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Corso Re Umberto – ippocastano

Citato in
Cuore di legno, 1980, AOI, II: 714

Passo
II mio vicino di casa è robusto.
È un ippocastano di corso Re Umberto;
Ha la mia età ma non la dimostra.
Alberga passeri e merli, e non ha vergogna,
In aprile, di spingere gemme e foglie,
Fiori fragili a maggio,
A settembre ricci dalle spine innocue
Con dentro lucide castagne tanniche.
È un impostore, ma ingenuo: vuole farsi credere
Emulo del suo bravo fratello di montagna
Signore di frutti dolci e di funghi preziosi.
Non vive bene. Gli calpestano le radici
I tram numero otto e diciannove
Ogni cinque minuti; ne rimane intronato
E cresce storto, come se volesse andarsene.
Anno per anno, succhia lenti veleni
Dal sottosuolo saturo di metano;
E abbeverato d’orina di cani,
Le rughe del suo sughero sono intasate
Dalla polvere settica dei viali;
Sotto la scorza pendono crisalidi
Morte, che non saranno mai farfalle.
Eppure, nel suo tardo cuore di legno
Sente e gode il tornare delle stagioni.

Fonte: https://www.facebook.com/Torinopiemontevintage/photos/a.1511442105807240/2603103959974377/

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Questa poesia è uno splendido esempio dell’attenzione alla vita di città che Levi, interessato alle specie animali e vegetali, non può fare a meno di notare. Dei viali torinesi, gli alberi sono forse la parte più notevole: delimitano il corso centrale dividendolo dai controviali e portano un fresco tocco di verde non poco importante nel quadro di una città in cui regnano sovrani cemento e asfalto. Questa veduta è quella che Levi poteva scorgere dal suo balcone, oppure ogni volta che varcava la soglia di casa sua: l’albero è, letteralmente, il suo «vicino di casa», e la sua vicinanza con Levi è innanzitutto di natura bio-geografica.

Come se dovesse offrirne una classificazione binomia per indicare la particolarità della sua specie da un punto di vista strettamente biologico, Levi parla di «un ippocastano di corso Re Umberto»; il legame stretto con questa creatura, che viene qui antropomorfizzata pur nella considerazione della sua “semenza” (vegetale e quindi inanimata), sembra avere – non si sa se davvero oppure no – una coincidenza biografica non poco importante con il chimico-scrittore, il quale conosce assai bene il suo ciclo vitale durante i mesi e le stagioni dell’anno. Potrebbe anche essere, non si sa se solo poeticamente o anche anagraficamente, che il giovane Primo avesse visto tutto il processo evolutivo del tronco che cresceva nelle aiuolette che separano corso e controviale.

Come se fosse un suo fratello imperfetto, infatti, Levi è in grado di captare le sensazioni che secondo lui prova il suo particolare vicino di casa: innanzitutto quello di sentirsi un «impostore» perché vuole imitare i grandi e rigogliosi castagni di montagna, profondamente diversi, soprattutto perché immersi in un ambiente circostante molto più prolifico rispetto a quello del centro torinese; la prima differenza si scorge proprio da ciò che queste due specie arboree producono: se l’ippocastano di corso re Umberto non dà che «fiori fragili» e «ricci dalle spine innocue / Con dentro lucide castagne tanniche», il fratello montano è invece «Signore di frutti dolci e di funghi preziosi», ed è «bravo».

L’albero cittadino, però, soffre: «Non vive bene» perché è immerso in un contesto nient’affatto georgico che non lascia spazio alla libera realizzazione della natura naturans, ma anzi la blocca, la impedisce e ne minaccia fortemente lo sviluppo. I tram che scorrono veloci (e pesanti) sui binari di corso Umberto, simbolo della modernità torinese e della capillarità con cui è stata organizzata la rete del trasporto pubblico, gravano sulle radici del povero ippocastano ad ogni corsa («ne rimane rintronato», appunta il poeta), obbligandolo a sopportare il peso dell’evoluzione della città e degli spostamenti della sua popolazione.

