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Via Lagrange

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Le zie, CS, I: 1158

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Le zie di Faussone abitavano in una vecchia casa di via Lagrange, di soli due piani, rinserrata tra edifici più recenti (ma altrettanto trascurati) alti almeno il triplo. La facciata era modesta, di un colore terroso indefinito, su cui risaltavano, ormai appena distinguibili, false finestre e falsi balconcini dipinti in rosso mattone. La scala B che io cercavo era in fondo al cortile: mi sono soffermato ad osservare il cortile, mentre due massaie mi guardavano con sospetto dai rispettivi ballatoi. La corte ed il portico di ingresso erano in acciottolato, e sotto il portico correvano due carraie in lastre di pietra di Luserna, solcate e logorate dal passaggio di generazioni di carri. In un angolo era un lavatoio fuori uso: era stato riempito di terra e vi era stato piantato un salice piangente. In un altro angolo c’era un mucchio di sabbia, evidentemente scaricata là per qualche lavoro di riparazione e poi dimenticata: la pioggia l’aveva erosa in forme che ricordavano le Dolomiti, e i gatti vi avevano scavato varie comode cucce. Di fronte era la porta di legno di un’antica latrina, macerata in basso dall’umidità e dalle esalazioni alcaline, più in alto ricoperta di una vernice bigia che si era contratta sul fondo più scuro assumendo l’aspetto della pelle di coccodrillo. I due ballatoi correvano lungo tre lati, interrotti soltanto da cancelli rugginosi che si prolungavano fuori delle ringhiere in punte a ferro di lancia. Ad otto metri dalla via congestionata e pretenziosa, si respirava in quel cortile un vago odore claustrale, insieme col fascino dimesso delle cose un tempo utili, e poi lungamente abbandonate.

Fonte: https://www.facebook.com/photo?fbid=2762595800734257&set=gm.1275262709504041

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Anche in un lavoro (quasi) completamente fittizio come La chiave a stella, Levi non manca di citare la sua amata Torino: il deuteragonista del libro, il finzionale Libertino Faussone che il chimico-scrittore crea mettendo insieme i tratti di più operai specializzati conosciuti durante le sue trasferte di lavoro, è infatti legato alla città per più di un motivo. Innanzitutto dal fatto che fa il mestiere che fa, ovverosia il capacissimo montatore di tralicci, proprio perché (come indica chiaramente il suo nome) non intende andare a lavorare alla Lancia, l’enorme fabbrica che inghiotte la personalità dei suoi operai e li getta in uno sconfinato esistenza pullulante di alienazione. Ma anche perché non intende lavorare nell’officina-bottega (la storica boita) di suo padre, né aprirne una propria in futuro (andando dunque contro il naturale mestiere di famiglia). Nell’orchestrazione complessiva del vissuto di Faussone, Torino e la sua geografia diventano un pretesto tramite cui aumentare la verosimiglianza del personaggio: tramite la sua voce, Levi fa riferimenti inconfondibili alla sua città, dando spessore alle osservazioni e ai racconti del suo deuteragonista.

Già a partire dalla vicenda biografica: nella Chiave a stella si dice infatti che Faussone ha due zie che abitano nel centro storico di Torino, nella pittoresca via Lagrange (oggi pedonalizzata, ma in passato assai trafficata) che collega piazza Castello alla stazione di Porta Nuova e fende il cuore della città, squadrandone la struttura urbanistica mentre converge con le vie sorelle a lei parallele e perpendicolari. Anche le due anziane sono degne rappresentanti secolari del capoluogo piemontese: portando loro notizie del nipote che ha incontrato durante i suoi viaggi di lavoro, l’alter-ego letterario del chimico-scrittore ne riporta un ritratto assai preciso, minuzioso e attento ad ogni dettaglio.

