Archivi categoria: Progetti: La Torino di Primo Levi

Via Po – Caffè Fiorio

Citato in
Argon, SP, I: 868

Passo
Da “rùakh”, plurale “rukhòd”, che vali “alito”, illustre vocabolo che si legge nel tenebroso e mirabile secondo versetto della Genesi (“Il vento del Signore alitava sopra la faccia delle acque”), si era tratto “tirè ’n ruàkh”, “tirare un vento”, nei suoi diversi significati fisiologici: dove si ravvisa la biblica dimestichezza del Popolo Eletto col suo Creatore. Come esempio di applicazione pratica, si tramanda il detto della zia Regina, seduta con lo zio Davide al Caffè Fiorio in via Po: “Davidin, bat la cana, c’as sento nèn le rókhòd!”: che attesta un rapporto coniugale di intimità affettuosa. Quanto alla canna, poi, era a quel tempo un simbolo di condizione sociale, come potrebbe essere oggi il viaggiatore in 1a classe in ferrovia […].

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Questo estratto proviene da Argon, il racconto che potremmo considerare il larario degli antenati ebraico-piemontesi di Levi. È il primo racconto del Sistema periodico ed è particolarmente importante perché, nei lineamenti dei personaggi descritti in questo testo, Levi ha fatto convergere non soltanto le proprie memorie, ma anche i racconti che aveva sentito dai propri amici, o nelle cerchie culturali che frequentava. Si tratta dunque di un’anticipazione dell’opera di smerigliatura che metterà in atto nella presente raccolta di racconti, dove il confine tra realtà e letteratura si ibrida sempre di più fino a divenire irriconoscibile, non permettendo al lettore di capire se i fatti raccontati siano realmente accaduti o meno.

In ogni caso, comunque, quello che scrive qui è un ritrattista estremamente fine: è in grado di captare l’essenza dei suoi antenati e farli rivivere, anche in maniera irriverente (come giustifica ad esempio questo estratto), nelle pagine della raccolta in questione. E non solo: ci troviamo davanti ad una vera e propria testimonianza etno-socio-linguistica, poiché delineando il profilo di quegli ebrei torinesi che si erano assimilati (a modo proprio) nel tessuto cittadino, Levi ferma una volta per tutte sulla pagina tante interessanti caratteristiche di quei mitici parenti ormai scomparsi, con le loro strane abitudini e i loro particolarissimi modi di dire.

Ne leggiamo uno davvero singolare proprio qui: il detto dialettale «tirè  ’n ruàkh» è uno splendido esempio dell’ibridazione linguistica tra la lingua dei padri ebraici e il locale dialetto piemontese; come spiega Levi rifacendosi direttamente alle Sacre Scritture, l’allusione si può spiegare guardando ad un versetto della genesi, dove con «ruàkh» s’intende «alito». La zia Regina, che ha dato origine a un detto vero e proprio da usare simpaticamente quando si sentano rimbombare rumori e gorgoglii umani, indica proprio l’emissione di esalazioni ariose dagli orifizi corporali.

È una situazione decisamente comica, specialmente se la si immagina avvenire nel dehors del l’antico caffè Fiorio, ancora tutt’oggi uno dei bar più eleganti della centrale via Po (famoso per la bellezza dei suoi interni e per il saporito gelato lì prodotto), situato poco dopo il suo imbocco da Piazza Castello. Come nota anche la breve chiosa al termine dell’estratto, la «cana», e cioè il bastone da passeggio, era un vero e proprio simbolo di signoria: assolutamente adatto (a differenza del detto di zia Regina) al tenore della via prettamente borghese e commerciale che, diretta al fiume Po, attraversa il cuore della città. Sembra anche, peraltro, di sentir risuonare i lastroni che pavimentano gli ampi portici della via, schioccati dall’elegante e posato urto in apparenza casuale della canna, in realtà abilmente sfruttati per nascondere una verità decisamente più irriverente.

Vicolo Crocetta

Citato in
Idrogeno, SP, I: 876-877

Passo
Il fratello di Enrico, misterioso e collerico personaggio di cui Enrico non parlava volentieri, era studente in chimica, e aveva installato un laboratorio in fondo a un cortile, in un curioso vicolo stretto e storto che si diparte da piazza della Crocetta, e spicca nella ossessiva geometria torinese come un organo rudimentale intrappolato nella struttura evoluta di un mammifero. Anche il laboratorio era rudimentale: non nel senso di residuo atavico, bensì in quello di estrema povertà.

