. Eccitato corsi al teatro per comprare il mio biglietto e tornando a casa mi sembrava di volare, di camminare due metri sopra terra. Passai il pomeriggio in un bar a bere e ascoltare le storie degli altri, come uno spettatore invisibile ai loro occhi.
La mattina dopo mi svegliai molto presto, comprai una copia del The Guardian nell’edicola sotto il mio appartamento e con il giornale sottobraccio decisi di recarmi in biblioteca in cerca del mio libro, dopo tanto tempo non era un caso quell’annuncio: dovevo leggerlo.
“Excuse me, I’m looking for a book.” “Yes, sir. What’s the title?” “Pericles, by William Shakespeare. Can I borrow it?”.
Uscii dalla biblioteca soddisfatto per il mio inglese e per la riuscita della mia visita alla biblioteca. Mi sedetti su una panchina nel parco di fronte alla biblioteca: tenevo il libro tra le mani con dolcezza e delicatezza, come se fosse lui stesso, nella sua forma rigida e rettangolare, ciò che di più dolce e caro mi restava di mia nonna. Rimasi a contemplare quella copertina per ore e venni destato dal suono del campanile che segnava le cinque: era ora di andare.
Con il libro in mano andai verso il teatro, entrai, mi sedetti al mio posto e aspettai, osservando ogni centimetro di quel luogo, ogni dettaglio della sceneggiatura, dei vestiti. Rimasi lì seduto in silenzio a godere di quello spettacolo senza perdermene neanche un secondo, mi sembrava di non sbattere neanche le palpebre per paura di lasciarmi sfuggire qualcosa.
Finita la rappresentazione il teatro, tornato rumoroso dopo il silenzio attento della platea nel corso del dramma, iniziava a svuotarsi lentamente e io, io non riuscivo a trovare la forza di alzarmi dalla mia poltrona. Fui costretto ad alzarmi qualche minuto dopo per la gentile richiesta di un giovanetto dai capelli rossi, così me ne andai e camminai tutta la sera per la città senza meta.

“Nonna, io da grande voglio fare lo scrittore, e non uno scrittore qualunque, voglio essere importante come questi che ci sono qui, come questi sugli scaffali che tu ami tanto. Posso farlo, vero nonna?”.
Quante volte te l’ho detto non lo so, neanche riesco a ricordarmelo; però era vero, nonna, volevo diventare uno scrittore e lo sono diventato, per te.

Tornato a casa dopo lo spettacolo, quella sera, ero in preda a sentimenti contrastanti, mai provati prima: ero euforico e allo stesso tempo triste, ero vivo e allo stesso tempo mi sentivo distante dal mio corpo, ero io e non ero nessuno.
Lessi con eccitazione il libro, lo divorai in poco più di un’ora, lo posai sul comodino e mi addormentai. Ricordo di aver fatto dei sogni strani: io ero capitano di una nave che naufragava e proprio quando stavo per annegare, caduto in acqua dopo la forte tempesta, ecco che magicamente mi ritrovavo su un’isola, a sposare una donna che non avevo mai conosciuto, a cercare una figlia che non avevo mai avuto. Mi svegliai sudato, il mio petto si muoveva rapidamente, avevo la bocca asciutta e le mani bagnate. Mi alzai, bevvi un bicchiere d’acqua e mi sedetti sulla poltrona del soggiorno.
Quanta potenza questo libro, quanta passione, quanto dolore, quanta speranza, quanta vita… Quante cose mi ero perso negli anni, quante cose che tu nonna avevi cercato di insegnarmi ma che io, testardo, non ascoltavo, convinto di poter conoscere tutto leggendo altre cose, pensando che il passato, che una storia così lontana, non potesse insegnarmi niente.
Mi vestii, presi un caffè in un bar vicino a casa e andai a comprare carta, inchiostro e bianchetto liquido per la mia macchina da scrivere e rincasai.
Scrissi per vari giorni, fermandomi a stento per mangiare, bere e dormire qualche ora, la maggior parte delle quali appoggiato sulla scrivania con la testa sul braccio destro e la mano appoggiata alla tastiera. Scrissi come non avevo mai fatto, scrissi come non facevo da tempo, ispirato e guidato da un qualcosa più grande di me. Scrissi per giorni, nonna, scrissi per te, per me, per quello che questo libro era riuscito a fare: collegarci anche se eravamo così lontani, riunirci da luoghi distanti, farci vivere ancora per un po’ nello stesso momento.

