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Redazione «La Stampa»

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A. Rudolf, Primo Levi a Londra: un’intervista, 1986, III: 630

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n/d

Fonte: https://www.lastampa.it/torino/2012/09/10/fotogalleria/la-costruzione-della-sede-in-via-marenco-1.36376372

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Nella formula chimica che lega Primo Levi alla letteratura, non bisogna dimenticare di inserire anche l’elemento metaforicamente rappresentato dall’editore: senza, Levi non sarebbe nemmeno riuscito a pubblicare il suo primo live, non avrebbe guadagnato alcuna visibilità con la riedizione del suo primo capolavoro e non sarebbe stato così noto nel dibattito pubblico del suo tempo. Nel centro di Torino si trovano tutte e tre le case editrici che furono importanti nella sua carriera di scrittore: luoghi in cui doveva recarsi per conoscere i suoi editor, confrontarsi con loro e discutere le linee d’azione da intraprendere. Nel suo pluriennale rapporto con il settore editoriale, infatti, Levi seppe ben sfruttare le proprie carte (letteralmente) e riuscì a pubblicare molti (se non l’insieme intero) dei suoi lavori.

«La Stampa» è, a buon diritto, una di quelle realtà. Punto di riferimento per la cultura, la politica, l’informazione e la vita cittadina del capoluogo piemontese, è tra i più longevi quotidiani nazionali ed è stata senza dubbio una delle testate più vendute ai tempi di Primo Levi. Ha senza dubbio contribuito a ingrandire enormemente la sua fama, avvicinandolo ad un bacino di utenti sempre più grande, non da ultimo permettendo a tanti nuovi lettori di seguire le sue frequenti collaborazioni.

Nel suo complesso, questa attività fu per il chimico-scrittore una sorta di palestra: sin dal 1959 «La Stampa» gli concesse spazi relativamente ampi sulle sue pagine, i quali aumentarono esponenzialmente nel corso degli anni. Se in un primo periodo la produzione giornalistica di Levi contava poco più di qualche articolo in un intero anno, negli anni Settanta-Ottanta la sua collaborazione con il quotidiano aumenta a dismisura, toccando picchi di più di cinque articoli al mese. Questi testi hanno, coerentemente ai versatili interessi di Levi, nature disparate: spaziano dagli scritti di riflessione, concentrati sull’attualità oppure ancora sul ricordo del Lager, a quelli di approfondimento, e contano anche racconti (buona parte del Sistema periodico e di Lilít, ad esempio, furono anticipati in queste uscite) e recensioni di libri, mostre ed eventi culturali. E non si tratta soltanto di articoli: i rotocalchi de «La Stampa» impressero negli anni anche diverse poesie di Levi, il cui cosiddetto “primo grappolo” (per usare la definizione di Levi stesso) conta diversi esemplari pubblicati qui e poi conversi nelle raccolte (esattamente come succede con gli articoli).

Il risvolto giornalistico non è però l’unica sede di apparizione dei lavori di Levi: nel 1986, un anno prima della sua scomparsa, il chimico-scrittore suggella l’ormai quarantennale rapporto con il giornale pubblicando presso l’omonima casa editrice la raccolta Racconti e saggi, che riunisce molti dei testi già pubblicati sulle pagine del quotidiano nella prima metà degli anni Ottanta.

Non risultano a questa ricerca, purtroppo, passi dell’opera di Levi in cui venga descritto l’edificio che ospitava la redazione del giornale (mentre il nome ricorre più volte nelle interviste). Ciononostante, l’indirizzo della sede storica (in via Marenco, seppur fosse prima in via Roma, presso la Galleria San Federico, come mostrato nell’immagine qui sotto) è ormai di dominio pubblico.

Fonte: https://www.lastampa.it/cultura/2016/11/14/fotogalleria/la-redazione-di-via-roma-1.36738553

Sebbene non ci sia alcuna parola ufficiale che dimostri un’effettiva visita di Levi a questo luogo, nulla ci vieta di immaginarcelo mentre, partito da casa sua in corso re Umberto, ripercorre verso sud il centro della città, direzione periferia, passa lo squarcio dei binari ferroviari e fa rotta verso l’ansa del Po, portando con sé un plico di fogli da sottoporre all’attenzione di un interessato editor, mentre acquisisce sempre più sicurezza della propria statura di scrittore, pubblicazione dopo pubblicazione.