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La Crocetta, uno tra i più belli e ricchi quartieri torinesi, situato nel centro a pochi passi dalla stazione di Porta Nuova, era il quartiere di Primo Levi: uno dei ricordi che ritroviamo nelle pagine del Sistema periodico ci riporta al periodo liceale. Nel racconto Idrogeno, in particolare, troviamo una delle più belle, significative e sincere lodi alla chimica, vista qui dagli occhi del giovane Levi che, affascinato e quasi stregato, crede di poter trovare in questo necessario sapere le chiavi per comprendere correttamente il mondo e le regole che governano il flusso della vita.

In Idrogeno è centrale anche la figura di Enrico (al secolo Mario Piacenza), uno dei compagni di studi nei confronti di cui Levi provava grande stima e ammirazione (e che lo accolsero con gioia al suo ritorno da Auschwitz). È una presenza molto importante per il suo periodo adolescenziale: è uno dei suoi grandi amici, tanto importante che è entrato a far parte del racconto in prosa della sua vita, nella quale è stato raffigurato con il personaggio di Enrico.

E, non di meno, del suo mestiere di chimico: profondamente legato alla lezione che l’idrogeno insegna ai due ragazzi, l’omonimo racconto riporta la storia di quando, sedicenne, primo Enrico vollero andare nel laboratorio del fratello di quest’ultimo per sperimentare di prima mano ciò che leggevano sui testi di scuola. Era all’opera ai loro danni, secondo quanto scriverà Levi, la ‘congiura gentiliana’ che li obbligava a preferire le materie che avrebbero rafforzato il loro spirito, a discapito invece di quelle più pratiche (come appunto la chimica). Appena si presenta loro l’occasione di poter saggiare da sé la materia che avevano conosciuto soltanto in via teorica, i due giovani si fiondano di nascosto nel laboratorio del fratello di Enrico e iniziano immediatamente ad armeggiare con qualsiasi cosa trovino a portata di mano. Il loro esperimento dimostra che il giovane Primo era quello più accorto e preparato tra i due: era certo grazie a Enrico che i due giovani inesperti potevano condurre queste piccole (ma tutt’altro che sicure) prove, ma non era sicuramente stata sua l’iniziativa di provare l’esperimento dell’elettrolisi, né l’acribia di dimostrare che i fatti seguivano esattamente la formula scritta solennemente alla lavagna. Primo, invece, si sentiva come un savio cerimoniere, e guidava l’amico alla scoperta dei misteri della materia.

E infatti Primo che, spinto e leggermente infastidito dall’indeciso scetticismo dell’amico che non si fida della lezione spiegatagli, vuole testare l’effettiva essenza dell’elemento: per provare all’amico la sua ragione, avvicina un fiammifero ad un contenitore pieno di idrogeno e innesca una piccola esplosione (al pari, sebbene in scala estremamente ridotta, dei fenomeni astrogonici che avvengono nello spazio cosmico). Nonostante i simbolici frantumi di vetro sul pavimento e la paura retrospettiva generata dall’avvenimento, Primo si sente pervaso da «una certa sciocca fierezza, per aver confermato un’ipotesi, e per aver scatenato una forza della natura» (Idrogeno, SP, I: 877): per aver previsto e sfruttato a proprio vantaggio il comportamento della materia pura.

Questo episodio è particolarmente significativo perché illustra come, sin dalla sua giovinezza, Levi cercasse il confronto pratico con il mondo intorno a sé: la chimica era quel sapere che gli permetteva di conoscerlo, di affrontarlo ad armi pari, magari prevedendone il comportamento e svelandone ogni segreto. Più e più volte Levi ritornerà su questo argomento, rivendicando l’importanza, per la sua formazione, di quel mestiere che lo aveva formato, che aveva svolto per più di trent’anni, a cui aveva dedicato (pur diversamente, dopo la pensione) tutta la sua vita.