Per questo «cresce storto, come se volesse andarsene»: è fortemente piagato da un ambiente che non fa nulla per favorirlo, che non lo lascia crescere liberamente come lui vorrebbe invece fare, e che anzi mina pericolosamente la sua salute. Oltre al peso dei tram, infatti, quotidianamente «succhia lenti veleni»: l’azione dell’inquinamento cittadino (specie in un corso centrale tanto trafficato quanto quello in questione) è dirimente, ma poco a poco, giorno dopo giorno, come se fosse una sorta di condanna. Non lo aiutano infatti il «sottosuolo saturo di metano» né la «polvere settica dei viali», nemmeno riceve acqua per dissetare la sua crescita, ma invece «orina di cani» che gli abitanti portano a passeggiare ai piedi delle sue radici.

Come se fosse malato di una malattia cancerogena, le «rughe del suo sughero sono intasate» e non possono che assorbire tutti gli scarti della vita cittadina; per questo, seppur «Alberga passeri e merli», «Sotto la scorza pendono crisalidi / Morte, che non saranno mai farfalle»: non c’è soluzione di continuità con la vita che rinasce dal nulla, e, essendo avvelenato dal profondo delle sue radici, non può offrire nutrimento vitale agli ospiti che si appoggiano su di lui. Ma c’è una concessiva finale che ribalta la situazione, riprendendo il quadro iniziale e affermando che non tutto è perduto: così come «non ha vergogna, / In aprile, di spingere gemme e foglie», nonostante i suoi siano soltanto «Fiori fragili a maggio», «Sente e gode il tornare delle stagioni»; dunque è vivo, percepisce ancora la vita dentro di sé e attorno a sé, pur sognando di essere come il suo alter-ego montano, perché non tutte le sue speranze sono perdute; il suo, dal punto di vista fortemente antropormorfizzante del poeta, è un «tardo cuore di legno» ancora in grado di vibrare di vita, nonostante l’impervio ambiente in cui è stato impiantato.

Via Valperga Caluso

Citato in
Potassio, SP, I: 899-900

Passo
Risalivo svogliatamente via Valperga Caluso, mentre dal Valentino giungevano e mi sorpassavano folate di nebbia gelida; era ormai notte, e la luce dei lampioni, mascherati di violetto per l’oscuramento, non riusciva a prevalere sulla foschia e sulle tenebre. I passanti erano rari e frettolosi: ed ecco, uno fra questi attirò la mia attenzione. Procedeva nella mia direzione con passo lungo e lento, portava un lungo cappotto nero ed era a capo scoperto, e camminava un po’ curvo, ed assomigliava all’Assistente, era l’Assistente. Lo sorpassai, incerto sul da farsi; poi mi feci coraggio, tornai indietro, ed ancora una volta non osai interpellarlo.

Fonte: https://www.facebook.com/photo/?fbid=312498507121147&set=gm.1393892967641014

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Potassio è tra i più famosi e citati racconti che compongono il Sistema periodico. È la cronaca degli anni dell’apprendistato chimico di Levi, in particolare all’indomani dell’avvento delle leggi razziali promosse dal regime fascista: il giovane studente di chimica, ebreo suo malgrado, non riesce a trovare nessun professore tramite cui poter davvero imparare qualcosa, fare gli esperimenti giusti, cimentarsi in compiti difficili per apprendere quanto più possibile durante un periodo tanto ricco di ispirazioni. Fuori dalle mura dell’Istituto di chimica, per parafrasare una definizione sempre dal Sistema periodico, la situazione era buia, ma ancor di più lo era in Europa: era il 1941 e la deportazione nazista aveva già preso inizio. Il quadro politico era raccapricciante: lo strapotere della Germania andava crescendo sempre di più, nella speranza di poter conquistare sempre più territori, a partire dalla Polonia. Gli ebrei italiani, nella fattispecie e quelli torinesi, erano però vittime di quella che Levi definisce “cecità volontaria”: continuavano a condurre le proprie esistenze regolarmente, non volevano essere vittime di preoccupazioni ingestibili, di cui nemmeno lontanamente avrebbero immaginato le conseguenze, e continuavano a vivere la propria vita senza curarsi di cosa succedeva in Europa. C’erano fonti che lo affermavano, certo, ma mancava il desiderio di conoscerle davvero, e di organizzarsi di conseguenza; mancava addirittura il desiderio di opporsi ad un regime tanto stretto quanto quello fascista, nonostante impedisse agli ebrei di vivere davvero al pari degli altri.