Corso San Martino

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Schiera bruna, 1980, AOI, II: 718

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Si potrebbe scegliere un percorso più assurdo?
In corso San Martino c’è un formicaio
A mezzo metro dai binari del tram,
E proprio sulla battuta della rotaia
Si dipana una lunga schiera bruna,
S’ammusa l’una con l’altra formica
Forse a spiar lor via e lor fortuna.
Insomma, queste stupide sorelle
Ostinate lunatiche operose
Hanno scavato la loro città nella nostra,
Tracciato il loro binario sul nostro,
E vi corrono senza sospetto
Infaticabili dietro i loro tenui commerci
Senza curarsi di
Non lo voglio scrivere,
Non voglio scrivere di questa schiera,
Non voglio scrivere di nessuna schiera bruna.

Fonte: https://www.museotorino.it/view/s/a72232425545401c85700825707f151a

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Questa poesia, tra le più note di Levi, è uno splendido esempio dell’attenzione alla vita di città che il chimico-scrittore-poeta, interessato alle specie animali e vegetali, non può fare a meno di notare: anche in questa lirica impera la sua attenzione microscopica a quanto solitamente sfugge all’occhio umano, specie in contesti tanto trafficati quanto quelli dei corsi nel centro di Torino. Non è infatti detto che è in una città in cui regnano sovrani cemento e asfalto sia dato soltanto di vedere presenze umane: questa poesia giustifica che gli abitanti della città non sono soltanto uomini, donne e bambini, ma anche altri animali.

Proprio come in un meccanismo a matrioska, quasi frattalico, sotto al tram su cui i torinesi viaggiano tutti i giorni per spostarsi da una parte all’altra della città e raggiungere i luoghi delle loro occupazioni dalle proprie case, vive un’intera popolazione di formiche che, incurante dei pericoli della modernità, ha costruito un formicaio proprio nel corso che dà il titolo a questa poesia, «a mezzo metro dai binari del tram / […] proprio sulla battuta della rotaia». Al poeta viene da chiedersi: «Si potrebbe scegliere un percorso più assurdo?», perché sembra quasi insensato, un atto di resilienza estremo tanto quanto gratuito, gravemente rischioso. Ma non si cura di questo la «lunga schiera bruna».

È proprio questo nome, con l’aggettivo che lo accompagna, che si richiama alla Commedia dantesca: il rimando al canto XXVI del Purgatorio che leggiamo in calce alla poesia, secondo la pratica di allusione intertestuale che spesso è tipica di diverse liriche primoleviane, non lascia dubbi e riporta il lettore alle terzine del Sommo. I suoi versi vengono ripresi alla lettera e, riportando sulla scena le stesse parole che descrivevano il manipolo di lussuriosi che sulle pendici del monte sfila davanti a Dante e Virgilio, descrive le azioni degli insetti: intenti a proseguire nel loro caotico allineamento, scontano la loro pena camminando in gruppo e scontrandosi l’uno contro l’altro, confusamente. Alla stessa maniera, così fanno anche gli insetti protagonisti della lirica: sembra che si parlino per capire come muoversi, dove andare (questo intende il fatto di «spiar lor via e lor fortuna»), creando uno confusionario frastuono che l’intelletto umano può solo immaginare, o percepire soltanto tramite la vista.

Le formiche sono descritte come «stupide sorelle / Ostinate lunatiche operose»: non si fermano davanti a nessun ostacolo e nessun posto è troppo ostico per ospitare i loro «tenui commerci»; sono perennemente intente a marciare e a portare avanti i lavori che gioveranno all’intero formicaio, e non si scollano mai dal luogo prescelto pure se la presenza umana minaccia la loro collettività in ogni momento. «Hanno scavato la loro città nella nostra» incuranti del pericolo (ecco perché sono «ostinate»), hanno «Tracciato il loro binario sul nostro, / E vi corrono senza sospetto»: come se fossero troppo indaffarate dalle loro attività, non si curano del fatto che un mondo esponenzialmente più grande di loro è all’opera, e rischia di distruggere il loro piccolo regno.

