Archivi categoria: universal

Ciabattino di San Secondo

Citato in
Arsenico, SP, I: 987

Passo
La mia bottega è in via Gioberti angolo via Pastrengo: ci lavoro da trent’anni, il ciabattino… (ma lui diceva “‘l caglié”, “caligarius”: venerando vocabolo che sta scomparendo)… il ciabattino di San Secondo sono io; conosco tutti i piedi difficili, e per fare il mio lavoro mi bastano il martello e lo spago.

*

Arsenico è una delle storie narrativamente a tutto tondo più originali nel Sistema periodico, ed è particolarmente importante perché Levi, stendendola, riesce a ritrovare un primo compromesso tra letteratura e finzione. Non sappiamo infatti se la vicenda narrata in questo racconto sia vera oppure no, ma sicuramente è verosimile: ci troviamo nel periodo in cui, alla ricerca forsennata di un lavoro, Levi decide di aprire un laboratorio chimico con l’amico Emilio (al secolo Alberto Salmoni), proprio nel cuore del suo quartiere, la Crocetta. Questo racconto si inserisce nel campionario di presenze umane legate al mestiere di chimico (clienti, collaboratori o corrispondenti) che fanno capolino nelle pagine di Levi: gli stessi esemplari umani di cui intende riprodurre un equivalente letterario quanto più concreto possibile (pur ricorrendo, qualche volta, all’arrotondamento fittizio).

Questo racconto è particolarmente importante perché possiamo vedere all’opera il grande talento da ritrattista di Levi: il personaggio del ciabattino, fondamentale per l’intreccio narrativo, è infatti rappresentato con un coefficiente di verosimiglianza davvero molto alto. Levi ne riporta i pensieri tramite discorso diretto e indiretto libero, e non dimentica di far trapelare la piemontesità del suo interlocutore, che a tutta prima gli sembra nulla più che un contadino di campagna spostatosi in città alla ricerca di fortuna (il signore parla infatti soltanto in piemontese, e non perde occasione di rispondere così a un giovane e timido Levi, preoccupato che la sua parlata dialettale risulti troppo libresca per essere vera).

Riuscì comunque nel suo intento, come leggiamo nell’estratto, in quanto divenne il ciabattino ufficiale del quartiere («il ciabattino di San Secondo sono io», con un riferimento toponomastico, citando l’adiacente omonima via), che tutti conoscevano. È infatti un profondo conoscitore delle signore anziane del posto, «quelle che hanno male ai piedi e non trovano, più nessun gusto a camminare e hanno solo un paio di scarpe» (Arsenico, SP, I: 988): le stesse che si affinano lui per farlo durare all’incirca in eterno quel mitico paio di scarpe da cui non avrebbero mai voluto separarsi. Il signore, ben consapevole della sua maestria nel mestiere, non esita a tirare acqua al proprio mulino e a porsi come un’istituzione del quartiere.

Con la fama, però, non tarda ad arrivare la concorrenza, e con essa i guai della competizione: il motivo che porta il signore a cercare l’aiuto di Levi ed Emilio ha proprio a che vedere con un regalo misteriosamente recapitato presso la sua attività. Si tratta di un pacchetto di zucchero alquanto sospetto, e il savio uomo anziano, non fidandosi di una tale gratuità, decide di far ispezionare il contenuto del regalo. Come in un vero e proprio giallo scientifico (il cui modulo narrativo ricorre più di una volta nel Sistema periodico), il giovane chimico Levi spende tutta una giornata ad analizzare questo zucchero e a cercare quale sia l’impurità presente in esso. Spicca in particolare, in questa cronaca, la rassegna di oggetti e procedure squisitamente chimiche che lo scrittore riporta, ricreando gesti, idee, attività e consuetudini tipiche di un giovane chimico alle sue prime esperienze lavorative.

Il rapporto clientelare è particolarmente importante in quanto è probabile che, nella mansione che il ciabattino chiese di svolgere a Levi, il nostro avesse rivisto una prova che aveva svolto per sua curiosità personale giusto l’anno prima. Così come il ciabattino aveva chiesto al giovane chimico di analizzare lo zucchero che gli era stato regalato in circostanze sospette, come ha scritto Fabio Levi citando Mark Bloch, anche Levi aveva già provato l’emozione di «interrogare le cose»: quando, di ritorno da Auschwitz e infervorato dal desiderio e dalla necessità di portare testimonianza della mortale esperienza vissuta entro i reticolati del campo di concentramento, il chimico Primo Levi vuole analizzare lo Zyklon B, il gas utilizzato da disinfestazione che i nazisti spargevano nelle camere di annientamento appositamente progettate per i loro prigionieri ebrei.