Anche il giovane Levi: completamente (e volutamente) ignaro delle possibili conseguenze che verso cui il suo destino lo avrebbe condotto, Levi era preoccupato di trovare un buon lavoro che gli permettesse di guadagnare abbastanza per condurre una vita agiata, esattamente come giustificavano ai suoi occhi i modelli della piccola borghesia torinese, tra cui in particolare i suoi genitori. Per farlo, sapeva bene che doveva diventare un tecnico bravo e capace, e che quindi si sarebbe dovuto laureare con un’ottima votazione all’università. Suo malgrado, a causa delle leggi razziali nessun professore era intenzionato a prenderlo come proprio tesista. Ci sarebbe dunque stato il suo maestro?

Proprio l’Assistente (al secolo Nicolò Dallaporta): specializzato in astrofisica, “il regno dell’inconoscibile” come lo chiamava, iniziò Levi ad una disciplina quasi esoterica, di cui soltanto pochi adepti potevano intendersi davvero. Volevo aggiungere infatti alla realtà ultima che tutte le cose, che era però di per sé inconoscibile, e soltanto i calcoli della fisica avrebbero forse, un giorno, potuto trovare una strada per raggiungerlo.

Ciononostante, Levi non era interessato a questo tipo di verità in afferrabile: preferiva già all’epoca la chimica, che gli offriva il tatto pratico con il mondo circostante, oltre ai paradigmi della materia e delle sue infinite combinazioni. Tuttavia, resto il necessario con l’Assistente poiché questi gli concesse di diventare suo allievo, suo iniziato: in una sessione privata di approfondimento, guida Levi nell’esperimento che viene compromesso proprio dal potassio. Nell’esperimento sbagliato, infatti, l’Assistente vede una prova della superiorità della fisica sulla chimica, mentre Levi vi legge l’importanza del più piccolo dettaglio differenziale, causa del naufragio delle sue previsioni nel suo approccio diretto con la materia.

L’Assistente, come succederà anche nel suo ritorno nei Sommersi e i salvati (La vergogna, SES, II: 1195 sg.), ricopre in un certo senso l’autorità che deve essere superata per arrivare alla piena maturazione: è quella presenza che il giovane Levi vede come proprio modello e punto di riferimento, ma da cui sente di doversi distaccare per essere davvero se stesso, per intraprendere il proprio cammino e conoscere gli strumenti per sviluppare una propria opinione sui fatti.

Porta Nuova – barbone

Citato in
Agenda, 1985, AP, II: 778-779

Passo
[…]
In una notte come questa
C’è un vecchietto mezzo demente
Che a suo tempo era un bravo fresatore,
Ma il suo tempo non era il nostro tempo
E adesso dorme a Porta Nuova e beve.
[…]

Fonte: https://i1.wp.com/roma.gaiaitalia.com/wp-content/uploads/2019/04/Roma-26-Clochard.jpg?fit=883%2C470&ssl=1

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Risalente al gennaio 1985, è certamente un’altra delle ‘poesie urbane’ di Levi. Appartiene ad una stagione poetica diversa, quella di Altre poesie, e mostra infatti una datazione relativamente tarda che risale agli ultimi anni di vita di Levi.

