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Corso Re Umberto 75

Citato in
La mia casa, 1982, poi in AM, II: 803-806

Passo
Abito da sempre (con involontarie interruzioni) nella casa in cui sono nato: il mio modo di abitare non è stato quindi oggetto di una scelta. […] La mia casa si caratterizza per la sua assenza di caratterizzazione. Assomiglia a molte altre case quasi signorili del primo Nove­ cento, costruite in mattoni poco prima dell’avvento irresistibile del cemento armato; è quasi priva di decorazioni, se si eccettuino alcune timide reminiscenze di Liberty nei fregi che sormontano le finestre e nelle porte in legno che dànno sulle scale. È disadorna e funzionale, inespressiva e solida: lo ha dimostrato durante l’ultimo conflitto, in cui ha sopportato tutti i bombardamenti cavandosela con qualche danno ai serramenti, e qualche screpolatura che porta tuttora con l’orgoglio con cui un veterano porta le cicatrici. Non ha ambizioni, è una macchina per abitare, possiede quasi tutto ciò che è essenziale per vivere, e quasi nulla di quanto è superfluo.

Con questa casa, e con l’alloggio in cui abito, ho un rapporto inavvertito ma profondo, come si ha con le persone con cui si è convissuto a lungo […].

Fonte: http://www.atlanteditorino.it/approfondimenti/ippocastano.html

*

Questa è una delle parti centrali della Torino di Primo Levi: è il punto in cui iniziò e finì la sua vita, dove crebbe e visse ad eccezione dei periodi di lavoro fuori Torino, e ovviamente dell’oscura e vorticosa parentesi di Auschwitz. L’edificio è tanto importante che Levi vi dedica l’articolo iniziale dell’Altrui mestiere (pubblicato nel 1985), una delle sue più sentite e sincere prove di scrittura che racchiudono in sé tutta la bellezza del luogo (che sta, qui come nel detto, negli occhi di chi guarda).

Levi è chiaro: ammette sin da subito di sentirsi fortemente legato a quelle mura, tanto solide da resistere addirittura alla formidabile tempesta della Seconda Guerra Mondiale, e di sentirsi pienamente a proprio agio: ci sono, in particolare, tre similitudini di natura biologica che testimoniano questo legame. Nelle prime righe Levi scrive di sentirsi come «certi molluschi, ad esempio le patelle, che dopo un breve stadio larvale in cui nuotano liberamente, si fissano ad uno scoglio, secernono un guscio e non si muovono più per tutta la vita»: ecco il suo occhio entomologico che ritrova, nella natura delle cose, un correlativo in cui rispecchiarsi. In seguito, passa a dire che, se vi fosse separato (come tristemente gli toccò in sorte), si sentirebbe «come una pianta che venga trapiantata in un terreno a cui non è avvezza»: il metaforismo botanico di questa citazione richiama lo stesso di Cromo, nel Sistema periodico, dove questo paragone ricorre per indicare la stesura di Se questo è un uomo, quando Levi sperimenta appieno il potere catarticamente curativo della scrittura, grazie alla quale può esorcizzare i fantasmi del Lager. La terza similitudine si trova invece alla fine: «Abito a casa mia come abito all’interno della mia pelle: so di pelli più belle, più ampie, più resistenti, più pittoresche, ma mi sembrerebbe innaturale cambiarle con la mia». In queste parole, Levi suggella il sodalizio con uno dei suoi luoghi preferiti, il migliore per essere se stesso, che lo conosceva da tutta una vita, della quale fu costante punto di riferimento.

MOVIMENTO II – Morte in fiore

Alice Ferretti, in queste sue due composizioni, si concentra sulla nascita della vita come declinata secondo l’Edda poetica, proponendo una lettura personale e un suo disegno inedito. Il testo è stato sviluppato nell’ottica del corso Scritture delle origini I. I miti e la scienza, Letterature comparate B, modd. 1 e 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

Riparto dalla fine del primo movimento. L’uomo e la donna vivono nel mondo moderno e come nel mito dell’androgino desiderano tornare ad essere un unico corpo (acqua nel movimento I), ma l’unico modo che hanno per riuscirci e unirsi nell’atto d’amore. L’amore consumato porta la gioia, un senso di completezza che però scivola via e non può durare, così come neppure il loro essere giovani, innamorati, vivi. L’io cerca disperatamente un modo per sfuggire al tempo, rivolgendosi alle proprie mani e alla propria arte, ma non è in grado neppure di immaginare tutti gli infiniti momenti che vorrebbe insieme potessero passare e così si rivolge alla natura e le chiede di trasformarli in rosa: un fiore che ancora una volta li renda uno e che per il mondo sia monito di cosa vuol dire amare. La poesia si ispira a moltissimi temi affrontati durante il corso: il mito dell’androgino, l’atto creativo e la bellezza come cure alla morte e al tempo, l’incapacità dell’artista di creare la perfezione e l’infelice tensione all’infinito, la trasmutazione grazie all’amore. Inoltre sono ripresi diversi topoi ricorrenti negli stessi testi: il fiore e la rosa, gli occhi come tramite d’amore, l’arco d’amore, la fiamma della passione; e figure retoriche come la personificazione della Notte e del Caos.
Il testo si pone come controparte asimmetrica rispetto al primo: le prime strofe (se così si possono chiamare) riprendono la struttura ritmica e molto altro dal primo testo per segnarlo come sua continuazione naturale, ma questo movimento II presenta una strofa in più a chiusura e conclusione.