Porta Nuova – treni

Citato in
Un altro lunedì, 1946, AOI, II: 688

Passo
“Dico chi finirà all’Inferno:
I giornalisti americani,
I professori di matematica,
I senatori e i sagrestani.
I ragionieri e i farmacisti
(Se non tutti, in maggioranza);
I gatti e i finanzieri,
I direttori di società,
Chi si alza presto alla mattina
Senza averne necessità.

Invece vanno in Paradiso
I pescatori ed i soldati,
I bambini, naturalmente,
I cavalli e gli innamorati.
Le cuoche e i ferrovieri,
I russi e gli inventori;
Gli assaggiatori di vino;
I saltimbanchi e i lustrascarpe,
Quelli del primo tram del mattino
Che sbadigliano nelle sciarpe”.

Così Minosse orribilmente ringhia
Dai megafoni di Porta Nuova
Nell’angoscia dei lunedì mattina
Che intendere non può chi non la prova.

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Risalente al gennaio 1946, è certamente un’altra delle ‘poesie urbane’ di Levi, sicuramente una delle più metropolitane, e insieme alla precedente lirica intitolata Lunedì (1946, AOI, II: 687) forma una coppia assai rappresentativa della stazione ferroviaria di Torino Porta Nuova. Appartiene alla prima stagione poetica di Levi, quella in cui rientrano anche le poesie del Lager, e contiene un’allusione fondamentale, quella al Minosse dantesco, il giudice infernale che Levi aveva già incontrato nel Lager, durante il suo esame di chimica.

Queste due poesie sono particolarmente rappresentative di Torino perché ne affrontano un luogo fondamentale, in cui Levi passò molte volte e che frequentò per diversi anni della sua vita: la stazione di Porta Nuova era, appunto, una finestra sul mondo per i torinesi prima che le tratte aeree divenissero così accessibili. La prima, in particolare, sembra nascere proprio dal percorso quotidiano di Levi che si reca ad Avigliana per lavorare: in Lunedì (però composta di giovedì, e a Torino) c’è un riferimento ben più che esplicito al treno e alla solitudine che prova durante i viaggi verso il proprio luogo di lavoro, e più in generale nella sua vita. In particolare, il mezzo di locomozione è collegato in maniera assai sinistra con il treno che lo aveva portato ad Auschwitz (così come quelli che lo riportarono indietro dalla Polonia), il quale rimane un ricordo traumatico nella sua memoria iconica e getta un’oscura ombra simbolica su ogni altro suo simile.

In Un altro lunedì, però, Levi decide di vestire i panni dell’infernale giudice che ritroviamo nell’Inferno dantesco, di cui riporta le parole in discorso diretto, virgolettandole. Il rimando a Dante è più che esplicito e si palesa senza possibilità di travisamento solo alla fine della lirica, il cui ultimo verso rimanda al primo terzetto di Tanto gentile e tanto onesta pare. Spunta perfettamente diritto, come un endecasillabo che regolarizza la chiusa della ultima strofa, e gioca il ruolo di immobile motore metrico: prelevato pari pari dal famosissimo sonetto di Dante, sembra attirare alla sua misura versale le righe precedenti, le quali presentano una sorta di ritorno all’ordine endecasillabico dopo il polimorfismo dei versi brevi nelle due strofe precedenti. Pur non utilizzando uno schema metrico fisso, dunque, Levi era assolutamente in grado di comporre versi di undici sillabe proprio come prescriveva la tradizione poetica italiana (a cui spesso si rifaceva, e che aveva sempre ben presente).

L’ultima strofa è infatti la più importante perché, insieme al primo verso, offre gli estremi in cui inquadrare la poesia: dopo il lunghissimo elenco che contiene il variopinto campionario di geografia umana cittadina che si sposta sui tram e per la città puntando verso la stazione per raggiungere il proprio luogo di lavoro (esattamente come faceva Levi all’epoca). L’occasione poetica nasce, in particolare, proprio dall’ascolto del megafono da cui si spargono gli annunci che specificano l’itinerario dei singoli treni: il poeta immagina che dietro agli altoparlanti, alla sorgente di ogni impulso vocale trasmesso in stereofonia in tutta la stazione, stia proprio il giudice dantesco che, osservata e conosciuta l’abituale routine dei viaggiatori, può dire meglio quale sia la loro direzione, indicandogliela. Metaforicamente, il poeta immagina che la voce sancisca chi di loro debba andare all’inferno («Dico chi finirà all’Inferno»; peraltro scritto qui con la maiuscola in riferimento palese alla Commedia) o in paradiso, a seconda della loro occupazione e delle loro abitudini mattutine.

