Archivi categoria: universal

Via Po – Cesare Levi

Citato in
Argon, SP, I: 873

Passo
[…] percorrevamo lentamente via Po, e lui si fermava ad accarezzare tutti i gatti, ad annusare tutti i tartufi ed a sfogliare tutti i libri usati. Mio padre era l’Ingegné, dalle tasche sempre gonfie di libri, noto a tutti i salumai perché verificava con il regolo logaritmico la moltiplica del conto del prosciutto. Non che comprasse quest’ultimo a cuor leggero: piuttosto superstizioso che religioso, provava disagio nell’infrangere le regole del Kasherùt, ma il prosciutto gli piaceva talmente che, davanti alla tentazione delle vetrine, cedeva ogni volta, sospirando, imprecando sottovoce, e guardandomi di sottecchi, come se temesse un mio giudizio o sperasse in una mia complicità.

Fonte: https://www.facebook.com/Torinopiemontevintage/photos/a.1511442105807240/2929669610651142/

*

Questo estratto proviene da Argon, il racconto che potremmo considerare il larario degli antenati ebraico-piemontesi di Levi. È il primo racconto del Sistema periodico ed è particolarmente importante perché, nei lineamenti dei personaggi descritti in questo testo, Levi ha fatto convergere non soltanto le proprie memorie, ma anche i racconti che aveva sentito dai propri amici, o nelle cerchie culturali che frequentava. Si tratta dunque di un’anticipazione dell’opera di smerigliatura che metterà in atto nella presente raccolta di racconti, dove il confine tra realtà e letteratura si ibrida sempre di più fino a divenire irriconoscibile, non permettendo al lettore di capire se i fatti raccontati siano realmente accaduti o meno.

Per quanto riguarda la figura di suo padre, però, possiamo credere con un buon margine di sicurezza che pressoché ogni informazione riportata fosse veritiera: Cesare Levi era un ingegnere che si recava in via Po per visitare la sua anziana madre quando Primo era ancora un giovane bambino. È più di un’intervista Levi ricorda che l’attenzione del padre verso i propri figli non era poi così incredibilmente spiccata: piuttosto, preferiva lavorare e lasciare la casa e l’educazione dei figli in compito alla moglie, pur accertandosi che alla sua famiglia non mancasse niente.

Durante la sua infanzia, Primo non spese infatti poi così tanto tempo con il padre, né strinse con lui un legame estremamente forte: nemmeno nei mesi che precedono la sua morte (a cui si allude di volata sempre nel stesso Sistema periodico, in Nichel) riesce a provare troppa compassione, ma anzi la rifiuta, sia perché non ha piena contezza della morte in sé sia perché inizia a capire che presto sarà su di loro il vortice che avrebbe sconvolto l’Europa in seguito alla Seconda Guerra Mondiale, allora sempre più consistente. Ciò nonostante, nei suoi scritti e specialmente nelle sue interviste lo ricorda con grande rispetto e in linea di massima molto positivamente.

Specie perché, come giustifica l’estratto, gli somigliava molto, specie nelle abitudini intellettuali: spiccano in particolare due elementi, quello dei gatti randagi e quello dei libri, entrambi comuni e rappresentanti di due forti passioni che aveva anche Levi junior. Anzi, forse, se seguiamo le indicazioni che aprono la Ricerca delle radici, scopriamo che a suo padre Primo Levi doveva in realtà molto: ad esempio per la biblioteca che gli aveva comprato quando era piccola, o quella che egli lasciò in eredità dopo la sua morte; oppure ancora per il forte credo scientifico che gli aveva trasmesso (come testimonia il regolo logaritmico), poiché il padre era un capace ingegnere che durante la sua carriera aveva raggiunto anche mete oltralpe. E, non da meno, per l’insegnamento religioso: anche per Cesare Levi la religione non era propriamente una ragione di vita, quanto +1 costume avito, da coltivare poiché gli era stato passato il testimone, da trasmettere a sua volta ai propri figli. Tuttavia, come ben giustifica l’estratto, era credente a metà: subiva male le imposizioni del suo credo, e non si faceva troppi problemi a non rispettare quelle che credeva fossero insensate, o comunque difficilmente tollerabile. Da lui suo figlio ereditò una cultura religiosa estremamente vivida e precisa, così come il distaccamento che potesse garantirgli pure esistenza serena pur nel rispetto (almeno apparente) della religione della sua famiglia.