Ma improvvisamente la poesia si interrompe: la schiera di formiche richiama alla mente di Levi una lugubre associazione spontanea, che affonda le proprie radici negli oscuri giorni di Auschwitz. Molti critici, studiando l’opera del chimico scrittore, hanno infatti puntualizzato che gli insetti sono il genere biologico più spesso paragonato ai prigionieri del campo di concentramento: nelle pagine di Se questo è un uomo, molto spesso gli Häftlinge sono paragonati a miseri vermi striscianti, depauperati della loro natura umana e costretti a mendicare la benché minima briciola per restare in vita nelle loro meschine condizioni.

Per questo nella poesia si manifesta un trauma: sia a livello sintattico sia a livello tipografico. Gli ultimi tre versi iniziano infatti con un notevole rientro, e la frase precedente addirittura mozzata, priva di fine, lasciata monca dopo una brusca (e brutale) interruzione. La schiera di formiche che viaggia sulle rotaie del tram ricorda infatti al chimico-scrittore-poeta il tempo della prigionia, quando era lui il dannato costretto a marciare spalla a spalla con gli sventurati compagni. Per questo la lirica si chiude con una nota amara, forzata dalla negazione anaforica rimpolpata verso dopo verso, che non fa preludere nulla di buono e si configura come un vero e proprio rifiuto dell’arte poetica: il ricordo, pur se a quarant’anni di distanza, è ancora estremamente forte e velenoso, tanto insidioso da bloccare completamente un fenomeno spontaneo quanto quello di comporre versi.

Stadium

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Polvere olimpica, 1984, poi Un lungo duello, AM, II: 974

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Le nostre piccole Olimpiadi si svolgevano al pomeriggio, entro lo Stadium che sorgeva allora dove adesso è il Politecnico.
Era una costruzione faraonica, una delle prime in cemento armato erette in Torino: terminata verso il 1915, nel 1934 era già abbandonata e fatiscente, insigne esempio di spreco del pubblico denaro. L’anello della pista, lungo 800 metri, era ormai in terra nuda, cosparso di buche malamente riempite di ghiaia; sulle gigantesche scalinate crescevano erbacce ed alberelli stenti. Ufficialmente, l’ingresso era vietato, ma noi entravamo dal bar, portandoci dietro le biciclette.

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Oltre alla città in cui viveva e studiava, Torino fu per i. giovane Primo anche la città dello svago. Troviamo infatti diversi punti della sua opera in cui parla del rapporto che aveva con i suoi coetanei, con i quali usciva nel quartiere della Crocetta a giocare durante i pomeriggi della sua giovinezza. I ricordi appartenenti a questo periodo di tempo possono essere letti in alcuni racconti più tardi, apparsi su «La Stampa» a partire dagli anni Ottanta, poi confluiti (e a volte modificati) nelle raccolte pubblicate in quel decennio.

Uno di questi è senza dubbio quello da cui proviene l’estratto succitato, che descrive una parte non poco importante del paesaggio urbano del quartiere di Levi: prima del suo smantellamento, proprio vicino alla piazza centrale della Crocetta, si innalzava in tutta la sua mastodonticità lo Stadium, un edificio polifunzionale creato appositamente per le competizioni sportive ma durato poco più di trent’anni.

Il giovane Primo e i suoi amici non riuscivano certamente a resistere al fascino del proibito: nonostante il luogo ormai dismesso da anni e caduto in rovina fosse ormai effettivamente chiuso all’ingresso, I ragazzi che abitavano lì nelle vicinanze non perdevano occasione per entrarci e allenarsi negli spazi sterminati, completamente liberi per loro da usare nelle loro competizioni.

