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Via Massena – laboratorio

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Stagno, SP, I: 1000

Passo
Nonostante il parere d’Emilio, fu subito chiaro che le nostre forze non sarebbero bastate. Ci fu doloroso armolare una coppia di carpentieri, a cui Emilio prescrisse di costruire un’attrezzatura adatta a sradicare la cappa dai suoi ancoraggi senza smembrarla: questa cappa era insomma un simbolo, l’insegna di una professione e di una condizione, anzi di un’arte, e avrebbe dovuto essere depositata nel cortile intatta e nella sua interezza, per ritrovare nuova vita e utilità in un futuro per ora non precisato.
Fu costruita un’impalcatura, montato un paranco, tese funi di guida. Mentre Emilio ed io assistevamo dal cortile alla funerea cerimonia, la cappa uscì solenne dalla finestra, si librò ponderosa, si stagliò contro il cielo grigio di via Massena, venne abilmente agganciata alla catena del paranco, e la catena gemette e si spezzò. La cappa piombò per quattro piani ai nostri piedi, e si ridusse in schegge di legno e vetro; odorava ancora di eugenolo e d’acido piruvico, e con lei si ridusse in schegge ogni nostra volontà ed ardimento d’intraprendere.

Fonte: https://www.facebook.com/Torinopiemontevintage/photos/a.1511442105807240/2272509123033864/

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Il mestiere di chimico di Levi, lo sappiamo, fu tutt’altro che un lavoro da ufficio, piatto e noioso, specie nella prima parte della sua carriera professionale: furono molte le avventure che dovette compiere quando era un giovane diplomato che cercava un lavoro stabile per poter mantenere se stesso e sua moglie. L’estratto risale infatti agli anni del laboratorio creato in via Massena con l’Emilio del Sistema periodico (alias letterario del grande amico Alberto Salmoni), più in particolare al momento finale del suo smembramento, quando si deve trasportare via la simbolica cappa, «insegna di una professione e di una condizione, anzi di un’arte» (Stagno, SP, I: 998): si trattava, come leggiamo poche pagine prima, di una «grande cappa d’aspirazione di legno e vetro, nostro orgoglio e nostro unico presidio contro la morte per gas», e avrebbe dovuto essere conservata per il futuro.

Al contrario, però, durante lo smontaggio (il «compito più straziante», Stagno, SP, I: 1000) subisce un incidente fatale, che pregiudica l’umore dello smantellamento, quasi un rito di passaggio. La cappa era infatti uno dei primi e più importanti strumenti dei due chimici alle prime armi: uno degli acquisti fondamentali per la prima esperienza lavorativa che i due decidono di mettere su per far fronte alla penuria del Dopoguerra; ci troviamo cronologicamente sul finire degli anni Quaranta, quando Levi è già sposato e vive molte delle avventure raccontate nel resoconto della sua carriera di chimico-militante.

Di tutta le vicende ricordate e narrate nel Sistema periodico, questo è certo uno degli accadimenti più simbolici e sinistri: è l’episodio conclusivo del capitolo, l’ultima scheggia di memoria che chiude la catena dei ricordi legata all’elemento chimico dello stagno, così rappresentativo della carriera dei due giovani, che avevano ritagliato il proprio luogo di lavoro dalla casa dei genitori di Emilio, arrangiandosi alla meglio e trasfigurandone i locali secondo bisogno: «l’anticamera era un deposito di damigiane d’acido cloridrico concentrato, il fornello di cucina (fuori delle ore dei pasti) serviva a concentrare il cloruro stannoso in becher e beute da sei litri, e l’intero alloggio era invaso dai nostri fumi» (Stagno, SP, I: 997).