Come per gli altri parenti piemontesi, la fine arte di ritrattista di Levi serve qui per bloccare sulla pagina una volta per sempre la particolare figura del padre, che ci viene offerta così come si era saldata nella sua memoria. Per una panoramica più completa, è possibile consultare almeno le interviste di P. Lucarini, Intervista a Primo Levi, 1983, III: 368-376; P. Terni, Primo Levi. La musica e i dischi, 1984, III: 396-422; A. Gozzi, Lo specchio del cielo, 1985, III: 515-527.

Via Po – Casa di nonna Màlia

Citato in
Argon, SP, I: 872-873

Passo
[…] in età avanzata si lasciò sposare da un vecchio medico cristiano, maestoso barbuto e taciturno, e da allora andò inclinando verso l’avarizia e la stranezza, quantunque in gioventù fosse stata regalmente prodiga […]. Col passare degli anni si estraniò totalmente dagli affetti famigliari (che del resto non doveva aver mai sentiti con profondità). […] Mio padre, ogni domenica mattina, mi conduceva a piedi in visita a Nona Màlia. […] Quando arrivavamo sul pianerottolo tenebroso dell’alloggio di via Po, mio padre suonava il campanello, ed alla nonna che veniva ad aprire gridava in un orecchio: «A l’è ‘l prim ‘d la scòla!», è il primo della classe. La nonna ci faceva entrare con visibile riluttanza, e ci guidava attraverso una filza di camere polverose e disabitate, una delle quali, costellata di strumenti sinistri, era lo studio semiabbandonato del Dottore.

*

Questo estratto proviene da Argon, il racconto che potremmo considerare il larario degli antenati ebraico-piemontesi di Levi. È il primo racconto del Sistema periodico ed è particolarmente importante perché, nei lineamenti dei personaggi descritti in questo testo, Levi ha fatto convergere non soltanto le proprie memorie, ma anche i racconti che aveva sentito dai propri amici, o nelle cerchie culturali che frequentava. Si tratta dunque di un’anticipazione dell’opera di smerigliatura che metterà in atto nella presente raccolta di racconti, dove il confine tra realtà e letteratura si ibrida sempre di più fino a divenire irriconoscibile, non permettendo al lettore di capire se i fatti raccontati siano realmente accaduti o meno.

Ritroviamo qui il personaggio di nonna Màlia (al secolo Adele Sinigaglia), la nonna paterna di Primo, madre di Cesare Levi, la cui memoria chiude il racconto. Dopo una storia familiare decisamente complicata che la vide spostarsi tra la provincia piemontese e Torino, riuscì a fermarsi stabilmente nel capoluogo piemontese, proprio in via Po (una delle vie più eleganti del centro cittadino), insieme al secondo marito (con cui contrasse matrimonio dopo essere rimasta vedova), il dottor Felice Rebaudengo, nonno acquisito con cui il piccolo Primo non sviluppò mai un vero e proprio rapporto, se non di soggezione.

