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Un mondo a rischio incendio. Gli incendiati di Antonio Moresco come una nuova forma di mitologia moderna

Luca Piscioneri studia Culture Moderne Comparate presso l’Università degli Studi di Torino. Si è laureato in Culture e Letterature del Mondo Moderno nell’a.a 2018-2019 con una tesi in Letteratura Italiana, legata all’ambito della critica letteraria, dal titolo Le letture politiche della Mandragola di Machiavelli: storia di un’interpretazione.

Il presente lavoro contiene una lettura critica del romanzo Gli incendiati di Antonio Moresco coerente con le linee di ricerca emerse durante il corso di Letterature Comparate (a.a. 2019-2020) della professoressa Chiara Lombardi. Passando in rassegna i temi del fuoco, del bruciare, del viaggio e della fuga dalla schiavitù, fortemente presenti nel romanzo, la lettura che Piscioneri propone de Gli incendiati di Moresco argomenta attraverso alcuni contributi critici, sulla semiotica della città e sulla funzione del mito secondo Wu Ming, come sia possibile individuare il messaggio complessivo dell’opera e le sue forti implicazioni nella società attuale, arrivando a suggerire che si possa interpretare il testo come una sorta di nuova forma di mito moderno.

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È difficile proporre un’interpretazione de Gli incendiati di Antonio Moresco senza analizzare il tema del fuoco e senza chiedersi quale sia il suo significato all’interno del romanzo. Quella del fuoco, infatti, è una presenza praticamente costante nell’immaginario di Moresco e il romanzo in questione non è un’eccezione[1]. Consapevoli di ciò, volendo tentare di descrivere il mondo rappresentato all’interno dell’opera, non si potrebbe fare a meno di aprire il discorso con alcune riflessioni in merito al tema dell’incendio introdotto sin dal titolo.

Se il titolo Gli incendiati implica un’azione compiuta, il mondo descritto nel romanzo è, al contrario, un mondo in compimento o, per meglio dire, che ancora deve compiersi. Perciò, per descriverlo, si potrebbero ragionevolmente usare gli stessi aggettivi che definiscono i possibili stati di vita del fuoco: spento e domato. Seguendo questo parallelo, per via della differenza dall’immagine in atto offerta dal titolo, in cui è evocata l’idea del fuoco acceso, il mondo descritto nel romanzo appare invece spento perché non è ancora incendiato oppure domato perché non è più incendiato.

In questo modo, il mondo descritto all’interno dell’opera risulta dunque connotato da un aspetto disforico, mentre il fuoco appare come una forza misteriosa che non possiede soltanto proprietà negative, bensì anche aspetti euforici. Infatti, al contrario di quanto vorrebbe l’immaginario comune, il particolare fuoco in questione non destabilizza soltanto nell’accezione negativa legata alla sua pericolosità, ma, essendo connotato positivamente e data l’aura vagamente vivificante con cui è descritto, destabilizza anche in un modo positivo. Cioè, oltre ad essere in grado di distruggere, è anche una forza in grado di generare.

Alla luce di quanto introdotto, si può dunque sostenere che, per questa sua natura ambigua, il fuoco descritto da Moresco appaia come il motore della storia raccontata nel suo romanzo. Data la sua centralità, il presente lavoro propone di analizzare l’immagine del “bruciare” al fine di tentare così l’individuazione del significato complessivo dell’opera e, per far ciò, verrà proposto di considerare l’immagine dell’incendio, specialmente per via della sua capacità di generare cambiamento e di essere così motore della storia, in relazione all’idea di mondo spento o domato descritta nel romanzo.

1. Il fuoco e l’avventura

Data la loro ambigua natura, le fiamme descritte da Moresco, proprio per via della sensazione di totale incertezza che pongono in essere nel romanzo, sono in grado di creare un stato di eccezione capace di innescare il processo che arriva a sovvertire l’ordine vigente, o per meglio dire, data la rappresentazione fortemente disforica dello scenario, il disordinevigente. Questo particolare stato d’eccezione che permette il realizzarsi delle condizioni da cui scaturiscono gli eventi nella trama lo si potrebbe chiamare avventura; così, si potrebbe dire che nel romanzo di Moresco l’avventura è generata dall’incendio.

Infatti, è proprio l’incendio a far sì che si realizzi il primo vero incontro del protagonista con la donna dai denti d’oro e, ad avvalorare l’idea di incendio come mezzo in grado di mettere in movimento la narrazione, si scopre leggendo che è proprio la stessa donna dai denti d’oro ad averlo appiccato volontariamente per conoscere il protagonista[2]. In generale, si può vedere che il fuoco è presente sotto forma di incendio dilagante in tutti i momenti di svolta della narrazione, ossia in quei momenti dove la trama segue un percorso e ne abbandona irreversibilmente un altro.

Per esempio, lo si può vedere anche in occasione del sogno in cui si realizza l’onirica prima notte di passione carnale fra i due protagonisti, dove l’incendio circonda i due amanti e fa da sfondo alla descrizione del loro pornografico amplesso; a seguito di quel sogno, l’ossessiva ricerca della donna dai denti d’oro da parte del protagonista maschile sembra suggerire l’irreversibilità del ritorno alla vita com’era prima dell’incendio che li ha fatti incontrare.

Tuttavia, il punto cruciale in cui il manifestarsi dell’incendio rappresenta maggiormente l’impossibilità di ritorno allo stato di cose precedente è quanto accade a seguito dell’esplosione della villa del Cacciatore di schiavi. In questa scena, il fuoco dell’esplosione creata dai due protagonisti, proprio perché innesca la loro immediata fuga in auto dalle labirintiche strade della città di notte e fa da preludio alla loro uccisione da parte dei mercenari del Cacciatore, può essere visto come emblema del processo inarrestabile e irreversibile della loro storia.