Vale la pena, per capire l’importanza dell’elemento e dunque della cappa in frantumi, ricordare le prime righe di questo racconto, che contiene una delle più lucide prese di coscienza (certo scritte dal Levi maturo, ma molto probabilmente rimuginate dalla sua stessa persona là e allora): «Vola, adesso: volevi essere libero e sei libero, volevi fare il chimico e fai il chimico. Orsù, grufola tra veleni, rossetti e stereo pollino; granula lo stagno, versa acido cloridrico, concentra, travasa e cristallizza, se non vuoi patire la fame, e la fame la conosci. Compera stagno e vendi cloruro stannoso» (Stagno, SP, I: 996). È un incoraggiamento retrospettivo che tocca i punti principali del rapporto di Levi con la chimica (e con le lezioni imparate nel praticarla), quali ad esempio il confronto diretto con la materia, la sua trasmutazione alla pari degli antichi e primigeni alchimisti, la caccia al guadagno per sopravvivere, il provvedere e il farsi da sé, l’arte di arrangiarsi, il dover rispondere in prima persona agli errori. Il racconto appassionato delle loro imprese testimonia oggi come la mansione fosse divertente per Levi, forse amara, ma certo più stimolante e coinvolgente del lavoro in fabbrica: per questo l’andare in mille pezzi della cappa è un suggello perfetto della vicenda, quasi un rito funerario della loro impresa. Sotto le sue ali i due giovani erano cresciuti, avevano segnato i loro primi veri guadagni, messo in pratica gli insegnamenti dell’apprendistato, trasmutato gli elementi e compreso la filosofia di quella chimica magistra vitae, appiedata e a misura d’uomo, quotidiana e piena di sfide e misteri.

Istituto di Fisica Sperimentale

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Potassio, SP, I: 900

Passo
L’interno dell’Istituto di Fisica Sperimentale era pieno di polvere e di fantasmi secolari. C’erano file di armadi a vetri zeppi di foglietti ingialliti e mangiati da topi e tarme: erano osservazioni di eclissi, registrazioni di terremoti, bollettini meteorologici bene addietro nel secolo scorso. Lungo la parete di un corridoio trovai una straordinaria tromba, lunga più di dieci metri, di cui nessuno sapeva più l’origine, lo scopo e l’uso: forse per annunciare il giorno del Giudizio, in cui tutto ciò che si asconde apparirà. C’era una eolipila in stile Secessione, una fontana di Erone, e tutta una fauna obsoleta e prolissa di aggeggi destinati da generazioni alle dimostrazioni in aula: una forma patetica ed ingenua di fisica minore, in cui conta più la coreografia del concetto.

Fonte: https://www.aspi.unimib.it/collections/entity/detail/444/ e Archivio Scientifico e Tecnologico ASTUT – Università degli Studi di Torino

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Potassio è tra i più famosi e citati racconti che compongono il Sistema periodico. È la cronaca degli anni dell’apprendistato chimico di Levi, in particolare all’indomani dell’avvento delle leggi razziali promosse dal regime fascista: il giovane studente di chimica, ebreo suo malgrado, non riesce a trovare nessun professore tramite cui poter davvero imparare qualcosa, fare gli esperimenti giusti, cimentarsi in compiti difficili per apprendere quanto più possibile durante un periodo tanto ricco di ispirazioni. Fuori dalle mura dell’Istituto di chimica, per parafrasare una definizione sempre dal Sistema periodico, la situazione era buia, ma ancor di più lo era in Europa: era il 1941 e la deportazione nazista aveva già preso inizio. Il quadro politico era raccapricciante: lo strapotere della Germania andava crescendo sempre di più, nella speranza di poter conquistare sempre più territori, a partire dalla Polonia. Gli ebrei italiani, nella fattispecie e quelli torinesi, erano però vittime di quella che Levi definisce “cecità volontaria”: continuavano a condurre le proprie esistenze regolarmente, non volevano essere vittime di preoccupazioni ingestibili, di cui nemmeno lontanamente avrebbero immaginato le conseguenze, e continuavano a vivere la propria vita senza curarsi di cosa succedeva in Europa. C’erano fonti che lo affermavano, certo, ma mancava il desiderio di conoscerle davvero, e di organizzarsi di conseguenza; mancava addirittura il desiderio di opporsi ad un regime tanto stretto quanto quello fascista, nonostante impedisse agli ebrei di vivere davvero al pari degli altri.

Anche il giovane Levi: completamente (e volutamente) ignaro delle possibili conseguenze che verso cui il suo destino lo avrebbe condotto, era preoccupato di trovare un buon lavoro che gli permettesse di guadagnare abbastanza da condurre una vita agiata, esattamente come giustificavano ai suoi occhi i modelli della piccola borghesia torinese, tra cui in particolare i suoi genitori. Per farlo, sapeva bene che doveva diventare un tecnico bravo e capace, e che quindi si sarebbe dovuto laureare con un’ottima votazione all’università. Suo malgrado, a causa delle leggi razziali nessun professore era intenzionato a prenderlo come proprio tesista. Ci sarebbe dunque stato il suo maestro?