In effetti, la caratterizzazione che la figura della nonna paterna assume nel ricordo del chimico-scrittore è decisamente chiara: già soltanto il pianerottolo dell’alloggio in cui abitano è «tenebroso», e la casa stessa è piena di inospitali «camere polverose e disabitate»; addirittura, Levi la descrive come una «vecchietta grinzosa, stizzosa, sciatta e favolosamente sorda nei miei ricordi d’infanzia più lontani» (Argon, SP, I: 872). Insomma, è tutto il contrario rispetto alle dimore degli antenati ebraico-piemontesi, i quali vivevano in grandi agglomerati familiari e gioivano della compagnia dei propri parenti. Al contrario, invece, nonna Màlia, forse spinta da un’amara vecchiaia a cui era approdata attraversando troppi problemi da vivere in una vita soltanto, forse scoraggiata e rinserrata nella sua solitudine dai problemi dovuti alla sua anzianità, «ci faceva entrare con visibile riluttanza», quasi come se non avesse un grande piacere di ricevere visite dal proprio figlio e dal primogenito nipote. Sembra non valere nulla, in questa perla di memoria, la simpatica frase che Cesare Levi sbraita alla propria madre che ormai poco riusciva a sentire: nonostante Primo sia presentato come il più bravo della classe (forse con un tirato gioco di parole legato al suo nome), l’anziana non sembra aver troppo riguardo dei propri ospiti.

A complicare ulteriormente il quadro della situazione, è «lo studio semiabbandonato del Dottore», quello che occupava una sola della trafila di camere inutilizzate, la quale era «costellata di strumenti sinistri». Il quadro memoriale offerto da questo estratto, se confrontato con quello degli altri avi di cui si parla nel racconto, non è per niente roseo, tantomeno vivido: quanto più lugubre, fosco, quasi oscuro, che giustifica poiché nonna Màlia non appare illuminata dalla stessa festante luce che ricade invece sui suoi altri parenti.

Via Po – Caffè Fiorio

Citato in
Argon, SP, I: 868

Passo
Da “rùakh”, plurale “rukhòd”, che vali “alito”, illustre vocabolo che si legge nel tenebroso e mirabile secondo versetto della Genesi (“Il vento del Signore alitava sopra la faccia delle acque”), si era tratto “tirè ’n ruàkh”, “tirare un vento”, nei suoi diversi significati fisiologici: dove si ravvisa la biblica dimestichezza del Popolo Eletto col suo Creatore. Come esempio di applicazione pratica, si tramanda il detto della zia Regina, seduta con lo zio Davide al Caffè Fiorio in via Po: “Davidin, bat la cana, c’as sento nèn le rókhòd!”: che attesta un rapporto coniugale di intimità affettuosa. Quanto alla canna, poi, era a quel tempo un simbolo di condizione sociale, come potrebbe essere oggi il viaggiatore in 1a classe in ferrovia […].

*

Questo estratto proviene da Argon, il racconto che potremmo considerare il larario degli antenati ebraico-piemontesi di Levi. È il primo racconto del Sistema periodico ed è particolarmente importante perché, nei lineamenti dei personaggi descritti in questo testo, Levi ha fatto convergere non soltanto le proprie memorie, ma anche i racconti che aveva sentito dai propri amici, o nelle cerchie culturali che frequentava. Si tratta dunque di un’anticipazione dell’opera di smerigliatura che metterà in atto nella presente raccolta di racconti, dove il confine tra realtà e letteratura si ibrida sempre di più fino a divenire irriconoscibile, non permettendo al lettore di capire se i fatti raccontati siano realmente accaduti o meno.

In ogni caso, comunque, quello che scrive qui è un ritrattista estremamente fine: è in grado di captare l’essenza dei suoi antenati e farli rivivere, anche in maniera irriverente (come giustifica ad esempio questo estratto), nelle pagine della raccolta in questione. E non solo: ci troviamo davanti ad una vera e propria testimonianza etno-socio-linguistica, poiché delineando il profilo di quegli ebrei torinesi che si erano assimilati (a modo proprio) nel tessuto cittadino, Levi ferma una volta per tutte sulla pagina tante interessanti caratteristiche di quei mitici parenti ormai scomparsi, con le loro strane abitudini e i loro particolarissimi modi di dire.