Vive così un luogo mai esistito: in più di un’intervista, il chimico-scrittore affermerà di essersi basato completamente sulla propria fantasia per inventare il passato del suo personaggio, e con esso tutti i parenti che ne fanno parte. Le zie di Faussone, dunque, non esistono, né esiste la loro casa tanto dettagliatamente descritta: le parole di Levi nell’estratto succitato non sono altro che un fantastico gioco di invenzione, che non trova alcun risvolto pratico nella ricerca fisica del luogo descritto. Potremmo tuttavia pensare che, come per la creazione del personaggio del montatore di tralicci, anche per questo luogo il chimico-scrittore abbia voluto utilizzare brandelli di memoria collezionati qui e lì durante la sua vita; o magari sbirciando, durante le sue passeggiate da dilettante curioso per il centro della sua città, qualche misterioso interno delle abitazioni.

Ciononostante, è notevole l’attenzione che impiega per descrivere l’abitazione delle due anziane, insieme al loro cortile con tutto il disordinato strame di oggetti e le curiose presenze che ospitava. Nell’atmosfera che prende forma sulla pagina troviamo infatti molte spie che ci riportano indietro nel tempo: l’ambientazione molto vecchia (quasi ancora ottocentesca) della dimora, le tipiche lastre di pietra montana provenienti da Luserna (in Val Pellice) e una volta impiegate per pavimentare i patii torinesi, l’antica porta di legno macero che si regge in piedi per miracolo nel mezzo del degrado in cui il grazioso interno è stato abbandonato. L’obiettivo di Levi è quello di creare un’oasi immersa nel pieno centro della città ma da essa totalmente separata: esattamente come la stretta delle due zie voleva, teneramente, tener separato il giovane Faussone dal resto del mondo; e così la loro casa diventa una sorta di punto simbolico che riflette i loro personaggi caratterizzando le loro figure. «Ad otto metri dalla via congestionata e pretenziosa, si respirava in quel cortile un vago odore claustrale, insieme col fascino dimesso delle cose un tempo utili, e poi lungamente abbandonate»: le parole di Levi rievocano qui un tempo ormai scomparso, insieme alla coltre di polvere e ricordi con cui il suo ineffabile scorrere ha ammantato ogni cosa in quella fantastica parentesi lontana dal trambusto del centro di Torino.

Piazza Statuto – monumento

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Clausura, CS, I: 1044

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Ma anche se non avevo la competenza, mi piaceva lo stesso vederlo crescere, giorno per giorno, e mi sembrava di veder crescere un bambino, voglio dire un bambino ancora da nascere, quando ancora nella pancia di sua mamma. Si capisce che come bambino era un po’ strano perché pesava sulle sessanta tonnellate solo la carpenteria, ma cresceva non così basta che sia, come cresce la gramigna: veniva su ordinato e preciso come nei disegni, in maniera che quando poi abbiamo montato le scalette fra piano e piano, che erano abbastanza complicate, hanno quadrato subito senza che ci fossero da fare dei tagli o delle giunte, e questa è una cosa che dà soddisfazione, come quando hanno fatto il traforo del Fréjus, che ci hanno messo tredici anni, ma poi il buco francese e il buco italiano si sono incontrati con uno sbaglio neanche di venti centimetri, tant’è vero che gli hanno poi fatto quel monumento tutto nero in piazza Statuto, con in cima quella signora che vola.

Fonte: https://www.museotorino.it/images/34/a6/9e/ac/34a69eac45e84c17858add472d4093b2-1.jpg?VSCL=100

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 Anche in un lavoro (quasi) completamente fittizio come La chiave a stella, Levi non manca di citare la sua amata Torino: il deuteragonista del libro, il finzionale Libertino Faussone che il chimico-scrittore crea mettendo insieme i tratti di più operai specializzati conosciuti durante le sue trasferte di lavoro, è infatti legato alla città per più di un motivo. Innanzitutto dal fatto che fa il mestiere che fa, ovverosia il capacissimo montatore di tralicci, proprio perché (come indica chiaramente il suo nome) non intende andare a lavorare alla Lancia, l’enorme fabbrica che inghiotte la personalità dei suoi operai e li getta in uno sconfinato esistenza pullulante di alienazione. Ma anche perché non intende lavorare nell’officina-bottega (la storica boita) di suo padre, né aprirne una propria in futuro (andando dunque contro il naturale mestiere di famiglia). Nell’orchestrazione complessiva del vissuto di Faussone, Torino e la sua geografia diventano un pretesto tramite cui aumentare la verosimiglianza del personaggio: tramite la sua voce, Levi fa riferimenti inconfondibili alla sua città, dando spessore alle osservazioni e ai racconti del suo deuteragonista.

