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Invincibile

Agnese Genta, in questo suo scritto, rielabora il celeberrimo mito degli androgini raccontato nel Simposio, concentrandosi sull’interiorità e sulla condizione di incompiutezza e confusione dell’essere rimasto dimezzato e paragonandola allo stato di incompletezza che caratterizza la natura umana. Il testo è stato sviluppato nel corso del seminario di Scritture del desiderio, svoltosi nell’ambito del corso di Letterature comparate, della Prof.ssa Chiara Lombardi, 2021/2022

“Perché a volte ci sentiamo incompleti, come se ci mancasse qualcosa, ma non sapessimo bene cosa? E qualunque cosa facciamo quella sensazione non passa. Sehnsucht, malinconia, desiderio, mancanza, un vuoto incolmabile e indefinibile. Questa riscrittura, sotto forma di introspezione, vuole essere una sorta di mito eziologico che risponde a tale domanda reinterpretando, anche con l’aggiunta di elementi innovativi di finzione narrativa, in chiave romantico – schopenhaueriana il mito degli androgini raccontato da Platone nel Simposio attraverso la maschera di Aristofane”.

*

Apro gli occhi.

Luce abbagliante. Luce, luce, luce e ancora luce. Basta.
Li richiudo.
Respiro. Una, due, tre volte. Più piano o mi mancherà l’aria.
Sono vivo, quindi.
Sono malamente appoggiato a qualcosa di duro e rovente. Dovrei provare a tastarlo per capire se sono in pericolo, ma ho paura a muovermi. Sono terrorizzato dalla possibilità di provarci e non riuscirci, di essere in qualche modo bloccato da qualcosa o da qualcuno.
Devo capire dove sono. Devo aprire gli occhi. Di nuovo. Non voglio.
Mi paralizza solamente percepire quella luminosità penetrante al di là delle palpebre. Mi lascia impaurito e tremante, con il torace che tutto d’un tratto sembra essere troppo debole per contenere il cuore, il sangue e tutti gli altri organi. Un nero luminescente e accecante, anche con gli occhi chiusi. È terribile, come se milioni di minuscoli aghi mi stessero trapassando gli occhi, la fronte, il cranio, fino ad arrivare al cervello.
Schiudo lentamente le palpebre facendo tremolare le ciglia un paio di volte prima di mettere finalmente a fuoco qualcosa oltre quel banco di luce. L’azzurro del cielo, il verde delle colline, il nero dei corvi che comunicano tra loro gracchiando. Riesco anche a sentire dei grilli. Una folata di vento solleva la polvere del terreno arido e mi solletica il naso in modo familiare.
Inspiro a fondo e tiro un sospiro di sollievo, ma nel farlo sento la pelle dell’addome tirare dolorosamente, come se fossi stato per giorni interi sotto il sole. Ma non lo sono stato, giusto? Respiro a fondo di nuovo. Ora riesco a percepire un punto preciso, proprio al centro del mio ventre, in cui tutto il dolore sembra convergere. Una cicatrice? Una cucitura? Mi sento rotto. So di essere rotto. Perché? Non guardare. Non guardare.
Apro del tutto gli occhi e li rivolgo verso l’alto per evitare di pensare allo stato del mio corpo. Il mio corpo. Non lo sento neanche più mio. Non lo sento e basta. Prima o poi dovrò farlo, dovrò identificare il problema e trovare una soluzione, ma per ora posso concedermi una manciata di secondi in più di beata ignoranza. Codardo.
La fonte di quella luce tanto opprimente era il sole. Solo il sole.
Perché non riesco a sopportare di vedere la luce del sole? Perché ne sono terrorizzato? Perché quando la fisso mi manca il respiro e mi sento svenire? Perché non riesco a muovermi? Perché sento un dolore lancinante in tutto il corpo, ma non sento le parti del mio corpo? Solo dolore. E soprattutto perché non riesco ad abbassare lo sguardo, e a provare a trovare una risposta a queste domande?
Sono bloccato, incapace di fare qualunque cosa che non sia fissare quel tunnel di un candore ipnotizzante e sentirmi morire. Ancora e ancora. Istante dopo istante. Senza morire mai effettivamente: una tortura infinita che riprende volta dopo volta sempre uguale a se stessa. Non riesco a pensare, non riesco a ricordare, non riesco a capire perché sono qui e non so cosa potrei fare dopo. Non riesco neanche più a sentire i grilli e i corvi o a vedere il cielo. Solo quel bianco, quell’urticante chiarore che mi svuota l’anima e lo stomaco, sempre che io ne abbia ancora uno. 
Non ne posso più. Chiudo gli occhi.
Perché quel puntino luminoso ha tanto potere su di me? Eppure è solo luce. È solo il sole. Così piccolo rispetto all’ imponente vetta della montagna che gli si staglia a fianco. Ecco dove sono accasciato: su una sporgenza rocciosa di quella stessa altura.
La luce. La montagna.
Volevo raggiungere il cielo.
Ecco perché sono qui.
Io non… Non mi sembra di essere caduto, però deve essere capitato.
Ora ricordo.
La sensazione della roccia fredda sulla punta delle dita. L’aria che diventava sempre più rarefatta. Il sole splendente nel cielo, più vicino a ogni passo. Prima o poi l’avrei toccato, ne ero sicuro. La stanchezza fisica che era in realtà solo una sensazione sfumata, sovrastata dal desiderio di raggiungere la vetta, di toccare il cielo, di chiacchierare con il sole, di dormire accanto alla luna e alle stelle. Quel fuoco che mi bruciava dentro, scintille scoppiettanti che mi esplodevano nel petto dandomi la forza di fare qualunque cosa. Mi sentivo invincibile. Ero invincibile.
Avevo lo sguardo fisso sull’obiettivo, i sensi annebbiati dall’ossessione di raggiungere quella sfera luminosa. Mi sembrava già di poter toccare le nuvole, di tastarne la soffice inconsistenza.
Poi all’improvviso quella luce familiare viene sovrastata da una del tutto sconosciuta che, in un secondo di violenza, cancella ogni cosa. Un lampo. Un fulmine a ciel sereno. Bianco. Il nulla.
Chiudo gli occhi. Un tuono romba in lontananza.
Strizzo gli occhi tanto da sentirli bruciare nella speranza di poter cancellare quel ricordo dalla mia mente.
Dopo il tuono cadevo in una voragine.
Via, via. Va’ via.
Era tutto buio.
Basta con tutto questo, basta frustrazione.
Urlavo, ma non usciva un suono.
Voglio tornare lì, sulla montagna, voglio scalare il cielo.
Volevo piangere, singhiozzare, disperarmi, tirare pugni, ma non riuscivo a fare nulla.
Una goccia gelida scende sul mio zigomo sinistro. Non è pioggia.
Così fragile nella mia impotenza.
Apro gli occhi per l’ennesima volta e capisco che è una lacrima, ma non sto piangendo. Una singola goccia salata.
Poi un taglio, un dolore allucinante ovunque.
Possibile che sia lì da prima? Il pianto di un morto, di qualcuno che non esiste più, e che ha provato ad ancorarsi con tutte le sue forze lì, nella coda dell’occhio.
Squarciato, mi sono sentito squarciato.
Se è davvero così allora questa piccola lacrima è tutto ciò che mi rimane di quello che ero. Come farei se la perdessi? Perderei anche me stesso? Resterei per sempre questo debole e inutile fantoccio?
Una persona divisa in due. Così, come se niente fosse.
Almeno il ricordo, almeno quello.
Aperto in metà, lasciato a sanguinare e poi buttato via come un giocattolo rotto.
Alzati! Per la miseria alzati! Sei ancora vivo, no? Fa’ qualcosa allora. Dimostralo!
In fondo sapevo di essere rotto.
Mi alzo di scatto e mi metto a sedere. Un brivido di disagio attraversa una ad una le mie vertebre.
Prima invece …
La lacrima inizia a scorrere velocemente lungo la guancia.
… ero …
No, non andare!
… felice, …
Mi tocco il mento per cercare di raccoglierla, ma non c’è già più.
… ero …
Cade a terra.
… completo.

