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C’era una volta una cavaliera

Irene Giovannini, in questa sua composizione, rielabora in chiave ironica e femminista il Venus and Adonis di William Shakespeare. Il testo è stato sviluppato nell’ottica del corso Scritture delle origini. Dal Rinascimento a Leopardi. Letterature comparate B, mod. 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

Dal mio stupore nel vedere la dea dell’Amore supplicare colui di cui è innamorata di concederle attenzioni, oltre che dal mio personale interesse nell’approfondire e rivalutare il ruolo della donna nella società contemporanea, deriva la scelta di proporre una lettura della figura di Venere che abbracci in parte quella shakespeariana, ma che si ponga l’ambizioso obbiettivo di proporre una versione originale largamente indipendente dalla fonte. La figura femminile non viene elogiata per la sua bellezza, ma per forza, coraggio e determinazione. Al contrario, l’uomo si spoglia della tradizionale virtù per indossare i panni di un giovane narcisista, il cui atteggiamento richiama, in parte, quello di Adone. Ho, quindi, adottato il genere della favola per bambini, utilizzando l’ironia per evidenziare il ribaltamento dei ruoli tradizionali e rendere innovativo, e spero divertente, il racconto. Probabilmente se Shakespeare leggesse questa riscrittura, si indignerebbe. Tuttavia, se io potessi tornare alla condizione di spensierata infante quale ero, mi piacerebbe crescere capendo che essere fiere di sé stesse e credere nelle proprie capacità vale più di quanto non si pensi.

*

C’era una volta una cavaliera[1]. Sì, avete capito bene: proprio una cavaliera! Armatura, elmo, un cavallo bianco e una spada: tutto ciò di cui bisogna essere dotati per affrontare un’avventura. Rosalinda[2] non era particolarmente bella né alta né magra, ma era coraggiosa, perspicace e, soprattutto, deteneva il record di migliore cacciatrice di draghi di tutta la valle di Sospiro Ventoso. Rosalinda non aveva paura di niente: era stata allevata nella Foresta del Tasso Puzzone[3] da una famigliola di lepri che, nonostante le volessero un gran bene, le avevano insegnato come cavarsela da sola e ad affrontare i pericoli. Pensate che a soli cinque giorni era già in grado di arrampicarsi sugli alberi e a sette giorni di domare un lupo cattivo! Quando divenne abbastanza grande per sconfiggere un Drago Fiammarossa, partì con il suo destriero, pronta a scoprire il magnifico mondo che si trovava oltre i confini della Foresta. Dovette resistere alle intemperie, attraversare mari e monti, sopravvivere alle insidie degli Gnomi Brutticeffi, fuggire da un Orco. Insomma, dimostrò innumerevoli volte il proprio coraggio.

Un giorno giunse alla corte di Re Igor il Pezzato. Il sovrano, che soffriva evidentemente di sudorazione eccessiva, la accolse con un ricco banchetto e alcuni omaggi: una forma di fontina, qualche pennacchio nuovo e un liuto realizzato per lei da Mastro Centomani. Rosalinda rimase soddisfatta dei doni ricevuti, anche se di quel liuto proprio non sapeva cosa farsene: l’unica cosa che sapeva suonare, e anche discretamente, era il guscio di tartaruga! Re Igor aspettò che Rosalinda terminasse il suo pasto: la giovane divorò otto cosce di pollo, trenta code di lucertola, cinque panini con la frittata di uova di rana e mezza torta a sei piani con la fragola. Poi, il sovrano le chiese il suo aiuto: da tempo una bestia feroce spaventava i cittadini del regno e divorava il bestiame. Ormai l’inverno era alle porte e la gente sarebbe morta di fame, se qualcuno non avesse sconfitto al più presto quel mostro. Rosalinda non ci pensò neanche un momento: avrebbe lottato contro la terribile bestia. In cambio, però, voleva che il re le permettesse di andare a vivere nella vecchia Torre che si ergeva sulla vetta Oltremare. Re Igor acconsentì, dal momento che la Torre stava cadendo a pezzi e nessuno avrebbe mai voluto abitarci. Fu così che Rosalinda, legato il liuto alla sella del cavallo, partì alla ricerca dell’orrenda fiera. Trascorse alcune notti in una caverna: accese un fuoco, andò a caccia e si impegnò a suonare quello strambo strumento. In poco tempo comprese che ogni corda, se pizzicata, produceva un suono diverso, a volte più acuto a volte più grave, e che se suonava in sequenza tutti i suoni poteva realizzare una dolce melodia. Rimase incantata dalla propria capacità di imparare così in fretta, da sola, l’arte della musica, a lei sconosciuta fino a qualche giorno prima. Si sentì fiera e soddisfatta di sé stessa, quasi come quando aveva sconfitto un Drago Aspirasangue. Con questa piacevole sensazione chiuse gli occhi e si riposò: l’indomani avrebbe affrontato una grande sfida.