*

Ti ho cercata,

in corpi che non conosciamo[AF1] ,

mentre la Notte cammina

– tra lampioni spenti e lattine abbandonate –

ti ho cercata.

Vorrei ci riunissimo in un abbraccio che è di carne e di acqua,

scorre tra le pieghe della nostra vita arrossata.

Ma cammino solo.

Tu che scompari lontana, con i piedi che strisciano l’asfalto

E lo trasformano

in polvere, e vapore di brina [AF2] 

che annebbia e rattrista ogni cosa.

Mentre sdraiamo i nostri piedi su questa strada

È l’Amore che cammina.

Chiudo forte questi occhi che non hanno che la tua immagine a mira[AF3] , perché sei il mio eterno presente, dove non ci sono rimpianti

Ma solo sogni da sperare e speranze da scoprire.

E il tempo è il tiranno contro cui lottare

E che ci insegue da una vita,

in lungo e in largo,

fino a spingerci lontano,

lontano[AF4] .

Ti sento andare a fuoco,

la pelle rientrare,                        

i tuoi battiti aumentare,

Le tue carni calde che premono sulle mie

i nostri corpi trasformare

questo abbraccio che ci unisce, non è privilegio di un mortale.

“Ti voglio”

Lascio che il desiderio ci scivoli addosso,

che i respiri si mischino piano.

Vorrei riassorbirci, cancellarci in uno: eliminiamo le distanze

Di quest’esistenza solitaria.

Ma cammino solo.

Ci attraiamo e ci allontaniamo. [AF5] 

Cammino solo.

E il mondo resta fermo a quest’incrocio

Tra ciò che siamo e ciò che sentiamo. [AF6] 

Ti stringo.

E ci stringiamo.

Ci allontaniamo e ci attraiamo.

“Ti voglio”.

Ma l’Amore resta fermo a quell’incrocio

Tra ciò che non sappiamo e ciò che non sentiamo.  [AF7] 

Solo l’eco del tuo bacio rimbomba

Come una fiamma[AF8]  nel mio ventre

Che non muore e non si estingue

Vorrei plasmarla per creare

Il tuo volto

Su questo foglio sottile

E stringerlo tra i palmi

E poterci annegare[AF9] .

Che se la morte poi dovesse venire

Sarei fuggito e ti avrei salvata

Al sicuro dipinta tra parole

Sussurrate dalle mie labbra

e trasformate in futuri mai avvenuti

che solo così potrò avverare.

Ma a me non appartiene

né foglio né inchiostro [AF10] 

E soffro e desidero. [AF11] 

E quando ti guardo negli occhi

E le tue labbra sfioro

Non ho più corpo da cercare[AF12] 

E semplicemente sono.

E allora, se poi dovessi andare,

Pianterò per noi una rosa

che al mondo i suoi petali ricordino qualcosa [AF13] 

e che la sua essenza [AF14] ci confonda[AF15]  ancora. [AF16] 


[AF1]I corpi così definiti e separati, così diversi dall’essere acqua fluida che scorre e muta

[AF2]L’oggetto rimanda alla condizione prima della vita che provoca una tristezza nostalgica e inconsapevole

[AF3]Il topos dell’arco d’amore legato al topos degli occhi

[AF4]È l’eco, della solitudine e della voce amata, che raddoppia l’espressione della solitudine

[AF5]Quello che in Movimento I era il moto ondoso dell’acqua, nel Movimento II è l’oscillare dei corpi nell’atto d’amore

[AF6]Il mondo bloccato dal sentimento d’amore è pronto ad avanzare, perché sentirsi uno non è esserlo: l’abbraccio dovrà sciogliersi. 

[AF7]Ora è l’Amore ad essere bloccato, perché gli innamorati non sanno che l’essere uno era il loro stato originale

[AF8]Il topos della fiamma come simbolo della passione è qui al contempo tramite della passione amorosa e della passione creativa

[AF9]Il verbo richiama volutamente l’acqua elemento portante del Movimento I, e fa riferimento all’annullamento come individuo ma anche all’immergersi nel proprio subconscio, come in un liquido amniotico che preserva e rigenera.

[AF10]Ma l’artista non ha il mezzo né il concetto per poterli salvare dal tempo

[AF11]Citazione da Tramontata la luna di Saffo.

 [AF12]Ripresa dei versi iniziali

[AF13]L’Amore è incomunicabile, non può essere spiegato o insegnato, ma è sentimento ancestrale che la bellezza risveglia.

 [AF14]Il profumo è il primo dei sensi che sviluppiamo, e la memoria olfattiva è profondamente legata all’affetto.

[AF15]Ripresa di verbo dal Movimento I, usato lì proprio per indicare i corpi che si mescolavano nel momento della creazione: qui è l’iter inverso.