Rimango ipnotizzato a fissare quella minuscola chiazza di colore più scuro che si asciuga per un lasso di tempo che non riesco a definire. Poi non rimane più nulla.
Ma nulla di cosa? A cosa stavo pensando prima? Non ricordo. Perché sto fissando il terreno? Non lo so. È strano: per quanto mi sforzi non riesco a ricordare niente di specifico. Quando ci provo tutti i miei pensieri si interrompono e non mi rimane una sola idea in mente.
Forse sono rimasto qui troppo a lungo e mi sono preso un’insolazione.
Devo proprio alzarmi e trovare un posto in cui ripararmi da questo sole cocente, sono quasi ustionato. Chissà come mai non mi sono spostato prima.
Faccio leva con la mano sulla roccia che ho a fianco e mi alzo in piedi piegando le gambe, ma non appena provo a muovere un passo perdo l’equilibrio, scivolo all’indietro e finisco di nuovo per terra alzando un nuvolone di polvere e insetti.
Ci riprovo: stesso risultato. È come se mi mancasse un appoggio da qualche parte.
Probabilmente l’insolazione è una questione molto più grave di quanto non pensassi.
Provo a gattonare per spostarmi e sembra funzionare meglio, anche se di tanto in tanto perdo ancora l’equilibrio e finisco per strisciare. Anche muovendomi lentamente sento comunque un dolore diffuso in tutto il corpo che non accenna a diminuire.
Ma cosa diamine mi è successo? Non può essere solo l’insolazione, forse sono caduto e mi sono fatto male da qualche parte. Appena al sicuro devo controllare di non avere ferite o ossa rotte.
Mentre mi sposto a fatica noto che, ben presto, il sole cocente non sarà più un problema dato che sta per tramontare. Fortunatamente poco dopo riesco a trovare un luogo riparato in cui passare la notte: una rientranza nella roccia circondata da una foresta di pini. Mi accascio contro la parete rocciosa e riprendo fiato con una certa difficoltà. L’odore del sottobosco mi inonda le narici e riesco a calmarmi. Rimango lì per minuti interi a sentire il mio stesso respiro, con la mente sgombra e incapace di formulare un qualunque pensiero.
Distendo per bene le gambe e inizio a ispezionare il mio corpo: i piedi, le caviglie, le gambe, le ginocchia, le cosce, l’inguine, i fianchi, il ventre. Porto la mano sul petto e la lascio così per qualche momento, la osservo alzarsi e abbassarsi. Passo alle spalle e al collo, poi alla schiena, alle natiche e infine alle braccia. Provo a muovere i gomiti, i polsi, le dita. Tasto la nuca, sposto le dita dietro alle orecchie, tra i capelli, sulla fronte: non è più calda. Le palpebre, le guance, il naso, le labbra, il mento. Sembra essere tutto a posto, non ho alcuna ragione per non riuscire a camminare.
E allora perché sento di non stare bene? Come se avessi un buco nero da qualche parte nelle viscere, un tarlo che striscia nello stomaco e divora piccole parti di me lasciandosi dietro solo dei cunicoli cavi. E più divora più vuole divorare. Ci sono cavità del mio animo che non pensavo esistessero e ora pulsano, bramando di essere riempite. Potrò mai colmarle? E se non potessi? È davvero possibile sopravvivere, vivere così? Ma come può mancarmi qualcosa? Non posso avere nostalgia di qualcosa che non c’è mai stato, sono sempre stato così. E se invece non lo fossi stato? Non posso esserne certo se non riesco a ricordare nient’altro. Presumo di essere nato, di essere stato creato intero, ma se non lo fossi stato? Chi o cosa sarei a quel punto? Se prima fossi stato un uccello e avessi perso le ali, o un serpente e avessi perso la coda? Mi passo la mano sulle scapole e poi sulla parte bassa della schiena. Nessun fantasma. Ormai il sole è tramontato. Gattono, questa volta con più sicurezza, fino a una radura vicina e cerco due rami abbastanza resistenti che possano fungere da sostegno. Ne trovo uno per terra e ne stacco uno da un pino aiutandomi con l’altro. Li spoglio di alcuni rametti e degli aghi e, appoggiandomi a un tronco, con l’aiuto dei miei nuovi bastoni, riesco a stare in piedi. La mia schiena è quasi incollata all’albero a causa della resina e le mie gambe stanno tremando, ma ci devo provare. Mi stacco dal tronco, sento i muscoli cedere, però mi faccio forza e, tenendo la presa salda, sposto uno dei bastoni più avanti e lo seguo con il piede. Barcollo un po’, ma riesco a non perdere l’equilibrio. Lentamente e con fatica riesco finalmente a camminare. Non dovrebbe essere così difficile, non dovrei sentirmi così inadeguato nel mio stesso corpo. È quasi del tutto buio quando riesco a ritrovare la ormai familiare rientranza nella roccia. Appena la riconosco cado in ginocchio sfinito e getto i bastoni lì vicino, mi trascino nel punto più nascosto e riparato e mi corico per terra. Lo sento ancora. Quel vuoto senza nome. È quasi insopportabile. Non appena penso di essermene liberato, non appena penso di aver portato a termine quello che volevo fare, ritorna, uguale a prima. Sono riuscito a camminare, non perfettamente, ma migliorerò, che altro può mancarmi ancora? La soddisfazione per essere riuscito a fare quello che volevo fare da tutto il pomeriggio è durata un secondo, giusto il tempo di riprendere fiato, poi sono tornato a sentirmi angosciato. Condannato alla frustrazione e al dolore in eterno. Vorrei solo poter capire questa sensazione in qualche modo, dargli un senso, un’origine, una soluzione, ma non riesco. Inizio a respirare sempre più affannosamente, poi comincio a prendere a pugni la terra, tiro calci contro la roccia, mi copro la faccia di polvere, urlo disperato singhiozzando. Continuo con questa scarica di violenza irrazionale finché, stremato, sporco e ferito, non mi raggomitolo su me stesso, portandomi le ginocchia al petto e appoggiandovi sopra la testa. Mi stringo più forte che posso sperando che la resina che ho ancora addosso riesca a incollare tutto me stesso, a riempire tutti i buchi.
Mi addormento tremando. Sogno di essere sulla cima di una montagna, e per un attimo sono di nuovo invincibile.