Proprio l’Assistente (al secolo Nicolò Dallaporta): specializzato in astrofisica, “il regno dell’inconoscibile” come lo chiamava, iniziò Levi ad una disciplina quasi esoterica, di cui soltanto pochi adepti potevano intendersi davvero. Era insomma la figura esperita che il giovane assetato di sapere stava aspettando; e lo divenne ufficialmente – o quasi – quando propose a Primo di collaborare con lui. Così il discepolo poté avere accesso, in veste inconsueta, all’edificio in cui entrava soltanto come studente: l’Istituto di Fisica Sperimentale, dove l’Assistente aveva il suo microscopico ufficio (in realtà un ripostiglio riadattato), sarebbe stato il loro rifugio alle asperità della Storia che sconquassavano l’Europa, fuori da quelle spesse mura.

L’estratto sopracitato ne descrive l’interno più che l’esterno, e favorisce l’immagine di una gigantesca arca piena di utilissima strumentazione, seppur datata, arcaica e vetusta, piena di polvere e inutilizzata. Qualche pagina più avanti si legge la rassegna di un’incursione vera e propria alla ricerca del necessario: l’Assistente propose a Levi di verificare la parte chimica di una rivoluzionaria teoria fisica di cui era venuto a conoscenza; per farlo, avrebbe dovuto avviare una serie di esperimenti volti alla ricreazione e all’osservazione delle condizioni. Ancora una volta l’interno dell’edificio, sfiancato dai bombardamenti e impoverito dal regime autarchico che limitava i rifornimenti (siamo nel 1941), viene presentato come un catasto pieno di oggetti misteriosi e curiosi segnati dal passaggio del tempo, tra i quali il giovane chimico deve agilmente destreggiarsi per trovare ciò che gli serve per superare la prova: «Frugai invano il ventre dell’Istituto: trovai dozzine di ampolle etichettate, come Astolfo sulla Luna, centinaia di composti astrusi, altri vaghi sedimenti anonimi apparentemente non toccati da generazioni, ma sodio niente. Trovai invece una boccetta di potassio: il potassio è gemello del sodio, perciò me ne impadronii e ritornai al mio eremitaggio» (Potassio, SP, I: 903).

A questa descrizione segue un’appassionante cronaca dell’esperimento (con l’avvincente e genuina trattazione filosofica della distillazione) che termina in un elogio mascherato di quella «chimica impastata di puzze, scoppi e piccoli misteri futili» (Potassio, SP, I: 905) che Levi avrebbe praticato per tutta la vita. Pur sciocca e inutile agli occhi dell’Assistente, per il giovane Levi la rivelazione di quell’attimo fu letteralmente a base chimica: questa affascinante disciplina è un sapere esatto, preciso, necessario e fortemente morale (poiché dal comportamento degli elementi l’uomo può trarre importanti lezioni).

Mole Antonelliana – sinagoga

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Prefazione Ebrei a Torino, 1984, PS, II: 1559

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Paradossalmente, la nostra storia di gente tranquilla e dimessa è connessa con quella del maggior monumento torinese, che dimesso non è, né conforme alla nostra indole: […] abbiamo corso il serio rischio di condividere con Alessandro Antonelli la responsabilità per la presenza, in pieno centro urbano, della Mole, spropositato punto esclamativo. Beninteso, anche noi, come tutti i torinesi, nutriamo per la Mole un certo amore, ma è un amore ironico e polemico, da cui non ci lasciamo accecare. La amiamo come si amano le pareti domestiche, ma sappiamo che è brutta, presuntuosa e poco funzionale; che ha comportato un pessimo uso del pubblico denaro; e che, dopo il ciclone del 1953 ed il restauro del 1961, sta su grazie ad una protesi metallica. Insomma, da un pezzo non ha più neppure diritto ad una menzione nel Guinness dei primati: non è più, come ci insegnavano a scuola, “la più alta costruzione in laterizi d’Europa”.

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Senz’altro curioso, il fatto che la Mole Antonelliana compaia soltanto di scorcio nelle opere di Levi lascia un dubbio a dir poco amletico dietro di sé: come è possibile che il chimico scrittore, affezionato così tanto alla società, non ne citi praticamente mai il simbolo più noto non solo in tutta Italia, ma anche in tutto il mondo? Una sua descrizione con un rilievo geocritico importante, come è invece per molti altri luoghi, è infatti assente: non c’è infatti un testo che ne descriva l’aspetto, le qualità, la storia o il significato se non quello da cui proviene l’estratto succitato.