Bibliografia
William Shakespeare, Pericle, Principe di Tiro, tr. it. di Alessandro Serpieri, Garzanti, Milano, 2016

Il dono di Marina

Alice Moretto, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod.1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Accettare la verità quando da essa si vorrebbe fuggire, imparare a guardare il mondo da una diversa prospettiva. Queste le più grandi sfide che l’instancabile Pericle, alla fine, deve superare.

*

Con le mani appoggiate sul legno freddo e duro della poppa della mia nave, scrutavo l’orizzonte ancora scuro, si scorgeva solo una tenue luce, che indicava l’alba imminente. Chiusi gli occhi e inspirai a fondo, nel tentativo di calmare il tremolio che sentivo nel petto. A poche ore da quel momento avrei finalmente potuto conoscere mia figlia Marina, affidata ai fedeli Cleone e Dionisa, sovrani di Tarso, tanto tempo addietro.
Mi abbandonai ai pensieri e iniziai a ricordare la notte in cui nacque Marina.
Io e la mia amata moglie Taisa, figlia di Re Simonide, ci eravamo da poco imbarcati in direzione della mia terra madre, Tiro, poiché io dovevo tornare a ricoprire la mia carica di sovrano dopo un lungo periodo di assenza.
La tempesta ci investì senza preavviso e senza pietà, il vento e la pioggia sferzavano la nave e i marinai con la forza di fruste e rasoi, e il cielo tuonava con rabbia inaudita.
Quella notte la furia degli Dei sembrava provocata da un dolore intimo e profondo. A causa di questa furia la mia dolce Taisa, già incinta, entrò in travaglio e diede alla luce una bambina, chiamata Marina poiché nata tra le onde del mare.
La gioia più grande fu accompagnata dal più grande dolore: Taisa morì dopo il parto. Sollecitato dai miei marinai, fui costretto ad abbandonare il suo corpo al mare.
Il peso della vita mi crollò addosso come un forte macigno che ruzzola giù dal fianco di una montagna. Le poche forze che mi erano rimaste le ricavavo dal viso sereno della mia dolce, piccola Marina. Mentre la guardavo, ricordai una vecchia leggenda che circolava tra gli uomini di mare. La leggenda recitava che i nati sotto il segno della tempesta e delle grandi onde, sono portatori di male in questo mondo, poiché nascono dall’ira e dalla paura. Sorrisi ricordando le parole dei marinai e continuai a guardare il viso della piccola, convinto che una creatura così pura non potesse portare che bontà e amore.
Quando la tempesta si placò, fui costretto a lasciare la mia amata figlia ancora in fasce a Tarso, per paura delle conseguenze di una traversata in mare tanto lunga.

Ridestandomi dal torpore dei ricordi lontani, che mi avevano gelato il cuore in un dolore ormai tanto famigliare, scorsi il profilo della terra di Tarso e il mio cuore iniziò nuovamente a tremare al pensiero di essere tanto vicino alla mia Marina.