[AF16]L’ultimo verso è il trionfo dell’amore. Allo stesso tempo la sua rinuncia: i due innamorati riescono a tornare uno, ma non recuperano il loro corpo materiale.

MOVIMENTO I – Genesi dall’acqua

Alice Ferretti, in queste sue due composizioni, si concentra sulla nascita della vita come declinata secondo l’Edda poetica, proponendo una lettura personale e un suo disegno inedito. Il testo è stato sviluppato nell’ottica del corso Scritture delle origini I. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1-2, prof.ssa Chiara Lombardi.

Riprendendo la parte in versetti e alcune versioni dell’origine riportate dagli Asi, tento di riscrivere del passaggio dal caos alla vita. Come fa l’Edda riconduco il principio vitale all’incontro tra gelo e calore, e in particolare all’acqua che, trasmutando prima in vapore e poi in brina, dà forma alla prima figura d’uomo, nel testo semplicemente un corpo, e tornando acqua sotto forma di sudore origina l’uomo (versione di Har, capitolo 5). Scelgo l’acqua non solo perché elemento centrale alla narrazione delle origini norrena, ma anche per il suo fluire e mutare di stato che certo può essere associato alla metamorfosi. La forma scelta per la riscrittura è quella di una prosa liricizzata, che permetta con le assonanze di ricostruire il fluire e mutare dell’acqua, non lento ma agitato e turbato affinché trasmetta la sensazione di angoscia che pensare al caos mi porta, e in rimando a quella malvagità che i norreni attribuivano intrinsecamente a ogni cosa.

*

Nulla che grida al vuoto,

il tempo remoto che rinnega i pensieri[mf1] ,

il caos di cosa non è

– né sabbia né mare né onde –

e ha spazio ma nessun luogo.

Una voragine immensa che squarta, violenta,

scartavetra una terra e una volta del cielo che non ci sono.

Non cresce ancora l’erba.

Io che fluisco lontana, come schiuma velenosa[mf2] 

che indurisce e diventa ghiaccio

e, quando ghiaccio mi faccio,

mi disperdo in vapore di brina, e ricompro ogni cosa.

È innumerevoli inverni prima che la terra sia creata,

ma nel nulla c’è odore di primavera[mf3].

Trasudo forte [mf4] questo gelo vitale che crea il passato che non so,

perché sono un eterno presente, dove non ci sono ieri

ma solo spazi già inondati e quelli da coprire.

Ed il domani è un verbo[mf5]  contro cui andare

e che mi sale da una vita,

su e giu, giu e su,

fino a spingermi lontano,

lassù[mf6].

Mi sento andare a fuoco,

le molecole rientrare,

gli atomi sfrigolare.

Le arie calde che premono sulle gocce,

la mia massa trasmutare.

Colui che invia questo calore ha una parola solida, letale[mf7] .

“Smettila”

Lascia che il caldo [mf8] mi scivoli addosso,

che le gocce scorrano piano.

Vorrei riassorbirle; cancellarci in una: eliminiamo le tracce di questo smarrimento momentaneo.[mf9] 

“Lasciaci andare”

Ci allontaniamo e ci attraiamo.[mf10] 

Mi aggrego e sono nato.

E, solo, regno dormiente in questa sala profonda,

senza né volta né pavimenti.

E mi agito.

E ci agitiamo.

Ci attraiamo e ci allontaniamo.

“Lasciaci andare”.

Siamo acqua che è confusione: non ci capisco più niente.

Gocce di sudore che confondono i contorni di questo corpo.[mf11] 

Li mischiano, li sbavano, indeboliscono.

Acqua che è movimento, che è terrore, è panico,

aiutami, aiutami,

dimmi che non c’è niente da temere,

perché va tutto bene, perché ci siamo immaginati ogni cosa, e se non è così

dimmi che è tutto a posto,

perché siamo un tutt’uno, perché non siamo cambiati,

e se siamo cambiati non importa,

perché siamo io e te

assieme.[mf12] 

Acqua che si asciuga e ci forma.

Siamo l’uomo e la donna.


[mf1]Il pensiero è associato agli esseri viventi, e siamo in un passato dove non c’è vita.

[mf2]La coppia è ripresa direttamente dalla traduzione dell’Edda di riferimento.

[mf3]La primavera rappresenta la vita che nasce.

[mf4]Ripresa di “respiro forte”, associabile a un momento di concentrazione prima di un’azione particolare, e rielaborato sul tema dell’acqua e del liquido: un dare che è generare; lo scorrere del sudore; il mutare della fatica in liquido…

[mf5]Qui per ‘ordine’: l’acqua va letteralmente incontro al domani, rappresentazione dei luoghi davanti a lei; allo stesso tempo è prigioniera di un corso tracciato, un fato a cui nel tentativo di opporsi finisce per sottostare “su e giù…. lassù”(ripresa della concezione greca, sull’esempio del mito edipico). 

[mf6]La creazione è legata generalmente a una divinita celeste.