Un dio ci ha reso monchi, continuamente alla ricerca di ciò che ci manca, e una lacrima caduta ci ha fatto dimenticare tutto, ci ha reso ignari di ciò che davvero desideriamo. Quindi spesso ci sentiamo frustrati, inadeguati, insufficienti a noi stessi e senza possibilità di uscita da questo stato, proprio come il nostro androgino. Tuttavia, esiste il mondo notturno dei sogni in cui, per un momento infinito, torniamo a essere perfetti, non mancanti di nulla, soddisfatti di noi stessi. Invincibili.

Bibliografia
Platone, Simposio, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2000
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di Giorgio Brianese, Torino, Einaudi, 2013


Amore e Psiche

Viviana Zanirato riscrive la favola apuleiana di Amore e Psiche prendendosi la libertà di cambiarne parzialmente gli avvenimenti, nel corso di un seminario di Scritture del desiderio, svoltosi nell’ambito del corso di Letterature comparate, della Prof.ssa Chiara Lombardi, a.s 2021/2022

“Con questa riscrittura creativa ho provato ad immaginare come sarebbe potuta andare la storia di Amore e Psiche, raccontata ne Le Metamorfosi di Apuleio, se Amore non si fosse accidentalmente innamorato della fanciulla. Sappiamo da Apuleio che Amore e Psiche alla fine del racconto hanno una figlia, Edonè (Voluttà); anche in questa versione Psiche ha una figlia, che però prende il nome di Sofia, in greco “saggezza”, proprio per il desiderio della giovane che è allo stesso tempo romantico e di conoscenza. L’estetica del principe sposo di Psiche è liberamente ispirata alla figura di Leopardi. In tutto il testo infine si possono cogliere tracce della tradizione greca”.

