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Verrà la morte e avrà i miei occhi

Sara Staiti Sellitto, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva la figura di Loki dell’Edda, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.  

In questa riscrittura ho cercato di rendere la sofferenza di Loki, incatenato in una grotta dopo la morte di Baldr. A dargli la forza per resistere sono il suo forte desiderio di vendetta nei confronti degli dèi che lo hanno punito e una profezia rivelata a Ódhinn.

*

Tic.

Una goccia mi brucia il viso e mi riga la guancia come una lacrima di veleno.

Tic.

Un’altra. Il dolore deve avermi stordito a tal punto che ho perso conoscenza; succede spesso ormai. A poco a poco riprendo i sensi, stringo i denti cercando di sopportare il dolore e non urlare; tendo i muscoli e stringo i pugni, le unghie conficcate nei palmi. Mentre mi divincolo in preda alla disperazione le catene mi graffiano i polsi e rivoli di sangue scorrono lungo le braccia incrostate di sangue rappreso e terra. È passato molto tempo da quando Thórr e Skadhi mi hanno legato a queste rocce, qui, in questa caverna buia; all’inizio contavo i giorni del mio supplizio per mantenere almeno un barlume di lucidità, ma qui attorno a me è tutto così buio che ho finito per perdere la cognizione del tempo. Ormai la vista del sole è solo un vago e lontano ricordo.

Tic.

Mia moglie, Sigyn, non c’è: il veleno ha corroso la ciotola che si ostina a voler tenere sopra la mia testa e appena se ne accorta è corsa a cercarne un’altra. Anche nella disgrazia mi è rimasta fedele, ma temo che non sarà così ancora per molto e che presto sarà costretta a cedere: le tremano le braccia e le gambe mentre tiene alzata la ciotola, ogni giorno mi sembra di scorgere sul suo viso ingrigito, un tempo candido e roseo , una nuova ruga, segno del tempo che scorre implacabile ma anche della fatica a cui si sottopone.

Tic.

Mi lascio sfuggire un gemito soffocato che diventa presto un urlo, un urlo di disperazione, sì, ma anche di rabbia. Il mio corpo è scosso da violenti fremiti e così la terra, che comincia a tremare con fragore tutto attorno a me. Mi divincolo, tiro le catene con tutta la forza che mi è rimasta nel corpo per cercare di sfuggire a quelle gocce di fuoco che cadono dalla bocca del serpente ma è tutto inutile, non riesco a liberarmi. Almeno per ora.

Tic.

Il bruciore mi toglie il fiato; le lacrime mi bruciano la gola, ma cerco di ricacciarle indietro, come ho fatto quella volta. Le immagini di quel giorno tornano a susseguirsi vivide nella mia mente, ogni volta è come se rivivessi la loro morte, la morte dei miei poveri figli. Nelle orecchie mi risuonano ancora i latrati di Váli e le urla strazianti di Narvi, la carne dilaniata strappata con forza dal suo esile corpo, il sangue che cola insieme a brandelli di carne viva masticata dalle fauci di Váli, mentre loro stavano lì, diritti, a godersi il macabro spettacolo con la soddisfazione dipinta sul volto. Gli dèi Asi sono i colpevoli della loro morte e della mia tortura: hanno voluto punirmi per la scomparsa del loro amato Baldr che probabilmente tutti staranno piangendo in questo momento e continueranno a farlo. Tutti tranne me. Anzi, se avessi la possibilità di tornare indietro, pur sapendo quale punizione mi attende, lo farei uccidere di nuovo, tutto purché loro soffrano. E soffriranno ancora, lo so.

Tic.

So della profezia rivelata a Ódhinn. Pensava di non essere visto mentre si recava furtivo dalla veggente per conoscere gli avvenimenti passati e soprattutto quelli futuri, ma non poteva sfuggire al dio degli inganni e, prendendo le sembianze del suo corvo Huginn, l’ho seguito fino all’antro oscuro che era la sede della vecchia. Non entrai, rimasi all’ingresso della grotta per evitare che lei potesse accorgersi della mia presenza e ascoltai. La lontananza non mi permise di afferrare tutte le sue parole, ma quello che sentii fu sufficiente: parlò della fine del mondo, la fine che attendeva gli dèi Asi e la battaglia che avrebbero combattuto contro le forze del male. Tra loro c’ero anche io. E mentre loro ora si affannano cercando di causare tra i mortali infinite guerre per riempire la Valhöll di un esercito  sempre più numeroso, io trovo una consolazione per le mie pene nella consapevolezza che prima o poi tutto questo finirà e potrò vendicarmi. Me li immagino, tutti quei valorosi guerrieri, che si addestrano strenuamente e si abbuffano di carne e met, ignari di essere solo delle misere pedine in mano a dèi a cui si affidano e che pregano.