La fauna torinese è però molto varia: c’è un discrimine fondamentale, che non è possibile evincere chiaramente: i versi del poeta mimano qui il dedalo della stazione e le numerose masse che la attraversano, in cui si mescolano le più svariate professioni, ed è impossibile comprendere perché alle anime tocchi l’una o l’altra sorte. In ogni caso, Porta Nuova si rivela di nuovo un crogiolo di esistenze, un cuore pulsante della città che è punto di riferimento comune per una grandissima parte della popolazione locale (e non soltanto).

Un altro dato molto importante della poesia è proprio l’«angoscia del lunedì mattina», la stessa che attanagliava il poeta già nella poesia precedente scritta soltanto dodici giorni prima. Questa, tuttavia, è più allegra (in un certo senso) e sicuramente meno disperata, per quanto comunque lapidaria: i versi brevi sembrano davvero essere stentorei giudizi irrevocabili; e, allo stesso tempo, gli endecasillabi finali riportano in gioco il sentimento di angustia che il poeta sentiva durante quel periodo della sua vita (quando, peraltro, era ancora uno di «Quelli del primo tram del mattino / Che sbadigliano nelle sciarpe» e non ancora uno dei «direttori di società» che si affrettano per raggiungere i binari e riprendere la loro azienda lì dove si era fermata prima del fine settimana).

Corso Re Umberto – ippocastano

Citato in
Cuore di legno, 1980, AOI, II: 714

Passo
II mio vicino di casa è robusto.
È un ippocastano di corso Re Umberto;
Ha la mia età ma non la dimostra.
Alberga passeri e merli, e non ha vergogna,
In aprile, di spingere gemme e foglie,
Fiori fragili a maggio,
A settembre ricci dalle spine innocue
Con dentro lucide castagne tanniche.
È un impostore, ma ingenuo: vuole farsi credere
Emulo del suo bravo fratello di montagna
Signore di frutti dolci e di funghi preziosi.
Non vive bene. Gli calpestano le radici
I tram numero otto e diciannove
Ogni cinque minuti; ne rimane intronato
E cresce storto, come se volesse andarsene.
Anno per anno, succhia lenti veleni
Dal sottosuolo saturo di metano;
E abbeverato d’orina di cani,
Le rughe del suo sughero sono intasate
Dalla polvere settica dei viali;
Sotto la scorza pendono crisalidi
Morte, che non saranno mai farfalle.
Eppure, nel suo tardo cuore di legno
Sente e gode il tornare delle stagioni.

Fonte: https://www.facebook.com/Torinopiemontevintage/photos/a.1511442105807240/2603103959974377/

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Questa poesia è uno splendido esempio dell’attenzione alla vita di città che Levi, interessato alle specie animali e vegetali, non può fare a meno di notare. Dei viali torinesi, gli alberi sono forse la parte più notevole: delimitano il corso centrale dividendolo dai controviali e portano un fresco tocco di verde non poco importante nel quadro di una città in cui regnano sovrani cemento e asfalto. Questa veduta è quella che Levi poteva scorgere dal suo balcone, oppure ogni volta che varcava la soglia di casa sua: l’albero è, letteralmente, il suo «vicino di casa», e la sua vicinanza con Levi è innanzitutto di natura bio-geografica.

Come se dovesse offrirne una classificazione binomia per indicare la particolarità della sua specie da un punto di vista strettamente biologico, Levi parla di «un ippocastano di corso Re Umberto»; il legame stretto con questa creatura, che viene qui antropomorfizzata pur nella considerazione della sua “semenza” (vegetale e quindi inanimata), sembra avere – non si sa se davvero oppure no – una coincidenza biografica non poco importante con il chimico-scrittore, il quale conosce assai bene il suo ciclo vitale durante i mesi e le stagioni dell’anno. Potrebbe anche essere, non si sa se solo poeticamente o anche anagraficamente, che il giovane Primo avesse visto tutto il processo evolutivo del tronco che cresceva nelle aiuolette che separano corso e controviale.