L’audace cavaliera si alzò all’alba, indossò l’armatura e partì. Stava cavalcando da ore nella fitta boscaglia del Grande Bosco, quando sentì un agghiacciante verso provenire da poco distante. Dopo essere scesa da cavallo, legò il proprio destriero ad un albero e, munita di spada e liuto, si addentrò tra i rovi. Improvvisamente udì urla umane. Strizzò gli occhi per vedere meglio e rimase in silenzio per qualche minuto. Poi, lo vide: un giovane stava correndo a perdifiato e ad inseguirlo era un’orribile fiera a tre teste con le zanne da cinghiale e il corpo di scimmia[4]. Rosalinda corse verso il mostro, sguainando la sua spada; quello, accortosi della presenza della cavaliera, lasciò perdere il giovane e si scagliò contro di lei. Rosalinda, non appena gli fu abbastanza vicino da vederne gli occhi rossi come il sangue, tentò di trafiggerlo con la spada. Si accorse subito però che la pelle del mostro era troppo dura: niente avrebbe potuto scalfirla. La bestia nel frattempo tentava di scagliarle contro alcuni tronchi d’albero, ma l’astuta cavaliera era così veloce da riuscire a schivarli tutti. Rosalinda ebbe una rivelazione: le tradizionali tecniche cavalleresche non sarebbero servite in quel caso; doveva usare qualcosa di speciale, qualcosa che solamente lei era in grado di fare. Tirò fuori il liuto e iniziò a suonarlo. La bestia si acquietò, chiuse gli occhi e si accasciò a terra, dormiente. Fu in quel momento che Rosalinda sferrò il colpo finale: sollevò un enorme masso e lo scaraventò contro il mostro, schiacciandolo. La forzuta cavaliera esultò, sentendo crescere in lei l’orgoglio di essere riuscita a portare a termine anche quel difficile compito affidatole. Stava raccogliendo da terra la propria spada, quando il giovane che poco prima aveva visto scappare le si avvicinò. La cavaliera ne osservò per un istante il bel volto, impreziosito da incantevoli occhi castani e labbra corallo. Il ragazzo, dopo essersi aggiustato i capelli ricciolini e aver ripulito la giubba rossa che indossava, si presentò come Ascanio[5], figlio del re Sonbello Manonballo e della regina Bella Delreame. Ammiccando, ringraziò la cavaliera per aver sconfitto la temibile fiera e avergli salvato la vita, permettendogli così di partecipare al concorso di bellezza “Il principe che tutte vorrebbero”. Come ricompensa propose alla giovane di darle un dolce bacio e di farle l’onore di renderla la sua principessa. Stava già chinandosi verso la cavaliera per baciarla, quando questa lo colpì sulla testa con il liuto. Poi, si allontanò, lamentandosi della frivolezza dei principi d’oggi.