Tic.

Mi consola il pensiero della resa dei conti e la speranza che quel momento arrivi presto. Li affronterò e restituirò loro tutto il dolore che mi hanno causato, ucciderò i loro stessi figli di fronte ai loro occhi, mi trasformerò in lupo e li divorerò lentamente perché sentano il dolore di ogni singolo nervo lacerato, di ogni singolo osso spezzato mentre affondo le fauci nel sangue caldo e allora sarò io a godere della loro morte. Ucciderò Frigg proprio davanti a Odhinn, riesco quasi a percepire la sua rabbia mentre si rende conto di averla persa per mano mia, e poi Thórr e ancora Niördhr e poi Freyr e poi…

Tic.

Il veleno mi scorre lungo il corpo, il fragore della terra che trema copre le mie grida. Sigyr è via da un po’ ormai, sicuramente sta per tornare. Sì, sarà di certo sulla via del ritorno, pronta a soffrire ancora una volta insieme a me. Sì, eccola, sento rumore di passi, si sta avvicinando. Mi sembra che qualcosa si stia muovendo nell’oscurità, diretta verso di me. Ma perché non mi ha ancora raggiunto? Quanto manca? Perché ci sta mettendo tanto? Mi si annebbia la vista, mi pulsa la testa e le orecchie iniziano a ronzare, gli arti mi si irrigidiscono e a poco a poco smetto di agitarmi, la testa mi cade all’indietro.

Tic.                                                 

Tic.

Tic.

Bibliografia

S. Sturluson, Edda, a cura di G. Dolfini, Milano, Adelphi edizioni, 2019

Sconosciuto multiforme

Veronica Fenoglio, in questa sua composizione, riscrive e commenta in un’inedita prospettiva la nascita del mondo dal caos, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi. 

L’ uomo, animale pensante dotato di un naturale istinto per la speculazione, si è da sempre interrogato sull’origine delle cose. Questa sua indagine costante ha generato una moltitudine di interpretazioni la cui esposizione è stata poi affidata alle narrazioni. Da questi racconti emerge spesso l’idea che tutto si sia originato da uno stato primordiale definito comunemente ‘caos’: termine che assume differenti connotazioni a seconda della cultura a cui si fa riferimento.
La riscrittura vuole presentarsi come un’interrogazione ontologica che il Caos compie su se stesso. Attraverso l’analisi delle varie definizioni che gli sono state attribuite nel tempo, egli si domanda se una di esse potrà mai aiutarlo a capire cosa è veramente.
Un Caos triste, sconosciuto a se stesso, che si indaga alla ricerca del proprio nome e del proprio io in un lamento eterno senza risposta.

*

In principio c’ero io?

Mi manifestai all’improvviso e fui assimilato all’inizio di ogni cosa. Non so come mi originai, né perché.

Subito, senza far nulla e senza che avessi nemmeno il tempo di accorgermi della mia esistenza, fui temuto poiché io ero il Prima. Apparivo spaventoso perché fa paura ciò che non si conosce: molti furono i tentativi di definirmi per far scomparire quella terribile sensazione di incertezza e timore.

Mentre cercavo di capire cosa in me scatenasse quella reazione, una verità straziante mi si presentò dinnanzi: nemmeno io sapevo cosa fossi realmente.

Mi accorsi di non aver memoria né storia. Non sapevo dove trovare risposta.

Una paura prepotente si impossessò di me da quel momento: il terrore di non poter mai conoscere la mia identità, il significato di questa mia esistenza.

Ancora adesso voglio disperatamente trovare un senso a ciò che sono.

Neppure il mio nome posso dare per certo. Troppi me ne sono stati dati, nati guardandomi con il terrore negli occhi e caduti davanti ad altri ritenuti più veri.

In principio,

Mi chiamarono voragine.