Alla fine della storia, la verità salta fuori: nel pacchetto di zucchero regalato, un altro ciabattino del quartiere, questo più giovane rispetto all’interlocutore di Levi, aveva inserito dell’arsenico per causare problemi al suo concorrente, oltre ad una campagna di screditamento pubblico con tutta la clientela locale. Ma il ciabattino anziano si riconferma saggio, e lascia il laboratorio di via Massena con una lezione, dopo aver specificato che non intende denunciare il rivale: vuole incontrarlo faccia a faccia, perché «è solo un povero diavolo, e non voglio rovinarlo. Anche per il mestiere, il mondo grande e c’è posto per tutti: lui non lo sa, ma io sì» (Arsenico, SP, I: 988).

Via Po – Cesare Levi

Citato in
Argon, SP, I: 873

Passo
[…] percorrevamo lentamente via Po, e lui si fermava ad accarezzare tutti i gatti, ad annusare tutti i tartufi ed a sfogliare tutti i libri usati. Mio padre era l’Ingegné, dalle tasche sempre gonfie di libri, noto a tutti i salumai perché verificava con il regolo logaritmico la moltiplica del conto del prosciutto. Non che comprasse quest’ultimo a cuor leggero: piuttosto superstizioso che religioso, provava disagio nell’infrangere le regole del Kasherùt, ma il prosciutto gli piaceva talmente che, davanti alla tentazione delle vetrine, cedeva ogni volta, sospirando, imprecando sottovoce, e guardandomi di sottecchi, come se temesse un mio giudizio o sperasse in una mia complicità.

Fonte: https://www.facebook.com/Torinopiemontevintage/photos/a.1511442105807240/2929669610651142/

*

Questo estratto proviene da Argon, il racconto che potremmo considerare il larario degli antenati ebraico-piemontesi di Levi. È il primo racconto del Sistema periodico ed è particolarmente importante perché, nei lineamenti dei personaggi descritti in questo testo, Levi ha fatto convergere non soltanto le proprie memorie, ma anche i racconti che aveva sentito dai propri amici, o nelle cerchie culturali che frequentava. Si tratta dunque di un’anticipazione dell’opera di smerigliatura che metterà in atto nella presente raccolta di racconti, dove il confine tra realtà e letteratura si ibrida sempre di più fino a divenire irriconoscibile, non permettendo al lettore di capire se i fatti raccontati siano realmente accaduti o meno.

Per quanto riguarda la figura di suo padre, però, possiamo credere con un buon margine di sicurezza che pressoché ogni informazione riportata fosse veritiera: Cesare Levi era un ingegnere che si recava in via Po per visitare la sua anziana madre quando Primo era ancora un giovane bambino. È più di un’intervista Levi ricorda che l’attenzione del padre verso i propri figli non era poi così incredibilmente spiccata: piuttosto, preferiva lavorare e lasciare la casa e l’educazione dei figli in compito alla moglie, pur accertandosi che alla sua famiglia non mancasse niente.

Durante la sua infanzia, Primo non spese infatti poi così tanto tempo con il padre, né strinse con lui un legame estremamente forte: nemmeno nei mesi che precedono la sua morte (a cui si allude di volata sempre nel stesso Sistema periodico, in Nichel) riesce a provare troppa compassione, ma anzi la rifiuta, sia perché non ha piena contezza della morte in sé sia perché inizia a capire che presto sarà su di loro il vortice che avrebbe sconvolto l’Europa in seguito alla Seconda Guerra Mondiale, allora sempre più consistente. Ciò nonostante, nei suoi scritti e specialmente nelle sue interviste lo ricorda con grande rispetto e in linea di massima molto positivamente.

Specie perché, come giustifica l’estratto, gli somigliava molto, specie nelle abitudini intellettuali: spiccano in particolare due elementi, quello dei gatti randagi e quello dei libri, entrambi comuni e rappresentanti di due forti passioni che aveva anche Levi junior. Anzi, forse, se seguiamo le indicazioni che aprono la Ricerca delle radici, scopriamo che a suo padre Primo Levi doveva in realtà molto: ad esempio per la biblioteca che gli aveva comprato quando era piccola, o quella che egli lasciò in eredità dopo la sua morte; oppure ancora per il forte credo scientifico che gli aveva trasmesso (come testimonia il regolo logaritmico), poiché il padre era un capace ingegnere che durante la sua carriera aveva raggiunto anche mete oltralpe. E, non da meno, per l’insegnamento religioso: anche per Cesare Levi la religione non era propriamente una ragione di vita, quanto +1 costume avito, da coltivare poiché gli era stato passato il testimone, da trasmettere a sua volta ai propri figli. Tuttavia, come ben giustifica l’estratto, era credente a metà: subiva male le imposizioni del suo credo, e non si faceva troppi problemi a non rispettare quelle che credeva fossero insensate, o comunque difficilmente tollerabile. Da lui suo figlio ereditò una cultura religiosa estremamente vivida e precisa, così come il distaccamento che potesse garantirgli pure esistenza serena pur nel rispetto (almeno apparente) della religione della sua famiglia.