Non possiamo dire certamente se tutto quanto ciò che viene narrato nel racconto sia effettivamente attendibile, ma di certo queste gare atletiche (vere e proprie olimpiadi in miniatura, disputate dai più giovani con competizione serrata) si svolgevano e occupavano molto tempo della compagnia. È peraltro tramite il filtro della letteratura imparata sui banchi di scuola che Levi arriva al titolo dell’articolo, richiamandosi all’immaginario che sviluppava allora con i suoi compagni di gioco: l’articolo dell’Altrui mestiere si apre infatti con la citazione di Orazio e più in particolare del verso eponimo, il quale sblocca il ricordo delle competizioni della latinità che il gruppo di ragazzi (tutti maschi) studiavano a scuola e ripetevano nei loro pomeriggi di svago. Gli spazi abbandonati dello Stadium praticavano quante più discipline possibile, impegnandosi strenuamente nella competizione per dimostrare il loro valore a se stessi e agli amici, intenzionati a gonfiare la loro nomea nel quartiere, a renderla quanto più ammirevole, quasi leggendaria.

Vediamo questa serrata competizione caratterizzare specialmente il personaggio di Guido, protagonista del racconto insieme a Levi: è lui il motivo che spinge il giovane Primo a gareggiare continuamente, a dimostrare (inutilmente) di essere superiore ad una prestanza tanto sportiva (e incredibilmente versatile) quanto quella di Guido. Non riesce però a superare l’amico, che è sempre un passo avanti a lui; ciononostante, come osserverà lo scrittore maturo da un punto di vista cronologicamente molto più avanzato, non era tutto che un pretesto per definire meglio la propria identità e posizione sociale. Nella figura di Guido è possibile intravedere la spinta che spronava al confronto con l’altro, pratica vitale che lo faceva crescere, assumere sicurezza in se stesso, ottenere una propria statura fisica e spirituale ben definita e soddisfacente: quella stessa funzione che assolverà, più avanti, la Materia-Mater.

Al termine del racconto-ricordo, infatti, il chimico-scrittore conferma che al compagno nemico-amico si sentiva legato più da un sentimento di competizione che da una vera e propria amicizia. Al contrario delle sue altre frequentazioni abituali, il rapporto con Guido non resistette al tempo e si sgretolò fino a scomparire: al termine del racconto il Levi maturo scrive di non averne più avuto notizie, di non sapere chi tra i due «abbia riportato la vittoria nella gara di gran fondo della vita» (Polvere olimpica, 1984, poi Un lungo duello, AM, II: 977). Piuttosto, lo scritto si presenta come un amuleto in cui inoculare un ricordo, salvandolo al declivio memoriale, ritagliando una zona salva al deterioramento del tempo e imprimendola per sempre sulla carta.

Istituto Chimico

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Zinco, SP, I: 881

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Si mormoravano sul suo conto [del Professor P.] le leggende assai sospette di spilorceria maniaca nella conduzione dell’Istituto Chimico e del suo laboratorio personale: che conservasse in cantina casse e casse di fiammiferi usati, che proibiva ai bidelli di buttare via; che i misteriosi minareti dell’Istituto stesso, che tuttora conferiscono a quel tratto di Corso Massimo d’Azeglio una melensa impronta di falso esotismo, li avesse fatti costruire lui, nella remota sua giovinezza, per celebrarvi ogni anno una immonda segreta orgia di ricuperi, in cui si bruciavano tutti gli stracci e le carte da filtro dell’annata, e le ceneri le analizzava lui personalmente, con pazienza pitocca, per estrarne tutti gli elementi pregiati (e forse anche i meno pregiati) in una sorta di palingenesi rituale a cui solo Caselli, il suo tecnico-bidello fedelissimo, era autorizzato ad assistere.

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Paradossalmente, il soggetto di questo estratto compare sottinteso: e quasi incoerente con la statura del suo personaggio, trattandosi di Giacomo Ponzio, allora rettore dell’Istituto di chimica e nonché professore di un estremamente giovane Levi, chimico in erba nei suoi primi anni di apprendistato universitario. Ponzio, il “professor P.”, era già scomparso all’epoca della pubblicazione, eppure Levi volle mantenere l’anonimato su una presenza tanto importante quanto la sua: sarà infatti proprio lui, dopo diverse citazioni nei capitoli del Sistema periodico che narrano gli anni alla facoltà di Chimica, l’unico professore ad accettarlo come tesista nonostante le leggi razziali dello stato fascista, alle quali non credeva, di cui anzi sembrava infischiarsene rinserrandosi sicuro dentro le mura del suo regno.