Si tratta di una prefazione che Levi scrisse per il volume dedicato alla ricostruzione della comunità ebraica nostrana, di cui lui stesso faceva parte, di cui conosceva molti esponenti prima che la scellerata combutta di fascismo e il nazismo li spazzasse via. Troviamo in questo testo diverse somiglianze con il racconto iniziale del Sistema periodico, Argon, molto importante poiché aveva reso Levi uno degli storici e linguisti principali della comunità ebraica locale. In ambito amatoriale, s’intende: ma di certo alla comunità degli ebrei torinesi questa sua fortunata trattazione non deve essere sfuggita, e anzi deve averli appassionati sicuramente molto. La sua firma in chiusura della prefazione aggiunge infatti un valore determinante al libro: la storia della famiglia di Levi è molto simile a quella dei correligiosi locali, a cui i suoi parenti presero parte pur conservando la loro riservatezza; come nel racconto iniziale dell’autobiografia, la storia si intreccia con la lingua, che crea un precipitato unico sulla base del dialetto torinese unito alla lingua degli avi e della tradizione.

La Mole, in particolare, è intimamente intrecciata con la storia comunale di questa etnia: in seguito al 1848, quando Carlo Alberto firmò lo Statuto Albertino e sancì la libertà di culto per tutti i cittadini che professavano religioni non cattoliche, gli israeliti reclamarono un luogo di culto locale e acquistarono il terreno su cui sarebbe sorto, diretto dall’architetto Giuseppe Antonelli, l’edificio progettato che sarebbe divenuto il simbolo del capoluogo piemontese.

Noleggiamo chiaramente nella descrizione Levi, fortemente condita con un’ironia pungente: aldilà della superficie, oltre alle parole che riconoscono l’imponente costruzione architettonica che svetta nel cielo della città come uno dei suoi simboli più importanti e rappresentativi, leggiamo chiaramente che si tratta di un «amore ironico e polemico» da cui non bisogna farsi ingannare. Nelle parole di Levi, infatti, la costruzione viene paragonata ad uno «spropositato punto esclamativo», E gli aggettivi che la descrivono stridono fortemente con l’attaccamento paterno che dovrebbe invece raffigurare: Levi dice addirittura che è «brutta, presuntuosa e poco funzionale», e non nasconde il suo sollievo sottolineando come la storia della comunità ebraica locale si sia fortunatamente staccata dalla costruzione, figlia invece del «pessimo uso del pubblico denaro».

Con la cessione permessa da Carlo Alberto, sarebbero stati proprio fedeli israeliti a doversi occupare economicamente dei lavori di realizzazione e mantenimento dello stabile. Le spese sempre più ingenti e le continue riprogettazioni di Antonelli li costrinsero infatti, oltraggiati dall’insensibilità nei confronti delle loro richieste, a rinunciare alla proprietà e a chiedere la concessione di un altro luogo di culto il cui impiego fosse meno dispendioso. La Mole raggiungeva allora soltanto settanta metri di altezza: avrebbe raggiunto la sua attuale forma soltanto in seguito a continue rielaborazioni del progetto originale e un cantiere che durò quarant’anni (oltre ai lavori di ristrutturazione per riparare i danni contratti in seguito al ciclone che, negli anni Cinquanta, ne spezzò la punta).

Per loro fortuna, scrive Levi: «abbiamo corso il serio rischio di condividere con Alessandro Antonelli la responsabilità per la presenza, in pieno centro urbano, della Mole», certo bellissima per qualunque turista che visiti il centro storico, ma fortemente aliena rispetto al carattere dei fedeli che un tempo ne occuparono i locali – per un periodo assai breve – mentre recitavano le loro preghiere e celebravano le loro festività e funzioni religiose. «Paradossalmente, la nostra storia di gente tranquilla e dimessa è connessa con quella del maggior monumento torinese, che dimesso non è, né conforme alla nostra indole»: il suo giudizio è netto, tagliente e definitivo, oltre che coerente alla caratterizzazione che ritroviamo in diversi punti della sua opera in relazione all’ereditario credo religioso della sua famiglia, nobile e inerte come i gas che occupano i primi quadranti della tavola periodica di Mendeleev.

Mole Antonelliana

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G. Tesio, Torino, 1980, III: 190

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Io fui deportato da Aosta a Fossoli, prima della vera e propria deportazione ad Auschwitz. Quando il treno arrivò a Chivasso, era un tramonto di febbraio. Il cielo era torbido ma dalla stazione riuscii a vedere la Mole. Fu quello il momento dello strappo, un addio che mi straziò.