Rosalinda fece ritorno alla corte di re Igor il giorno stesso: era decisa ad ottenere la propria ricompensa e a godersi il meritato riposo. Giunta a palazzo e annunciata la vittoria, ricevette le congratulazioni di tutti e il sovrano le consegnò le chiavi della Torre di Oltremare. La cavaliera fremeva dalla gioia e non indugiò oltre. Sellato il suo destriero, raggiunse la sua nuova dimora, dalla quale da quel giorno, ogni sera, intonò canti soavi accompagnata dal suo liuto. E visse per sempre felice e… fiera di sé stessa.


[1] Nonostante il termine non sia presente sul vocabolario di lingua italiana, ho scelto di utilizzarlo per mettere in risalto il ribaltamento del ruolo femminile all’interno del racconto.

[2] La protagonista non è una donna bisognosa di amore o una dea, ma una coraggiosa cavaliera. Viene così ribaltata la struttura tradizionale sia della fiaba, che vuole l’uomo come eroe, sia del poemetto shakespeariano, visto il focus non sulle vicende amorose e sulla bellezza, ma sull’esaltazione delle proprie capacità.

[3] L’ambientazione non è più il locus amoenus descritto da Shakespeare, ma un bosco insidioso.

[4] Il cinghiale che assale e poi uccide Adone in Venus and Adonis viene qui sostituito da un’orribile fiera dall’aspetto multiforme.

[5] La descrizione del giovane riprende l’Adone nel dipinto di Tiziano, Venere e Adone ( olio su tela, 186 x 207 cm, 1553), oltre che l’atteggiamento di Narciso (Metamorfosi, Ovidio)

Bibliografia
Ovidio, Metamorfosi, tr. it. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2015
W. Shakespeare, Venus and Adonis, tr. it. di V. Malosti, Marco Valerio Editore, Torino, 2007
Tiziano, Venere e Adone, olio su tela, 186 x 207 cm, 1553

Blue

Francesco Carlucci, in questa sua composizione, riscrive l’incontro di Miranda e Ferdinando, abbinandolo al momento fondamentale della perdita dell’innocenza di Adamo ed Eva nella Genesi, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I e II: Pericle, Cimbelino, Il racconto d’inverno e La tempesta, Letterature comparate B, mod. 1 e 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

Una sorta di poesia in prosa. Il componimento si ispira al passo del libro della Genesi in cui Adamo ed Eva assaggiano la mela. Il parallelismo sta nella perdita dell’innocenza di Miranda e Ferdinando, che disobbediscono così al volere di Prospero, che impone le sue leggi sui giovani e come Dio è in grado di scatenare disastri naturali per mezzo delle sue abilità magiche. Calibano si fa serpente tentatore, i protagonisti scegliendo di non rispettare il volere dell’ex Duca di Milano affermano la propria presenza nel mondo, come Adamo ed Eva dopo aver mangiato il frutto del peccato.
Da leggere ascoltando l’album Blue di Johni Mitchell.