Alla luce di quanto detto sin ora, si è tentati di dire che in Moresco tutte le idee legate all’immagine del fuoco, quali l’idea di luce, di calore, di caos e persino di distruzione, siano indistintamente disegnate con tinte positive; tuttavia è necessaria una precisazione. La positività in questione non è riconducibile ai risultati che l’incendio ha posto in essere una volta terminato, bensì è una caratteristica intrinseca dell’incendio stesso inteso come processo in divenire. In sostanza, il positivo del fuoco di Moresco non è legato a ciò che resta dopo l’incendio, bensì  al bruciare dell’incendio in atto: allo stato di incertezza che sblocca la stasi e innesca l’avventura. Avventura che perciò sarà da intendere col significato di “ciò che accadrà” derivante dal latinismo adventura[3].

2. Il fuoco, la materia umana e la Storia

Per tutta la parte in cui i protagonisti sono in vita, nel romanzo non compare l’idea di nessun avvenire; la massa di esseri umani che viene descritta dalla voce narrante dell’eroe appare bloccata in uno stallo, una sorta di veglia incosciente che la fa apparire al lettore semplicemente come materia organica ambulante: materia sì vivente, ma di una vita vuota, una vita che si potrebbe definire non-vita. Gli individui descritti sono materia senza forma, la loro esistenza si trascina dunque senza un senso in un infinito presente senza passato e senza prospettiva futura. All’idea di materia senza forma e di condizione di vita senza finalità è collegato il tema schiavitù, prepotentemente presente nel romanzo.

Presentato al lettore attraverso l’ambigua figura della protagonista femminile, la donna circassa dai denti d’oro, il tema della schiavitù porta all’estremo l’idea di una  condizione umana intesa come vita-non-vita che caratterizza la società descritta nel romanzo. Sembra di poter dire che per Moresco, gli schiavi — uomini o donne che siano; caratterizzati dalla trasgressione estrema come quelli descritti nella villa del Cacciatore o dalla nullità più quieta come quelli “addormentati” della città o della località di mare —   rappresentino l’assenza di forma per antonomasia: sono dunque solo materia informe e praticamente inanimata, per di più neanche libera. Tuttavia, nel romanzo di Moresco, un modo di dare forma alla materia esiste ed è proprio su questo punto che sembra vertere tutto il peso del messaggio comunicato dal romanzo. La forma ha origine quasi casualmente, ma necessariamente, dal contatto fra due materie umane informi compatibili fra loro: dall’incontro del protagonista maschile e della protagonista femminile.

I due eroi, come due reagenti chimici compatibili, come il combustibile e l’aria comburente, reagiscono esattamente come in una reazione chimica. Proprio come nasce il fuoco, da due materie senza forma scaturisce una forma compiuta che è viva. La loro unione nel finale del libro, mistica unione di due anime vive contenute nella materia dei loro corpi uccisi, innesca un vero e proprio nuovo Big Bang che fa nascere una  nuova stella.

In sintesi, per via della sua essenza descritta all’inizio, ossia per il suo essere motore di storie, generatore di avventura e per le idee di processo e di divenire che evoca, il fuoco appare con le stesse caratteristiche di una reazione chimica. Del resto, il fuoco è una reazione chimica e, in quanto tale, innesca un processo che è in grado di generare qualcosa (fiamma, luce, calore, anidride carbonica, una stella!) partendo da qualcos’altro: la materia.

Il fuoco di Moresco, secondo la visione proposta, sembra dunque in grado di donare forma e vera vita alla materia umana informe che vita autentica non ha. È dunque un fuoco simbolico che accende ciò che è spento o che è stato domato e che, se distrugge, rimescola l’ordine — o il disordine­— del mondo. Le persone schiave e “addormentate” non si avvedono del suo incedere inesorabile, o, nel raro caso in cui se ne avvedano, non sono in grado di coglierne il senso e si limitano ad osservarlo incedere senza fare nulla e senza capire.

Sembra proprio questo il punto centrale del rapporto tra fuoco, uomini-schiavi e storia, in cui emerge la metafora de Gli incendiati di Moresco.

Se il fuoco rappresenta la storia, il suo bruciare è così lento da sembrare un rogo immobile e circoscritto. A prima vista, appare quasi come se fosse inesistente — “è solo un fuoco” sembra dire chi lo vede — ma, in realtà, il suo espandersi è costante e inarrestabile, talmente dilagante che arriva inevitabilmente a raggiungere le dimensioni dell’incendio. Per via della sua luce che quasi trasforma la notte in giorno e del suo tangibile calore, solo allora risulta evidente ed enorme. Solo a quel punto gli schiavi e la gente “addormentata” se ne avvedono e non possono fare altro che svegliarsi di colpo in preda al panico. Così, inevitabilmente, la folla reagirà come se il fuoco, che ormai è incendio, fosse apparso solo in quel momento. Cioè reagirà in maniera convulsa e incontrollata, totalmente in balia di quello stato di eccezione dato dalla consapevolezza di essere completamente impotenti di fronte alla forza distruttiva dell’incendio, che spezza così tutte le certezze, la routine e l’ordine — o il disordine — costituiti. Tuttavia, come si è detto, oltre a questa capacità distruttiva, il fuoco manifesta anche delle possibilità.

Per via della sua natura ancipite, che danneggia ma allo stesso tempo offre possibilità, sembra che l’immagine del fuoco di Moresco possa essere interpretabile come metafora della Storia. Infatti, la Storia, come la il fuoco, nel suo manifestarsi sotto forma di evento traumatico, risveglia i sensi dei corpi che in precedenza apparivano solo involucri vuoti e li pone di fronte ad un imprecisato avvenire. Per questo, in quanto stato di incertezza tra i più evidenti, l’incendio, nell’opera di Moresco, è osservabile in senso lato come l’emblema di ogni evento storico sovversivo dell’ordine vigente, ma, proprio per questo, appare anche foriero di possibilità in precedenza irrealizzabili.

