Citato in
La ragazza ardita, CS, I: 1064-1065Passo
Lei deve sapere che i caposervizio, quando hanno passato una certa età, ognuno ha la sua mania, almeno una: e il mio ne aveva diverse. […] I cuscinetti, per esempio; lui voleva solo quelli svedesi, e se veniva a sapere che su un lavoro qualcuno ne aveva montati degli altri veniva di tutti i colori e saltava alto così, che poi invece di regola era uno tranquillo: e sono solo storie, perché su lavori come quello che le sto raccontando, che era poi un nastro trasportatore, lungo ma lento e leggero, stia sicuro che tutti i cuscinetti vanno bene, anzi, andrebbero bene fino le boccole di bronzo che faceva il mio padrino, una per una, a forza di olio di gomito, per la Diatto e la Prinetti, nella boita di via Gasometro.
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Anche in un lavoro (quasi) completamente fittizio come La chiave a stella, Levi non manca di citare la sua amata Torino: il deuteragonista del libro, il finzionale Libertino Faussone che il chimico-scrittore crea mettendo insieme i tratti di più operai specializzati conosciuti durante le sue trasferte di lavoro, è infatti legato alla città per più di un motivo. Innanzitutto dal fatto che fa il mestiere che fa, ovverosia il capacissimo montatore di tralicci, proprio perché (come indica chiaramente il suo nome) non intende andare a lavorare alla Lancia, l’enorme fabbrica che inghiotte la personalità dei suoi operai e li getta in uno sconfinato esistenza pullulante di alienazione. Ma anche perché non intende lavorare nella bottega-officina (la storica boita) di suo padre, né aprirne una propria in futuro (andando dunque contro il naturale mestiere di famiglia). Nell’orchestrazione complessiva del vissuto di Faussone, Torino e la sua geografia diventano un pretesto tramite cui aumentare la verosimiglianza del personaggio: tramite la sua voce, Levi fa riferimenti inconfondibili alla sua città, dando spessore alle osservazioni e ai racconti del suo deuteragonista.
Lo possiamo vedere bene, ad esempio, quando fa citare a Faussone un punto del suo quartiere (la Crocetta) che conosceva molto bene e che aveva sicuramente visto molte volte, passeggiandovi vicino o attraversandone i pressi per recarsi alla stazione. Si tratta della centralissima via Camerana, sul fianco Via Sacchi di Porta Nuova, una volta comunemente nota come Via del Gasometro: alla fine dell’Ottocento, ospitò infatti la prima edificazione che forniva il gas a tutta la città (antenata dell’odierna Italgas), una gigantesca e articolatissima officina in cui lavoravano moltissime persone, una vera rarità all’epoca, prodromo che anticipa la grande evoluzione industriale che investirà il capoluogo nella seconda metà del Novecento, modernizzandola e cambiandone i connotati.
Lo zio di Faussone – proprio come avrebbe dovuto fare anche il nipote – lavorava in una boita, poiché era un artigiano che lavorava i metalli e le loro leghe, un magnìn: in diverse interviste Levi dichiarò infatti di aver preso in prestito questa centenaria e interessantissima tradizione per forgiare il passato familiare del proprio personaggio, per fargli assumere consistenza e verosimiglianza. Lo zio, nella finzione architettata dal chimico-scrittore, diventa un lavoratore torinese che, nella speranza di far fortuna cercando disperatamente di non morire di fame, ha dovuto lasciare le valli del canavese in cerca di fortuna, partendo alla volta della città. Ha scelto di impiegare lì il proprio talento, e quale miglior posto per farlo fruttare di un’officina specializzata?
Il tutto è raccontato dall’inconfondibile estro di Faussone, che infarcisce il testo di espressioni dialettali e calchi dal piemontese, oltre a tecnicismi appartenenti al suo mestiere di montatore. Il realismo linguistico del libro, infatti, è una delle sue caratteristiche più spiccate e apprezzate dai suoi lettori, in particolare quelli che hanno familiarità con il dialetto piemontese: la lingua del personaggio e attribuisce uno spessore assolutamente verosimile che, a tutta prima, gli fa assumere una consistenza incredibilmente reale (che dimostra le grandi doti etnografiche di Levi nel cogliere le particolarità del linguaggio che caratterizza uno specifico gruppo di parlanti).
Accanto al realismo linguistico, in questo estratto possiamo osservare la bravura di Levi (anch’essa artigianale) nel creare un sostrato narrativo accurato, innervato di realismo: a partire dal punto di vista toponomastico, poiché è storicamente attendibile il vecchio nome di via Camerana qui riportato (proprio così figura sui libri, e così lo chiamavano i torinesi di quel tempo); ugualmente dal punto di vista storico, proprio perché viene riportata in vita una concezione appartenente ad un tempo ormai passato, quando molti artigiani lavoravano a mano i metalli per produrre i cuscinetti che sarebbero serviti alle oggigiorno scomparse Diatto (fabbrica metalmeccanica locale allora specializzata nella produzione di veicoli ferrotranviari) e Prinetti Stucchi & Co. (officina meccanica milanese che produceva macchine da cucito, bici e auto); e non da ultimo dal punto di vista geografico, poiché nel centro di Torino (e specialmente in quella via, come è possibile vedere ancora oggi) erano numerosissime le boite attive al piano terra di moltissimi edifici, spazi oggi devoluti all’impiego residenziale.