*

Il sole è alto nel cielo azzurro, ma le prime nuvole rosate fanno intendere che il suo splendore è destinato a durare ancora per poco. Il mare, dopo i tumulti del pomeriggio, è tornato immobile come fosse ricoperto di ghiaccio. Sulla sabbia ocra s’alza una grotta, nello stesso modo in cui una chiesa interrompe l’asfalto di una piccola piazza di provincia. All’interno, alcuni tronchi accumulati, mentre altri ancora attendono sparsi. Ferdinando e Miranda si stanno guardando. Le vesti sono a terra, hanno appena violato i loro corpi, disobbedendo al volere di Prospero, padre di Miranda. Le membra di entrambi sono giovani e forti, la loro pelle è del tessuto più fine, le loro iridi sono smeraldi che brillano nell’oscurità della grotta. Passa un istante e subito si riabbracciano, chiudono gli occhi e attendono, forse sognano. Entrambi sanno che l’ira di Prospero si abbatterebbe su di loro, nello stesso modo in cui la Tempesta di quello stesso giorno ha reso naufrago Ferdinando, se solo venisse a sapere, ma si cullano ignari, e si accarezzano felici, incuranti del loro futuro, finalmente consci del loro esistere, stare e trovarsi in un determinato luogo del mondo, in un dato momento della linea del tempo. Adesso sono sporchi di sabbia e bagnati di sudore, sensibili, materiali, quasi si ripugnano dello stato in cui si trovano, selvaggio, irrazionale, ma quel piccolo anfratto di universo appare loro più vicino di quanto non lo sia mai stato, come se passasse attraverso una lente di ingrandimento, e ancora non sanno maneggiare questo nuovo potere acquisito, le loro gambe ne tremano al solo pensiero. Già Calibano, un orrendo mostro, figlio della maga Sicorace, e padrone dell’isola prima dell’arrivo degli uomini, aveva provato a violare la purezza di Miranda, in passato, e subito era stato punito da Prospero, soggiogato a schiavo, come Ulisse mandato all’Inferno per aver provato a superare i confini della Terra. Quell’evento, sconvolgente per Miranda, le aveva presentato una nuova realtà, quella del male, dell’illecito, della tentazione, che si era fatta irresistibile quando il suo sguardo ha incontrato per la prima volta quello di Ferdinando. Come davanti ad un frutto ben maturo, l’impeto di Miranda si è scagliato su di Ferdinando, sono caduti insieme nel terreno del mondo, e per sempre hanno perso la loro innocenza. Hanno assaporato il male, ed è solo dopo averlo fatto che hanno potuto apprendere il bene. Non è questo l’unico modo per conoscere ciò che ci muove? Non è forse questa voglia di scoprire che conduce l’essere umano in universi sconosciuti? Non è solo macchiandosi le mani di terra o di sangue che i nostri padri e i padri dei nostri padri hanno costruito quello che siamo? Non è tutto questo che ci rende consapevoli della nostra caducità, della nostra insignificanza, del nostro grande limite, della nostra fine? E non è sempre in relazione ad essa, al nostro tempo contato, che veniamo alimentati? I due fanciulli riaprono le palpebre. Ferdinando si alza, le sue gambe gli sembrano più forti, la sua schiena più dritta, per la prima volta ha controllo totale dei movimenti, e ogni passo pesa come se delle catene fossero legate alle sue caviglie. Non vuole sprecarne neanche uno. Si volta verso Miranda e gli sembra che tutte le cose vertano verso di lei e ne escano nuove, è sicuro che sia la madre di tutte le creature, emana vibrazioni che incensano la grotta, gli appannano la vista. Il dolce suono del flauto di Ariel sulla riva si muove verso di loro come un serpente che si snoda nell’aria, li raggiunge e poi evapora. Il sudore sulla fronte di Ferdinando è asciutto, il dolore di Miranda è un ricordo lontano che muore nell’indeterminatezza del passato e si confonde con il presente. Il cielo ora è rosso come le tende di un sipario che si chiudono su di loro e il mare si ritira per la notte indossando l’abito nero. L’estasi del sonno ha quasi abbandonato i corpi dei due fanciulli, lasciando sui loro volti i segni evidenti del suo passaggio. Ora sono desti, la loro vista è più acuta, i sensi si moltiplicano, il buio invade lo spazio come un’onda di tempesta che si prepara ad inghiottirli e imprigionarli negli abissi profondi, i loro polmoni cercano aria nuova da inalare, i loro cuori iniziano a battere come tamburi africani, rimbombano nelle tempie, il ritmo si fa incessante. Nuove percussioni si aggiungono alla danza, i passi di Prospero aumentano di volume all’avvicinarsi del suo incedere.

Bibliografia
W. Shakespeare, The Winter’s Tale, in Id., Tutte le opere. IV – Tragicommedie, drammi romanzeschi, sonetti, poemi, poesie occasionali, a cura di F. Marenco, Milano, Bompiani, 2019
La Bibbia, Nuova versione dai testi antichi, Genesi, Milano, Edizioni San Paolo, 1° edizione settembre 2014.

