Citato in
Le zie, CS, I: 1158Passo
Le zie di Faussone abitavano in una vecchia casa di via Lagrange, di soli due piani, rinserrata tra edifici più recenti (ma altrettanto trascurati) alti almeno il triplo. La facciata era modesta, di un colore terroso indefinito, su cui risaltavano, ormai appena distinguibili, false finestre e falsi balconcini dipinti in rosso mattone. La scala B che io cercavo era in fondo al cortile: mi sono soffermato ad osservare il cortile, mentre due massaie mi guardavano con sospetto dai rispettivi ballatoi. La corte ed il portico di ingresso erano in acciottolato, e sotto il portico correvano due carraie in lastre di pietra di Luserna, solcate e logorate dal passaggio di generazioni di carri. In un angolo era un lavatoio fuori uso: era stato riempito di terra e vi era stato piantato un salice piangente. In un altro angolo c’era un mucchio di sabbia, evidentemente scaricata là per qualche lavoro di riparazione e poi dimenticata: la pioggia l’aveva erosa in forme che ricordavano le Dolomiti, e i gatti vi avevano scavato varie comode cucce. Di fronte era la porta di legno di un’antica latrina, macerata in basso dall’umidità e dalle esalazioni alcaline, più in alto ricoperta di una vernice bigia che si era contratta sul fondo più scuro assumendo l’aspetto della pelle di coccodrillo. I due ballatoi correvano lungo tre lati, interrotti soltanto da cancelli rugginosi che si prolungavano fuori delle ringhiere in punte a ferro di lancia. Ad otto metri dalla via congestionata e pretenziosa, si respirava in quel cortile un vago odore claustrale, insieme col fascino dimesso delle cose un tempo utili, e poi lungamente abbandonate.
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Anche in un lavoro (quasi) completamente fittizio come La chiave a stella, Levi non manca di citare la sua amata Torino: il deuteragonista del libro, il finzionale Libertino Faussone che il chimico-scrittore crea mettendo insieme i tratti di più operai specializzati conosciuti durante le sue trasferte di lavoro, è infatti legato alla città per più di un motivo. Innanzitutto dal fatto che fa il mestiere che fa, ovverosia il capacissimo montatore di tralicci, proprio perché (come indica chiaramente il suo nome) non intende andare a lavorare alla Lancia, l’enorme fabbrica che inghiotte la personalità dei suoi operai e li getta in uno sconfinato esistenza pullulante di alienazione. Ma anche perché non intende lavorare nell’officina-bottega (la storica boita) di suo padre, né aprirne una propria in futuro (andando dunque contro il naturale mestiere di famiglia). Nell’orchestrazione complessiva del vissuto di Faussone, Torino e la sua geografia diventano un pretesto tramite cui aumentare la verosimiglianza del personaggio: tramite la sua voce, Levi fa riferimenti inconfondibili alla sua città, dando spessore alle osservazioni e ai racconti del suo deuteragonista.
Già a partire dalla vicenda biografica: nella Chiave a stella si dice infatti che Faussone ha due zie che abitano nel centro storico di Torino, nella pittoresca via Lagrange (oggi pedonalizzata, ma in passato assai trafficata) che collega piazza Castello alla stazione di Porta Nuova e fende il cuore della città, squadrandone la struttura urbanistica mentre converge con le vie sorelle a lei parallele e perpendicolari. Anche le due anziane sono degne rappresentanti secolari del capoluogo piemontese: portando loro notizie del nipote che ha incontrato durante i suoi viaggi di lavoro, l’alter-ego letterario del chimico-scrittore ne riporta un ritratto assai preciso, minuzioso e attento ad ogni dettaglio.
Vive così un luogo mai esistito: in più di un’intervista, il chimico-scrittore affermerà di essersi basato completamente sulla propria fantasia per inventare il passato del suo personaggio, e con esso tutti i parenti che ne fanno parte. Le zie di Faussone, dunque, non esistono, né esiste la loro casa tanto dettagliatamente descritta: le parole di Levi nell’estratto succitato non sono altro che un fantastico gioco di invenzione, che non trova alcun risvolto pratico nella ricerca fisica del luogo descritto. Potremmo tuttavia pensare che, come per la creazione del personaggio del montatore di tralicci, anche per questo luogo il chimico-scrittore abbia voluto utilizzare brandelli di memoria collezionati qui e lì durante la sua vita; o magari sbirciando, durante le sue passeggiate da dilettante curioso per il centro della sua città, qualche misterioso interno delle abitazioni.
Ciononostante, è notevole l’attenzione che impiega per descrivere l’abitazione delle due anziane, insieme al loro cortile con tutto il disordinato strame di oggetti e le curiose presenze che ospitava. Nell’atmosfera che prende forma sulla pagina troviamo infatti molte spie che ci riportano indietro nel tempo: l’ambientazione molto vecchia (quasi ancora ottocentesca) della dimora, le tipiche lastre di pietra montana provenienti da Luserna (in Val Pellice) e una volta impiegate per pavimentare i patii torinesi, l’antica porta di legno macero che si regge in piedi per miracolo nel mezzo del degrado in cui il grazioso interno è stato abbandonato. L’obiettivo di Levi è quello di creare un’oasi immersa nel pieno centro della città ma da essa totalmente separata: esattamente come la stretta delle due zie voleva, teneramente, tener separato il giovane Faussone dal resto del mondo; e così la loro casa diventa una sorta di punto simbolico che riflette i loro personaggi caratterizzando le loro figure. «Ad otto metri dalla via congestionata e pretenziosa, si respirava in quel cortile un vago odore claustrale, insieme col fascino dimesso delle cose un tempo utili, e poi lungamente abbandonate»: le parole di Levi rievocano qui un tempo ormai scomparso, insieme alla coltre di polvere e ricordi con cui il suo ineffabile scorrere ha ammantato ogni cosa in quella fantastica parentesi lontana dal trambusto del centro di Torino.