È proprio qui, a mio parere, che si trova l’elemento positivo del romanzo; viene paradossalmente proposta in contrapposizione alla distruzione simboleggiata dall’incendio, la forza dell’incendio stesso, ma vista da un’altra prospettiva, ossia come forza purificatrice e vivificante.

Ne Gli incendiati, l’incendio-Storia appare così caratterizzato da una doppia connotazione, una disforica e una, molto meno evidente, ma non meno presente e importante, assolutamente euforica. Se si considera il fuoco di Moresco come metafora della Storia, si potrebbe dunque dire, riprendendo l’idea nietzschiana, che la Storia possa influire nelle alterne vicende degli uomini e del mondo sia in quanto danno e sia in quanto utile.

Alla luce di quanto osservato sin qui e procedendo verso la conclusione della trattazione, si può  finalmente riflettere su come interpretare questo potere distruttivo e allo stesso tempo generativo del fuoco-Storia all’interno della vicenda narrata da Moresco.

3. Il viaggio di nozze e l’apologia del nomadismo

Una letteratura che vuole essere specchio del suo tempo non può non tenere conto della polverizzazione del contesto che cerca di riflettere, non può astenersi dal rispettare la natura confusamente mosaicata dell’immagine che tenta di riproporre. È pertanto necessario che la letteratura sfidi apertamente il paradosso di […] affrontare la compiuta rappresentazione di una società incompiuta.[4]

Con queste parole di Pasquale La Forgia sembra essere descritto proprio l’obiettivo della scrittura di Moresco: “la compiuta rappresentazione di una società incompiuta”[5]. Ne Gli incendiati,infatti, si viene a contatto con un mondo illeggibile, un mondo estremamente organizzato, addirittura ordinato si potrebbe dire, ma retto da un ordine invisibile di cui non si riesce a cogliere il senso. Il mondo descritto da Moresco appare costituito da uno spazio prevalentemente cittadino, in cui le strade, gli incroci, gli edifici, danno un senso di reclusione in un labirinto senza uscita o, date le dimensioni annichilenti dello spazio urbano, dall’uscita lontanissima. Risulta particolarmente significativo il fatto che la coppia di eroi riesca ad uscire da questo labirintico mondo cittadino soltanto dopo aver trovato la morte nella sparatoria contro i soldati del Cacciatore di schiavi. Così, dopo la loro morte, una volta entrati nella loro nuova forma di vita — che nel testo appare provocatoriamente più viva rispetto alla precedente vita-non-vita — i due personaggi iniziano il loro simbolico viaggio di nozze.

La descrizione del mondo labirintico in cui viaggiano appare definibile secondo l’interpretazione semiotica dell’idea di città proposto da Guido Ferraro, secondo cui

“città” è un territorio strappato al dato naturale, proiezione di un volere progettuale, punto di arrivo di un percorso di generazione culturale, sicché “città” sarebbe il punto di arrivo di un progetto continuamente in corso e continuamente ridefinito. Perché in definitiva l’obiettivo di questo progetto è il mantenimento — magari anche finzionale, illusorio, ingannevole se vogliamo — di una bengodi della virtualità: lo spazio del possibile, dell’incrocio tra tutte le identità e tutti i linguaggi, fra tutte le prospettive e tutti i programmi di vita.[6]

La trama de Gli incendiati sembra essere stata costruita da Moresco al fine di evidenziare proprio l’aspetto “finzionale, illusorio, ingannevole” che, come ha spiegato Ferraro, è legato all’idea di vedere nel mondo “lo spazio del possibile” o “una bengodi della virtualità”. Con la loro epopea, i due eroi moreschiani, in lotta contro il mondo dei “vivi”, sembrano voler dire che la modernità, simboleggiata dallo spazio urbanizzato, ossia “lo spazio del possibile”, sia al contrario lo spazio dell’impossibile dove l’uomo è privato della sua singola identità, del linguaggio, delle prospettive e dei programmi di vita. Nella visione di Moresco, l’uomo moderno è dunque ridotto in schiavitù e secondo l’interpretazione proposta all’inizio del presente lavoro, è spento o domato. Alla luce di questa lettura dell’opera, si può proporre di vedere Gli incendiati di Morescocome una sorta di epopea o cosmogonia moderna.

Come sostiene Massimo Leone, “se si concepisce la città come un testo, passibile di continue scritture e riscritture, allora è lecito chiedersi se questo testo possa essere cancellato, e in che modo”[7]. Le modalità con cui nelle narrazioni viene descritta la cancellazione di una realtà urbana proposte da Leone sono: la profezia catastrofica, che “enuncia in un tempo futuro la cancellazione di una città presente, configurandosi, dunque, come racconto immaginario” e il resoconto del sopravvissuto, che “enuncia in un tempo passato, o in un presente storico, la cancellazione di una città passata o, per meglio dire, il tentativo di questa cancellazione”[8]. Ma non solo, Leone prosegue la sua trattazione sostenendo che ci sono altre due modalità; modalità che alla luce di quanto proposto nel presente lavoro sembrano essere più adatte ad identificare il tipo di narrazione de Gli incendiati.