Destino Funesto

Beatrice Ruggiero, in questa sua composizione, rielabora in una prospettiva inedita l’infelice storia di Hel, rivista qui dal punto di vista della stessa dea. Il testo è stato sviluppato nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi. 

Il seguente elaborato nasce dalla volontà di riscattare una figura complessa all’interno della mitologia norrena; si parla infatti di Hel, dea dei morti senza onore, posta a tale ruolo da Odino poiché parte dei tre figli del male. Nonostante la terribile condizione che il destino le ha riservato, ella si dispera per la sorte dei propri fratelli, motivo per cui nel testo tesse loro lacrime e lodi. Qui mi pongo umilmente da sua portavoce.

*

Figlia del fuoco
fui costretta alla romba
del gelido vento
che soffia nell’ombra,
or domino il ghiaccio
e la sorte dei morti
che non per onore
da me sono accolti.
Tra tutti coloro
che m’han conosciuta
uno tra gli altri
m’ha assai meno temuta,
non per inganno
né per sua colpa
costui al mio cospetto
si ritrova la tomba.
Dyggvi fu ‘l nome
quando ancor il rintrono
dei passi suoi vivi
risuonava sul suolo:
nubile allor
accettai la sua mano,
divenne consorte
del mio lato umano.
Così io, di fatti,
fui costretta dal fato
metà così bella
da lasciar senza fiato;
tuttavia l’altra parte
del mio povero volto
rappresenta con carne
l’altra faccia del mondo.

Nacqui da Loki,
dio ancor conosciuto:
agli dèi inganna gli occhi,
all’uomo offre aiuto;
purtroppo di questo
in pochi si accorgono
concentrati su quello
che fu il suo tramonto.
Egli ai mortali
diede attrezzi d’ingegno
ma ‘l sol male si vide
nonostante l’impegno;
fu però da noi figli
che Odino si avvide
ci tolse dal nido
e poi ci divise.
Al fratello mio lupo,
di Fenrir che ha il nome,
infatti il futuro
riservava più onore:
lui vincerà il padre
dell’uomo che a me
venne e cui Hermodhr
far tornare richiese.
Fratello mio cane,
a me ti han disgiunto
ti han con le catene
a Lyngi rinchiuso,
ma verrà il gran giorno
che paura assai incute,
sconfitto al tuo ritorno
sarà il dio delle rune.

Purtroppo fratello
sarà già perduta
la speranza di vita
che ti era stata preclusa:
Vidhar di spada
sarà infatti lesto
e del sangue versato
pagherai subito il prezzo.
Dolore mi invade
per tale destino,
ma non sol per te
si riversa il mio grido:
infatti il mio sangue
non ha solo Fenrir,
vi è Jǫrmungandranche
tra noi maledetti.
Serpente di forma
cresce nel fondo
del mondo dell’acqua
dove giace pensando
a Ragnarok, quando
morente sul suolo
vedrà lo spavaldo
morir del suo siero.
Quest’ultimo, infatti,
quando Odino lo chiese
lo scagliò giù nel mare
dove ancor oggi cresce.
Questa è la storia
del fato dei miei
poiché nostra natura
allor non piacque agli dèi.

Bibliografia
Snorri Sturluson, Edda, a cura di G. Dolfini, Milano, Adelphi Edizioni, 2019

Novembre 2015

Vittorio Punzo, in questo suo testo di finzione, prova a guardare dagli occhi di una giovane lavoratrice parigina, morta nell’attentato al Bataclan di Parigi nel Novembre del 2015, la realtà prima e dopo il proiettile che la colpisce allo stomaco. Nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi, il testo comprende citazioni e riscritture dei testi inseriti nelle fonti in calce al racconto.