Videro in me una caduta eterna, inesorabile sprofondo, vertigine immensa. Mi trovo ai confini di ciò che esiste, esattamente nel mezzo, poiché il mio abisso si genera quando ciò che è si interrompe. E lì inizia il precipizio che sono io. Ha un limite la profondità del mio essere? Sono forse finito? Come posso essere certo della mia infinità?

Poi,

Mi chiamarono buio.

Mi venne assegnato questo nome perché mi trovo dove luce non può essere. Sono oscurità nera, intensa, spaventosa perché al suo interno nulla si riconosce più, tutto si perde e diventa indefinito. Eppure al mio interno tutto permane nella sua forma originaria e aspetta solo di essere scrutato. Più che assenza di luce, non sono forse assenza di sguardo capace di cogliere il contenuto del mio essere? Non sono semplicemente incomprensibile entità a coloro che vivono di luce?

In seguito,

Mi chiamarono disordine

Fui descritto come moto infrenabile e mancanza di stabilità. Dove io sono non c’è posto per alcun ordine, la confusione è sovrana. Mi definirono come un insieme di elementi fuori posto ma come potevano esserlo elementi che ancora un luogo fisso non avevano?  Non sono piuttosto governato da un ordine diverso in questa mia diversa realtà?

Ancora,

Mi chiamarono nulla.

Pensarono a me come un’assenza totale, come ciò che non è. Eppure questa visione di me porta in se stessa un paradosso insolubile: come posso essere vuoto assoluto se da me si è originato tutto ciò che esiste? Non sono piuttosto il tutto non ancora manifestato?

Poi,

Mi chiamarono caos.

Videro che in me nessun principio è valido, nessuna regola può essere rispettata. Ciò mi rende ancor più imprevedibile e terrificante. Sono confusione totale, assenza di punti di riferimento. Ma una realtà in cui domina il caso può dirsi priva di leggi? Il dominio del caso non è esso stesso un punto fermo, una caratteristica peculiare e permanente del mio essere?

Infine,

Mi chiamarono ignoto.

Si arresero alla mia incomprensibilità. Divenni inspiegabile ai loro occhi e decisero di smettere di cercare un modo per definirmi. Utilizzarono semplicemente la negazione: “non-noto”. Mi descrissero con immagini che sono negazione di altre o sottrazione di altro e non giunsero mai ad assegnarmi un qualsiasi statuto netto che non fosse rappresentato da un contrasto. Esisto dunque solo per negazione di ciò che è conosciuto? Significa forse che non c’è modo per conoscermi?

La domanda vive con me. Il mio tempo continua, la mia indagine prosegue.

Sono solo questo? Sono tutto questo?

Non comprendo chi io sia, e mi domando se mai riuscirò ad avere risposta.

Affranto, rimango sconosciuto a me stesso.

Non trovo specchio che mi rifletta, non trovo idea che mi comprenda, non trovo nome che mi rappresenti.

Qui il file commentato.

Muri nel mare

Rossella Cutuli, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva la nascita del mondo, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi. 

La mia riscrittura è incentrata sulle origini, non tanto del mondo bensì della sua bellezza in cui la vera forza creatrice e al contempo distruttrice è la Natura. Ispirata in parte alla Genesi e in parte alle Metamorfosi, non preclude un discorso scientifico. L’origine qui viene narrata dal punto di vista di un non-corpo che dalla propria immobilità coglie il più impercettibile dei movimenti. La narrazione è infatti affidata a un coro millenario, a dei faraglioni in mezzo al mare. Anche se non è esplicitato, i faraglioni in questione sono quelli di Acitrezza, in Sicilia, un luogo che è stato di ispirazione per tanti artisti e poeti, non soltanto Verga ma anche lo stesso Ovidio nell’episodio di Aci e Galatea (Met. 13).

*

Siamo nati più volte, senza mai morire.
Eravamo qui quando il Sole non esisteva,
e la Luna non esisteva e le Pleiadi non pulsavano
e il Mare non rumoreggiava.
Quando tutto era niente[1],
solo vuoto di liquide tenebre
s’accresceva nei suoi bordi frastagliati.

Eravamo qui prima di Poseidone
quando le unioni erano sterili
mortali o immortali che fossero.
Poi dai vortici d’argento fu disegnata
una bellezza sovrana,
essa creò i colori da un fiore
ornamento profumato per i suoi capelli,
ne creò un altro ancora più colorato del primo
da quello nacque un uccello
fu così che venne al mondo la bellezza, l’ineffabile, il sublime,
la facoltà dell’essere umani.