*

C’era una volta un antico regno governato da un re saggio e giusto. Egli, pur desiderandolo con tutte le sue forze, non ebbe mai un erede maschio; al suo posto tuttavia, gli dèi gli concessero tre figlie femmine, che eccellevano in bellezza e grazia. Le due sorelle maggiori erano molto lodate con parole umane dal popolo per la loro bellezza, ma la minore, di nome Psiche, aveva una bellezza considerata divina, e per questo motivo le lodi non potevano che essere tessute con parole divine. La bellezza di Psiche viaggiò in lungo e in largo, e arrivò fino alle orecchie della dea della bellezza, Afrodite, che fu subito estremamente gelosa della giovane rivale e decise di mandare suo figlio, Amore, a compiere la sua vendetta: la fanciulla bellissima si sarebbe dovuta innamorare di un un uomo dall’aspetto mostruoso.
Amore, figlio devoto, eseguì senza indugio gli ordini della madre e una notte, mentre Psiche era addormentata nel suo letto, si intrufolò nelle stanze della fanciulla armato delle sue frecce che sciolgono le membra; vedendola addormentata, si trovò a pensare anche lui che fosse di una bellezza divina, e si soffermò per un momento ad ammirala, ma ben presto si riprese e svolse diligentemente il compito a lui assegnato.
Il giorno seguente la bella Psiche, durante una passeggiata vicino al castello con le sue dame, si imbatté in un uomo sicuramente non di bell’aspetto: egli era infatti pallido, stempiato, basso, esile e sicuramente anche di salute cagionevole.
Le dame, inorridite da quella vista, esortarono la fanciulla a proseguire la sua passeggiata senza neanche avvicinarsi all’uomo, ma Psiche fu subito sicura di aver visto in quell’uomo di aver visto qualcosa oltre il suo aspetto fisico, e di nascosto dalle dame riuscì a intavolare con lui un breve colloquio e a ottenere dall’uomo un appuntamento per la sera successiva.
I due si incontrarono quindi in gran segreto, unica complice e sentinella la vecchia nutrice di Psiche per la quale la fanciulla era un libro aperto e aveva subito capito che qualcosa in lei non andasse, per cui si era fatta raccontare tutto e di conseguenza si era fatta più o meno involontariamente coinvolgere nella storia.
In tal modo i due giovani poterono trascorrere del tempo insieme e finalmente conoscersi meglio; l’uomo era già a conoscenza delle origini reali di Psiche e aveva sentito parlare della sua bellezza, ed era proprio per questo motivo che era giunto nel regno: per chiederla in sposa.
Spiegò infatti alla giovane di essere anch’egli un principe, proveniente da un regno lontano, e di essere venuto da lei con la speranza di un matrimonio, ma aspettandosi un suo rifiuto poiché, anche se ricchissimo e di nobili origini, era di brutto aspetto: sapeva infatti per esperienza diretta quanto le persone, e in particolare le giovani fanciulle, fossero superficiali e si limitassero all’apparenza; più volte infatti camminando per strada si era sentito criticato e giudicato da persone che, credendo di non essere sentite, elogiavano la sua ricchezza ma erano convinte che non avrebbe mai trovato l’amore proprio a causa del suo aspetto.
I due giovani trascorsero l’intera notte a parlare e a conoscersi, e il giorno seguente il giovane, incoraggiato da Psiche, si presentò alla corte del re per chiedere la mano della principessa.
Il re prese subito in considerazione il pretendente, dal momento che l’alleanza con il regno del principe gli avrebbe fatto molto comodo, ma allo stesso tempo era combattuto, perché per nulla al mondo avrebbe imposto alla sua figlia più bella un tale marito, soprattutto se ella non era la prima a desiderarlo.
Padre e figlia quindi ebbero un breve colloquio, e il padre si mostrò sinceramente stupito nel vedere la figlia, che avrebbe potuto avere davvero chiunque, entusiasta di sposare un uomo di tale aspetto; subito si trovò a giustificare l’entusiasmo della figlia con la ricchezza senza pari del futuro marito, deluso in cuor suo credendo di aver cresciuto una figlia tanto venale e ignorando quanto i sentimenti della figlia fossero invece puri.
Il matrimonio tra i giovani si svolse con grandi e numerose celebrazioni una settimana dopo il consenso del re, e Psiche si trovò a salutare per sempre la sua famiglia e il suo regno per andare a vivere in quello del nuovo marito, felice e follemente innamorata. Giunta nel nuovo regno, i suoi nuovi sudditi rimasero a bocca aperta quando videro il loro principe tornato con una principessa bella quanto una dea, e ben presto cominciarono ad osannarla anche loro come tale.
Questa reazione causò una nuova ondata di ira nel cuore della dea Afrodite, la quale notò infastidita che il suo piano non aveva funzionato, e che inoltre la fanciulla appariva addirittura ben felice e innamorata di quell’uomo dall’aspetto orribile.