Sicuramente la storia è stata romanzata dallo scrittore maturo, tanto più che venne scritta circa trent’anni dopo essere stata vissuta: è molto probabile che la storia sia stata arrotondata e che il personaggio abbia risentito di una caratterizzazione relativamente forte. Ciononostante, Ponzio era un personaggio del tutto singolare: il classico tipo di professore vecchio stampo, che fece sudare sette camicie a molti degli studenti che passarono tra le sue grinfie. Così non fu per Levi, il quale iniziò a stimarlo sin da subito, avendo capito che si poteva trarre una morale di vita dalle sue lezioni di chimica (come ad esempio l’elogio dell’impurezza, prima grande lezione da mandare a memoria). Tale apprezzamento era anche ricambiato, poiché il docente e guardava al giovane come un allievo pieno di potenzialità e naturalmente predisposto all’imparare i misteri che la sua disciplina sondava.

Sono però questi anni in cui il giovane Primo non ha incredibilmente chiaro il percorso che si para davanti ai suoi passi: ai suoi occhi, le materie che gli vengono insegnate all’università sono quasi tutte favolose e affrontano il mondo in maniera esemplare, fornendosi dei nobili strumenti che hanno via via sviluppato e migliorato nel tempo, acuendo sempre più il genio della specie umana (ricordiamo ad esempio la figura dell’Assistente di Potassio, e con essa l’avvicinamento molto sentito di Levi alla disciplina fisica, la quale volle coniugare alla chimica nella sua stessa tesi di laurea).

In ogni caso, e specialmente dopo aver superato il test d’ingresso alla facoltà, Primo si sentiva una sorta di eletto: dai suoi studi sarebbe stato in grado di rifarsi delle verità rivelate propinategli durante il liceo, avrebbe potuto conoscere la materia dallo scontro a tu per tu (in particolare durante le lezioni di Ponzio, nelle estenuanti ore passate in laboratorio), avrebbe ottenuto la chiave per sondare i sommi capi dell’universo. E come tale la chimica si presentava quasi alla pari di un mistero iniziatico: Ponzio era colui che, facendo da cerimoniere, avrebbe guidato ogni partecipante alle sue lezioni alla scoperta della verità ultima che soggiace agli elementi e alla loro interazione atomica.

Nell’estratto qui riportato, si intravede infatti una parte fondamentale dell’Istituto Chimico che spicca nella linea dell’orizzonte torinese in corrispondenza del parco del Valentino: «i misteriosi minareti […] che tuttora conferiscono a quel tratto di Corso Massimo d’Azeglio una melensa impronta di falso esotismo», tali ancora oggi (seppure il dipartimento sia ora ubicato nell’edificio dirimpetto). Sarebbero dunque le stesse torri che, nella loro origine mitica – quasi leggendaria – si diceva che Ponzio avesse fatto costruire apposta per tenere sotto controllo qualsiasi reazione chimica innescata tra le mura del suo dominio, al fine di tenere (maniacalmente) sotto controllo il suo regno e guadagnare recuperando gli scarti fino all’osso.

Biblioteca dell’Istituto Chimico

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Azoto, SP, I: 991

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Appena mi fu possibile filai in biblioteca: intendo dire, alla venerabile biblioteca dell’Istituto Chimico dell’Università di Torino, a quel tempo impenetrabile agli infedeli come la Mecca, difficilmente penetrabile anche ai fedeli qual ero io. […] L’orario era breve ed irrazionale; l’illuminazione scarsa; gli indici in disordine; d’inverno, nessun riscaldamento, non sedie, ma sgabelli metallici scomodi e rumorosi; e finalmente, il bibliotecario era un tanghero incompetente, insolente e di una bruttezza invereconda, messo sulla soglia per atterrire col suo aspetto e col suo latrato i pretendenti all’ingresso.