Di noi fece alte cime più divine del Parnaso,
qui nacquero le ninfe dalla bella chioma
qui cominciò il canto,
l’eco delle storie antiche[2]

Polifemo[3]ci scaraventò contro Odisseo ché l’aveva accecato[4].
Fummo sommersi dai diluvi[5],
a lungo non sentimmo il respiro del vento,
diventammo la casa e il riparo del ramingo Caino[6]
quando dio ci dimenticò nel tartaro,
ma svettammo ancora grazie alla forza sottomarina dell’Etna,
e ci rivestì della sua lava.
Accadde allora che Caino fu ucciso da un Re avido,
poi da un padre geloso
e infine per amore della Bellissima
ci abbandonò espiando.

Non apparteniamo a nessuna dinastia,
non siamo figli di alcun dio.
Eppure, molti furono i poeti che per noi narrarono
non demmo loro muse e ispirazioni
ma motivi e ambientazioni
da Omero a Verga, e a chicchessia
sorsero parole, immagini e personaggi
Odisseo, i Malavoglia, Aci e Galatea

«Aci era figlio di Fauno e una ninfa nata in riva al Simeto:
delizia grande di suo padre e di sua madre,
ma ancor più grande per me; l’unico che a sé mi abbia legata.
bello, aveva appena compiuto sedici anni
e un’ombra di peluria gli ombreggiava le tenere guance.
Senza fine io spasimavo per lui, il Ciclope per me».[7]



E qui, nel blu dello Ionio, restiamo immobili nella forma maestosa
cesellata dai venti,
con lo sguardo fisso da giganti e l’udito di roccia,
senza merito, né gloria
da cinquecentomila anni e più.
Non proviamo pena, né languore
le nostre ossa sono pietra
delle lacrime però abbiamo il sale.
Col tempo anche noi ci siamo evoluti,
a tal punto che il nostro orecchio, che orecchio non è,
riesce a udire i pensieri più remoti
e il nostro sguardo, che sguardo non è,
può vedere al di là dei corpi,
fino all’anima e ai sogni che si distendono oltre l’orizzonte.

Le anime dei vivi con i loro desideri e le loro paure
tracciano strade inarcate dal buio alla luce,
noi sappiamo tutto ciò che dall’anima si stacca e cosa vi è penetrato.
Anime il cui corpo cambia
e cambiando muove passi leggeri
lungo un cammino in eterna creazione,
un cammino circolare irto di fine e inizi.

-Una danza commovente per noi immobili-.

Con l’aiuto del vento, assorbiamo la polvere della loro memoria
perché ci chiedono verità e poesia
ma un solo nostro sospiro scatenerebbe cataclismi.
Soltanto quando tutto il rumore cessa nella quiete,
e terminano gli schiamazzi,
le urla dei mercanti di pesce, i pianti dei bambini,
quando l’intero Ionio è pace
e il sole è già calato con la stessa lentezza di una palpebra che s’abbandona nel sonno;
è allora che, nel silenzio dell’etere,
noi rispondiamo, non con parole funeste,
ma sul palco dei sogni,
è così che ripaghiamo i nostri dispensatori di storie
poiché esse ci svelano la verità.
Col tempo le storie sono diventate per noi ciò che per i pesci è l’acqua: l’essenziale.
Alla fine, secondo l’ordine del caos dove tutto va e viene, le lasciamo andare.
È la nostra unica legge. Il nostro unico movimento.
Ma qualcosa di quelle storie resta in noi, nella nostra immortalità.
La chiamano legge del tempo.
Noi sappiamo poco del tempo,
esso passa e non passa,
i vecchi ritornano bambini e i morti rinascono.
Ecco, tutto ciò che sappiamo.

Uomini e donne ci raggiungono a nuoto dall’Isola dei Ciclopi.
I più coraggiosi si arrampicano sul nostro crinale di grigia roccia scura
e alcuni, desiderosi di belle imprese,
colmi di meraviglia e angoscia chiedono:

«Il mondo è stato tutto questo?»

Non fanno in tempo a finir la domanda che il mondo è già cambiato.
C’è sempre una voce che vuole raccontare,
dire cosa è stato e cosa sarà.