L’accoglienza di Dionisa e Cleone fu diversa da ciò che mi aspettavo. Nei loro occhi c’era una luce differente da quella che ricordavo, ma, preso dai miei sentimenti, non me ne curai.
Quando chiesi loro di condurmi da Marina, il loro volto mutò. Si fece duro, addolorato e arrabbiato al tempo stesso. Iniziai a provare emozioni confuse.
Mi condussero in una bella sala del loro palazzo, adibita ad accogliere ospiti e intrattenere conversazioni. I sovrani di Tarso mi fecero accomodare, poi si accomodarono di fronte a me.
Trovai il loro comportamento bizzarro, non mi spiegavo perché dover intrattenere una conversazione prima ancora di farmi vedere mia figlia, ne avremmo avuto l’occasione a tempo debito.
Non appena Dionisa iniziò a parlare, iniziai a capire i motivi del loro strano comportamento dal momento del mio arrivo. “Pericle,” mi disse, “Marina non è qui.” Un dolore lancinante mi pervase il petto. Cleone colse i segni della mia agitazione e mi interruppe prima che potessi dire qualsiasi cosa: “Pericle, la storia che sto per raccontarti non ti aggraderà, ti chiedo però di credermi perché non c’è menzogna nelle mie parole né cattiveria nelle mie intenzioni. Io e mia moglie Dionisa abbiamo cresciuto Marina come si conviene a una principessa, educandola alla pari della nostra dolce figliola nelle arti e nelle buone maniere. Per tanti anni l’abbiamo ritenuta una bambina gentile, affettuosa e sincera. Abbiamo faticato e tardato a vedere la verità anche di fronte all’evidenza. Durante gli anni sono accaduti episodi insoliti a palazzo. Abbiamo recluso e allontanato molti servi, poiché abbiamo sempre creduto alle parole di Marina che li accusava di piccoli furti o ingiustizie. Abbiamo creduto alle parole di Marina persino quando ha accusato la sua povera nutrice, Licorida,” Cleone si interruppe, la voce spezzata dall’emozione, poi riprese a parlare. “oh, povera Licorida, che destino infausto le hanno riservato gli Dei, giustiziata per un atto da lei mai commesso!” Cleone interruppe nuovamente il racconto, il senso di colpa che gli attanagliava lo sguardo. Si passò una mano sul volto e riprese: “come dicevo, abbiamo creduto a tua figlia Marina anche nel momento in cui ha accusato Licorida di un atto così increscioso che non riesco a farne parola. Licorida ha perso la vita a causa delle parole di Marina.” Una sensazione di calore iniziò a farsi largo nel mio stomaco, mi imposi di stare calmo e dissi, tagliando le parole tra i denti: “state dando della bugiarda a Marina, figlia di Taisa da Pentapoli e Pericle da Tiro?” mi resi conto di essermi alzato in piedi solamente quando Dionisa mi chiese di sedermi. “per favore, grande Pericle,” mi disse, “ascolta ciò che dobbiamo dirti.” Mi sedetti, dopodiché Cleone riprese a parlare: “la prima ad accorgersi che Marina spesso proferiva il falso è stata la nostra dolce figlia, che è stata punita severamente, poiché io e mia moglie abbiamo per lungo tempo creduto che fosse vittima di gelosia nei confronti delle meravigliose doti di Marina. Marina infatti, sa cucire molto bene e sa cantare, ma la sua più grande dote è quella di raccontare storie. Le racconta così bene da ipnotizzare gli ascoltatori, facendoli allontanare dalla realtà. Da quando ha iniziato a parlare abbiamo creduto che avesse il dono della Parola. Ci siamo accorti troppo tardi, purtroppo, che utilizza questo grande dono in segno del male, per esaudire i suoi capricci e i suoi desideri, manipolando la realtà al fine di raggiungere i suoi scopi.”
Quando Cleone smise di parlare, sentivo la rabbia che mi esplodeva da ogni parte del corpo. Dal petto, dalla pancia, dalla bocca e persino dalle dita. “Esigo sapere dove si trova mia figlia, vili bugiardi!” esplosi, ero nuovamente scattato in piedi, i pugni stretti lungo i fianchi e la mascella serrata. Dionisa si ritrasse sulla sedia, spaventata dalla mia reazione. Cleone al contrario si alzò e guardandomi negli occhi, come se volesse farmi capire che non aveva paura della mia ira, ripose: “Nel momento in cui abbiamo appreso la sua natura, abbiamo deciso di tenerla in prigione fino al momento in cui saresti arrivato. Marina è allora scappata, corrompendo un gruppo di pirati e imbarcandosi con loro. Stando alle ultime notizie che ci sono giunte si trova ora a Mitilene.”
Di ciò che feci dopo l’incontro con Cleone e Dionisa mi rimangono solamente ricordi confusi. Ricordo però chiaramente ciò che provai: rabbia, per non aver trovato mia figlia dalle persone a cui avevo affidato la sua vita. Rabbia, nei confronti dei sovrani di Tarso di cui mi fidavo e che mi avevano tradito e proferito menzogne.
Cercavo di scacciare il pensiero di quella vecchia leggenda di marinai che mi raccontarono tempo addietro e mi concentrai sul ricordo sbiadito del dolce viso di Marina.