Ne leggiamo uno davvero singolare proprio qui: il detto dialettale «tirè  ’n ruàkh» è uno splendido esempio dell’ibridazione linguistica tra la lingua dei padri ebraici e il locale dialetto piemontese; come spiega Levi rifacendosi direttamente alle Sacre Scritture, l’allusione si può spiegare guardando ad un versetto della genesi, dove con «ruàkh» s’intende «alito». La zia Regina, che ha dato origine a un detto vero e proprio da usare simpaticamente quando si sentano rimbombare rumori e gorgoglii umani, indica proprio l’emissione di esalazioni ariose dagli orifizi corporali.

È una situazione decisamente comica, specialmente se la si immagina avvenire nel dehors del l’antico caffè Fiorio, ancora tutt’oggi uno dei bar più eleganti della centrale via Po (famoso per la bellezza dei suoi interni e per il saporito gelato lì prodotto), situato poco dopo il suo imbocco da Piazza Castello. Come nota anche la breve chiosa al termine dell’estratto, la «cana», e cioè il bastone da passeggio, era un vero e proprio simbolo di signoria: assolutamente adatto (a differenza del detto di zia Regina) al tenore della via prettamente borghese e commerciale che, diretta al fiume Po, attraversa il cuore della città. Sembra anche, peraltro, di sentir risuonare i lastroni che pavimentano gli ampi portici della via, schioccati dall’elegante e posato urto in apparenza casuale della canna, in realtà abilmente sfruttati per nascondere una verità decisamente più irriverente.

Vicolo Crocetta

Citato in
Idrogeno, SP, I: 876-877

Passo
Il fratello di Enrico, misterioso e collerico personaggio di cui Enrico non parlava volentieri, era studente in chimica, e aveva installato un laboratorio in fondo a un cortile, in un curioso vicolo stretto e storto che si diparte da piazza della Crocetta, e spicca nella ossessiva geometria torinese come un organo rudimentale intrappolato nella struttura evoluta di un mammifero. Anche il laboratorio era rudimentale: non nel senso di residuo atavico, bensì in quello di estrema povertà.

*

La Crocetta, uno tra i più belli e ricchi quartieri torinesi, situato nel centro a pochi passi dalla stazione di Porta Nuova, era il quartiere di Primo Levi: uno dei ricordi che ritroviamo nelle pagine del Sistema periodico ci riporta al periodo liceale. Nel racconto Idrogeno, in particolare, troviamo una delle più belle, significative e sincere lodi alla chimica, vista qui dagli occhi del giovane Levi che, affascinato e quasi stregato, crede di poter trovare in questo necessario sapere le chiavi per comprendere correttamente il mondo e le regole che governano il flusso della vita.

In Idrogeno è centrale anche la figura di Enrico (al secolo Mario Piacenza), uno dei compagni di studi nei confronti di cui Levi provava grande stima e ammirazione (e che lo accolsero con gioia al suo ritorno da Auschwitz). È una presenza molto importante per il suo periodo adolescenziale: è uno dei suoi grandi amici, tanto importante che è entrato a far parte del racconto in prosa della sua vita, nella quale è stato raffigurato con il personaggio di Enrico.

E, non di meno, del suo mestiere di chimico: profondamente legato alla lezione che l’idrogeno insegna ai due ragazzi, l’omonimo racconto riporta la storia di quando, sedicenne, primo Enrico vollero andare nel laboratorio del fratello di quest’ultimo per sperimentare di prima mano ciò che leggevano sui testi di scuola. Era all’opera ai loro danni, secondo quanto scriverà Levi, la ‘congiura gentiliana’ che li obbligava a preferire le materie che avrebbero rafforzato il loro spirito, a discapito invece di quelle più pratiche (come appunto la chimica). Appena si presenta loro l’occasione di poter saggiare da sé la materia che avevano conosciuto soltanto in via teorica, i due giovani si fiondano di nascosto nel laboratorio del fratello di Enrico e iniziano immediatamente ad armeggiare con qualsiasi cosa trovino a portata di mano. Il loro esperimento dimostra che il giovane Primo era quello più accorto e preparato tra i due: era certo grazie a Enrico che i due giovani inesperti potevano condurre queste piccole (ma tutt’altro che sicure) prove, ma non era sicuramente stata sua l’iniziativa di provare l’esperimento dell’elettrolisi, né l’acribia di dimostrare che i fatti seguivano esattamente la formula scritta solennemente alla lavagna. Primo, invece, si sentiva come un savio cerimoniere, e guidava l’amico alla scoperta dei misteri della materia.