Come se fosse un suo fratello imperfetto, infatti, Levi è in grado di captare le sensazioni che secondo lui prova il suo particolare vicino di casa: innanzitutto quello di sentirsi un «impostore» perché vuole imitare i grandi e rigogliosi castagni di montagna, profondamente diversi, soprattutto perché immersi in un ambiente circostante molto più prolifico rispetto a quello del centro torinese; la prima differenza si scorge proprio da ciò che queste due specie arboree producono: se l’ippocastano di corso re Umberto non dà che «fiori fragili» e «ricci dalle spine innocue / Con dentro lucide castagne tanniche», il fratello montano è invece «Signore di frutti dolci e di funghi preziosi», ed è «bravo».

L’albero cittadino, però, soffre: «Non vive bene» perché è immerso in un contesto nient’affatto georgico che non lascia spazio alla libera realizzazione della natura naturans, ma anzi la blocca, la impedisce e ne minaccia fortemente lo sviluppo. I tram che scorrono veloci (e pesanti) sui binari di corso Umberto, simbolo della modernità torinese e della capillarità con cui è stata organizzata la rete del trasporto pubblico, gravano sulle radici del povero ippocastano ad ogni corsa («ne rimane rintronato», appunta il poeta), obbligandolo a sopportare il peso dell’evoluzione della città e degli spostamenti della sua popolazione.

Per questo «cresce storto, come se volesse andarsene»: è fortemente piagato da un ambiente che non fa nulla per favorirlo, che non lo lascia crescere liberamente come lui vorrebbe invece fare, e che anzi mina pericolosamente la sua salute. Oltre al peso dei tram, infatti, quotidianamente «succhia lenti veleni»: l’azione dell’inquinamento cittadino (specie in un corso centrale tanto trafficato quanto quello in questione) è dirimente, ma poco a poco, giorno dopo giorno, come se fosse una sorta di condanna. Non lo aiutano infatti il «sottosuolo saturo di metano» né la «polvere settica dei viali», nemmeno riceve acqua per dissetare la sua crescita, ma invece «orina di cani» che gli abitanti portano a passeggiare ai piedi delle sue radici.

Come se fosse malato di una malattia cancerogena, le «rughe del suo sughero sono intasate» e non possono che assorbire tutti gli scarti della vita cittadina; per questo, seppur «Alberga passeri e merli», «Sotto la scorza pendono crisalidi / Morte, che non saranno mai farfalle»: non c’è soluzione di continuità con la vita che rinasce dal nulla, e, essendo avvelenato dal profondo delle sue radici, non può offrire nutrimento vitale agli ospiti che si appoggiano su di lui. Ma c’è una concessiva finale che ribalta la situazione, riprendendo il quadro iniziale e affermando che non tutto è perduto: così come «non ha vergogna, / In aprile, di spingere gemme e foglie», nonostante i suoi siano soltanto «Fiori fragili a maggio», «Sente e gode il tornare delle stagioni»; dunque è vivo, percepisce ancora la vita dentro di sé e attorno a sé, pur sognando di essere come il suo alter-ego montano, perché non tutte le sue speranze sono perdute; il suo, dal punto di vista fortemente antropormorfizzante del poeta, è un «tardo cuore di legno» ancora in grado di vibrare di vita, nonostante l’impervio ambiente in cui è stato impiantato.

Via Valperga Caluso

Citato in
Potassio, SP, I: 899-900

Passo
Risalivo svogliatamente via Valperga Caluso, mentre dal Valentino giungevano e mi sorpassavano folate di nebbia gelida; era ormai notte, e la luce dei lampioni, mascherati di violetto per l’oscuramento, non riusciva a prevalere sulla foschia e sulle tenebre. I passanti erano rari e frettolosi: ed ecco, uno fra questi attirò la mia attenzione. Procedeva nella mia direzione con passo lungo e lento, portava un lungo cappotto nero ed era a capo scoperto, e camminava un po’ curvo, ed assomigliava all’Assistente, era l’Assistente. Lo sorpassai, incerto sul da farsi; poi mi feci coraggio, tornai indietro, ed ancora una volta non osai interpellarlo.