[mf7]La frase si apre con “Colui che invia questo calore”, ripresa pari dalla traduzione dell’Edda di riferimento. L’associazione di questa identità, indefinita ma certa, a “parola” è un rimando ai testi biblici, dove la parola è emanazione del potere divino, qui “letale” perché appartenente a colui che ha potere sulla vita e sulla morte, ma allo stesso tempo designata solo nella sua componente negativa per un’associazione degli opposti: il gelo vitale (v.14) opposto al calore letale. 

[mf8]Come in Blake, il principio vitale e l’evoluzione vengono dagli opposti: il caldo scioglie il ghiaccio, e permette alle gocce di assumere nuova forma.

[mf9]Il cambio continuo tra prima persona plurale e prima persona singolare, e viceversa, fa riferimento alla natura particellare dell’acqua e dei corpi.

[mf10]Movimento degli atomi al variare della temperatura.

[mf11]Una variante significativa dalla prima stesura “confondono i contorni di questo abbraccio”: gli atomi si legano gli uni agli altri per formare la materia (corpo).

[mf12]La forma è stata preferita ad “insieme” perché la s mima il rumore dell’acqua, e l’assimilazione consonantica trasmette un idea di coppia e di indivisibile.

Rivoluzione a colori

Giulia Rista, in questa sua composizione, si concentra sul concetto di arte come forza creatrice. Il testo è stato sviluppato nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1-2, prof.ssa Chiara Lombardi.

Il mio racconto si pone l’obiettivo di nobilitare l’attività artistica, sia essa letteraria, figurativa o di altro genere. Il personaggio principale trova nella pittura non solo un rifugio, ma lo strumento per una nuova genesi del suo mondo, il quale subisce una vera e propria trasformazione; in questo senso, la figura di Milo viaggia in parallelo con i grandi protagonisti dei miti delle origini. Ho tratto ispirazione, per l’ambientazione di questo testo, da Zaandam, cittadina olandese dove Claude Monet ha operato per svariati anni: ho scelto di riportare un suo dipinto che mostra in maniera particolare il trionfo del colore sul grigio piattume della realtà, contrasto a mio parere emblematico del percorso di formazione cui il protagonista della storia è sottoposto. 

*

Milo era venuto al mondo in un giorno d’inverno, uno di quelli in cui il peso inerte dell’aria grava sulle tue spalle e ti schiaccia al suolo. I suoi occhi si erano aperti su uno scenario di pareti grigie e facce indistinte, mentre, fuori dalla finestra, il cielo plumbeo pareva una lastra di metallo su cui la mole informe dell’ospedale si specchiava.

La stessa vena di opacità era riecheggiata nei successivi anni della sua vita, spesi tra i corridoi immobili della scuola e gli anfratti rinsecchiti del giardino di casa; più tardi, si era iscritto a economia e aveva intrapreso la carriera di commercialista: forse non aveva perseguito una passione bruciante, ma si era guadagnato un posto nel mondo e tanto bastava.

Nel frattempo, aveva avuto una buona dose di amici e perfino alcune donne, ma non poteva dire di aver mai provato alla bocca dello stomaco quella sensazione di cui sentiva parlare con sempre maggiore frequenza, e che si diceva fosse in grado di domare anche i cuori più reticenti. Nel pieno crepuscolo della seconda decade della sua vita, infatti, Milo si era reso conto che tutti attorno a lui si ostinavano a menzionare il grandioso sentimento che inizia per A, e a chiedere quando si sarebbe deciso a sposare Agatha, la sua ragazza: era stato più per mettere a tacere quello sciabordio di voci che per altro se alla fine i due si erano sposati davvero.

A quarant’anni, Milo ancora non riusciva a smettere di rimuginare sulla propria incapacità di amare la moglie. La notte, quando la camera era silenziosa e la saracinesca abbassata, teneva gli occhi sbarrati a fissare l’oscurità e corrugava la fronte. Perché non provava niente? Era sempre andata così: si era compiaciuto dei sentimenti mediocri, delle abitudini ordinarie e dell’aspetto lineare e sbiadito della sua intera esistenza.

Una mattina, il peso dei pensieri gli sembrò insopportabile, e provò il desiderio impellente di allontanarsi da una realtà che d’improvviso gli andava stretta. Così prese la valigetta da lavoro, uscì dalla porta di casa e si incamminò per le strade deserte e polverose.

Sentiva un’intercapedine dentro, come se il sole del mattino fosse una sorta di gigantesca aspirapolvere che gli stava risucchiando l’anima. Attraversava il lungo ponte che tagliava in due la città: lontano, sull’acqua sotto di lui, vedeva il riflesso dei grandi mulini che costeggiavano il lago. Una brezza gelida gli sferzava le guance, quasi ferendolo.