Nell’estratto citato, in particolare, possiamo vedere il montatore di tralicci in azione come prevede la consueta prassi del libro: al pari di un bizzarro e infantile narratore di storie, il suo modo di parlare è irruente, torrenziale, denso di colloquialismi, intercalari, calchi ed espressioni dialettali e, non da ultimo, espressioni tecniche appartenenti al suo settore lavorativo. Il caso qui presentato, infatti, riporta la storia della genesi di una sua grande opera: emerge chiaramente la connotazione biologica che ci fa intuire il colosso di metallo al pari di una creatura vivente, creazione di Faussone che, orgoglioso, ne racconta la costruzione in quella che dovrebbe prendere la forma di un’avvincente epica del lavoro ben fatto.

Il giovane è infatti meticoloso, prodigo e si sente profondamente chiamato a svolgere il suo lavoro: è la sua vocazione, e questo emerge in maniera preponderante dal racconto della sua esperienza lavorativa. In particolare, porta all’attenzione del suo interlocutore la sensazione che si ha una volta concluso un lavoro con maestria e precisione: quando si ammira il proprio risultato, non si può che essere soddisfatti, vedendo rispecchiate le proprie abilità nella perfetta (o quasi) creatura a cui è stato possibile dar vita.

È particolarmente importante il suggello che accompagna questa immagine: ricordando la grande opera ingegneristica che creò uno dei primi punti di contatto diretto tra l’Italia e la Francia tramite la galleria scavata nelle montagne (il traforo del Fréjus, opera che cambiò abissalmente il collegamento di Torino con il resto dell’Europa), il suo pensiero chiama in scena il monumento che torreggia la torinese piazza Statuto. Nella visione giovane montatore, questa non è altro che la celebrazione che inneggia alla perfezione del lavoro riuscito: in un’opera dalle dimensioni ciclopiche quanto quella in questione, gli ingegneri e gli operai incaricati erano riusciti a completarla con un margine di errore di soli venti centimetri, erano riusciti a elaborare previsioni e progettare un piano di azione che è stato rispettato quasi in tutto e per tutto. L’evento epocale meritava dunque una equa opera pubblica che ne ricordasse la grandezza: nella scena raffigurata, la «signora che vola» è una sorta di Nike che raffigura la vittoria del Genio Alato (la perizia umana) contro i Titani (la potenza della natura) che, esausti e sconfitti dallo scontro con la forza che li ha vinti tramite l’ingegno, giacciono sconfitti sul versante della piramide (peraltro realizzata con le stesse pietre estratte durante gli scavi).

Ma piazza Statuto si lega al personaggio di Faussone non solo sotto questo punto di vista: nel luglio del 1962 ospitò una delle storiche manifestazioni torinesi del dissenso operaio. In quei giorni migliaia di lavoratori provenienti dalla Fiat e dalla Lancia scioperarono dalle loro mansioni e, protestando contro il sindacato in reclamo dei loro diritti, si unirono e si scontrarono duramente con le forze dell’ordine, creando un vero e proprio piccolo campo di battaglia all’interno della città.

Via Gasometro (via Camerana)

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La ragazza ardita, CS, I: 1064-1065

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Lei deve sapere che i caposervizio, quando hanno passato una certa età, ognuno ha la sua mania, almeno una: e il mio ne aveva diverse. […] I cuscinetti, per esempio; lui voleva solo quelli svedesi, e se veniva a sapere che su un lavoro qualcuno ne aveva montati degli altri veniva di tutti i colori e saltava alto così, che poi invece di regola era uno tranquillo: e sono solo storie, perché su lavori come quello che le sto raccontando, che era poi un nastro trasportatore, lungo ma lento e leggero, stia sicuro che tutti i cuscinetti vanno bene, anzi, andrebbero bene fino le boccole di bronzo che faceva il mio padrino, una per una, a forza di olio di gomito, per la Diatto e la Prinetti, nella boita di via Gasometro.