L’annientamento del senso di un testo urbano può essere anche osservato e rappresentato secondo una prospettiva diametralmente opposta, che in un certo senso parteggi a favore dell’attante distruttore contro la città distrutta. Al pari della prima macro–categoria — quella che comprendeva profezie catastrofiche e resoconti del sopravvissuto — anche questa seconda può essere articolata in diversi tipi di testi; due sembrano meritare una particolare attenzione; li si potrebbe denominare “epopea di annichilimento” e “apologo del nomade”.[9]

Secondo questa proposta, si potrebbe rubricare Gli incendiati nel novero di queste particolari narrazioni identificate con le etichette di “epopea di annichilimento” e di “apologo del nomade”. In particolare, interpretando il viaggio di nozze dei due protagonisti come reazione contro il mondo labirintico e contro la condizione di vita-non-vita descritti nel romanzo di Moresco, l’etichetta più opportuna per identificare Gli incendiati appare  proprio quella di apologo del nomade, o meglio, apologo dei due nomadi. In sintesi, “l’annientamento del senso di un testo urbano è osservato e rappresentato dall’esterno non solo nelle epopee di conquista ma anche, […], in testi e racconti che, pur posizionando il proprio punto di vista al di là dei confini della semiosfera urbana, non esprimono una logica di conquista bensì un diverso atteggiamento culturale verso la città, qui denominato “apologo del nomade”“[10].

Sembra quindi di poter affermare che il viaggio di nozze dei due eroi moreschiani — viaggio che, come si è detto, può avere inizio soltanto nel momento in cui i due protagonisti vengono paradossalmente risvegliati dalla vita attraverso la loro morte — esemplifica proprio questa idea di “diverso atteggiamento culturale verso la città” e, si potrebbe anche aggiungere, verso l’obnubilante società in generale che caratterizza la modernità. In particolare, l’apologia del nomadismo evocata dal loro viaggio di nozze, specialmente nell’ultima parte del romanzo, diventa un atto sovversivo contro l’idea di città e di società descritte da Moresco e culminerà nel finale con la metafora del fuoco scaturito dall’incontro delle due materie umane dei due eroi. Nell’ultima pagina, infatti, si creano le condizioni ideali per il compimento della reazione chimica descritta in precedenza e può così avvenire l’estrema combustione da cui nasce la stella, simbolo positivo di un nuovo corso.

4. Conclusioni: una nuova forma di mito

Alla luce di queste proposte critiche, il fatto che Moresco non ancori le vicende che descrive al realismo, preferendo una costruzione della trama che volutamente non offre richiami chiari al mondo reale, ma che tuttavia, nonostante ciò, riesce efficacemente ad evocare, sembra permettere di sostenere che il romanzo Gli incendiati abbia un ché del mito. In particolare, per via del loro particolare stile, “quello che sembrano suggerire le opere di Moresco […] è che, al di là della contrapposizione fra una solidità romanzesca orientata al puro artificio finzionale e una comoda frammentazione narrativa che sa di scorciatoia, si estende un ampio e squassato territorio di scritture impure e ibridate, ma non per questo friabili o impersonali, che potrebbero rappresentare una stimolante alternativa, per chi oggi volesse tornare a misurare la propria scrittura con le imprevedibili mutazioni di un’Italia (e di un mondo) ancora in gran parte da raccontare”[11].

Con la sua scrittura Moresco offre un’idea di letteratura che sembra avvicinarsi molto a quella del collettivo bolognese Wu Ming.

Come riassume Stefano Giovannuzzi, nella posizione teorica del collettivo,

L’appello ai fatti e alla realtà non è infatti sufficiente, non garantisce nulla. Oltre che fuori della portata dei più, i fatti e i documenti in quanto tali sono inerti: non parlano, e dunque non esistono, se non vengono collocati in un racconto che dia loro senso. Ed è questo il passaggio critico: se le narrazioni sistemano i dati in una prospettiva, l’uso più o meno legittimo, a volte del tutto fraudolento, che di esse si può fare riguarda molti, produce a getto continuo un immaginario che si sostituisce alla realtà e ne orienta la percezione[12].

Sembra che a questo “immaginario che si sostituisce alla realtà e ne orienta la percezione” si possa associare tutta l’ideologia del potere e del possesso rappresentati dal Cacciatore di schiavi e dal tema della schiavitù trattati nel romanzo.

E se il discorso del potere (qualunque forma assuma) usa le narrazioni per alimentare l’immaginario bloccandolo entro paradigmi conformisti e totalitari, la finzione letteraria può rientrare in gioco per sbloccare l’orizzonte dell’immaginario, producendo narrazioni che disarticolano il processo di monumentalizzazione della storia e aprono il varco alla possibilità di una storia critica. Ciò non cambia la storia, ma ne modifica l’unilateralità della lettura e il conformismo in costruzioni aperte e continuamente modificabili dalla comunità dei lettori.[13]

Gli incendiati di Moresco, in ultima battuta, sembra costituire una grande allegoria proprio di come “la finzione letteraria può rientrare in gioco per sbloccare l’orizzonte dell’immaginario” e di come il narrare la Storia o le storie — elaborate partendo da fatti reali o costituite da elementi fantastici — possa modificare “l’unilateralità della lettura e il conformismo”[14], del mondo spento o domato, “in costruzioni aperte e continuamente modificabili dalla comunità dei lettori”[15].

L’operazione che Moresco ha voluto proporre con Gli incendiati sembra dunque molto simile, specialmente a livello di intenti, a quella di Wu Ming; Moresco infatti, come Wu Ming, “non presume di rappresentare la verità, ma di offrire una prospettiva che mette in crisi l’omologazione, i luoghi comuni, le narrazioni e le mitologie che si sono solidificate nel tempo”[16]. Viene realizzata così, “un’operazione che coinvolge il lettore, che gli impone un ruolo attivo nel ripensare la storia e, come in un cortocircuito, quello che siamo oggi”[17].