Come per gli altri parenti piemontesi, la fine arte di ritrattista di Levi serve qui per bloccare sulla pagina una volta per sempre la particolare figura del padre, che ci viene offerta così come si era saldata nella sua memoria. Per una panoramica più completa, è possibile consultare almeno le interviste di P. Lucarini, Intervista a Primo Levi, 1983, III: 368-376; P. Terni, Primo Levi. La musica e i dischi, 1984, III: 396-422; A. Gozzi, Lo specchio del cielo, 1985, III: 515-527.

Via Po – Casa di nonna Màlia

Citato in
Argon, SP, I: 872-873

Passo
[…] in età avanzata si lasciò sposare da un vecchio medico cristiano, maestoso barbuto e taciturno, e da allora andò inclinando verso l’avarizia e la stranezza, quantunque in gioventù fosse stata regalmente prodiga […]. Col passare degli anni si estraniò totalmente dagli affetti famigliari (che del resto non doveva aver mai sentiti con profondità). […] Mio padre, ogni domenica mattina, mi conduceva a piedi in visita a Nona Màlia. […] Quando arrivavamo sul pianerottolo tenebroso dell’alloggio di via Po, mio padre suonava il campanello, ed alla nonna che veniva ad aprire gridava in un orecchio: «A l’è ‘l prim ‘d la scòla!», è il primo della classe. La nonna ci faceva entrare con visibile riluttanza, e ci guidava attraverso una filza di camere polverose e disabitate, una delle quali, costellata di strumenti sinistri, era lo studio semiabbandonato del Dottore.

*

Questo estratto proviene da Argon, il racconto che potremmo considerare il larario degli antenati ebraico-piemontesi di Levi. È il primo racconto del Sistema periodico ed è particolarmente importante perché, nei lineamenti dei personaggi descritti in questo testo, Levi ha fatto convergere non soltanto le proprie memorie, ma anche i racconti che aveva sentito dai propri amici, o nelle cerchie culturali che frequentava. Si tratta dunque di un’anticipazione dell’opera di smerigliatura che metterà in atto nella presente raccolta di racconti, dove il confine tra realtà e letteratura si ibrida sempre di più fino a divenire irriconoscibile, non permettendo al lettore di capire se i fatti raccontati siano realmente accaduti o meno.

Ritroviamo qui il personaggio di nonna Màlia (al secolo Adele Sinigaglia), la nonna paterna di Primo, madre di Cesare Levi, la cui memoria chiude il racconto. Dopo una storia familiare decisamente complicata che la vide spostarsi tra la provincia piemontese e Torino, riuscì a fermarsi stabilmente nel capoluogo piemontese, proprio in via Po (una delle vie più eleganti del centro cittadino), insieme al secondo marito (con cui contrasse matrimonio dopo essere rimasta vedova), il dottor Felice Rebaudengo, nonno acquisito con cui il piccolo Primo non sviluppò mai un vero e proprio rapporto, se non di soggezione.

In effetti, la caratterizzazione che la figura della nonna paterna assume nel ricordo del chimico-scrittore è decisamente chiara: già soltanto il pianerottolo dell’alloggio in cui abitano è «tenebroso», e la casa stessa è piena di inospitali «camere polverose e disabitate»; addirittura, Levi la descrive come una «vecchietta grinzosa, stizzosa, sciatta e favolosamente sorda nei miei ricordi d’infanzia più lontani» (Argon, SP, I: 872). Insomma, è tutto il contrario rispetto alle dimore degli antenati ebraico-piemontesi, i quali vivevano in grandi agglomerati familiari e gioivano della compagnia dei propri parenti. Al contrario, invece, nonna Màlia, forse spinta da un’amara vecchiaia a cui era approdata attraversando troppi problemi da vivere in una vita soltanto, forse scoraggiata e rinserrata nella sua solitudine dai problemi dovuti alla sua anzianità, «ci faceva entrare con visibile riluttanza», quasi come se non avesse un grande piacere di ricevere visite dal proprio figlio e dal primogenito nipote. Sembra non valere nulla, in questa perla di memoria, la simpatica frase che Cesare Levi sbraita alla propria madre che ormai poco riusciva a sentire: nonostante Primo sia presentato come il più bravo della classe (forse con un tirato gioco di parole legato al suo nome), l’anziana non sembra aver troppo riguardo dei propri ospiti.