Fonte: https://www.facebook.com/photo/?fbid=2574631899431547&set=gm.998826953814286

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Anche in un lavoro (quasi) completamente fittizio come La chiave a stella, Levi non manca di citare la sua amata Torino: il deuteragonista del libro, il finzionale Libertino Faussone che il chimico-scrittore crea mettendo insieme i tratti di più operai specializzati conosciuti durante le sue trasferte di lavoro, è infatti legato alla città per più di un motivo. Innanzitutto dal fatto che fa il mestiere che fa, ovverosia il capacissimo montatore di tralicci, proprio perché (come indica chiaramente il suo nome) non intende andare a lavorare alla Lancia, l’enorme fabbrica che inghiotte la personalità dei suoi operai e li getta in uno sconfinato esistenza pullulante di alienazione. Ma anche perché non intende lavorare nella bottega-officina (la storica boita) di suo padre, né aprirne una propria in futuro (andando dunque contro il naturale mestiere di famiglia). Nell’orchestrazione complessiva del vissuto di Faussone, Torino e la sua geografia diventano un pretesto tramite cui aumentare la verosimiglianza del personaggio: tramite la sua voce, Levi fa riferimenti inconfondibili alla sua città, dando spessore alle osservazioni e ai racconti del suo deuteragonista.

Lo possiamo vedere bene, ad esempio, quando fa citare a Faussone un punto del suo quartiere (la Crocetta) che conosceva molto bene e che aveva sicuramente visto molte volte, passeggiandovi vicino o attraversandone i pressi per recarsi alla stazione. Si tratta della centralissima via Camerana, sul fianco Via Sacchi di Porta Nuova, una volta comunemente nota come Via del Gasometro: alla fine dell’Ottocento, ospitò infatti la prima edificazione che forniva il gas a tutta la città (antenata dell’odierna Italgas), una gigantesca e articolatissima officina in cui lavoravano moltissime persone, una vera rarità all’epoca, prodromo che anticipa la grande evoluzione industriale che investirà il capoluogo nella seconda metà del Novecento, modernizzandola e cambiandone i connotati.

Lo zio di Faussone – proprio come avrebbe dovuto fare anche il nipote – lavorava in una boita, poiché era un artigiano che lavorava i metalli e le loro leghe, un magnìn: in diverse interviste Levi dichiarò infatti di aver preso in prestito questa centenaria e interessantissima tradizione per forgiare il passato familiare del proprio personaggio, per fargli assumere consistenza e verosimiglianza. Lo zio, nella finzione architettata dal chimico-scrittore, diventa un lavoratore torinese che, nella speranza di far fortuna cercando disperatamente di non morire di fame, ha dovuto lasciare le valli del canavese in cerca di fortuna, partendo alla volta della città. Ha scelto di impiegare lì il proprio talento, e quale miglior posto per farlo fruttare di un’officina specializzata?

Il tutto è raccontato dall’inconfondibile estro di Faussone, che infarcisce il testo di espressioni dialettali e calchi dal piemontese, oltre a tecnicismi appartenenti al suo mestiere di montatore. Il realismo linguistico del libro, infatti, è una delle sue caratteristiche più spiccate e apprezzate dai suoi lettori, in particolare quelli che hanno familiarità con il dialetto piemontese: la lingua del personaggio e attribuisce uno spessore assolutamente verosimile che, a tutta prima, gli fa assumere una consistenza incredibilmente reale (che dimostra le grandi doti etnografiche di Levi nel cogliere le particolarità del linguaggio che caratterizza uno specifico gruppo di parlanti).

Accanto al realismo linguistico, in questo estratto possiamo osservare la bravura di Levi (anch’essa artigianale) nel creare un sostrato narrativo accurato, innervato di realismo: a partire dal punto di vista toponomastico, poiché è storicamente attendibile il vecchio nome di via Camerana qui riportato (proprio così figura sui libri, e così lo chiamavano i torinesi di quel tempo); ugualmente dal punto di vista storico, proprio perché viene riportata in vita una concezione appartenente ad un tempo ormai passato, quando molti artigiani lavoravano a mano i metalli per produrre i cuscinetti che sarebbero serviti alle oggigiorno scomparse Diatto (fabbrica metalmeccanica locale allora specializzata nella produzione di veicoli ferrotranviari) e Prinetti Stucchi & Co. (officina meccanica milanese che produceva macchine da cucito, bici e auto); e non da ultimo dal punto di vista geografico, poiché nel centro di Torino (e specialmente in quella via, come è possibile vedere ancora oggi) erano numerosissime le boite attive al piano terra di moltissimi edifici, spazi oggi devoluti all’impiego residenziale.