La particolarità principale di questa poesia sta nel fatto che è un agglomerato di strofe che riassumono la vita di vari abitanti della città e del mondo intero. Lo sguardo del poeta attraversa la notte e ricerca nel fitto delle sue trame delle storie da raccontare in versi, immaginandola, ipotizzandole, lasciandone memoria ai posteri. Non è infatti presente un contesto di fondo unitario, in quanto le parole del poeta si muovono tra tradizione e modernità, tra stato d’animo e posizione fisica, tra momento di vita ed esistenza in generale. È una sorte di ode agli infiniti respiri che la sensibilità del poeta è in grado di captare (e inoculare nei suoi versi) pensando ad un dato momento della giornata, forse quello più magico ed evocativo, soffuso, confuso nel buio: è l’«ora incerta» in cui si muove il fare poetico della produzione di Levi. In particolare, la struttura anaforica (poiché il primo verso di ogni strofa è uguale, e recita «in una notte come questa») rappresenta lo snodo che conduce ai diversi soggetti descritti, ai quali punta lo sguardo del poeta.

È presente in particolare un rimando fisico ben specifico: quello alla stazione ferroviaria di Torino Porta Nuova, che compare in molti altri punti della sua opera (essendo una sorta di porto franco, uno dei cuori pulsanti della città, in quanto sua finestra di collegamento diretto con il territorio circostante). Levi la conosceva assai bene già prima della deportazione: vi si recava per lasciare la città e partire alla volta delle (vicine) mete per andare a lavorare, o raggiungere la montagna.

Troviamo, in questa poesia, un rimando ad una singola persona che però (come altre in questa lirica) raffigura una condizione esistenziale generale, comune a diversi individui. Anche in questo caso, è la voce di una minoranza assai ristretta: si tratta di un barbone che passa la notte alla stazione, non avendo un posto migliore in cui dormire. Anche questa è (tristemente ancora oggi) una presenza fissa in una città metropolitana del calibro di Torino, e, in un certo senso, ne rappresenta il rovescio della medaglia: così come in una grande città ci sono molte persone che viaggiano, lavorano, vivono, si divertono, ci sono anche quelle che non sono riuscite a inserirsi tanto pacificamente nel sistema, scavando la loro nicchia. L’uomo, infatti, era «a suo tempo era un bravo fresatore»: un artigiano, un uomo che aveva un mestiere che Levi conosceva bene e che stimava fortemente, in quanto era anch’esso un’occupazione che richiedeva di dominare la materia. Nei tempi moderni di vertiginosa evoluzione tecnologica, però, i mestieri di una volta non riescono più a sopravvivere: in questa strofa centrale la parola «tempo», che compare ben tre volte. Levi scrive infatti che «il suo tempo non era il nostro tempo»: questa affermazione è incastonata nell’avversativa su cui si reggono i quattro versi in questione. è molto rappresentativo questo spirito siccome sottolinea la differenza epocale tra le situazioni a cui si allude: se prima il «bravo fresatore» poteva permettersi un lavoro, eccellere e guadagnare abbastanza per poter vivere dignitosamente, ora, poiché l’evoluzione tecnologica ha spazzato via numerosi posti di lavoro meccanizzando il processo di produzione, «dorme a Porta Nuova e beve».

È un altro quadro desolante, che insieme alla povertà e alla perdita della propria residenza (una questione di «pelle», come spiega nell’articolo dell’Altrui mestiere dedicato alla sua casa in corso Re Umberto) aggiunge anche l’alcolismo, altra piaga squisitamente moderna. Il «bravo fresatore» è infatti ora un «vecchietto mezzo demente»: è profondamente sconfitto dalla vita, è un vinto travolto dalla marea della modernità, dal potere imperante del tempo che non lascia spazio a chi lo rifiuta e non lo asseconda, non riuscendo a tenere il suo veloce passo.