Afrodite decise quindi di intervenire lei stessa, e sotto le spoglie di una vecchia mendicante si recò al palazzo della giovane coppia. Lì pronunciò una serie di incantesimi e sortilegi con il fine di non permettere a Psiche di superare i confini del castello, poi inviò un oracolo in sogno alla fanciulla per avvisarla che, se mai fosse uscita dalle mura, l’avrebbe colta una malattia terribile che l’avrebbe potuta addirittura uccidere.
Nonostante l’avvertimento, per tre volte Psiche tentò di uscire dal castello, e per tre volte cadde malata e costretta a letto per intere settimane, il novello sposo come unico conforto in quella situazione; fu proprio in quei momenti che, vedendo la bellissima moglie nelle condizioni terribili in cui solo un malato sa essere, il giovane cominciò ad innamorarsi profondamente della persona che lei effettivamente era, e non più solo della sua tanto famosa quanto veritiera bellezza.
Data questa condizione di malattia e di costrizione all’interno delle mura, il principe decise di far ampliare la biblioteca del castello per la sua sposa, ed esortò Psiche a non tentare più di uscire dal castello in modo fisico, ma di volare fuori di lì con la fantasia per andare nei boschi, nelle città, nelle valli e in tutti i numerosi luoghi narrati nei libri.
La biblioteca era il luogo prediletto del principe, e molti tra i medici che lo seguivano per la sua salute cagionevole sostenevano che fosse stata proprio questa sua passione per la lettura, che lo accompagnava fin dall’infanzia, a renderlo così poco piacevole alla vista: passava infatti ore ricurvo sui libri a leggere e studiare, nella penombra della biblioteca, e passavano giornate intere senza che si ricordasse anche solo di uscirne per le azioni più banali, come i pasti.
Ripresasi dall’ultima malattia, che le era risultata quasi fatale, Psiche decise di seguire il consiglio del marito: lei non era mai stata un’appassionata di letteratura, anzi: fin da bambina l’avevano caldamente esortata a interessarsi poco o nulla di libri, per potersi concentrare meglio su ciò di cui una fanciulla ha davvero la necessità di sapere, come l’apprendere il modo in cui trovare marito, le tecniche per curare la sua bionda chioma lucente al meglio e come porsi risultare sempre gradevole alla presenza di uomini senza mai dover aprir bocca.
Tra Psiche e la biblioteca fu un vero e proprio colpo di fulmine: nonostante l’approccio iniziale fosse abbastanza timido, una volta incoraggiata dal marito la fanciulla cominciò a leggere e non si fermò più: in pochi mesi aveva finito di leggere tutti i numerosissimi volumi presenti nella biblioteca del marito, e la sera i due coniugi presero l’abitudine di discutere lungamente prima di andare a dormire dei temi più alti.
Il tempo trascorso nella biblioteca insieme al marito aveva abbellito la mente della fanciulla, ma aveva intaccato la sua bellezza; ora chi la vedeva all’interno delle mura del castello pensava sempre che fosse molto bella, ma non veniva più paragonata alla dea della bellezza stessa.
Afrodite allora, lieta che il suo piano avesse finalmente funzionato e non più invidiosa della ragazza, decise di togliere il sortilegio che limitava Psiche nelle mura del castello, e avvisò la fanciulla con lo stesso metodo della prima volta.
Nonostante la ritrovata libertà, Psiche non uscì subito dal castello: erano infatti ormai trascorsi anni e lei insieme al suo consorte erano diventati i sovrani del loro regno, per cui erano entrambi occupatissimi ad amministrare i possedimenti e curare i sudditi al meglio.
Il loro regno viene ancora oggi ricordato con grande ammirazione e nostalgia: non si era mai visto un regno tanto prospero e felice, e molti attribuirono tali caratteristiche alla cultura dei sovrani, che era sconfinata e che giorno dopo giorno si accresceva e aggiornava con nuovi studi su qualsiasi tema: questo desiderio di conoscenza aveva reso i due sovrani i più illuminati di tutti i tempi.
La coppia ebbe anche una figlia, Sofia, bella come la madre e anch’ella con una cultura considerevole; il fatto che fosse femmina infatti non aveva impedito ai genitori di fornirle un’istruzione completa, e anche se furono criticati non se ne curarono.
Fu proprio Sofia a succedere ai genitori quando essi furono troppo anziani per occuparsi del regno e decisero di trascorrere il resto delle loro vite in viaggio, per conoscere persone e culture provenienti da tutto il mondo, e per vedere con i propri occhi quegli stessi luoghi descritti con dovizia di dettagli e letti nei libri, che avevano impegnato la maggior parte dei loro lunghi pomeriggi.