Francesco De Silva Editore

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P. Lucarini, Intervista a Primo Levi, 1983, III: 369

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Cominciai a scrivere per liberarmi dell’angoscia che dentro di me aveva lasciato Auschwitz. Ero sfiduciato. Di notte rivedevo in sogno tutti gli incubi del Lager. Ero ossessionato dalla memoria dei tanti compagni morti, dalla scomparsa di una donna che mi era stata vicina. Istintivamente ho cominciato a scrivere e mi sono via via liberato. Poi ho scoperto che non avevo inventato nulla […] Franco Antonicelli, che allora dirigeva una piccola casa editrice, la De Silva, mi incoraggiò. Di Se questo è un uomo stampò millecinquecento copie. Se ne vendettero mille, le altre sono annegate a Firenze durante l’alluvione perché la Nuova Italia, che aveva preso i diritti, teneva i volumi in uno scantinato.

Fonte: https://www.facebook.com/photo/?fbid=2283406178366354&set=gm.666079163755735

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Nella formula chimica che lega Primo Levi alla letteratura, non bisogna dimenticare di inserire anche l’elemento metaforicamente rappresentato dall’editore: senza, Levi non sarebbe nemmeno riuscito a pubblicare il suo primo live, non avrebbe guadagnato alcuna visibilità con la riedizione del suo primo capolavoro e non sarebbe stato così noto nel dibattito pubblico del suo tempo. Nel centro di Torino si trovano tutte e tre le case editrici che furono importanti nella sua carriera di scrittore: luoghi in cui doveva recarsi per conoscere i suoi editor, confrontarsi con loro e discutere le linee d’azione da intraprendere. Nel suo pluriennale rapporto con il settore editoriale, infatti, Levi seppe ben sfruttare le proprie carte (letteralmente) e riuscì a pubblicare molti (se non l’insieme intero) dei suoi lavori.

Prima di ogni percorso editoriale che il chimico-scrittore intraprese, sta senza dubbio la ancestrale vicenda con l’editore Francesco De Silva, fondato da Franco Antonicelli, una personalità di spicco della cultura torinese e del nostrano pensiero antifascista. Fu proprio lui a gradire particolarmente il resoconto della vicenda concentrazionari a e il prigioniero 174517 aveva condensato in poche ma importanti pagine. Tanto importante che, penso Antonicelli, l’Italia e il mondo intero dovevano conoscerle: fu lui a credere in Levi proprio quando Einaudi (l’editore che avrebbe poi pubblicato la maggior parte dei lavori del chimico-scrittore, a partire dalla riedizione ampliata di Se questo è un uomo nel 1958) aveva invece deciso che di quel libro non ne avrebbe fatto un granché.

Appare oggi eclatante la misura in cui Einaudi e i critici che rifiutarono la proposta di Levi si sbagliavano: Antonicelli, dall’altro lato, aveva invece fiutato il talento di colui che non era soltanto un reduce, ma si accingeva – poco alla volta – a guadagnare la statura di un vero e proprio scrittore.

A causa della lenta e aspra ripresa nei primi anni del Dopoguerra, le copie della prima edizione di Se questo è un uomo apparirono in tiratura ristretta: questo era probabilmente sintomo del fatto che anche Antonicelli stesso sapeva bene che i tempi non erano ancora completamente maturi per ascoltare i racconti dei reduci dei campi di sterminio (per questo stesso motivo, vuole la vulgata, Einaudi rifiutò il manoscritto). Quando poi la De Silva, già dopo pochi anni di attività, dovette cessare la propria produzione e vendere tutto alla fiorentina Nuova Italia, le copie in esubero vennero trasferite a Firenze, dove andarono distrutte a causa di una rovinosa alluvione. La prima edizione di questo libro è infatti estremamente rara, e ha un valore molto alto sul mercato antiquario, reso ancora più significativo dalla sua travagliata vicenda commerciale.