Corso Matteotti

Citato in
Agenda, 1984, AP, II: 778-779

Passo
[…]
In una notte come questa
C’è un travestito in corso Matteotti
Che donerebbe un polmone od un rene
Per incavarsi e diventare femmina.
[…]

Fonte: facebook.com/photo?fbid=4065029400204014&set=gm.1132237867139860

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Risalente al gennaio 1985, è certamente un’altra delle “poesie urbane” di Levi. Appartiene ad una stagione poetica diversa, quella di “altre poesie”, e infatti a una datazione relativamente tarda, verso gli ultimi anni di vita di Levi.

La particolarità principale di questa poesia sta nel fatto che è un agglomerato di strofe che riassumono la vita di vari abitanti della città e del mondo intero. Lo sguardo del poeta attraversa la notte e ricerca nel fitto delle sue trame delle storie da raccontare in versi, immaginandola, ipotizzandole, lasciandone memoria ai posteri. Non è infatti presente un contesto di fondo unitario, in quanto le parole del poeta si muovono tra tradizione e modernità, tra stato d’animo e posizione fisica, tra momento di vita ed esistenza in generale. È una sorte di ode agli infiniti respiri che la sensibilità del poeta è in grado di captare (e inoculare nei suoi versi) pensando ad un dato momento della giornata, forse quello più magico ed evocativo, soffuso, confuso nel buio: è l’“ora incerta” in cui si muove il fare poetico della produzione di Levi. In particolare, la struttura anaforica (poiché il primo verso di ogni strofa è uguale, e recita “in una notte come questa”) rappresenta lo snodo che conduce ai diversi soggetti descritti, ai quali punta lo sguardo del poeta.

È presente in particolare un rimando fisico ben specifico: quello a Corso Matteotti, non troppo lontano da corso Re Umberto, dove Levi immagina la presenza di un travestito che passeggia trascorrendo la propria vita, tormentato dai propri pensieri: “donerebbe un polmone od un rene / Per incavarsi e diventare femmina”. È una delle preoccupazioni più diffuse tra i transessuali e transgender: la maledizione della natura che li ha costretti in un corpo in cui non si sentono a proprio agio, che vorrebbero cambiare nelle sue parti più costitutive per poter finalmente realizzare se stessi ogni giorno e sentire finalmente che la propria anima si trova a casa.

È molto singolare che Levi, ritroso nei confronti del sesso e della sessualità, scelga di dedicare una strofa a questo malessere; tuttavia, ciò non stupisce più di tanto, in quanto il pensiero va subito al mito di Tiresia, l’indovino tebano che per magia era stato tramutato da uomo a donna e poi di nuovo da donna a uomo. Una figura affatto aliena dall’immaginario di Levi: nella chiara stella dedica un capitolo a questa figura mitologica, e confessa di sentire una comunanza non da poco: così come Tiresia aveva cambiato corpo durante la sua vita, egli stesso aveva sperimentato conturbante mistero della metamorfosi. Aveva infatti provato diversi mestieri, in quanto prima fu chimico, poi scrittore perché testimone, testimone perché deportato, e deportato perché ebreo. Sta proprio qui la vicinanza con il travestito citato nella strofa in questione: come lui e come ogni altro essere naturale, la natura obbliga i corpi a mutare, a volte spietatamente, oppure li lascia imprigionati per tutta la loro vita in una forma che non è per loro opportuna. Ben conscio di quale peso sia sperimentare la conseguenza della metamorfosi direttamente sulla propria pelle, Levi inserisce il problema esistenziale del travestito nella sua enumerazione e si fa suo araldo, includendolo nella rappresentativa disamina che traccia un profilo muovendosi dal particolare all’universale, dalle singole esistenze che, nel loro insieme, formano la multiformità dei casi della vita.

Via Cigna

Citato in
Ad ora incerta, 1973, AOI, II: 705

Passo
In questa città non c’è via più frusta.
È nebbia e notte; le ombre sui marciapiedi
Che il chiaro dei fanali attraversa
Come se fossero intrise di nulla, grumi
Di nulla, sono pure i nostri simili.
Forse non esiste più il sole.
Forse sarà buio sempre: eppure
In altre notti ridevano le Pleiadi.
Forse è questa l’eternità che ci attende:
Non il grembo del Padre, ma frizione,
Freno, frizione, ingranare la prima.
Forse l’eternità sono i semafori.
Forse era meglio spendere la vita
In una sola notte, come il fuco.