Ecco, tutto ciò che sappiamo.

Tuttavia,
per gran parte della gente noi non esistiamo.
Scogli. Muri nel mare.
Questo siamo per quelli che arrivano e non si fermano,
che passano senza ascoltare, ci girano attorno e ci evitano.

Siamo fatti di atomi, e un atomo funziona come un animale?

D’altronde anche per noi è impossibile non comunicare.
Ed è evocando le loro emozioni che comunichiamo
ciò che a parole non possiamo.
Non è forse vero che pensano di essere fatti della stessa materia delle stelle,
ignorando o scordando che tutto è della stessa materia delle stelle?

L’immobilità è la nostra condanna,
ci differenzia da quegli esseri in eterno movimento.
Portatori universali di anime.

Esiste un ”noi” e un ”voi”
malgrado fossimo già uniti in quel nucleo caldo e denso,
in un tempo in cui non esisteva ancora il tempo;
prima che lo scoppio del più grande evento creativo avesse inizio,
sì, chiamatelo Genesi o Big bang[8].

Se potessimo vi invidieremmo
la morte e la possibilità di ricominciare
non è che noi siamo immortali e voi no, niente affatto.
Dopo ogni morte si ritorna alla vita, ed è ciò che noi chiamiamo immortalità.
In noi, cose della natura, adulatori di storie,
c’è la chiave di lettura del linguaggio dell’universo;
in voi la voce.
La nostra missione è portare il messaggio e mostrare la strada
spesso entrambi falliamo.
Non era questo ciò che volevamo
ma a noi non è concesso volere qualcosa.
Essere muti portavoce di ciò che immaginiamo sia la realtà è il nostro mestiere.

Noi, voi, siamo l’universo.
Ditelo, siamo l’universo.


[1] Ovidio, Metamorfosi, I, 1-20.

[2] Cfr. Esiodo, Teogonia.

[3] Ciclope della mitologia greca citato da vari autori antichi: Omero, Teocrito, Euripide, Ovidio, Virgilio.

[4] Odissea, IX, 480-486. La scena dell’accecamento di Polifemo e del lancio di massi da parte del Ciclope trova un parallelismo nel gigante presente nella novella Sindbad il marinaio, nella raccolta Le mille e una notte.

[5] Riferimento al Diluvio Universale di Genesi, 6, 13 ssg.; Ovidio ne parla invece nel mito di Deucalione e Pirra (Metamorfosi, I, 313-415) e ritorna anche nella mitologia babilonese (cfr. l’Epopea di Gilgameš).

[6] Caino appare in Genesi, 4,1-15).

[7] È il riferimento all’episodio di Aci e Galateanarrato in Ovidio, Metamorfosi, XIII, 738- 897.

[8] Cfr. S. W. Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri-Breve storia del tempo, Bur, Milano, 1988.

Bibliografia
Bibbia, Genesi, in La Bibbia di Gerusalemme, Dehoniane, Bologna, 1974
Esiodo, Teogonia, a cura di G. Arrighetti, Rizzoli, Milano, 1984
S. W. Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri-Breve storia del tempo, Bur, Milano, 1988
Omero, Odissea, a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino, 2014
Ovidio, Metamorfosi, a cura di G. Rosati, BUR, Milano, 2003
N. K. Sandars (a cura di), L’epopea di Gilgameš, tr. it. di A. Passi, Adelphi, Milano, 1986

Riscrittura Proteiforme: “Disseboperciambo”

Fabio Angelo Bisceglie, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva i drammi shakespeariani Cimbelino e Pericle unitamente all’Odissea e alle novelle del Decamerone, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Trattasi di Riscrittura Proteiforme dal nome “Disseboperciambo” riproposto dai tratti del ridisegno in copertina, da lui realizzato: ecco un ibrido testuale, plasmato e ri-cucito su scampoli testuali di diversa provenienza il quale rappresenta le cuciture tra i diversi testi e generi.