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Il mestiere di chimico di Levi, lo sappiamo, fu tutt’altro che un lavoro da ufficio, piatto e noioso, specie nella prima parte della sua carriera professionale: furono molte le avventure che dovette compiere quando era un giovane diplomato che cercava un lavoro stabile per poter mantenere se stesso e sua moglie. L’estratto risale infatti agli anni del laboratorio creato in via Massena con l’Emilio del Sistema periodico (alias letterario del grande amico Alberto Salmoni) e, come molti dei racconti presenti in questa raccolta, testimonia anche il mestiere di chimico non fu per Levi una grigia occupazione statica, quanto più un lavoro itinerante e dinamico.

Specialmente in Azoto, il testo qui citato: per soddisfare il desiderio di un cliente che si era presentato richiedendo niente più che una consulenza, il giovane chimico Levi viene incaricato di risolvere un mistero: perché il rossetto prodotto dal cliente di cui si parla in questo racconto non funziona come dovrebbe, e produce scempi estetici invece di imbellettare le signore che lo usano? Questa è la mansione che viene affidata alla ditta Levi-Salmoni.

Armato di pazienza e dei fondamentali ferri del mestiere che poteva reperire nel laboratorio, Levi analizza la ricetta chimica del rossetto e scopre che per migliorarlo serve assolutamente l’allosana. Il suo cliente, estasiato, gliene commissiona una grande quantità, che si dice disposto a pagare anche a caro prezzo; vista la difficoltà del periodo e la lentezza della ripresa nel Dopoguerra, l’opportunità non può essere lasciata andar persa. Ma dove trovarla?

Per essere risolto, il caso chimico necessita innanzitutto di uno studio teorico. E quale luogo migliore per svolgere delle ricerche dell’arca memoriae in cui il giovane Levi si era formato, e che aveva imparato a conoscere e frequentare già da studente? Per questo motivo la Biblioteca dell’Istituto Chimico (che nel 1985 venne intitolata proprio al professor Giacomo Ponzio, il rettore dell’Istituto di cui si parla nel capitolo Zinco e con cui Levi discusse la sua tesi di laurea, l’unico suo professore che lo accettò come tesista nonostante le sue origini ebraiche) gli offrì il retroterra ideale per iniziare le sue ricerche e ottenere risultati contro le sfide della materia.

Nel breve spaccato sopra citato rivive la biblioteca che gli aspiranti chimici frequentavano assiduamente durante il loro percorso di formazione universitaria: come negli altri passi, però, il complesso non è descritto in chiave paradisiaca, quanto più di degrado. Non si tratta infatti di un oasi idilliaca di sapere con personale estremamente disponibile e locali perfettamente predisposti allo studio, quanto più di un luogo relativamente inospitale, non completamente adatto allo studio poiché sprovvisto delle basilari condizioni invece necessarie agli studenti per implementare la loro formazione. Anche qui come altrove, inoltre, l’Istituto di Chimica è descritto al pari di un luogo dalla spiccata natura iniziatica: già a partire dall’accesso alla biblioteca, secondo Levi considerabile alla stregua di una vera e propria prova di pertinacia.

Rispolverando i segreti del mestiere imparati durante l’apprendistato universitario, il chimico ancora alle prime armi riporta il suo percorso libresco in uno spaccato teorico, ricostruendo e spiegando i procedimenti che dovrà intraprendere per portare a termine il proprio compito: con la professionalità del ricercatore, salta da un libro all’altro, mobilita la sua attenzione nell’inseguimento dei rimandi presenti nei libri. Nella fase di reperimento dei dati, Levi trascina il lettore con lui nel percorso che lo porta da un riferimento ad altre innumerevoli pubblicazioni. Il tutto a giustifica del fatto che i fondi librari – nonostante tutto, e al contrario dei locali – non erano poi così mal gestiti; anzi, in questo caso giocarono un ruolo fondamentale e approntarono il sostrato teorico da cui poté prendere avvio la parte pratica: quella «ricerca nei pulitissimi scaffali, odorosi di canfora, di cera e di secolari fatiche chimiche» (Azoto, SP, I: 993) portò frutti notevoli, almeno in via speculativa.