A complicare ulteriormente il quadro della situazione, è «lo studio semiabbandonato del Dottore», quello che occupava una sola della trafila di camere inutilizzate, la quale era «costellata di strumenti sinistri». Il quadro memoriale offerto da questo estratto, se confrontato con quello degli altri avi di cui si parla nel racconto, non è per niente roseo, tantomeno vivido: quanto più lugubre, fosco, quasi oscuro, che giustifica poiché nonna Màlia non appare illuminata dalla stessa festante luce che ricade invece sui suoi altri parenti.

Via Po – Caffè Fiorio

Citato in
Argon, SP, I: 868

Passo
Da “rùakh”, plurale “rukhòd”, che vali “alito”, illustre vocabolo che si legge nel tenebroso e mirabile secondo versetto della Genesi (“Il vento del Signore alitava sopra la faccia delle acque”), si era tratto “tirè ’n ruàkh”, “tirare un vento”, nei suoi diversi significati fisiologici: dove si ravvisa la biblica dimestichezza del Popolo Eletto col suo Creatore. Come esempio di applicazione pratica, si tramanda il detto della zia Regina, seduta con lo zio Davide al Caffè Fiorio in via Po: “Davidin, bat la cana, c’as sento nèn le rókhòd!”: che attesta un rapporto coniugale di intimità affettuosa. Quanto alla canna, poi, era a quel tempo un simbolo di condizione sociale, come potrebbe essere oggi il viaggiatore in 1a classe in ferrovia […].

*

Questo estratto proviene da Argon, il racconto che potremmo considerare il larario degli antenati ebraico-piemontesi di Levi. È il primo racconto del Sistema periodico ed è particolarmente importante perché, nei lineamenti dei personaggi descritti in questo testo, Levi ha fatto convergere non soltanto le proprie memorie, ma anche i racconti che aveva sentito dai propri amici, o nelle cerchie culturali che frequentava. Si tratta dunque di un’anticipazione dell’opera di smerigliatura che metterà in atto nella presente raccolta di racconti, dove il confine tra realtà e letteratura si ibrida sempre di più fino a divenire irriconoscibile, non permettendo al lettore di capire se i fatti raccontati siano realmente accaduti o meno.

In ogni caso, comunque, quello che scrive qui è un ritrattista estremamente fine: è in grado di captare l’essenza dei suoi antenati e farli rivivere, anche in maniera irriverente (come giustifica ad esempio questo estratto), nelle pagine della raccolta in questione. E non solo: ci troviamo davanti ad una vera e propria testimonianza etno-socio-linguistica, poiché delineando il profilo di quegli ebrei torinesi che si erano assimilati (a modo proprio) nel tessuto cittadino, Levi ferma una volta per tutte sulla pagina tante interessanti caratteristiche di quei mitici parenti ormai scomparsi, con le loro strane abitudini e i loro particolarissimi modi di dire.

Ne leggiamo uno davvero singolare proprio qui: il detto dialettale «tirè  ’n ruàkh» è uno splendido esempio dell’ibridazione linguistica tra la lingua dei padri ebraici e il locale dialetto piemontese; come spiega Levi rifacendosi direttamente alle Sacre Scritture, l’allusione si può spiegare guardando ad un versetto della genesi, dove con «ruàkh» s’intende «alito». La zia Regina, che ha dato origine a un detto vero e proprio da usare simpaticamente quando si sentano rimbombare rumori e gorgoglii umani, indica proprio l’emissione di esalazioni ariose dagli orifizi corporali.

È una situazione decisamente comica, specialmente se la si immagina avvenire nel dehors del l’antico caffè Fiorio, ancora tutt’oggi uno dei bar più eleganti della centrale via Po (famoso per la bellezza dei suoi interni e per il saporito gelato lì prodotto), situato poco dopo il suo imbocco da Piazza Castello. Come nota anche la breve chiosa al termine dell’estratto, la «cana», e cioè il bastone da passeggio, era un vero e proprio simbolo di signoria: assolutamente adatto (a differenza del detto di zia Regina) al tenore della via prettamente borghese e commerciale che, diretta al fiume Po, attraversa il cuore della città. Sembra anche, peraltro, di sentir risuonare i lastroni che pavimentano gli ampi portici della via, schioccati dall’elegante e posato urto in apparenza casuale della canna, in realtà abilmente sfruttati per nascondere una verità decisamente più irriverente.