Non risultano a questa ricerca, purtroppo, passi dell’opera di Levi in cui venga descritto l’edificio che ospitava la redazione della piccola casa editrice (mentre il nome ricorre più volte nelle interviste). Ciononostante, l’indirizzo della sede storica (nella centralissima via Bertola) è stato tramandato ed è arrivato su più di un articolo di giornale. Sebbene non ci sia alcuna parola ufficiale che dimostri un’effettiva visita di Levi a questo luogo, nulla ci vieta di immaginarcelo mentre, partito da casa sua in corso re Umberto con ben stretto sul cuore il malloppo bruciante delle sue memorie, si destreggia scansando le macerie che ingombrano i lati delle strade e spesso ostruiscono il passaggio, magari percorrendo in linea retta l’asse di Re Umberto che sbocca in centro su via Cernaia e, finalmente e senza alcuna ambizione letteraria, consegna il viluppo di ricordi autorevolmente filtrato e ordinato affinché le sue parole possano essere impresse sulla carta stampata una volta per sempre, affinché possano scolpire la gorgonea verità di Auschwitz in quanti più cuori possibile.

Giulio Einaudi Editore

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Con la chiave della scienza, 1985, PS, II: 1631

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[…] a Italo devo molto. Quando era redattore presso la sede torinese di Einaudi, era per me naturale fare capo a lui. Lo sentivo come un fratello, anzi, come un fratello maggiore, benché avesse quattro anni meno di me. A differenza di me, era del mestiere: lo aveva nel sangue. Figlio spirituale di Pavese, ne aveva ereditato l’esperienza editoriale, la severità, il giudizio risentito e rapido. Le sue dritte, i suoi consigli, non erano mai generici né gratuiti.

Fonte: http://badigit.comune.bologna.it/mostre/einaudi/1.htm

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Nella formula chimica che lega Primo Levi alla letteratura, non bisogna dimenticare di inserire anche l’elemento metaforicamente rappresentato dall’editore: senza, Levi non sarebbe nemmeno riuscito a pubblicare il suo primo live, non avrebbe guadagnato alcuna visibilità con la riedizione del suo primo capolavoro e non sarebbe stato così noto nel dibattito pubblico del suo tempo. Nel centro di Torino si trovano tutte e tre le case editrici che furono importanti nella sua carriera di scrittore: luoghi in cui doveva recarsi per conoscere i suoi editor, confrontarsi con loro e discutere le linee d’azione da intraprendere. Nel suo pluriennale rapporto con il settore editoriale, infatti, Levi seppe ben sfruttare le proprie carte (letteralmente) e riuscì a pubblicare molti (se non l’insieme intero) dei suoi lavori.

Il torinese Giulio Einaudi, che aveva fondato l’omonima casa editrice ancora oggi incredibilmente attiva, è sicuramente una delle personalità che possiamo avvicinare allievi secondo questo punto di vista: la storia del chimico-scrittore con questo editore è decisamente travagliata e già a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta, quando, appena tornato dal campo di sterminio è ancora versato giorno e notte dalla trappola dei ricordi, Levi stende il suo primo capolavoro, Se questo è un uomo. Nonostante i molti racconti fatti agli amici e alle persone per strada, o sui treni, sentendosi alla pari del Vecchio Marinaio di Coleridge, il reduce avrebbe un estremo piacere che la sua prova (testimoniale e, secondo le sue intenzioni, tutt’altro che letteraria) acquisisse una forma vera e propria, una forma-libro incanalata in un oggetto materialmente esistente, dunque non più un aleatorio racconto improvvisato sul momento. È proprio in virtù di questo desiderio che propone la sua creazione alla casa editrice Einaudi: dove, però, viene amaramente stroncato, e il suo sforzo non riconosciuto.