Corso Re Umberto – marciapiedi

Citato in
Segni sulla pietra, 1979, poi in AM, II: 848-849

Passo
In vari punti della città le lastre di pietra conservano le tracce delle incursioni aeree della seconda guerra mondiale. Le lastre spezzate dalle bombe dirompenti sono state sostituite, ma sono state lasciate in sito quelle che erano state perforate dagli spezzoni incendiari. Questi ordigni erano prismi d’acciaio che venivano lanciati alla cieca dagli aerei, ed erano disegnati in modo da cadere verticalmente, con tale impeto da perforare tetti, solai e soffitti; alcuni di essi, caduti sui marciapiedi, hanno forato nettamente la pietra spessa dieci centimetri, come punzoni di trancia. È probabile che chi si prendesse la briga di sollevare i lastroni forati vi troverebbe sotto lo spezzone; due di queste forature, a pochi metri di distanza l’una dall’altra, si trovano ad esempio davanti al numero 9 bis di corso Re Umberto. Al vederle, tornano a mente le voci macabre che circolavano in tempo di guerra, di passanti che non avevano fatto a tempo a rifugiarsi, ed erano stati trafitti dalla testa ai piedi.

*

Nell’Altrui mestiere, la raccolta pubblicata nel 1985 che conteneva gli articoli pubblicati su «La Stampa» a partire dal 1976, Primo Levi dà sfogo al suo caledoscopico talento di scrittore, compiendo invasioni di campo che lo portano a speculare su settori assai diversi dalla memorialistica e dalla chimica, di cui era ormai divenuto campione. Nelle pagine di questa raccolta è all’opera un talento poliedrico interessato alle manifestazioni della cultura in tutte le sue forme: dalla linguistica alla critica letteraria, dalla chimica alla biologia e all’entomologia, dalla geografia alla storia, il vagabondaggio del letterato curioso e chimico ormai in pensione segna una delle tappe di riflessione più interessanti del secondo Novecento. In particolare, possiamo vedere qui all’opera una tendenza archeologica: il tarlo metodologico di Levi sembra portarlo costantemente verso la pratica di scavo nel passato, specialmente in relazione alla sedimentazione delle parole, componendo un’assidua e originale ricerca (e ricomposizione) della loro storia perduta. Quasi come uno storico che interroga i segni lasciati dall’ineffabile flusso degli eventi che dietro di sé non lascia che disunite tracce da interrogare, il chimico-scrittore ragiona su quanto osserva e stende i propri testi offrendo ai suoi lettori i risultati delle sue elucubrazioni e ricostruzioni.

L’articolo da cui proviene l’estratto succitato, Segni sulla pietra, mantiene il suo nome anche dopo la conversione nella raccolta di saggi (a differenza di molti altri testi). Iniziando dapprima con un’attenta disamina della storia torinese che si può osservare sulle superfici pietrose e rocciose che occupano i lati delle strade cittadine, termina infine con la presa in considerazione dell’azione dirimente e deturpante della modernità su quella parte della facciata urbana di Torino che sembra essere lì da tempi immemori. Oggetto di osservazione privilegiato sono proprio i marciapiedi, le cui superfici lastricate che furono posizionate moltissimo tempo fa (in specie agli albori della città in epoca moderna), e resistono tutt’oggi, affiancati dai loro nuovi compagni in asfalto e cemento. «I marciapiedi della mia città (e, non ne dubito, quelli di qualsiasi altra città) sono pieni di sorprese» (Segni sulla pietra, 1979, poi in AM,II: 847), scrive esattamente: sono dunque pieni di segni da inventariare che possono essere fecondamente interrogati, tanto guardando al passato quanto immaginando il futuro. Così come noi oggi possiamo leggere le trame e gli avvicendamenti della Storia che proprio su questa parte del quadro urbano hanno lasciato la loro traccia, anche gli archeologi del futuro potranno infatti ritrovare quanto noi oggi lasciamo distrattamente e imprudentemente dietro di noi in seguito al nostro passaggio. Levi immagina che, nel futuro, tutte le scorie da noi depositate verranno ritrovate, saranno restituite dal sottosuolo e, come fossili, interrogate da appositi studiosi interessati a ricostruire le nostre abitudini, e non da meno tutto quello che fa parte della nostra quotidianità senza che noi ce ne accorgiamo, mentre nelle nostre frenetiche vite scalpicciamo su questi luoghi, lasciando traccia del nostro passaggio.

Uno splendido esempio di questa pratica è costituito proprio dall’analisi dei marciapiedi più antichi in cui il chimico-scrittore si cimenta nel suo articolo: in corso Re Umberto, non molto distante dalla sua abitazione, poteva infatti vedere una prova dovuta agli avvicendamenti storici che travolsero Torino durante la Seconda Guerra Mondiale. La città fu infatti bombardata e subì molti danni: la sua estetica venne sfregiata irrevocabilmente e, ancora oggi, è possibile vedere gli effetti di questo distruttivo strascico. Lo testimonia proprio il marciapiede all’angolo con corso Matteotti, alcune lastre del quale sono state fortemente danneggiate (e mai più riparate, quasi come se dovessero fungere da monito del brutale scompiglio in cui la città si trovò gettata nella metà del Novecento) dagli ordigni che vennero sganciati dal cielo torinese. Addirittura ricostruendo la fisionomia di tali armamenti, Levi focalizza quanto la loro azione debba essere stata devastante: la caduta di uno solo di loro, sganciata dalle flotte aeree in volo sopra le nubi, era in grado di spaccare una lastra di dura pietra viva in due, come un guscio di noce, frantumando la sua supposta inalterabile unità. E, ovviamente, di annientare qualunque essere umano che si fosse trovato sulla traiettoria dell’impatto: «Al vederle, tornano a mente le voci macabre che circolavano in tempo di guerra, di passanti che non avevano fatto a tempo a rifugiarsi, ed erano stati trafitti dalla testa ai piedi».

Goethe Institut

Citato in
Tornare a scuola, 1981, poi in AM, II: 822

Passo
Ho superato le barriere della timidezza e della pigrizia, ed a sessant’anni compiuti mi sono iscritto ai corsi di un istituto molto serio dove si insegna una lingua straniera che conosco male. Volevo conoscerla meglio, per pura curiosità intellettuale: ne avevo imparato gli elementi ad orecchio, in condizioni disagiate, e l’avevo poi usata per anni per ragioni di lavoro, badando al sodo, cioè a capire e a farmi capire, e trascurandone le singolarità, la grammatica e la sintassi.