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Senz’altro curioso, il fatto che la Mole Antonelliana compaia soltanto di scorcio nelle opere di Levi lascia un dubbio a dir poco amletico dietro di sé: come è possibile che il chimico scrittore, affezionato così tanto alla società, non ne citi praticamente mai il simbolo più noto non solo in tutta Italia, ma anche in tutto il mondo? Eppure è così, tant’è che la citazione qui riportata proviene da un’intervista dedicata alla città, fatta a Levi da Giovanni Tesio, e non – come ci si aspetterebbe – da un testo letterario che ne descrive l’aspetto, le qualità, la storia o il significato. Non che questo non ci sia, ma sicuramente manca una descrizione con un rilievo geocritico importante, come è invece per molti altri luoghi.

A ben vedere, tuttavia, emerge chiaramente come la Mole sia, agli occhi di Levi, l’emblema architettonico per eccellenza di Torino: nella linea dei tetti della capitale piemontese, la sua cupola e il suo pennacchio svettano e si fanno riconoscere rendendosi ben visibili da ogni punto della città. La Mole si contende oggi con alcune opere architettoniche quali grattacieli e grandi palazzi il dominio dello skyline che una volta invece spettava a lei sola: guardando Torino dagli occhi di Levi, vediamo infatti la sua cupola innalzarsi maestosa in prospettiva alle montagne che si ergono all’orizzonte. Se ragionassimo infatti sulla presenza di alcune vedute torinesi nelle opere del chimico-scrittore, troveremmo certamente che i più significativi sono quelli legati alle montagne, appunto simbolo di casa poiché il loro profilo è ben visibile (fatto salvo per i giorni di nebbia, o durante acquazzoni e temporali) dalla pianura che punta in alto, verso le Alpi.

Ma alla Mole spetta la presenza in un quadro celeste tutt’altro che positivo: nell’intervista qui riportata, emerge chiaramente come sia l’ultima immagine di Torino che il partigiano deportato Primo Levi vede quando viene condotto verso Fossoli, a Modena, e da lì poi verso la Polonia. Arrivato dalla Val d’Aosta a Chivasso, una città nella periferia di Torino, nel lugubre tramonto in cui quel giorno tanto sfortunato volge al termine, riconosce senza alcuna ombra di dubbio la gigantesca cupola che riempie il suo sguardo di amarezza, nostalgia e paura, come un pargolo che si sente abbandonato dall’abbraccio caldo e confortevole della propria madre: in cuor suo, pur non sapendo dove sarebbe andato a finire e cosa ne sarebbe stato di lui, Levi – magari con leggero sentimento retrospettivo – confessa al suo intervistatore di aver creduto che fosse quello il suo ultimo sguardo alla regina dell’architettura custodita nel centro di Torino.

Palazzo Carignano – marciapiedi

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Segni sulla pietra, 1979, poi in AM,II: 848

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I marciapiedi più vecchi e più tipici sono invece fatti di lastroni di pietra dura, pazientemente sgrossata e scalpellata a mano. Il grado dei loro logorìo ne consente una grossolana datazione: le lastre più antiche sono lisce e lucide, lavorate dai passi di generazioni di pedoni, ed hanno assunto l’aspetto e la patina calda delle rocce alpine levigate dal mostruoso attrito dei ghiacciai. […] Dove […] l’attrito è stato minore o nullo, si distingue ancora la ruvidezza originaria della pietra, e spesso i singoli colpi di scalpello: questo si vede bene lungo i muri, per una distanza di un palmo, e particolarmente bene sul lastricato che sta davanti al Palazzo Carignano; il percorso rettilineo tangente all’ingresso principale è eroso normalmente, mentre i recessi della facciata barocca albergano lastre ruvide, perché per più di tre secoli non ci è passato quasi nessuno.