Mi diressi verso Mitilene senza esitare, risoluto più che mai a ritrovare mia figlia. Durante il viaggio da Tarso a Mitilene la rabbia lasciò spazio al dolore e alla delusione, le speranze di trovare la mia bambina perduta erano poche e io sentivo il peso della solitudine.
Il dolore era così incombente che mi rifugiai dentro me stesso, smettendo di parlare e chiudendo qualsiasi tipo di comunicazione. Mi curavo così poco di tutto ciò che non fosse la mia sofferenza che mi vestii di un saio e mi lasciai crescere barba e capelli.

Arrivato a Mitilene incontrai il suo governatore, Lisimaco, a cui chiesi se conoscesse una giovane donna di nome Marina, arrivata da qualche tempo in città. Egli mi indirizzò presso un bordello, di cui, diceva, la padrona portava il nome di Marina. Stentavo a credere che una creatura pura come ero convinto potesse essere mia figlia avesse un simile ruolo, ma essendo quella l’unica fievole speranza che avevo mi diressi verso quel posto accompagnato dal gentile Lisimaco.
Nel momento esatto in cui vidi per la prima volta la giovane donna non ebbi alcun dubbio: era Marina. Mia figlia aveva le sembianze di sua madre Taisa alla sua età. La sofferenza provata fino a quel momento mi abbandonò, sostituita da gioia e gratitudine. Ricordo che mi tremavano le mani e mi si inumidirono gli occhi, un sorriso genuino mi pervase il volto.
Mi presi qualche momento per osservarla. Aveva gli stessi occhi azzurri della madre, gli stessi capelli corvini, le stesse mani eleganti e affusolate. Eppure qualcosa in lei era completamente diverso. I suoi occhi erano vitrei, non caldi e profondi come quelli della madre. L’espressione enigmatica ricordava una maschera che non lasciava trasparire l’orizzonte dei suoi pensieri.
“Oh, caro Lisimaco, quale piacere!” esclamò la ragazza quando vide il governatore, illuminandosi in un sorriso sorpreso. Si rivolgeva a lui come una donna innamorata, eppure non si scorgeva passione nel suo sguardo.
Lisimaco le rispose in tono cordiale e mi introdusse a lei. Marina mi guardò, studiò il mio volto stanco e il mio umile saio, come per calcolare quanto denaro avrei potuto fruttare alla sua attività. Mi parlò  in fretta, senza calore, menzionando qualcosa su qualcuna delle sue ragazze, prima di rivolgere nuovamente la sua attenzione a Lisimaco.
“Marina..” dissi, la voce ridotta a un sussurro. “Marina.. mia figlia. Ti ho trovata.”
Marina mi guardò, fissò il suo sguardo duro nei miei occhi, sospirò e scoppiò in una risata amara. “pensa che ironia” disse, “mi è stato raccontato tutta la vita che mio padre era un sovrano! Il grande principe di Tiro! E adesso un vecchio straccione viene a reclamarmi come figlia sua! Non credo che tu sia mio padre, anche se lo fossi, non ti riconoscerei come tale.”
Le sue parole furono taglienti quanto lame, più difficili da ascoltare della notizia della morte della mia amata.