Alla luce dell’idea di fuoco, di storia, di narrazione e di mondo trattate nel presente lavoro, se si accetta la funzione che Wu Ming attribuisce al mito, ossia “permettere al singolo e all’umanità di attraversare la perdita del senso, verso la catarsi che darà inizio a un nuovo ciclo”[18], appare possibile sostenere che Moresco abbia reso i suoi eroi protagonisti di una sorta di nuovo mito moderno. Un mito moderno che, diversamente dal mito classico proiettato verso un passato remoto, appare invece proiettato verso una dimensione postuma in un imprecisato avvenire.

Bibliografia

Guido Ferraro, Oltre l’idea di città, in La città come testo: Scritture e riscritture urbane, a cura di Massimo Leone, Aracne, Roma, 2008, pp. 215-223.

Stefano Giovannuzzi, Realismo e letteratura: dalla parte di Wu Ming, in “Comparative Studies in Modernism”, n. 9, 2016, pp. 45-53.

Pasquale La Forgia, Apocalissi nostrane: la critica italiana e la tentazione della fine, in “Studi Novecenteschi”, Vol. 30, No. 66, pp. 305-355.

Massimo Leone, Signatim: Profili di semiotica della cultura, Aracne, Roma, 2015

Wu Ming 1, Breckenridge e il continuum, in Wu Ming, Giap!, a cura di Tommaso De Lorenzis, Einaudi, Torino, 2003, pp. 16-18.

Antonio Moresco, Gli incendiati, Mondadori, Milano, 2010.


[1] “Carla Benedetti – a tutt’oggi il critico letterario che ha dedicato a questo autore maggiore attenzione e che più di ogni altro ha contributo a far conoscere la sua opera, fornendone inoltre delle indispensabili chiavi di lettura – insiste dunque sul carattere “incendiario” dei Canti del caos e il discorso si può senz’altro estendere all’intero immaginario moreschiano. Non a caso, il volume che contiene i due pamphlet anticalviniani s’intitola Il vulcano e Gli incendiati è il titolo di un suo recente romanzo (Moresco 2010); va sottolineata, inoltre, la forte presenza dell’immagine del fuoco, sia nella sua narrativa che nella sua saggistica (nei casi in cui sia possibile distinguere un genere dall’altro); e termini afferenti allo stesso campo semantico popolano il suo linguaggio: in particolare, il verbo “esplodere” e l’aggettivo “esploso” vantano un altissimo numero di occorrenze” (Beniamino Mirisola, Lezioni di caos: Forme della leggerezza tra Calvino, Nietzsche e Moresco, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia, 2015, p. 73).

[2] “Perché hai incendiato la costa?” ho provato a dirle, perché avevo sempre in mente l’immagine del suo volto come l’avevo visto la prima volta nel buio, illuminato dal bagliore del fuoco.

“Perché volevo bruciare con te!” (Antonio Moresco, Gli incendiati, Mondadori, Milano, 2010, p. 58).

[3] Cfr. http://www.treccani.it/vocabolario/avventura/

[4] Pasquale La Forgia, Apocalissi nostrane: la critica italiana e la tentazione della fine, in “Studi Novecenteschi”, Vol. 30, N. 66, p. 310.

[5] Ibid.

[6] Guido Ferraro, Oltre l’idea di città, in La città come testo: Scritture e riscritture urbane, a cura di Massimo Leone, Aracne, Roma, 2008, p.216. (Corsivo mio).

[7] Massimo Leone, Signatim: Profili di semiotica della cultura, Aracne, Roma, 2015, p. 375.

[8] Ivi, p. 379.

[9] Ivi, p. 384. (Corsivo mio)

[10] Ivi, p. 390 (Corsivo mio)

[11] La forgia, Apocalissi nostrane, cit., p. 337.

[12] Stefano Giovannuzzi, Realismo e letteratura: dalla parte di Wu Ming, in “Comparative Studies in Modernism”, n. 9, 2016, p. 48.

[13] Ibid.: “ In questi termini, molto sinteticamente, ho riassunto la posizione teorica di Wu Ming in New Italian Epic, ripresa poi di recente anche in Utile per iscopo?, di Wu Ming 2 (2014)”.

[14] Ibid.

[15] Ibid.

[16] Ivi, p. 51.

[17] Ibid.

[18] Wu Ming 1, Breckenridge e il continuum, in Wu Ming, Giap!, a cura di Tommaso De Lorenzis, Einaudi, Torino, 2003, p. 17. (Articolo pubblicato per la prima volta su l’Unità, sabato 14 settembre 2002, sezione Orizzonti).

La lacrima di Ulisse

Manuela Mangiocco, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva l’Odissea di Omero, nell’ottica del corso Raccontare, riscrivere l’Odissea. In prosa, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Se la prigione di Ulisse nell’isola di Ogigia divenisse la mente: se il suo pensiero in tormento rileggesse il passato con impietosa, severa condanna. Mentre, come prodigio o ineludibile necessità, il tempo tuttavia scorre: pronto a cantare un capitolo nuovo. Vivo e grandioso come l’urlo di un gabbiano

*

Ulisse cammina a piedi nudi, lento; il luccicore infuriato del giorno gli confonde la vista, gli annebbia la mente. Siede sopra uno scoglio argenteo, levigato: il mare è di una vastità atroce, sconfinata.

Fluttuanti, scivolosi come l’acqua i suoi pensieri, che sembrerebbe immobile in una giornata come questa eppure va e viene senza sosta, fino a inondare terre innocenti, straniere, emerse a farsi luogo abitato, o spoglio. Finanche alla sua adorata Itaca che oggi è sospiro amaro e assente, petroso di malinconia.