Vicolo Crocetta

Citato in
Idrogeno, SP, I: 876-877

Passo
Il fratello di Enrico, misterioso e collerico personaggio di cui Enrico non parlava volentieri, era studente in chimica, e aveva installato un laboratorio in fondo a un cortile, in un curioso vicolo stretto e storto che si diparte da piazza della Crocetta, e spicca nella ossessiva geometria torinese come un organo rudimentale intrappolato nella struttura evoluta di un mammifero. Anche il laboratorio era rudimentale: non nel senso di residuo atavico, bensì in quello di estrema povertà.

*

La Crocetta, uno tra i più belli e ricchi quartieri torinesi, situato nel centro a pochi passi dalla stazione di Porta Nuova, era il quartiere di Primo Levi: uno dei ricordi che ritroviamo nelle pagine del Sistema periodico ci riporta al periodo liceale. Nel racconto Idrogeno, in particolare, troviamo una delle più belle, significative e sincere lodi alla chimica, vista qui dagli occhi del giovane Levi che, affascinato e quasi stregato, crede di poter trovare in questo necessario sapere le chiavi per comprendere correttamente il mondo e le regole che governano il flusso della vita.

In Idrogeno è centrale anche la figura di Enrico (al secolo Mario Piacenza), uno dei compagni di studi nei confronti di cui Levi provava grande stima e ammirazione (e che lo accolsero con gioia al suo ritorno da Auschwitz). È una presenza molto importante per il suo periodo adolescenziale: è uno dei suoi grandi amici, tanto importante che è entrato a far parte del racconto in prosa della sua vita, nella quale è stato raffigurato con il personaggio di Enrico.

E, non di meno, del suo mestiere di chimico: profondamente legato alla lezione che l’idrogeno insegna ai due ragazzi, l’omonimo racconto riporta la storia di quando, sedicenne, primo Enrico vollero andare nel laboratorio del fratello di quest’ultimo per sperimentare di prima mano ciò che leggevano sui testi di scuola. Era all’opera ai loro danni, secondo quanto scriverà Levi, la ‘congiura gentiliana’ che li obbligava a preferire le materie che avrebbero rafforzato il loro spirito, a discapito invece di quelle più pratiche (come appunto la chimica). Appena si presenta loro l’occasione di poter saggiare da sé la materia che avevano conosciuto soltanto in via teorica, i due giovani si fiondano di nascosto nel laboratorio del fratello di Enrico e iniziano immediatamente ad armeggiare con qualsiasi cosa trovino a portata di mano. Il loro esperimento dimostra che il giovane Primo era quello più accorto e preparato tra i due: era certo grazie a Enrico che i due giovani inesperti potevano condurre queste piccole (ma tutt’altro che sicure) prove, ma non era sicuramente stata sua l’iniziativa di provare l’esperimento dell’elettrolisi, né l’acribia di dimostrare che i fatti seguivano esattamente la formula scritta solennemente alla lavagna. Primo, invece, si sentiva come un savio cerimoniere, e guidava l’amico alla scoperta dei misteri della materia.

E infatti Primo che, spinto e leggermente infastidito dall’indeciso scetticismo dell’amico che non si fida della lezione spiegatagli, vuole testare l’effettiva essenza dell’elemento: per provare all’amico la sua ragione, avvicina un fiammifero ad un contenitore pieno di idrogeno e innesca una piccola esplosione (al pari, sebbene in scala estremamente ridotta, dei fenomeni astrogonici che avvengono nello spazio cosmico). Nonostante i simbolici frantumi di vetro sul pavimento e la paura retrospettiva generata dall’avvenimento, Primo si sente pervaso da «una certa sciocca fierezza, per aver confermato un’ipotesi, e per aver scatenato una forza della natura» (Idrogeno, SP, I: 877): per aver previsto e sfruttato a proprio vantaggio il comportamento della materia pura.

Questo episodio è particolarmente significativo perché illustra come, sin dalla sua giovinezza, Levi cercasse il confronto pratico con il mondo intorno a sé: la chimica era quel sapere che gli permetteva di conoscerlo, di affrontarlo ad armi pari, magari prevedendone il comportamento e svelandone ogni segreto. Più e più volte Levi ritornerà su questo argomento, rivendicando l’importanza, per la sua formazione, di quel mestiere che lo aveva formato, che aveva svolto per più di trent’anni, a cui aveva dedicato (pur diversamente, dopo la pensione) tutta la sua vita.