“Marina, io mi chiamo Pericle, sono principe di Tiro. Sei stata partorita nel ventre del Mediterraneo, tra l’impetuosità di una tempesta. Durante la stessa tempesta tua madre ha perso la vita. Ti ho dovuta affidare ai sovrani di Tarso poiché eri ancora un’infante e non avresti avuto possibilità di superare un viaggio per mare.” Queste le uniche parole che riuscii a pronunciare, avvilito.
“Oh, padre! Padre! Quanto tempo ho aspettato questo momento, tutta la vita ho sperato di potermi rifugiare tra le tue braccia forti. Tante volte mi sono fatta raccontare dalla mia dolce nutrice Licordia la storia della notte in cui nacqui. Oh padre!” Marina si accasciò ai miei piedi, le mani a coprire il suo volto.
Le sue parole insinuarono dentro di me il seme del dubbio. La giovane donna aveva cambiato idea riconoscendomi come padre non appena avuta la conferma di essere figlia di un sovrano. Aveva inoltre nominato la nutrice, definendola dolce, eppure io conoscevo la storia della sua fine. Le parole di Cleone e Dionisa mi tornarono nitide in mente e decisi di chiedere a Marina come fosse arrivata a Militene.
“Oh, padre,” disse Marina “sapessi come mi trattavano a Tarso! Dionisa e suo marito Cleone hanno cercato di uccidermi, essendo la donna invidiosa delle mie innumerevoli doti. Fortunatamente, riuscii a scappare prima che ciò accadesse.”
Nel mio cuore era subentrata la conferma più dolorosa. Mi resi conto che Marina era figlia della tempesta e come tale era venuta al mondo per recare dolore e frustrazione. Utilizzava il suo dono prestigioso per ottenere un tornaconto personale, senza mai pensare al bene del prossimo. Era molto abile e avrebbe ingannato e raggirato tante anime nella sua vita, ma agli occhi di suo padre, il suo intento appariva cristallino.
“Marina, io ti conosco. Della tua buona madre e del tuo saggio padre non hai ereditato nulla, sei figlia della tempesta e come tale porti dentro l’avidità e la crudeltà del mare arrabbiato. Io qui ti saluto e con immenso rammarico ti volto le spalle.” Furono le parole più dolorose della mia vita, eppure le pronunciai con la consapevolezza della verità sulle spalle.
Tornai alla mia imbarcazione, pronto a salpare e lasciarmi per sempre alle spalle Mitilene e la tanto ricercata Marina.
Marina mi seguì fino al porto, a tratti implorandomi a tratti maledicendomi. Sapevo in cuor mio che aveva visto in me la possibilità di avere una vita più ricca e dignitosa, non aveva riconosciuto un padre. Salii sulla nave addolorato e deluso, ma convinto della mia posizione.

La ragazza continuò a correre anche nel momento il cui la nave fu salpata. Continuò a correre persino quando non c’era più terra sotto i suoi piedi e cadde, inghiottita dal blu del mare.
Fu l’ultima volta che vidi Marina, figlia mia quanto figlia della tempesta. In quel momento capii che non poteva essere in alcun altro modo, lei era tornata al suo elemento e non avrebbe più potuto ferire nessuno.

Volsi gli occhi all’orizzonte, più stanco e addolorato di quanto non fossi mai stato.
In quel momento ancora non sapevo che il mio viaggio mi avrebbe portato al tempio di Diana, dove avrei ritrovato il dono più prezioso: l’amore di Taisa.



Bibliografia:
William Shakespeare, Pricle, Principe di Tiro, Milano, Bompiani, 2019