Fu solo quando il suo respiro si fece corto che Milo si fermò di colpo: i gomiti appoggiati alla ringhiera, si sforzò di respirare a fondo, mentre scrutava l’acqua torbida al di là del parapetto e immaginava di lasciarsi cadere a peso morto. Di nuovo, scorse il riflesso di un grande mulino, un cono dall’intonaco verde pallido che distava solo di qualche metro dal ponte. Un ricordo affiorò alla sua mente: Agatha che, con la testa adagiata sulla sua spalla e un sorriso sereno in volto, gli confessava di amarlo, lasciando che le sillabe ruzzolassero fuori dalla bocca e che il vento le trasportasse verso uno di quegli imponenti edifici. Forse le pale avevano catturato le parole e le avevano fatte proprie per sempre, perché, anche se Milo non aveva replicato, un silenzio inattesamente rilassato era calato tra i due, e Agatha non aveva preteso alcuna risposta; lui l’aveva scrutata in volto, convinto di scorgere del disappunto, ma non aveva trovato altro che la stessa pace di poco prima. Dieci mesi più tardi si erano sposati.

Ora Milo avvertiva il battito cardiaco normalizzarsi, e una nuvoletta di condensa si faceva largo tra le sue labbra ad ogni respiro. Fece per riprendere il cammino lungo il ponte, quando con lo scarpone urtò qualcosa di rigido che andò a sbattere contro il parapetto e produsse un rumore metallico; una volta raccolto l’oggetto da terra, Milo constatò che si trattava di un taccuino rilegato in cuoio ormai vecchio, e che le pagine ruvide, benché sgualcite dall’umidità, erano perlopiù intonse. Un sorrisetto sbilenco gli sollevò un angolo della bocca nel momento in cui ricordò che, da bambino, un blocchetto da disegno simile a quello aveva rappresentato per lui il più grande tesoro.

Come gli piaceva disegnare! Non lo aveva più fatto dai tempi dell’infanzia, troppo preso dall’etica del ceto medio e intento ad accantonare tutto ciò che non gli avrebbe portato profitto. Gettando una rapida occhiata alla valigetta, e voltandosi poi a perlustrare il ponte, un’idea percorse furtiva l’anticamera del suo cervello: chissà se ne era ancora in grado. Si chinò, aprì la valigetta ed estrasse una matita.

Visto attraverso le sbarre del parapetto, il mulino sembrava più snello e più alto: Milo, seduto a terra, ebbe qualche attimo di esitazione, ma poi iniziò a tratteggiare i contorni dell’edificio, curandosi appena di rimanere fedele al soggetto. Era trascorsa solo una manciata di secondi, quando gli parve di sentire un vago pizzicore al braccio; non avrebbe saputo descriverlo, ma era come se il foglio fosse pervaso da una lieve scarica elettrica che attraversava il legno della matita e si propagava nelle dita della sua mano. Inizialmente ne fu quasi infastidito, ma poi la sensazione iniziò a farsi sempre più piacevole, fino ad avvolgerlo come un vento caldo. Nel momento in cui iniziava a delineare il profilo delle pale, Milo era ormai preda di una vera e propria euforia che gli faceva sgranare gli occhi e tracciare con la matita segni sempre più rapidi. Per la prima volta dopo tanto tempo, si sentiva felice, come se la sua intera esistenza non fosse stata altro che un preludio a quel momento di puro piacere e stesse iniziando solo allora a vivere.

Improvvisamente, un pensiero gli fece alzare di scatto la testa. “Ci vuole un po’ di colore” si disse, il viso tornato serio e una nota di urgenza nella voce. Poi si allontanò a grandi passi dal luogo della sua arte. Era la seconda volta, quel giorno, che un impulso involontario lo spingeva a correre.

*

Entrare in casa era stato come ritrovarsi immerso nello smog della città dopo aver respirato a pieni polmoni l’aria limpida e sottile della montagna, ma ora tornava a inebriarsi di quella purezza: dipingeva, e le pennellate non si limitavano a decorare le pagine del blocchetto, ma coloravano pian piano la sua stessa vita, fino a quel momento grigia e fiacca e spenta e labile. Per la prima volta i suoi sensi si acuivano, il cielo si faceva più terso, l’erba era di un verde più brillante e, un paio di metri più in là, il lago era trasparente. Sotto il suo tocco, il disegno del mulino sbocciava come un fiore, e le pale rosse parevano fragole di cui riusciva quasi a sentire il profumo, forgiate nel fuoco della sua frenesia.

“Ma l’amore!” gridava. “L’amore!” Ora lo sapeva anche lui: provava quello che gli altri provavano, un sentimento che si schiudeva nel suo petto come uova raccolte di fresco. Sollevava gli occhi al sole di ottobre e lo ringraziava per la sua luce. Apriva le braccia e chiedeva al mondo di pervaderlo, gli offriva la sua protezione incondizionata. Avrebbe sacrificato il suo corpo per lui, ogni cellula scissa dalle altre e donata al cosmo affinché facesse di sé qualcosa di più.

“Sono nato per essere un artista” si ripeteva. Malediceva tutto quello che l’aveva fatto sentire piccolo o mediocre o insignificante. Doveva dipingere, e sentiva quell’esigenza esplodergli dentro e fare a brandelli la sua vecchia anima, ormai secca e raggrinzita. Ne aveva bisogno, perché la realtà non gli bastava.