*

Prologo
Un Giovane stava rovistando nella posta quando all’improvviso, tra la pubblicità emerse una busta rosa, con una scrittina in rosso, che diceva: “solo-(sé) hai coraggio, saluti Nessuno”. Curioso, senza perdere tempo, mentre correva in casa, aprì la busta e al suo interno trovò un biglietto, una USB e degli auricolari. Entrato in casa, sedutosi su un sofà, lesse il biglietto che diceva: Da ascoltare sola-mente se.. UH.. E.. S’É B?
Sconcertato dalla cripticità, si lanciò sul PC ed inserì la chiavetta…sul desktop comparve una cartella con su scritto “G”, che a sua volta, cliccandoci, portava ad un file (traccia audio) intitolato “Es-senza”. Inquietato dalla situazione, prese lentamente gli auricolari dalla busta e, dopo qualche tentennamento, decise di ascoltare la traccia…chiuse gli occhi per concentrarsi: non sentiva Nessuno, il silenzio gli accecava l’udito… quando ad un certo punto, gli parve di udire delle voci, erano come lontanissime, si trattava di voci femminili, anzi no, forse maschili…non capiva, le voci erano ibridate si mescolavano ma ad un tratto gli parve di riconoscerle.

Le Es-senze[in coro].
Un non luogo, dov’é… Dove sei? Oppure, anche sette, otto. Ove la cosa cade oppure H-ade, noi siamo.. si amo! Es-senze, ed invochiamo Dea G……per…

[Il Giovane sta ascoltando due voci, che si definiscono Essenze e che stanno invocando una sorta di Dea dal nome G. Aprí gli occhi, cercando il volume per alzarlo un po’, ma si accorge che il PC è spento. Toglie gli auricolari e le voci continuano a parlare…].

Un Es-senza
Di’ le pene più tristi senza mostrare il tuo sdegno per le mosche mortali, questo è il figlio che mai ho veduto, che non ha fatto altro che giustizia, quando sono morto era ancora nel grembo. Tu che sei il padre degli orfani, dovevi salvaguardarlo dai terrestri.

L’altra Es-senza
Mi strapparono il figlio dal corpo, in acque piangendo tra i nemici. La sua fanciulla seppe intuire il suo grande valore; però concedesti che il suo cuore puro venisse colpito, ricolmato di sciocca gelosia ed anche oggetto di scherno.

Le Es-senze[in coro].
Per questo motivo noi discendiamo dal cielo, il nostro figliolo ha snudato la spada, apri la porta al duro cristallo, benigno guarda e sospendi questo sdegno in favore di una stirpe d’onore, che tu stesso però colpisti con grande potenza. Le sue miserie pietose rimuovi, dacci soccorso almeno per ripicca.

Dea G
Voi che abitate le regioni basse, non oltraggiate la nostra pazienza, osate denunciare l’onnipotente? Povere ombre in esilio, ritornate alle lande fiorite senza crucciarvi dei casi mortali. Spetta a noi prenderci cura, non a voi. Do sventure a coloro che più amo, il dono quand’è inritardo più sarà goduto. Quindi, ecco il messaggio da porgli nell’animo: La più bella e dolce giace qui, la migliore che appassì nella primavera dei suoi anni, era la figlia del re; una morte orrenda, un martirio. Per l’orgoglio venne inghiottita dalla terra mentre il cielo si scagliava furioso sui litorali, giorno dopo giorno, per allagare il terreno che aveva osato tanto. Ora andate, cessate il frastuono o perderò la pazienza.

[Il Giovane si sveglia di soprassalto, e, sconvolto da ciò che ha sognato, si mette subito a pregare].

Il Giovane
Ti pregherò da lontano in parole di miele, io mi inchino a te che sei di coloro che possiedono il cielo. Sii misericordioso, non darmi queste sciagure.

[Ad un tratto, durante l’orazione, una voce di donna interviene nelle sue preghiere: è la Dea AN].

Dea AN
Alzati! Ehi, dico a te! Su! Caro ospite lascia che io ti guidi dove si radunano le mie vergini vestali e racconta a loro i tuoi sconforti, rivela come hai perduto tua moglie e tua figlia, dai voce alle tue pene; ricorda le tue sventure in mio onore e sarai felice te lo garantisco. Svegliati, su! Narra ciò che il sogno t’a suggerito.

[Il vecchio Gower apre gli occhi, ancora gonfi dalla sbronza notturna, sbracato su una poltrona di una casa di piacere. Non ricorda nulla di ciò che accadde, forse non sa neppure lui stesso chi fosse. Ha come un sentore che deve fare qualcosa. Un gatto gli salta sulla pancia e dei grilli saltano sul bordo della finestra ed in lontananza gli sembra di vedere un infante che gioca davanti al camino].