Sono trascorse settimane, mesi, persino anni; Ulisse più non li rammenta. Da quando gli è apparsa Calypso tra le fronde degli ontani, con le sue trecce molli adolescenti, su un viso acceso da malizie tremende. Da quando incredulo si è scoperto prigioniero di lei, del suo amore da piovra, lo stupore, la rabbia, il dolore feroce. Da certe notti disperate in cui l’ha posseduta con vigore, lo smarrirsi dei sensi odoroso di rovi e peonie, invocando gli dei tutti affinché quell’oblio potesse durare per sempre e cancellasse ogni ricordo.

Le ore infinite trascorse dinnanzi al mare han trasformato a poco a poco i suoi pensieri. Il desiderio di casa, di affetti, la nostalgia struggente si è fatta lama sottile, puntuta, a perforargli mente e cuore: la ferita che di giorno in giorno diviene più profonda sa di rimorso, condanna. Per quei lunghi infiniti anni di guerra e di viaggio che sente oggi non solo perduti ma ahimè!, sciupati. Il furore che cova nel petto, frustrato sempre più dall’impossibilità di tramutarsi in azione e vendetta, non ha ormai come bersaglio Calypso, gli dei, la misera sorte. Ma è contro Ulisse, Ulisse stesso!, che Ulisse va sguainando la spada del rimprovero, del giudizio, della condanna.

Ulisse curioso e avventuriero che per la fame insaziabile di conoscenza ha trascinato se stesso e i suoi compagni in mille folli avventure “su isole incantate, sfidando forze arcane”1, e ritardando all’infinito il ritorno.

Ulisse lascivo e libertino, che per un anno intero si è smarrito tra le braccia voluttuose di Circe e se non fosse stato per i compagni savi e piangenti, forse oggi sarebbe ancora lì, dimentico di tutto.

E che dire poi di Ulisse superbo ed orgoglioso che ha rivelato per insulsa civetteria la sua identità al mostruoso sconfitto Polifemo, attirandosi le ire funeste del tremendo Poseidone.

E poi ancora Ulisse pigro ed ozioso che per ben due volte, non sorvegliando a dovere gli stolti compagni, ha permesso che questi compissero sacrileghe azioni, madri delle più nefaste conseguenze.

Ma il vero e più colpevole Ulisse, pensa ora meditabondo, mentre una brezza leggera gli scompiglia la chioma, è Ulisse stolto, ignaro, ignorante. Ulisse che per interminabili anni non ha compreso il valore infinito del tempo, questa implacabile clessidra fatale agli umani che granello dopo granello porta via, per sempre, il mistero chiamato vita. E nulla rende in cambio.

Ed ora che lo comprende appieno non può tornare indietro a mutare la sorte né tantomeno andare avanti: che in quest’isola tutto è stasi, immobile segreto dell’orrenda dea; il tempo pur scorrendo non scorre. Come un uccello divenuto pioppo intrappolato dalle sue radici.

E maledice mille volte il dono che lei vorrebbe fargli, quello dell’immortalità! Gli sembra l’ultima beffa crudele del destino. Per farne cosa? Contemplare all’infinito gli errori, le mancanze, le folli sue condotte? Darsi in eterno dello stolto, dell’imbecille, dell’ignorante? Meglio sarebbe stato trangugiare il loto e avvicendarsi immemore, con un sorriso da ubriaco. O farsi trascinare nel fondo degli abissi turbolenti dalle sirene incantatrici, fino a scomparire nel vuoto…

Ma se pure ha imparato qualcosa in tutto questo peregrinare tra battaglie e incantesimi, malie e avventure, a cosa può servire? Se non potrà narrarlo all’unica donna di cui ha saggiato il cuore fedele, la saggia Penelope; se mai il figlio suo potrà farne tesoro e insegnamento.

Se così è, ogni lezione è stata vana. Nulla ha avuto senso.

Ulisse oggi è solo un “misero battello perduto, spinto dall’uragano, che non troverà mai più la rotta. Perché ogni sole è ormai atroce e ogni luna amara”2: nell’isola di Ogigia il paradiso è inferno, l’incanto è dannazione.

Eppure sente ancora, in un angolo riposto del suo cuore, una scintilla fievole, che non può, non vuole chiamare speranza.

Ha la voce amorosa di Penelope, l’abbaio festoso di Argo, il tenero vagito di Telemaco. E’ pura e illesa come la bianca conchiglia che tiene tra le mani.

La guarda, la odora, la ascolta, sa di mare infinito e turchese, sa di ritorno.

(Ulisse ignora che nel frattempo la dea Calypso ha ricevuto per mezzo di un messaggero di Zeus l’ordine di liberarlo e procurargli i mezzi per tornare alla patria).

Diventa lacrima sottile, gli trafigge la guancia.

(Il volere degli dei non potrà mai essere inadempiuto).

Mentre un gabbiano sta planando sull’acqua, col suo urlo di vita.

Bibliografia
F. Guccini, Odysseus, Ritratti, 2004
A. Rimbaud (1871), Il battello ebbro, in Opere, tr. it. di I. Margoni, Feltrinelli, Milano, 2009

Sulle spalle dei giganti

Irene Fiducia, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles e il Cymbelineshakespeariani, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Questa riscrittura nasce dall’idea secondo cui «quel che succede quando una nuova opera d’arte è prodotta è qualcosa che avviene simultaneamente in tutte le opere che l’hanno preceduta» (Eliot, Tradition and individual talent, 1919). Invertendo il rapporto di filiazione tra Shakespeare e le sue fonti ho quindi immaginato un Pericles scritto da Omero e un Cymbeline uscito dalla penna di Boccaccio, nella consapevolezza che non siamo altro che “nani sulle spalle dei giganti”.