Il resto della mattinata trascorse veloce, ma Milo non rincasò per pranzo; voleva, doveva rimanere lì, anche se aveva terminato il primo disegno e si accingeva a iniziarne uno nuovo. Nemmeno a pomeriggio inoltrato si decise a rientrare, e fu solo quando il sole era tramontato da un pezzo e il buio gli impediva di distinguere nitidamente i colori che si trovò costretto a interrompere il suo operato. “Però non posso andarmene” si disse. Decise di dormire sul ponte: era convinto che, una volta spiegato tutto ad Agatha, lei avrebbe capito.

Si concluse così quello che gli era sembrato il primo giorno della sua vita.

Quella notte non dormì, intento a studiare nuove angolazioni per i suoi dipinti e a rimuginare sulle tecniche da impiegarsi; una volta sorto il sole, non volle perdere tempo e si mise subito all’opera. I piedi gli dolevano per le ore trascorse al freddo, non sentiva più la punta delle orecchie e le dita presentavano piccoli tagli arrossati, ma nulla di tutto ciò aveva importanza: quel giorno avrebbe riprodotto il mulino blu, e poi quello giallo, e poi tutti e due insieme.

Nel tardo pomeriggio, Agatha lo trovò mentre mordicchiava la matita. “Milo” gli corse incontro. “Mi hai fatta stare in pena. Stai bene?”

Milo le disse che stava bene, che aveva trascorso la notte al motel perché era molto stanco e che sì, aveva mangiato, al chiosco di panini più in là. Non era vero: non toccava cibo da più di un giorno; eppure il suo stomaco non sembrava patire la fame. Il suo corpo era impermeabile alle comuni esigenze umane, e Milo quasi le ripudiava.

Agatha era preoccupata, ma il viso di suo marito irradiava per la prima volta una gratificazione tale che alla fine decise di concedergli ancora qualche ora con i suoi schizzi, facendosi promettere che l’avrebbe rivisto a cena.

Milo, però, non aveva intenzione di tornare. La vita non gli mancava: quella era vita. Temeva il momento in cui avrebbe rivisto la sua casa fatta di mattoni, e cercava di allontanarlo da sé il più possibile; ora sapeva che non si poteva essere uomini e felici, ma artisti e felici… Questo forse sì.

Non tornò da Agatha neanche a tarda notte. Il giorno dopo, la donna si presentò nuovamente sul posto: nonostante i movimenti frenetici delle mani, Milo era pallido, smunto; i suoi occhi erano cerchiati e ridotti a fessure, come se si rifiutassero di rimanere aperti, e le guance scavate gli conferivano l’aspetto di un malato. Indossava gli stessi vestiti da quasi tre giorni.

Agatha tornò a reclamare la sua presenza più volte, ma fu tutto inutile: i giorni passavano e Milo non si decideva a schiodarsi da lì. Era in una sorta di trance, e il suo mondo finiva laddove i contorni del blocchetto da disegno cedevano il posto alla realtà.

“Ora basta.” Agatha si sforzava di suonare il più autoritaria possibile, ingoiando la frustrazione che le riempiva il petto. “La tua passione ti sta logorando. Devi venire a casa, metterti dei vestiti puliti, tornare al lavoro. Non te lo ripeterò.”

Milo continuava a tenere gli occhi fissi sul blocchetto. Sembrava non sentirla nemmeno.

Esausta, Agatha alla fine si sedette accanto a lui. “Milo.” Ora la sua voce era rotta: le parole tremolavano, sospese nella luce fioca. “Voglio portarti via da qui.”

Per la prima volta dopo diversi giorni, Milo alzò lo sguardo e la scrutò, gli occhi grandi come la luna che cominciava a spuntare in cielo e velati da quella che sembrava una lancinante compassione.

“Andremo lontano dal lago e dai mulini. Possiamo ricominciare insieme.”

Milo non parlava. La fissava con aria contrariata, come se l’idea di muovere anche un solo passo lo scocciasse e intaccasse i suoi progetti.

“Io partirò comunque” proseguì Agatha, recuperando parte della sua autorevolezza. “Puoi decidere di venire con me, oppure di essere solo.” Parlava in tono duro, i lineamenti resi spigolosi dalla collera, ma, quando fece una pausa, il suo viso si addolcì, e gli occhi si fecero umidi mentre, in un estremo tentativo, aggiungeva: “La scelta è tua. Ma io ti sto pregando: torna da me.”

Milo deglutì mentre continuava a guardarla – sentiva la bocca asciutta. Spostò gli occhi sul dipinto che stava ultimando, poi sui mulini al di là del parapetto, poi di nuovo su Agatha. Lentamente, allungò le dita verso di lei e le prese la mano.

*

Una giornata tersa. Uno stormo di uccelli che si librano nell’azzurro. Un uomo in piedi su un ponte, che porta vestiti sdruciti e una lunga barba incolta. Ha le mani devastate dai calli e le unghie sporche di colore; guarda verso l’orizzonte, ammiccando e stringendo gli occhi, e cerca di intravedere tra le pale dei mulini due parole che vi sono rimaste intrappolate tanto tempo fa. Non vuole liberarle dalla tirannia dei mulini, né tentare di riprendersele: vuole solo essere certo che siano lì, perché significherebbe che una parte di Agatha non è mai andata via.

Poi Milo si siede, afferra un pennello, sorride e torna a dipingere.