Il Gatto
Allora, che aspetti l’invito? Non vorrai mica svignartela?

I Grilli
No No, tranquillo vedrai che farà il suo compito…

L’Infante
La dea D-an si é raccomandata, di seguirla..

[Gower a questo punto pensa di stare poco bene: un gatto, dei grilli ed un’infante che parlano, tutto questo gli sembra molto strano. Preso dall’angoscia, scappa, si getta in strada e corre a tutta forza fino al mercato di D-an, dove decide di metter qualcosa sullo stomaco].

Gower
Così dopo la colazione, mi sentirò meglio…

[Si siede per un attimo a prendere fiato vicino alla fontana, quando ad un certo punto, colto da un impeto come se non fosse padrone di sé stesso, ovvero qualcosa lo muove come un burattino, con uno slancio capace solo ad giovane, salta sul ciglio della fontana ed inizia ad invitare i passanti, che stanno nei paraggi ad ascoltarlo].

Gower
Signore e signori.. – no, fermi! Non mi ascoltate, non credete alle mie parole – [è come parlato, cercava con forza di opporsi]. Scusatemi eccomi, oggi è una giornata un po così, comunque ascoltatemi, perché ho qualcosa d’importante da dirvi, io diro solo quello che gli autori celesti riterranno opportuno che io dica, ne più ne meno. – Stai zitto!

[La gente incuriosita dalla stravaganza che il vecchio suscita, si ferma e guarda].

Gower
Shh! Silenzio! Allora: Oh! disse: Oh, guardando verso il ciel…

[Rimane come ipnotizzato verso il vuoto, poi guardo la folla, attonito]

Gower
Perché io.. [con un tono femminile], sono nata cosi sciancata… mum? Oh, non m’avessero mai generata! Ho camminato come donna, come uomo per una notte intera… vorrei solo appoggiarmi qui e dormire, posso?

[Socchiudendo gli occhi, si lascia cadere perdendo conoscenza. Nello stesso istante una donna apre gli occhi e esce dal suo sonno].

La Donna
Ma che razza di roba stavo sognando, un uomo vecchio ed ubriacone. [Disorientata, non sa in che luogo si trova, a prima vista, sembra di essere in un specie di grotta bianca, moltoluminosa, apparentemente senza vie d’uscita] Ma dove sono? [S’accorge che affianco a lei sul suo letto c’é un altro corpo. Tirando un grido cerca di scendere dal letto ma non può, è come pietrificata]Un uomo insanguinato! [Spera di trovarsi in un brutto sogno] Sto tremando dalla paura e sono purtroppo sveglia sia dentro che fuori. Oh dio, dov’é la sua testa! [Si accorge che il corpo è caduco, e che i vestiti che indossa gli ricordano il suo amato]Ma certo, queste sono le sue mani, i suoi piedi e la sua pelle… [Impazzita di dolore singhiozzando cade su di lui, e con parole di dolore chiede spiegazioni al defunto, fino a perdere i sensi].

[Quando si risveglia, si trova altrove, spalanca gli occhi, ma non vede altro che buio. È come immersa negli abissi dove nessun raggio di sole può arrivare, nel regno dei meta-pesci ed i meta-carne].

Lo Zoppo
Tiresia…

Tiresia
Si, dimmi mio caro, stavo sognando di una donna che aveva lo sposo senza testa.

[Il timbro di Tiresia è come sentir cantar un coro all’unisono, chi gli parla è il suo aiutante detto Lo Zoppo, il quale lo segue ovunque per via della sua cecità; essi sono esseri proteiformi, mutano d’aspetto e di voce ad ogni passo, nessuno sa quale volto o voce abbiano. Essi si sono fermati per un riposo vicino ad un uomo cosparso di mele nel deserto].

Tiresia
Che cosa ha fatto quest’uomo?

Lo Zoppo
Ha ingannato e quasi portato alla morte degli innocenti..

[La parola innocenti rimane come sospesa in volo, mentre tutto il resto diviene silenzioso, l’uomo legato al palo riapre gli occhi, cercando di vedere da dove provenissero le voci, ma purtroppo non scorge nessuno, al di là del ronzio dei tafani, che pregustano la loro futura pietanza. L’uomo appeso al palo, continua ad avere allucinazioni sonore, però questa volta è un voce di fanculla a parlare].