La riscrittura è un tentativo, forse fin troppo presuntuoso, di ricordare e caratterizzare una vita, tra le tante, persa nell’attacco del 2015 al Bataclan di Parigi, evento ricorrente per modalità e motivi in luoghi e tempi vari.
Ho volutamente sbilanciato il tempo del racconto a prima dello sparo: la narrazione quasi surreale mi serviva per alcuni motivi: 1) la ragazza ha un presentimento 2) ha un particolare rapporto con la nostalgia 3) Il suo umore è instabile, è incinta.
Nella parte centrale ho pensato che se la convenzione vuole che prima di un evento tragico succeda qualcosa di bello, la ragazza avrebbe potuto semplicemente desiderare-immaginare una cosa bella senza però ottenerla.
Le ultime 1000 battute sono dedicate a un pensare ostinato e metaforico sul proiettile nello stomaco. Cambio il tempo della narrazione, uso il presente, tutta la prima parte del racconto assume la forma di un ricordo racchiuso nell’istante dello sparo. In questo, forse, risuona l’incipit di Underworld di Don De Lillo.
La ragazza è stata colpita, adesso si sente quasi utile, non prova rabbia, forse addirittura, con freddo raziocinio, è felice che la sua vita e quella che si portava in grembo non saranno (più) partecipi alla corsa umana, da ora in poi la vita che portava in grembo resterà immobile nel nulla oscuro della non-nascita, in quel buco nero della pre-origine. I freschi ciuffi d’erba sono un’immagine sostitutiva della nascita che non avverrà mai, dunque simbolo di serenità.

*

Mi travestivo spesso, mi piaceva farlo. Quando mettevo addosso un travestimento diverso ogni cosa appariva cambiata, colorata di una nuova tonalità più calda o tendente al violaceo, meno satura o più in rilievo, più esposta, talvolta meglio definita. Poche volte la realtà mi appariva ombrosa o sfocata, quando succedeva scattavano in me degli strani turbamenti. Queste evocazioni turbinanti e confuse non duravano mai che qualche secondo; spesso, la mia breve incertezza circa il luogo in cui mi trovavo non staccava l’una dall’altra le diverse supposizioni di cui essa era fatta. Non meglio di quando, scegliendo una fragranza, non riusciamo ad isolare le varietà proposte dal venditore e finiamo per immaginare profumi che non esistono. Ma avendo riascoltato un po’ l’una un po’ l’altra, come fossero lontane decadi di anni tra loro, le camere dove avevo abitato nella mia vita, come i travestimenti che avevo adottato, finivo per ricordarmele tutte durante le lunghe fantasticherie che seguivano il risveglio. Una delle quali era la camera d’inverno dove, quando si è coricati, si ficca la testa in un nido messo insieme con le cose più disparate, un angolo del guanciale, l’estremità delle coperte, il capo d’uno scialle, il bordo del letto, un numero di Charlie Hebdo, cementati infine tra loro con la tecnica del dis-ordine costruttivo. E poiché in casa mia quel quindici novembre il fuoco è rimasto spento tutto il giorno, ho deciso di uscire prima del tempo per cercare qualcosa di buono in città.

Qualcosa di buono, di notte a Parigi sui bulevard, prima del lavoro è: mangiare cibo da strada oppure bere birra calda. Qualcosa di buono è incrociare un amico. Ma qualcosa di buono è anche vedere propria madre svegliarsi, cosa non verosimile sul bulevard. Qualcosa di buono e sapere i propri genitori smetterla di lottare per un pezzo di terra o per il potere. Qualcosa di buono è sapere che la vita su questo mondo continua anche senza una promessa radicale volta a eliminare chi ha categorie di pensiero diverse dalle tue. Qualcosa di buono, l’ho accarezzato, saresti tu, e lui ha risposto con una botta. Allora ho pensato:

Vi fu un tempo remoto
in cui nulla era:
non sabbia né mare
né gelide onde.
Non c’era la terra
Né la volta del cielo;
ma voragine immane
e non c’era erba.