Fonte: https://www.facebook.com/photo/?fbid=312498507121147&set=gm.1393892967641014

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Potassio è tra i più famosi e citati racconti che compongono il Sistema periodico. È la cronaca degli anni dell’apprendistato chimico di Levi, in particolare all’indomani dell’avvento delle leggi razziali promosse dal regime fascista: il giovane studente di chimica, ebreo suo malgrado, non riesce a trovare nessun professore tramite cui poter davvero imparare qualcosa, fare gli esperimenti giusti, cimentarsi in compiti difficili per apprendere quanto più possibile durante un periodo tanto ricco di ispirazioni. Fuori dalle mura dell’Istituto di chimica, per parafrasare una definizione sempre dal Sistema periodico, la situazione era buia, ma ancor di più lo era in Europa: era il 1941 e la deportazione nazista aveva già preso inizio. Il quadro politico era raccapricciante: lo strapotere della Germania andava crescendo sempre di più, nella speranza di poter conquistare sempre più territori, a partire dalla Polonia. Gli ebrei italiani, nella fattispecie e quelli torinesi, erano però vittime di quella che Levi definisce “cecità volontaria”: continuavano a condurre le proprie esistenze regolarmente, non volevano essere vittime di preoccupazioni ingestibili, di cui nemmeno lontanamente avrebbero immaginato le conseguenze, e continuavano a vivere la propria vita senza curarsi di cosa succedeva in Europa. C’erano fonti che lo affermavano, certo, ma mancava il desiderio di conoscerle davvero, e di organizzarsi di conseguenza; mancava addirittura il desiderio di opporsi ad un regime tanto stretto quanto quello fascista, nonostante impedisse agli ebrei di vivere davvero al pari degli altri.

Anche il giovane Levi: completamente (e volutamente) ignaro delle possibili conseguenze che verso cui il suo destino lo avrebbe condotto, Levi era preoccupato di trovare un buon lavoro che gli permettesse di guadagnare abbastanza per condurre una vita agiata, esattamente come giustificavano ai suoi occhi i modelli della piccola borghesia torinese, tra cui in particolare i suoi genitori. Per farlo, sapeva bene che doveva diventare un tecnico bravo e capace, e che quindi si sarebbe dovuto laureare con un’ottima votazione all’università. Suo malgrado, a causa delle leggi razziali nessun professore era intenzionato a prenderlo come proprio tesista. Ci sarebbe dunque stato il suo maestro?

Proprio l’Assistente (al secolo Nicolò Dallaporta): specializzato in astrofisica, “il regno dell’inconoscibile” come lo chiamava, iniziò Levi ad una disciplina quasi esoterica, di cui soltanto pochi adepti potevano intendersi davvero. Volevo aggiungere infatti alla realtà ultima che tutte le cose, che era però di per sé inconoscibile, e soltanto i calcoli della fisica avrebbero forse, un giorno, potuto trovare una strada per raggiungerlo.

Ciononostante, Levi non era interessato a questo tipo di verità in afferrabile: preferiva già all’epoca la chimica, che gli offriva il tatto pratico con il mondo circostante, oltre ai paradigmi della materia e delle sue infinite combinazioni. Tuttavia, resto il necessario con l’Assistente poiché questi gli concesse di diventare suo allievo, suo iniziato: in una sessione privata di approfondimento, guida Levi nell’esperimento che viene compromesso proprio dal potassio. Nell’esperimento sbagliato, infatti, l’Assistente vede una prova della superiorità della fisica sulla chimica, mentre Levi vi legge l’importanza del più piccolo dettaglio differenziale, causa del naufragio delle sue previsioni nel suo approccio diretto con la materia.

L’Assistente, come succederà anche nel suo ritorno nei Sommersi e i salvati (La vergogna, SES, II: 1195 sg.), ricopre in un certo senso l’autorità che deve essere superata per arrivare alla piena maturazione: è quella presenza che il giovane Levi vede come proprio modello e punto di riferimento, ma da cui sente di doversi distaccare per essere davvero se stesso, per intraprendere il proprio cammino e conoscere gli strumenti per sviluppare una propria opinione sui fatti.