Fonte: https://www.facebook.com/photo/?fbid=3757198284326557&set=gm.1335864760110502

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Manca, nell’estratto appena visto, una citazione letterale del famoso Goethe Institut di Torino (situato ancora oggi nella centralissima piazza San Carlo), e con essa una descrizione geocritica propriamente dicibile: con tatto e riservatezza, Levi parla soltanto sommariamente del luogo presso cui si reca per studiare, misteriosamente, «una lingua straniera che conosco male». Non lascia insomma alcuna informazione al suo lettore tramite cui si possa capire più precisamente di quale lingua e quale posto stia parlando; tutto ciò che sappiamo riguarda invece il posizionamento cronologico: siamo nel 1978, poco dopo il sessantesimo anno di età, a cinque anni dalla pensione e nel pieno di un periodo di fervente produzione letteraria.

Ancora più curioso è il rapporto di Levi con questa lingua misteriosa, che è proprio il tedesco: oltre che su libri e trattati consultati durante gli anni alla Facoltà di Chimica, l’aveva imparato in Lager, venendo a conoscenza di un’infinità di storpiature, variazioni dialettali, socio-culturali e geografiche che contribuivano a rendere il segreto del rizoma di questa lingua sempre più difficile da capire. Non ostante, dopo aver abbandonato i banchi scolastici da diversi anni, Levi sente questo irrefrenabile desiderio di consolidare ancora meglio quanto uno dei più bei episodi della storia del Novecento gli aveva lasciato in eredità.

Nell’articolo da cui estratto proviene, infatti, Levi si cimenta in una cronaca del suo apprendistato presso la prestigiosa scuola di lingue torinese: spiega che non è affatto facile imparare le fondamenta del tedesco a un’età così avanzata, specie avendo una grande e indistinta confusione in mente. Il tedesco di Auschwitz era infatti un grande caos: «i barbarici latrati dei tedeschi quando comandano» (come leggiamo ne I sommersi e salvati), la lingua da caserma buona per impartire rabbiosi ordini, i neologismi disumanizzanti che dovevano essere imparati a memoria, la brutalità di un codice comunicativo imposto a cui non si dava alternativa, lo stesso Lager-jargon evolutosi da questa variante del tedesco; tutto ciò fu quanto Levi dovette affrontare, a cui riuscì a sopravvivere, da cui riuscì a imparare.

Sì, perché Grande era la sua attenzione ai dettagli linguistici della vita del campo: troviamo traccia di questa sua attitudine nello stesso articolo, quando spiega di essere uno studente particolare poiché assai particolari erano state le condizioni in cui era venuto a contatto con la lingua oggetto di studio. A questo potremmo aggiungere anche la sua attenzione archeologica per le parole, il suo spiccato interesse per l’etimologia, e le potenzialità linguistiche che si nascondono dietro ad ogni parola, tanto in italiano quanto anche, ovviamente, in tedesco.

E il tedesco era per Levi anche la lingua del suo primo mestiere: il manuale del chimico Gattermann, il libro su cui si era formato, quello che ritroviamo citato nell’Esame di chimica in Se questo è un uomo e anche in quel suo interessantissimo testamento intellettuale che è La ricerca delle radici, era scritto nella lingua del Reich, e obbligava chiunque lo leggesse a masticare almeno un po’, almeno passivamente, quel codice linguistico in cui era stato scritto così tanto diverso dall’italiano. Tali insegnamenti gli sarebbero tornati utilissimi in età matura, durante i suoi viaggi di lavoro in Germania, quando doveva interloquire negli incontri con i clienti stranieri che si rivolgevano alla SIVA, l’azienda torinese per cui lavorava (tra cui la Bayer, la stessa casa farmaceutica che durante il Terzo Reich fu segretamente collusa con il nazismo; tra cui l’incontro con il dottor Meyer-Müller, uno dei suoi aguzzini nel Labor di Auschwitz).

Ma non è tutto: anche per svolgere il suo secondo mestiere questa lingua fu molto importante. Basta pensare a tutte le traduzioni delle liriche di Rilke (nel 1946) o di Heine, al carteggio con il traduttore tedesco di Se questo è un uomo, meticolosamente seguito parola per parola (negli anni Sessanta), alla mediazione della sua propria traduzione tedesca durante la trasposizione italiana della Notte dei girondini di Presser (1976; scritta in olandese in originale), alla citazione di Paul Celan nella Ricerca (nel 1981), alla traduzione del Processo di Kafka (nel 1983): tutte prove del fatto che, pur in un campo tanto diverso rispetto a quello della chimica, il rapporto di Levi con il tedesco fu fondamentale per permettergli di ampliare sempre più il suo bagaglio culturale, per conoscere da vicino e in prima persona nuovi libri, idee, concetti e persone, ma soprattutto la lingua e la letteratura di una cultura molto diversa da quelle che erano invece naturalmente sue.

Fino ad arrivare al capitolo Lettere di tedeschi nei Sommersi e i salvati, frutto della corrispondenza con tanti lettori tedeschi di Se questo è un uomo che portò all’elaborazione dell’intero ultimo volume; era uno sforzo pluriennale di comprendere tutti coloro che avevano partecipato alla catastrofe della deportazione e dello sterminio (o che vi avevano rinunciato). Per la realizzazione pratica del materiale di quel capitolo, infatti, la conoscenza del tedesco da parte di Levi fu necessaria: senza, non sarebbe forse riuscito a raggiungere un insight dalla potenza tanto straordinaria di permettergli di vedere le pieghe della Storia dagli occhi dei suoi interlocutori, che appunto gli scrivevano in tedesco, ai quali spesso lui stesso rispondeva parlando la loro lingua, quella che era stato obbligato ad apprendere ma che aveva scelto di riprendere e approfondire. Non mancano infatti nei suoi testi delle valide considerazioni che giustifichino quanto dietro al suo studio del tedesco ci fossero una passione genuina costantemente alimentata da una curiosità intellettuale frizzante e vispa, tanto forte da superare il trauma e parlare, ascoltare e comprendere ancora, anche fuori dai reticolati di filo spinato, la lingua degli oppressori.