Appare oggi eclatante la misura in cui Einaudi e i critici che rifiutarono la proposta di Levi si sbagliavano: nel frattempo, Franco Antonicelli approfittò della circostanza favorevole e nel 1947 diede una vitale opportunità editoriale al reduce, stampandone il libro presso la sua casa editrice. Levi non era comunque intenzionato a demordere: tanto che, undici anni dopo (nel 1958), Einaudi ritornò sui propri passi e rivalutò la proposta di pubblicazione. Ne nacque un’edizione ampliata di Se questo è un uomo, la stessa che leggiamo ancora tutt’oggi.

Iniziò qui la fitta collaborazione tra Levi e l’Einaudi, che divenne il suo editore ufficiale: pressoché tutti i suoi lavori sono apparsi per i suoi tipi, oltre a diverse edizioni scolastiche dei suoi volumi più gettonati. Se per il primo volume Levi dovette subire il calvario dell’ascesa in salita, così non fu per le seguenti iniziative editoriali: divenne un autore di spicco già a partire dalla Tregua, nel 1963, che si poneva come naturale prosieguo del primo libro, per approdare poi alle raccolte di racconti, assumere sempre più rilevanza con il Sistema periodico e con tutti gli altri volumi successivi, fino a chiudere circolarmente la trattazione della vicenda concentrazionaria con la pubblicazione dei Sommersi e i salvati (uscito circa un anno prima della scomparsa di Levi).

Ma il chimico-scrittore non fu soltanto un autore per la casa editrice: più e più volte fece da editor esterno, valutò manoscritti, diede pareri editoriali, siglò prefazioni e produsse traduzioni (che gli valsero tanta ammirazione anche fuori dall’Italia). Fu questa una opportunità incredibile: gli permise di conoscere da vicino le pratiche editoriali e di partecipare in prima persona alle attività della casa, non solo conoscendo E stringendo forti rapporti con molte persone, ma anche modi di intendere la cultura legata al mondo dei libri. Non è infatti un caso che Einaudi volle tirarlo in ballo in diverse iniziative editoriali che caratterizzano la sua storia: ricordiamo, ad esempio, l’antologia personale La ricerca delle radici (1981) per la stesura della quale levi fu incaricato editor di se stesso; buona partecipazione alla collana Scrittori tradotti da scrittori, in cui dovette cimentarsi nella resa italiana del Processo di Kafka, che lo assorbì come un vortice.

Oltre ancora a ciò, il lavoro e l’assidua presenza alla casa editrice Einaudi diede a Levi l’opportunità di entrare in contatto con gli esponenti di spicco del circolo culturale ad essa legato: per fare due nomi tra i più importanti, Cesare Pavese e Italo Calvino (di cui l’estratto succitato è una parte dell’elogio funebre), entrambi molto importanti per l’opera di Levi. Se il primo era un modello stilistico e concettuale tramite cui comprendere meglio la letteratura, il secondo era invece il gemello asimmetrico con cui esplorare i misteri del mondo e dell’universo divertendosi grazie al potere delle parole.

Non risultano a questa ricerca, purtroppo, passi dell’opera di Levi in cui venga descritto gli edifici che ospitarono la redazione della piccola casa editrice durante i periodi di permanenza a Torino (mentre il nome ricorre più volte nelle interviste, ma soltanto in relazione alla riedizione di Se questo è un uomo). Ciononostante, l’indirizzo della sede storica (nella centralissima via Bertola) è stato tramandato ed è arrivato su più di un articolo di giornale. Ci sono diverse testimonianze ufficiali che dimostrano l’effettiva frequentazione di questo luogo da parte di Levi (specie nelle interviste, alcune delle quali si svolsero proprio nella sala conferenze einaudiana), e possiamo essere più che certi che si ritrovò a frequentare quei locali in ben più di un’occasione: sembra quasi di vederlo, mentre tira dritto e percorre verso nord quasi tutta la linearità di corso Re Umberto, assecondando le linee che scandiscono l’ossessiva geometria torinese, fino ad arrivare direttamente nella traversa di via Biancamano, dove dopo la guerra Giulio Einaudi vuole piazzare la sua casa editrice (trasferendola dai locali di via dell’Arcivescovado, dov’era invece sorta).