La Fanciulla
Non si conveniva sepoltura men degna che d’oro a cosi fatto cuore.

[L’uomo riapre nuovamente gli occhi cercando invano: non c’è nessuno al suo capezzale].

L’Uomo
Andate via, spiriti! [Gridando].

La Fanciulla
Ah dolcissimo albergo di tutti i miei piacerei, maledetta sia la crudeltà che colui che con gli occhi della fronte or mi ti fa vedere!

[L’uomo ormai non patisce più alcun dolore, ascolta le parole, che per ragioni sconosciute, qualcosa gli sussurrano all’orecchio. Dopo qualche istante egli muore, e la fanciulla continua a parlare].

La Fanciulla
O molto amato cuore, ogni mio ufficio verso di te è fornito.

[Nel frattempo in un altro luogo, un signore spagnolo, stanco per la dura giornata, riposa, appoggiato ad un albero nei pressi di un mercato].

La Fanciulla
Né più altro mi resta a fare se non di venire con la mia anima a fare alla tua comp…

[Un boato interrompe il sonno dello spagnolo, infrangendo così il sogno in cui la voce della fanciulla sta parlando. Si guarda intorno preoccupato, per carpire che cosa succede e vede che un vecchio che di solito cantava storie, era caduto nella fontana, aiutato a rialzarsi si mise nuovamente a cantare].

Il Vecchietto
Venghino signori verghino questa notte al Gowhere Dream, un appuntamento da non perdere, con la nostra vergine speciale…fidatevi del vecchio Gower.

[Il signor spagnolo cerca di riprendere il sogno da dove l’ha lasciato, purtroppo senza riuscirci, allora decide di alzarsi e di andare a sentire le parole di quel folle, che nonostante la caduta continua a sbraitare senza alcun riserbo…].

Bibliografia
Omero, Odissea, a cura di R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi; i libri o i passi indicati: V; IX; X; XI 333-384.

G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi: Proemio, Introduzione gen.; II, 9; Introduzione alla IV giornata; IV, 1.

W. Shakespeare, Pericle, principe di Tiro, in Willliam Shakespeare. Tutte le opere, vol. 4, a cura di F. Marenco, Milano, Bompiani

W. Shakespeare, Cimbelino, in Willliam Shakespeare. Tutte le opere, vol. 4, a cura di F. Marenco, Milano, Bompiani

Letterature comparate, a cura di F. de Cristofaro,  Roma, Carocci; Cap. III – V

«Un itinerario lunghissimo, imprevedibile e assurdo»: una lettura cosmogonica de La tregua di P. Levi

Lezione del dott. Mattia Cravero (Università degli Studi di Torino) nell’ottica del corso Scritture delle origini. II. Dal Rinascimento a Leopardi, Letterature Comparate B, mod. 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

La presentazione in .pdf è disponibile qui; per il video in differita è possibile utilizzare Webex o YouTube.

Corso di Laurea in Culture e Letterature del Mondo Moderno
Dipartimento di Studi Umanistici
Università degli Studi di Torino

Mattia Cravero (mattia.cravero@unito.it) è dottorando in Comparatistica (XXXIV° ciclo) presso l’Università degli Studi di Torino. Nel suo progetto di ricerca analizza i miti delle origini (letterari, biblici, scientifici e fantascientifici) presenti nell’opera di Primo Levi, a cui ha dedicato diversi saggi (tra cui «Acqua per cancellare / Acqua feroce sogno / Acqua impossibile per rifarsi mondo»: Primo Levi e tre casi di intertestualità, «Status Quaestionis», 2018; «Nel mondo delle cose che mutano»: racconto metaforico e mito metamorfico tra Ovidio e Primo Levi, in Innesti. Primo Levi e i libri altrui, a cura di R. Gordon e G. Cinelli, Peter Lang, Berna, 2020). Partecipa attivamente ai convegni universitari come organizzatore e come relatore; è membro della redazione e revisore in doppio cieco per «CoSMo». Oltre all’opera di Levi, si interessa di ricezione moderna e contemporanea del classico e di riscritture (Contro la guerra. L’Iliade riscritta da noi, con C. Lombardi, Mimesis-AlboVersorio, 2017).

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