Fonte: https://www.facebook.com/photo/?fbid=1360938033976871&set=gm.406803093016678

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Nell’Altrui mestiere, la raccolta pubblicata nel 1985 che conteneva gli articoli pubblicati su «La Stampa» a partire dal 1976, Primo Levi dà sfogo al suo caledoscopico talento di scrittore, compiendo invasioni di campo che lo portano a speculare su settori assai diversi dalla memorialistica e dalla chimica, di cui era ormai divenuto campione. Nelle pagine di questa raccolta è all’opera un talento poliedrico interessato alle manifestazioni della cultura in tutte le sue forme: dalla linguistica alla critica letteraria, dalla chimica alla biologia e all’entomologia, dalla geografia alla storia, il vagabondaggio del letterato curioso e chimico ormai in pensione segna una delle tappe di riflessione più interessanti del secondo Novecento. In particolare, possiamo vedere qui all’opera una tendenza archeologica: il tarlo metodologico di Levi sembra portarlo costantemente verso la pratica di scavo nel passato, specialmente in relazione alla sedimentazione delle parole, componendo un’assidua e originale ricerca (e ricomposizione) della loro storia perduta. Quasi come uno storico che interroga i segni lasciati dall’ineffabile flusso degli eventi che dietro di sé non lascia che disunite tracce da interrogare, il chimico-scrittore ragiona su quanto osserva e stende i propri testi offrendo ai suoi lettori i risultati delle sue elucubrazioni e ricostruzioni.

L’articolo da cui proviene l’estratto succitato, Segni sulla pietra, mantiene il suo nome anche dopo la conversione nella raccolta di saggi (a differenza di molti altri testi). Iniziando dapprima con un’attenta disamina della storia torinese che si può osservare sulle superfici pietrose e rocciose che occupano i lati delle strade cittadine, termina infine con la presa in considerazione dell’azione dirimente e deturpante della modernità su quella parte della facciata urbana di Torino che sembra essere lì da tempi immemori. Oggetto di osservazione privilegiato sono proprio i marciapiedi, le cui superfici lastricate che furono posizionate moltissimo tempo fa (in specie agli albori della città in epoca moderna), e resistono tutt’oggi, affiancati dai loro nuovi compagni in asfalto e cemento. «I marciapiedi della mia città (e, non ne dubito, quelli di qualsiasi altra città) sono pieni di sorprese» (Segni sulla pietra, 1979, poi in AM,II: 847), scrive esattamente: sono dunque pieni di segni da inventariare che possono essere fecondamente interrogati, tanto guardando al passato quanto immaginando il futuro. Così come noi oggi possiamo leggere le trame e gli avvicendamenti della Storia che proprio su questa parte del quadro urbano hanno lasciato la loro traccia, anche gli archeologi del futuro potranno infatti ritrovare quanto noi oggi lasciamo distrattamente e imprudentemente dietro di noi in seguito al nostro passaggio. Levi immagina che, nel futuro, tutte le scorie da noi depositate verranno ritrovate, saranno restituite dal sottosuolo e, come fossili, interrogate da appositi studiosi interessati a ricostruire le nostre abitudini, e non da meno tutto quello che fa parte della nostra quotidianità senza che noi ce ne accorgiamo, mentre nelle nostre frenetiche vite scalpicciamo su questi luoghi, lasciando traccia del nostro passaggio.

Una splendida prova di questa pratica è costituita proprio dall’analisi dei marciapiedi più antichi in cui il chimico-scrittore si cimenta nel suo articolo: il lastricato che troviamo davanti a Palazzo Carignano nel centro storico di Torino subito dietro piazza Castello (che fu vitale organo pulsante della vita politica cittadina nell’Ottocento), è un esempio che ben si presta a una lettura di questo tipo. Nell’estratto succitato è descritta la facciata barocca costruita nella seconda metà del Seicento da Guarino Guarini, architetto che ha progettato la costruzione di diversi edifici nel centro del capoluogo.

Qui il lessico descrittivo di Levi diventa estremamente chiaro e preciso: parla dei «recessi», cioè delle rientranze che spezzano la monotonia delle facciate e dei plessi circostanti (caratteristiche dello squadratissimo centro torinese), e con il suo cristallino modo di esprimersi descrive l’usura del lastricato (purtroppo oggi giorno sostituito dai tipici porfidi geometricamente disposti a forme di onde). Al suo tempo, si poteva infatti scorgere una differenza notevole: le lastre su cui fluiva il traffico cittadino erano quelle parallele alla linea della facciata, e non quelle che rientravano verso l’interno dell’edificio; erano dunque le prime a dover sopportare un frequente e continuo attrito dovuto al passaggio di uomini, bestie, carri e, più tardi, automobili. Lo stesso attrito di cui, con grande interesse e acribia di urbanista storico, Levi porta notizia, descrivendone minuziosamente gli effetti nel suo interessante e originale articolo.