*

Περικλῆς ὁ βασιλεύς Τύριος

Solcava i rapidi flutti la nera nave, lasciata alle spalle
la luminosa Pentapoli. Per molti giorni attraversarono
la scura distesa del mare; Zefiro soffiava benigno.
Riposava sereno Pericle Tirio stringendo la sposa,
sognando la casa e il ritorno: e illesi sarebbero giunti
alla terra dei Padri, ma il Fato crudele li strappò ai dolci lidi.
Violento infuriò il dio Enosictono, radunò i nembi e
nell’atra notte tutti scatenò i turbini. Euro e Noto
piombando impetuosi sul mare aprirono alti gorghi.
Fu sballottata la nave e vacillò, investita dai grandi flutti.
Invano si affannava Pericle Tirio, confortava
i compagni, fronteggiava i marosi. Invano invocava
l’Olimpio, che placasse la turba dei venti.
Accorse allora la cara Licorida portando in braccio
la figlia, pargoletta, e così si rivolse al sovrano:
«Nobile Pericle, per il terrore la Simonidea, tua sposa,
ha dato alla luce questa infelice ed è presto perita».
Si sciolsero a Pericle le ginocchia e il cuore; levate
le palme al cielo lanciò un lamento e così pregò gli alti numi:
«Ahimè, sventurato! Davvero non hanno mai fine
il travaglio e le pene, che ora trascinano me e i miei affetti
più cari! Ecco, Taisa dai riccioli belli discende volando
nell’Ade: dolenti la piangono la dolce bambina e il caro sposo.
Zeus e voi numi tutti, fate che cresca, questa mia figlia,
così come Taisa fu, giovane distinta fra le altre, e un
giorno dica qualcuno: “È molto più bella di sua madre!”.
Porti ella nobili pretendenti, goda in cuore il padre!».
Dopo aver detto così, mise in braccio alla fida nutrice
la figlia sua e riprese il timone contro la furia dei flutti.
Neppure così si placò il dio che addensa le nubi, ma suscitò
Borea e un tremendo uragano e con le nubi ravvolse
terra e mare. Come un vento impetuoso trascina
le fragili foglie e le sparpaglia qua e là, così l’Enosictono
con una grande onda sparpagliò i lunghi legni.
Vide questo il saggio nocchiero e così si rivolse al sovrano:
«Gettate la dolce sposa in mare, signore: non avanza la rapida nave
finché un morto è a bordo, ed è lontano ogni approdo».
Un tremendo dolore invase il nobile Pericle, che pur soffrendo
nel cuore cedette; fece portare una cassa
ricolma di molte ricchezze e, ivi posta la Simonidea, disse:
«Donna, io temo l’abisso profondo e il naufragio dei miei;
ma non tanto dolore avrò per i compagni quanto
per te, che qualche maroso trascinerà a fondo o su lidi
stranieri, giusta sepoltura togliendoti. Dirà forse qualcuno
che ti vedrà morta: “Ecco la sposa di Pericle, ch’era il più forte
a combattere tra i nobili pretendenti!”»
Disse così il nobile Pericle e, gettata la cassa, vagò
sull’onda dura. Spesso il suo cuore intravide la morte;
ma quando Aurora dai riccioli belli portò il nuovo giorno
il vento cessò: aguzzando la vista egli scorse vicino la terra.

Giornata II, Novella 9

Postumo Lionato, da messer Giacomo ingannato, perde il suo e comanda che la moglie Innozene sia uccisa; ella scampa e in abito d’uomo serve un ambasciadore romano: ritrova lo ‘ngannatore e Postumo in Bretanniadove, lo ‘ngannatore punito, ripreso abito femminile e ritrovati i fratelli, col marito riappacificossi e con il padre.

Avendo Elissa con la sua compassionevole novella il suo dover fornito, Filomena reina, la quale bella e grande era della persona e nel viso più che altra piacevole e ridente, sopra sé recatasi, cominciò:

– Cimbelino, prencipe di Bretannia, fu signore assai umano e di benigno ingegno, se egli in sua vecchiezza ligato non si fosse ad una assai cruda reina; il quale in tutto lo spazio della sua vita ebbe tre figliuoli, ma li maggiori due venendogli portati via, una giovinetta sola gli restò.

Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura non si richiedea. E veggendo molti uomini nella corte del padre usare, e considerate le maniere e’ costumi di molti, tra gli altri un giovane valletto del padre, il cui nome era Postumo Lionato, uom di nazione assai umile ma per vertù e per costumi nobile, più che altro le piacque, e di lui tacitamente, spesso vedendolo, fieramente s’accese. E il giovane, il quale ancora non era poco avveduto, essendosi di lei accorto, l’aveva per sì fatta maniera nel cuor ricevuta, che da ogni altra cosa quasi che da amar lei aveva la mente rimossa.

In cotal guisa adunque amando l’un l’altro, niuna altra cosa tanto disiderando i giovani quanto di maritarsi, avvenne poi che il fecero segretamente. La qual cosa il padre scoprendo e adirandosene fortemente, prese partito di farlo esiliare.

Giunse in Roma Postumo presso una certa sua brigata, e avendo una sera fra l’altre tutti lietamente cenato, cominciarono di diverse cose a ragionare, e d’un ragionamento in altro travalicando sovvenne loro una giovenil tenzone.

Era tra questi un giovane chiamato Giacomo, il quale tosto smanioso si fece di saper per che si fosse disputato: e cominciò Lionato ad affermare di aver per moglie una donna la più compiuta di tutte quelle virtù che donna dee avere, e niuna altra più onesta né più casta potersene trovar di lei; per la qual cagione disse che in gioventù ebbe a scontrarsi con un tale che di questo dubitava.