Scuola Ebraica

Citato in
Potassio, SP, I: 898

Passo
Ci radunavamo nella palestra del “Talmud Thorà”, della Scuola della Legge, come orgogliosamente si chiamava la vetusta scuola elementare ebraica, e ci insegnavamo a vicenda a ritrovare nella Bibbia la giustizia e l’ingiustizia e la forza che abbatte l’ingiustizia: a riconoscere in Assuero e in Nabucodonosor i nuovi oppressori. Ma dov’era Kadosh Barukhù, “il Santo, Benedetto sia Egli”, colui che spezza le catene degli schiavi e sommerge i carri degli Egizi? Colui che aveva dettato la Legge a Mosè, ed ispirato i liberatori Ezra e Neemia, non ispirava più nessuno, il cielo sopra noi era silenzioso e vuoto: lasciava sterminare i ghetti polacchi, e lentamente, confusamente, si faceva strada in noi l’idea che eravamo soli, che non avevamo alleati su cui contare, né in terra né in cielo, che la forza di resistere avremmo dovuto trovarla in noi stessi.

Fonte: https://www.hakeillah.com/5_15_18.htm

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Tra tutti i racconti del Sistema periodico, Potassio è certamente uno di quelli che più risentono della Storia e del tempo in cui si inserisce la narrazione: nel corso di tutta la vicenda, diversi sono i riferimenti all’Europa, al mondo, e in particolare all’Italia di quegli anni, che stava vivendo l’anticamera della deportazione con le aspre e ingiuste leggi razziali. A Torino le differenze venivano fatte, tuttavia, quasi solo per quanto riguardava l’ossequioso e pedissequo rispetto delle regole, secondo come il regime voleva: c’era certo diffidenza che proveniva dai non ebrei, ma di certo Levi e i suoi compagni israeliti non venivano esiliati programmaticamente come succedeva laddove la morsa del razzismo strinse più ferocemente, esiliando gli ebrei dalla società e trattandoli come diversi, come subalterni. Per questo motivo la loro resistenza al Fascismo era nulla, era passiva, una sordida accettazione della situazione visto che non impediva poi così tanto che il quieto vivere potesse susseguirsi come di consueto.

Bisognava provvedere da sé a se stessi: e così fece la comunità ebraica locale, che, cavalcando l’iniziativa caldeggiata dai fratelli Artom, creò un’apposita scuola israelitica (nell’odierna piazzetta torinese dedicata a Levi, dove sorge oggi la sinagoga) in cui conversero i docenti (di scuola primaria e secondaria, ma anche universitari) che il regime andava scalzando delle loro posizioni pubbliche e lavorative. Così i giovani avrebbero ricevuto un’educazione rispettabile e corretta, e sarebbero loro stati trasmessi i valori della religione mosaica e dei padri fondatori, offrendo chiavi di interpretazione e comprensione di quanto stava accadendo. Non era un piano soltanto religioso, dunque, quello di Ennio ed Emanuele Artom, e con loro di tutta la comunità cittadina: quanto più reazionario, poiché nelle Sacre Scritture era possibile trovare una morale che offrisse sollievo, motivazione e che spiegasse come reagire alle oppressioni e ingiustificate discriminazioni che il popolo ebraico aveva sempre attratto a sé.

«Bisognava ricominciare dal niente “inventare” un nostro antifascismo, crearlo dal germe, dalle radici, dalle nostre radici. Cercavamo intorno a noi, e imboccavamo strade che portavano poco lontano. La Bibbia, Croce, la geometria, la fisica, ci apparivano fonti di certezza» (Potassio, SP, I: 898): e segue poi l’estratto succitato, in cui compare una galleria di nomi biblici che Levi e i suoi compagni tentano di ravvisare nei convolgimenti della storia a loro contemporanea. In questa maniera avrebbero forse potuto trovare dei numi tutelari che li aiutassero a decifrare le pieghe che quel tempo strano e pericoloso andava assumendo: con degli esempi che li aiutassero a riconoscere i paradigmi familiari del giusto e dello sbagliato, del buono e cattivo, pericoloso e amichevole, e che nel contempo provenissero dalla loro millenaria tradizione, quella che avevano dovuto imparare a memoria durante la loro giovinezza a cui ora potevano tentare di guardare alla ricerca di un appiglio.

Ma nulla sarebbe giunto da quella direzione, anzi i fatti stessi avrebbero contribuito ad aumentare il coefficiente della laicità di Levi, che ad Auschwitz avrebbe smesso una volta per tutte di credere in qualsiasi presenza superiore e provvidenziale: «il cielo sopra noi era silenzioso e vuoto», e qualsiasi presenza divina che potesse abitarlo e prestare aiuto alla specie umana non era lì per soccorrere nessuno. Avrebbe dovuto impegnarsi da sé, adoperarsi per riuscire a trovare una via per sopravvivere, per guardare il nazi-fascismo negli occhi con orgoglio e sicurezza, senza restarne fatalmente impietrito.