Avevo fame. L’orologio della farmacia segnava le 7, ero nell’XI arrondissement e nel freddo novembrino, avevo ricordi insoliti: fantasticavo, fuori luogo, e vedevo me bambina. Avevo un’ora prima del lavoro e strani pensieri per la testa. Così il tempo si è accavallato e incastrato nella sua stessa morsa, i miei vestiti si sono sovrapposti e ora passato e futuro prendevano le sembianze di un unico succoso boccone. Morsicavo del pane asciutto mentre camminavo sul bulevard. Ho guardato i miei passi fino al 50 di bulevard Voltaire. Poi ho guardato l’ingresso, un ingresso per nulla singolare, e mi è venuta voglia di descriverlo come l’ingresso a uno dei mondi paralleli che ho trovato nelle narrazioni mitiche. Ne avrei parlato con qualcuno molto volentieri, avevo un’improvvisa voglia di sprofondare nelle parole, con un qualunque vicino ad ascoltarmi mentre dicevo una qualsiasi cosa stravagante; oppure immagina, gli avrei detto, zero lotte, nessuna proprietà terriera o di credenza. Nessun disadattamento sociale. Nessun occidente, nessun oriente. Nessun Niflheimr, non un Muspellheir. Nessun gigante protestante, pentecostale, cristiano, islamista. Nessuna modernità, nessuna madre delle certezze. Solo energie, senza gravità, solo una fredda era di Plank e questo ingresso al teatro per nulla singolare.

Il mio lavoro al teatro è indicare alle persone il loro posto: “In fondo a destra”, “Il suo posto è a sinistra”. “Ecco questo è il suo posto, signore”. Io sono la prima che vede chiunque entri nel teatro, ero la prima che chiunque trovava all’ingresso. Accoglievo, per prima, anche un esercito.

Accoglievo anche giganti con i fucili e la lana in faccia. Dopo essermi vestita e aver fatto il mio lavoro, iniziato il concerto: c’era musica. La stessa musica che si suona in altri mille posti così. Poi c’è stato un fragore incomprensibile. Il pavimento dell’atrio aspettava le mie stanze, i miei travestimenti, le mie intimità. Le aspettava non senza il mio sangue. Quei giganti con le armi intarsiate di legno hanno voluto me come primo dono prezioso per una nuova umanità. Non pensavo di essere così importante, eppure sono stata la prima. Ero, e ora sono lì, travestita delle stesse origini dell’universo, una voragine immane mi separa il lembo destro dal lembo sinistro di carne, il centro è bollente se provo a poggiarvi il dito e mi accorgo che una scissione nucleare imminente sta accadendo sotto la mia falange; la spina la sento che è rigida come il ghiaccio, quando il sangue caldo toccherà la vertebra ialina vedrò, vedranno, il paradiso al centro del mio corpo. Vi fu un tempo remoto, in cui nulla era non sabbia non mare non gelide onde. Non c’era la terra, né il firmamento, ma una voragine immane dove la mia vita è iniziata, dove un’altra stava crescendo e ora al suo posto crescevano lenti e freschi ciuffi d’erba.

Bibliografia
J. Baggott, Origini. La storia scientifica della creazione, tr. it. di I. C. Blum, Adelphi, Milano, 2017
G. Génette, Figure III, tr. it. di L. Zecchi, Einaudi, Torino, 1986
M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Dalla Parte di Swann,  tr. it. di G. Raboni, Mondadori, Milano, 1983:128
S. Sturluson, Edda, a cura di G. Dolfini, Adelphi, Milano, 1975:52,53

Storia del Re Supremo e della sua Creazione

Ilaria Elmo, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva la Creazione divina, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

La mia riscrittura propone una rivisitazione delle origini bibliche in chiave fantastica. Infatti il suo contenuto aggiunge un tocco di magia e d’incanto modernizzando il tema stesso e avvicinandolo alle nuove generazioni.

*

C’era una volta, prima che tutto nascesse, un essere talmente potente da non poter essere comparato a nessun altro. La sua bellezza era impareggiabile, così come la sua bontà e il suo senso di giustizia. Nel corso dei secoli avrebbe avuto diversi nomi, e, perciò noi lo chiameremo semplicemente Re Supremo.