Bibliografia
Ovidio, Metamorfosi, libro I, tr. it. di P. Bernardini Marzolla, Einaudi, Torino, 2015
Esiodo, Teogonia, tr. it. di G. Arrighetti, BUR, Milano, 2020
Michelangelo, Rime, a cura di P. Zaja, Rizzoli, Milano, 2010
Pierre de Ronsard, Premier livre des amours, intr., bibl., relevé de variantes, notes et lexique par Henri Weber et Catherine Waber, Paris, Garnier, 1963 
Snorri Sturluson, Edda, a tr. it. di G. Dolfini, Milano, Adelphi 2019
Bibbia, Genesi I, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2006

C’era una volta una cavaliera

Irene Giovannini, in questa sua composizione, rielabora in chiave ironica e femminista il Venus and Adonis di William Shakespeare. Il testo è stato sviluppato nell’ottica del corso Scritture delle origini. Dal Rinascimento a Leopardi. Letterature comparate B, mod. 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

Dal mio stupore nel vedere la dea dell’Amore supplicare colui di cui è innamorata di concederle attenzioni, oltre che dal mio personale interesse nell’approfondire e rivalutare il ruolo della donna nella società contemporanea, deriva la scelta di proporre una lettura della figura di Venere che abbracci in parte quella shakespeariana, ma che si ponga l’ambizioso obbiettivo di proporre una versione originale largamente indipendente dalla fonte. La figura femminile non viene elogiata per la sua bellezza, ma per forza, coraggio e determinazione. Al contrario, l’uomo si spoglia della tradizionale virtù per indossare i panni di un giovane narcisista, il cui atteggiamento richiama, in parte, quello di Adone. Ho, quindi, adottato il genere della favola per bambini, utilizzando l’ironia per evidenziare il ribaltamento dei ruoli tradizionali e rendere innovativo, e spero divertente, il racconto. Probabilmente se Shakespeare leggesse questa riscrittura, si indignerebbe. Tuttavia, se io potessi tornare alla condizione di spensierata infante quale ero, mi piacerebbe crescere capendo che essere fiere di sé stesse e credere nelle proprie capacità vale più di quanto non si pensi.

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C’era una volta una cavaliera[1]. Sì, avete capito bene: proprio una cavaliera! Armatura, elmo, un cavallo bianco e una spada: tutto ciò di cui bisogna essere dotati per affrontare un’avventura. Rosalinda[2] non era particolarmente bella né alta né magra, ma era coraggiosa, perspicace e, soprattutto, deteneva il record di migliore cacciatrice di draghi di tutta la valle di Sospiro Ventoso. Rosalinda non aveva paura di niente: era stata allevata nella Foresta del Tasso Puzzone[3] da una famigliola di lepri che, nonostante le volessero un gran bene, le avevano insegnato come cavarsela da sola e ad affrontare i pericoli. Pensate che a soli cinque giorni era già in grado di arrampicarsi sugli alberi e a sette giorni di domare un lupo cattivo! Quando divenne abbastanza grande per sconfiggere un Drago Fiammarossa, partì con il suo destriero, pronta a scoprire il magnifico mondo che si trovava oltre i confini della Foresta. Dovette resistere alle intemperie, attraversare mari e monti, sopravvivere alle insidie degli Gnomi Brutticeffi, fuggire da un Orco. Insomma, dimostrò innumerevoli volte il proprio coraggio.

Un giorno giunse alla corte di Re Igor il Pezzato. Il sovrano, che soffriva evidentemente di sudorazione eccessiva, la accolse con un ricco banchetto e alcuni omaggi: una forma di fontina, qualche pennacchio nuovo e un liuto realizzato per lei da Mastro Centomani. Rosalinda rimase soddisfatta dei doni ricevuti, anche se di quel liuto proprio non sapeva cosa farsene: l’unica cosa che sapeva suonare, e anche discretamente, era il guscio di tartaruga! Re Igor aspettò che Rosalinda terminasse il suo pasto: la giovane divorò otto cosce di pollo, trenta code di lucertola, cinque panini con la frittata di uova di rana e mezza torta a sei piani con la fragola. Poi, il sovrano le chiese il suo aiuto: da tempo una bestia feroce spaventava i cittadini del regno e divorava il bestiame. Ormai l’inverno era alle porte e la gente sarebbe morta di fame, se qualcuno non avesse sconfitto al più presto quel mostro. Rosalinda non ci pensò neanche un momento: avrebbe lottato contro la terribile bestia. In cambio, però, voleva che il re le permettesse di andare a vivere nella vecchia Torre che si ergeva sulla vetta Oltremare. Re Igor acconsentì, dal momento che la Torre stava cadendo a pezzi e nessuno avrebbe mai voluto abitarci. Fu così che Rosalinda, legato il liuto alla sella del cavallo, partì alla ricerca dell’orrenda fiera. Trascorse alcune notti in una caverna: accese un fuoco, andò a caccia e si impegnò a suonare quello strambo strumento. In poco tempo comprese che ogni corda, se pizzicata, produceva un suono diverso, a volte più acuto a volte più grave, e che se suonava in sequenza tutti i suoni poteva realizzare una dolce melodia. Rimase incantata dalla propria capacità di imparare così in fretta, da sola, l’arte della musica, a lei sconosciuta fino a qualche giorno prima. Si sentì fiera e soddisfatta di sé stessa, quasi come quando aveva sconfitto un Drago Aspirasangue. Con questa piacevole sensazione chiuse gli occhi e si riposò: l’indomani avrebbe affrontato una grande sfida.