E infatti Primo che, spinto e leggermente infastidito dall’indeciso scetticismo dell’amico che non si fida della lezione spiegatagli, vuole testare l’effettiva essenza dell’elemento: per provare all’amico la sua ragione, avvicina un fiammifero ad un contenitore pieno di idrogeno e innesca una piccola esplosione (al pari, sebbene in scala estremamente ridotta, dei fenomeni astrogonici che avvengono nello spazio cosmico). Nonostante i simbolici frantumi di vetro sul pavimento e la paura retrospettiva generata dall’avvenimento, Primo si sente pervaso da «una certa sciocca fierezza, per aver confermato un’ipotesi, e per aver scatenato una forza della natura» (Idrogeno, SP, I: 877): per aver previsto e sfruttato a proprio vantaggio il comportamento della materia pura.

Questo episodio è particolarmente significativo perché illustra come, sin dalla sua giovinezza, Levi cercasse il confronto pratico con il mondo intorno a sé: la chimica era quel sapere che gli permetteva di conoscerlo, di affrontarlo ad armi pari, magari prevedendone il comportamento e svelandone ogni segreto. Più e più volte Levi ritornerà su questo argomento, rivendicando l’importanza, per la sua formazione, di quel mestiere che lo aveva formato, che aveva svolto per più di trent’anni, a cui aveva dedicato (pur diversamente, dopo la pensione) tutta la sua vita.

Porta Nuova – treni

Citato in
Un altro lunedì, 1946, AOI, II: 688

Passo
“Dico chi finirà all’Inferno:
I giornalisti americani,
I professori di matematica,
I senatori e i sagrestani.
I ragionieri e i farmacisti
(Se non tutti, in maggioranza);
I gatti e i finanzieri,
I direttori di società,
Chi si alza presto alla mattina
Senza averne necessità.

Invece vanno in Paradiso
I pescatori ed i soldati,
I bambini, naturalmente,
I cavalli e gli innamorati.
Le cuoche e i ferrovieri,
I russi e gli inventori;
Gli assaggiatori di vino;
I saltimbanchi e i lustrascarpe,
Quelli del primo tram del mattino
Che sbadigliano nelle sciarpe”.

Così Minosse orribilmente ringhia
Dai megafoni di Porta Nuova
Nell’angoscia dei lunedì mattina
Che intendere non può chi non la prova.

*

Risalente al gennaio 1946, è certamente un’altra delle ‘poesie urbane’ di Levi, sicuramente una delle più metropolitane, e insieme alla precedente lirica intitolata Lunedì (1946, AOI, II: 687) forma una coppia assai rappresentativa della stazione ferroviaria di Torino Porta Nuova. Appartiene alla prima stagione poetica di Levi, quella in cui rientrano anche le poesie del Lager, e contiene un’allusione fondamentale, quella al Minosse dantesco, il giudice infernale che Levi aveva già incontrato nel Lager, durante il suo esame di chimica.

Queste due poesie sono particolarmente rappresentative di Torino perché ne affrontano un luogo fondamentale, in cui Levi passò molte volte e che frequentò per diversi anni della sua vita: la stazione di Porta Nuova era, appunto, una finestra sul mondo per i torinesi prima che le tratte aeree divenissero così accessibili. La prima, in particolare, sembra nascere proprio dal percorso quotidiano di Levi che si reca ad Avigliana per lavorare: in Lunedì (però composta di giovedì, e a Torino) c’è un riferimento ben più che esplicito al treno e alla solitudine che prova durante i viaggi verso il proprio luogo di lavoro, e più in generale nella sua vita. In particolare, il mezzo di locomozione è collegato in maniera assai sinistra con il treno che lo aveva portato ad Auschwitz (così come quelli che lo riportarono indietro dalla Polonia), il quale rimane un ricordo traumatico nella sua memoria iconica e getta un’oscura ombra simbolica su ogni altro suo simile.