Il Re Supremo viveva in uno splendido castello, al di sopra di tutto l’Universo. Egli poteva avere qualunque cosa desiderasse, ma dopo un po’ di anni iniziò ad annoiarsi, a causa della solitudine. Nonostante non gli mancasse nulla all’interno della sua maestosa dimora, sotto di essa c’era il vuoto assoluto; perciò il Re supremo decise di creare un mondo gradevole da osservare in cui potesse esserci vita.

Egli compì la sua opera in sei giorni. Nell’arco della settimana si rese conto che la vista dal suo castello era sempre più bella e affascinante: poteva osservare le stelle luccicanti nel cielo e le acque scintillanti sulla Terra. Con il passare del tempo la terra acquistava vita e bellezza in ogni dove. I fiori e le piante presero vita e diedero tocchi di colore magnifici. C’erano rose, gigli, alberi da frutto e tutto ciò che si potesse immaginare. La terra acquistava sempre più l’aspetto di un’opera d’arte dalle mille sfumature. Dopo aver creato le piante, il Re Supremo decise di creare gli animali, perché popolassero il pianeta. Dato però che le apparenze possono ingannare è necessario specificare che sotto la magnificenza della Terra si nascondevano mille pericoli, e gli esseri che la popolavano dovevano lottare per la propria sopravvivenza.

Nonostante il Re Supremo avesse alleviato la propria solitudine popolando la Terra, non era ancora pienamente soddisfatto, quindi decise di creare gli esseri umani. Essi erano diversi dagli altri animali che popolavano il pianeta, al di sotto del castello: erano stati creati ad immagine e somiglianza del Re Supremo. Egli era talmente affezionato agli esseri umani che decise di farli vivere con sé al castello; questo per evitare loro di affrontare i pericoli della Terra sottostante. Gli uomini potevano usufruire di tutti i divertimenti presenti nella dimora del Re Supremo; l’unico divieto che egli pose loro era quello di non avventurarsi all’interno della Biblioteca Infinita: essa conteneva tutto il Sapere dell’Universo.

I mesi passarono e gli uomini, insieme al Re supremo, si divertirono tantissimo. Passavano le giornate ballando, cantando e sognando ad occhi aperti. Tutto sembrava perfetto. Ma la fine di quell’idillio si avvicinava a grandi passi.

Una notte, una ragazza di nome Eva, fece un sogno diverso dagli altri: sentiva il suo corpo muoversi senza che lei lo volesse e poteva vedere tutto al di fuori di esso. Vide sé stessa alzarsi dal letto senza alcun rumore e, con la massima circospezione, dirigersi lentamente verso la Biblioteca Infinita. Al suo risveglio provò sollievo nel constatare che si era trattato solo di un sogno e cercò di passare la giornata senza pensarci troppo. La notte seguente però il sogno si ripeté e così quella successiva. Il terzo giorno Eva non poté più fare finta di niente e, questa volta per davvero, si diresse verso la Biblioteca Infinita, per poi farvi ingresso. Al suo interno si perse, talmente tanti erano i volumi in essa contenuti. La giovane iniziò a leggerli, uno dopo l’altro; non poteva smettere.

Il Re Supremo aveva anche la capacità di essere a conoscenza di tutto ciò che accadeva all’interno delle mura del castello. Vedendo ciò che Eva aveva compiuto, la convocò urgentemente e le chiese spiegazioni. La giovane, non avendo altra scelta, raccontò al Re Supremo dei suoi sogni, verso cui non era riuscita ad opporsi. Egli, dopo aver ascoltato le parole di Eva, si adirò immensamente e per punirla condannò tutto il genere umano a vivere sulla Terra, tanto bella quanto piena di pericoli, per l’Eternità.

Bibliografia
La Bibbia, Nuova versione dai testi antichi,1° edizione settembre 2014, Genesi,Edizioni San Paolo, Milano