L’audace cavaliera si alzò all’alba, indossò l’armatura e partì. Stava cavalcando da ore nella fitta boscaglia del Grande Bosco, quando sentì un agghiacciante verso provenire da poco distante. Dopo essere scesa da cavallo, legò il proprio destriero ad un albero e, munita di spada e liuto, si addentrò tra i rovi. Improvvisamente udì urla umane. Strizzò gli occhi per vedere meglio e rimase in silenzio per qualche minuto. Poi, lo vide: un giovane stava correndo a perdifiato e ad inseguirlo era un’orribile fiera a tre teste con le zanne da cinghiale e il corpo di scimmia[4]. Rosalinda corse verso il mostro, sguainando la sua spada; quello, accortosi della presenza della cavaliera, lasciò perdere il giovane e si scagliò contro di lei. Rosalinda, non appena gli fu abbastanza vicino da vederne gli occhi rossi come il sangue, tentò di trafiggerlo con la spada. Si accorse subito però che la pelle del mostro era troppo dura: niente avrebbe potuto scalfirla. La bestia nel frattempo tentava di scagliarle contro alcuni tronchi d’albero, ma l’astuta cavaliera era così veloce da riuscire a schivarli tutti. Rosalinda ebbe una rivelazione: le tradizionali tecniche cavalleresche non sarebbero servite in quel caso; doveva usare qualcosa di speciale, qualcosa che solamente lei era in grado di fare. Tirò fuori il liuto e iniziò a suonarlo. La bestia si acquietò, chiuse gli occhi e si accasciò a terra, dormiente. Fu in quel momento che Rosalinda sferrò il colpo finale: sollevò un enorme masso e lo scaraventò contro il mostro, schiacciandolo. La forzuta cavaliera esultò, sentendo crescere in lei l’orgoglio di essere riuscita a portare a termine anche quel difficile compito affidatole. Stava raccogliendo da terra la propria spada, quando il giovane che poco prima aveva visto scappare le si avvicinò. La cavaliera ne osservò per un istante il bel volto, impreziosito da incantevoli occhi castani e labbra corallo. Il ragazzo, dopo essersi aggiustato i capelli ricciolini e aver ripulito la giubba rossa che indossava, si presentò come Ascanio[5], figlio del re Sonbello Manonballo e della regina Bella Delreame. Ammiccando, ringraziò la cavaliera per aver sconfitto la temibile fiera e avergli salvato la vita, permettendogli così di partecipare al concorso di bellezza “Il principe che tutte vorrebbero”. Come ricompensa propose alla giovane di darle un dolce bacio e di farle l’onore di renderla la sua principessa. Stava già chinandosi verso la cavaliera per baciarla, quando questa lo colpì sulla testa con il liuto. Poi, si allontanò, lamentandosi della frivolezza dei principi d’oggi.

Rosalinda fece ritorno alla corte di re Igor il giorno stesso: era decisa ad ottenere la propria ricompensa e a godersi il meritato riposo. Giunta a palazzo e annunciata la vittoria, ricevette le congratulazioni di tutti e il sovrano le consegnò le chiavi della Torre di Oltremare. La cavaliera fremeva dalla gioia e non indugiò oltre. Sellato il suo destriero, raggiunse la sua nuova dimora, dalla quale da quel giorno, ogni sera, intonò canti soavi accompagnata dal suo liuto. E visse per sempre felice e… fiera di sé stessa.


[1] Nonostante il termine non sia presente sul vocabolario di lingua italiana, ho scelto di utilizzarlo per mettere in risalto il ribaltamento del ruolo femminile all’interno del racconto.

[2] La protagonista non è una donna bisognosa di amore o una dea, ma una coraggiosa cavaliera. Viene così ribaltata la struttura tradizionale sia della fiaba, che vuole l’uomo come eroe, sia del poemetto shakespeariano, visto il focus non sulle vicende amorose e sulla bellezza, ma sull’esaltazione delle proprie capacità.

[3] L’ambientazione non è più il locus amoenus descritto da Shakespeare, ma un bosco insidioso.

[4] Il cinghiale che assale e poi uccide Adone in Venus and Adonis viene qui sostituito da un’orribile fiera dall’aspetto multiforme.

[5] La descrizione del giovane riprende l’Adone nel dipinto di Tiziano, Venere e Adone ( olio su tela, 186 x 207 cm, 1553), oltre che l’atteggiamento di Narciso (Metamorfosi, Ovidio)

Bibliografia
Ovidio, Metamorfosi, tr. it. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2015
W. Shakespeare, Venus and Adonis, tr. it. di V. Malosti, Marco Valerio Editore, Torino, 2007
Tiziano, Venere e Adone, olio su tela, 186 x 207 cm, 1553