Di questa loda che Lionato aveva data alla sua donna cominciò Giacomo a far le maggior risa del mondo, e disse: «Postumo, io non dubito punto che tu non ti creda dir vero, ma per quello che a me paia, tu hai poco riguardato alla natura delle cose, per ciò che, se riguardato v’avessi, non ti sento di sì grosso ingegno, che tu non avessi in quella cognosciute cose che ti farebbono sopra questa materia più temperatamente parlare. E dicoti così, che, se io fossi presso a questa tua così santissima donna, io mi crederei, poco più lungiamente conversando con ella che or con te, recarla a quello che io ho già di altre recate».

Al quale Postumo rispose e disse: «In nessun modo avrei cagione di dubitar della mia sposa, ch’ella è davvero un’angelica criatura; e io spero che Iddio mi serbi sempre questa grazia che mi ha conceduta».

Allora disse Giacomo: «Se a tal punto sei persuaso che tua moglie non sia di carne e d’ossa e femina come son l’altre, metti il tuo diamante contro al mio patrimonio, e infra tre mesi dal dì che io mi partirò di qui avrò della tua donna fatta mia volontà e tu avrai pruova di ciò che ho ragionato».

Postumo turbato rispose: «Acciò che io ti faccia certo della onestà della mia donna, ti prometto sopra la mia fede il mio diamante se tu mai a cosa che ti piaccia in cotale atto la puoi conducere, e sono pronto ad obligarmi a te con uno scritto di mia mano».

Fatta la obligagione, Postumo rimase e Giacomo quanto più tosto poté se ne andò in Bretannia.

Bibliografia:

W. Shakespeare, Pericle, principe di Tiro, in Willliam Shakespeare. Tutte le opere, vol. 4: Tragicommedie, drammi romanzeschi, sonetti, poemi, poesie occasionali, a cura di F. Marenco, Milano, Bompiani, 2019

Omero, Odissea, a cura di G. Aurelio Privitera, Milano, Mondadori, 2003

Omero, Iliade, a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Milano, 2012

G. Boccaccio, Decameron II,9 e IV,1, a cura di Vittore Branca, Torino, Einaudi, 2014

Narrations of Origins in World Cultures and the Arts – Program

THE DRAFT AGENDA

Tuesday 24.11.2020

Circolo dei Lettori

16.30 Opening event

Raccontare le origini: dal mito al Big Bang e oltre

Vincenzo Barone, Giorgio Ficara, Massimo Fusillo, Giulio Guidorizzi, Chiara Simonigh, Alberto Voltolini

Wednesday 25.11.2020

Aula Magna Cavallerizza Reale

9.00 Registration

9.30 Welcome Address

10.00 Plenary

Piero Boitani (Comparative Literature, University “Sapienza” Rome), “Principia”: Models of the Beginning in Western Culture.

Priyamvada Natarajan (University of Yale, Department of Astronomy and Physics), Conceptions of Cosmos from Then to Now.

11.15: Coffee break

11.30

Stefano Piano (Indology, University of Torino), The Origin of the Universe as Narrated in “Old” Texts of India.

Iain Hamilton Grant (Philosophy, University West England, Bristol)

Lunch (chiostro Rettorato)

14.30-16.00 Plenary

Claude Calame (Anthropologie et Histoire des Mondes Antiques, directeur d’études de l’École des Hautes études en Sciences Sociales, Paris), Narration des origines de la femme: la naissance d’Êve et la création de Pandôra en comparaison différentielle.

Maria Teresa Giaveri (Comparative Literature, Accademia delle Scienze, Chevalier des Arts et des Lettres), Sur l’Ébauche d’un serpent. L’origine selon Paul Valéry.

17.00-19.00 Parallel Sessions

Thursday 26.11.2020

Aula Magna Cavallerizza Reale

9.30 Plenary

Enrico Bertino (Pediatrics, University of Torino), Nature or Nurture? Where Inequalities Begin.

Silvia Romani (Mythology and Religions of the Classical World, University of Milano), Supernatural and Postnatural Births: Ancients Believes in Human Reproduction.

11-14

Parallel Sessions

OriginsPanelProgram

Lunch

15-17

Parallel Sessions

18.00-19.30 Auditorium “A. Vivaldi”, Biblioteca Nazionale Universitaria, Torino

Reading/Musical Performance: Alberto Rizzuti(History of Music Civilization, University of Torino), con Irene Zagrebelsky, Carlo Pestelli e Ugo Macerata.

Conference Banquet (Social dinner)

Friday 27.11.2020

Aula Magna Cavallerizza Reale

9.30 Plenary

José Alegría (Historia del teatro universal, Instituto Superior de Arte de La Habana), Bacantes, de Raquel Carrió: Mito de la permanencia y relectura cubana de Eurípides.

Alessandro Vitale Brovarone(University of Torino, Romance Philology), La création de la Bible au Roman de Renart.

11-14

Parallel Sessions

Excursion to The Palace of Venaria

Visit and plenary: Maria Beatrice Failla (Theory and History of Restoration of Cultural Heritage, University of Torino, Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale) ; Sergio Pace (Department of Architecture and Design, Politecnico of Torino).

Podcast: La peste di Camus e il Coronavirus. Riflessioni letterarie sulle reazioni umane

Veronica Pinti è una studentessa della laurea magistrale in Letteratura, Filologia e Linguistica italiana presso l’Università degli Studi di Torino. Si è laureata in Lettere nell’ a.a 2018, con una tesi in Geografia Linguistica dal titolo Tassonomia popolare di alcuni ittionimi di area abruzzese e molisana. Nel 2016 ha partecipato a Contro la guerra: l’Iliade riscritta da noi, a cura di C. Lombardi e M. Cravero.  Attualmente sta svolgendo un periodo di mobilità erasmus in Croazia, presso l’Università degli studi di Zara.

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In questo podcast, riflette sul tema della peste nel romanzo di Camus e lo compara con il nostro tempo, dipanando alcune riflessioni letterarie sulle relazioni umane. [qui la Lettura originale]