Fonte: facebook.com/Torinopiemontevintage/photos/a.1511442105807240/2353903314894444

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Risalente al febbraio 1973, è forse una tra le più singolari poesie di Levi. Ha un forte valore geocritico, in quanto è dedicata interamente ad una via di Torino: via Francesco Cigna, una delle più importanti e più lunghe, che attraversano la città dividendola in molti quadrati geometrici quasi perfetti.

In particolare, via Cigna è incredibilmente trafficata, oggi come allora: è “frusta” ed è il simbolo della modernità industriale della città, che Levi vede rispecchiata nel traffico che ogni giorno si genera sulle sue strade. Non è dunque, nonostante il contesto poetico, la descrizione di un quadro idilliaco: anzi, il poeta scrive che la via “è nebbia e notte”, che l’unica traccia di luce proviene dai fasci elettrici dei fari delle auto mobili che la attraversano, o dei semafori che ne scandiscono il caotico passaggio. Sono proprio questi “fanali” l’unica traccia di “chiaro”: illuminano i marciapiedi (elemento fondamentale della città, come scrive anche in un articolo dell’Altrui mestiere), e con essi le dantesche ombre che li popolano, anche a tarda notte.

Compare a quest’altezza della poesia il punto più desolante: nella comparativa ipotetica al quarto verso, compare la terrificante parola “nulla”, che priva della propria personalità ogni qualsivoglia presenza descritta in questo giro di versi. Quelli che dovrebbero essere i nostri “simili”, pur rimanendo tali, sono qui descritti come “grumi / Di nulla”, come spettrali presenze che formicolano nella città durante la notte. È infatti scomparso ogni quadro che possa far pensare ad una poesia a sfondo arcadico o idilliaco, e l’incertezza inizia ora a regnare sovrana, spazzando via ciò che invece sembra essere sicuro al di fuori di ogni dubbio: “Forse non esiste più il sole. / Forse sarà buio sempre”, scrive Levi abbandonandosi ad un quadro eccessivamente grigio, cupo, quanto mai distante dalla bellezza naturale di un paesaggio o di un quadro naturalistico (come quelli che tanto gli piaceva visitare e vivere, nelle oasi di natura incontaminata che conosceva).

Ci troviamo qui agli antipodi: nemmeno ci sono più le stelle in cielo, quelle che guidavano i marinai nella navigazione tantissimo tempo fa. Sono sparite le Pleiadi, le quali non ridono più, cioè non formano più costellazioni nel cielo; non che siano sparite del tutto, ma certo non sono più visibili ad occhio nudo dall’uomo a causa della coltre di inquinamento luminoso che copre la città.

Sparisce infatti nel verso successivo ogni qualsivoglia traccia di relazione panica con l’universo: non c’è più un “grembo del Padre” in cui redimersi, cioè un’opportunità di divenire un tutt’uno con la Terra su cui viviamo e sentirci parte di essa, bensì soltanto la modernità imperante: “frizione, / Freno, frizione, ingranare la prima. / Forse l’eternità sono i semafori”, “Forse è questa l’eternità che ci attende”. Non è un quadro disperato, però di certo non è tra i più rose: forse esaurito dal soffocante traffico che tutti i giorni doveva attraversare per spostarsi, o per recarsi al lavoro, Levi non riesce a pensare ad altro se non alla snervante attesa nella colonna di veicoli in cui tutti i giorni si trova imbottigliato. Il pensiero è tanto forte da lasciarlo con un amaro pensiero che, non casualmente, guarda proprio a quell’ormai lontano mondo naturale sepolto sotto al cemento e all’asfalto: piuttosto di aspettare così a lungo per raggiungere la propria meta, “Forse era meglio spendere la vita / In una sola notte, come il fuco”.