In Un altro lunedì, però, Levi decide di vestire i panni dell’infernale giudice che ritroviamo nell’Inferno dantesco, di cui riporta le parole in discorso diretto, virgolettandole. Il rimando a Dante è più che esplicito e si palesa senza possibilità di travisamento solo alla fine della lirica, il cui ultimo verso rimanda al primo terzetto di Tanto gentile e tanto onesta pare. Spunta perfettamente diritto, come un endecasillabo che regolarizza la chiusa della ultima strofa, e gioca il ruolo di immobile motore metrico: prelevato pari pari dal famosissimo sonetto di Dante, sembra attirare alla sua misura versale le righe precedenti, le quali presentano una sorta di ritorno all’ordine endecasillabico dopo il polimorfismo dei versi brevi nelle due strofe precedenti. Pur non utilizzando uno schema metrico fisso, dunque, Levi era assolutamente in grado di comporre versi di undici sillabe proprio come prescriveva la tradizione poetica italiana (a cui spesso si rifaceva, e che aveva sempre ben presente).

L’ultima strofa è infatti la più importante perché, insieme al primo verso, offre gli estremi in cui inquadrare la poesia: dopo il lunghissimo elenco che contiene il variopinto campionario di geografia umana cittadina che si sposta sui tram e per la città puntando verso la stazione per raggiungere il proprio luogo di lavoro (esattamente come faceva Levi all’epoca). L’occasione poetica nasce, in particolare, proprio dall’ascolto del megafono da cui si spargono gli annunci che specificano l’itinerario dei singoli treni: il poeta immagina che dietro agli altoparlanti, alla sorgente di ogni impulso vocale trasmesso in stereofonia in tutta la stazione, stia proprio il giudice dantesco che, osservata e conosciuta l’abituale routine dei viaggiatori, può dire meglio quale sia la loro direzione, indicandogliela. Metaforicamente, il poeta immagina che la voce sancisca chi di loro debba andare all’inferno («Dico chi finirà all’Inferno»; peraltro scritto qui con la maiuscola in riferimento palese alla Commedia) o in paradiso, a seconda della loro occupazione e delle loro abitudini mattutine.

La fauna torinese è però molto varia: c’è un discrimine fondamentale, che non è possibile evincere chiaramente: i versi del poeta mimano qui il dedalo della stazione e le numerose masse che la attraversano, in cui si mescolano le più svariate professioni, ed è impossibile comprendere perché alle anime tocchi l’una o l’altra sorte. In ogni caso, Porta Nuova si rivela di nuovo un crogiolo di esistenze, un cuore pulsante della città che è punto di riferimento comune per una grandissima parte della popolazione locale (e non soltanto).

Un altro dato molto importante della poesia è proprio l’«angoscia del lunedì mattina», la stessa che attanagliava il poeta già nella poesia precedente scritta soltanto dodici giorni prima. Questa, tuttavia, è più allegra (in un certo senso) e sicuramente meno disperata, per quanto comunque lapidaria: i versi brevi sembrano davvero essere stentorei giudizi irrevocabili; e, allo stesso tempo, gli endecasillabi finali riportano in gioco il sentimento di angustia che il poeta sentiva durante quel periodo della sua vita (quando, peraltro, era ancora uno di «Quelli del primo tram del mattino / Che sbadigliano nelle sciarpe» e non ancora uno dei «direttori di società» che si affrettano per raggiungere i binari e riprendere la loro azienda lì dove si era fermata prima del fine settimana).