Archivi categoria: Progetti: La Torino di Primo Levi

Mole Antonelliana – sinagoga

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Prefazione Ebrei a Torino, 1984, PS, II: 1559

Passo
Paradossalmente, la nostra storia di gente tranquilla e dimessa è connessa con quella del maggior monumento torinese, che dimesso non è, né conforme alla nostra indole: […] abbiamo corso il serio rischio di condividere con Alessandro Antonelli la responsabilità per la presenza, in pieno centro urbano, della Mole, spropositato punto esclamativo. Beninteso, anche noi, come tutti i torinesi, nutriamo per la Mole un certo amore, ma è un amore ironico e polemico, da cui non ci lasciamo accecare. La amiamo come si amano le pareti domestiche, ma sappiamo che è brutta, presuntuosa e poco funzionale; che ha comportato un pessimo uso del pubblico denaro; e che, dopo il ciclone del 1953 ed il restauro del 1961, sta su grazie ad una protesi metallica. Insomma, da un pezzo non ha più neppure diritto ad una menzione nel Guinness dei primati: non è più, come ci insegnavano a scuola, “la più alta costruzione in laterizi d’Europa”.

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Senz’altro curioso, il fatto che la Mole Antonelliana compaia soltanto di scorcio nelle opere di Levi lascia un dubbio a dir poco amletico dietro di sé: come è possibile che il chimico scrittore, affezionato così tanto alla società, non ne citi praticamente mai il simbolo più noto non solo in tutta Italia, ma anche in tutto il mondo? Una sua descrizione con un rilievo geocritico importante, come è invece per molti altri luoghi, è infatti assente: non c’è infatti un testo che ne descriva l’aspetto, le qualità, la storia o il significato se non quello da cui proviene l’estratto succitato.

Si tratta di una prefazione che Levi scrisse per il volume dedicato alla ricostruzione della comunità ebraica nostrana, di cui lui stesso faceva parte, di cui conosceva molti esponenti prima che la scellerata combutta di fascismo e il nazismo li spazzasse via. Troviamo in questo testo diverse somiglianze con il racconto iniziale del Sistema periodico, Argon, molto importante poiché aveva reso Levi uno degli storici e linguisti principali della comunità ebraica locale. In ambito amatoriale, s’intende: ma di certo alla comunità degli ebrei torinesi questa sua fortunata trattazione non deve essere sfuggita, e anzi deve averli appassionati sicuramente molto. La sua firma in chiusura della prefazione aggiunge infatti un valore determinante al libro: la storia della famiglia di Levi è molto simile a quella dei correligiosi locali, a cui i suoi parenti presero parte pur conservando la loro riservatezza; come nel racconto iniziale dell’autobiografia, la storia si intreccia con la lingua, che crea un precipitato unico sulla base del dialetto torinese unito alla lingua degli avi e della tradizione.

La Mole, in particolare, è intimamente intrecciata con la storia comunale di questa etnia: in seguito al 1848, quando Carlo Alberto firmò lo Statuto Albertino e sancì la libertà di culto per tutti i cittadini che professavano religioni non cattoliche, gli israeliti reclamarono un luogo di culto locale e acquistarono il terreno su cui sarebbe sorto, diretto dall’architetto Giuseppe Antonelli, l’edificio progettato che sarebbe divenuto il simbolo del capoluogo piemontese.

Noleggiamo chiaramente nella descrizione Levi, fortemente condita con un’ironia pungente: aldilà della superficie, oltre alle parole che riconoscono l’imponente costruzione architettonica che svetta nel cielo della città come uno dei suoi simboli più importanti e rappresentativi, leggiamo chiaramente che si tratta di un «amore ironico e polemico» da cui non bisogna farsi ingannare. Nelle parole di Levi, infatti, la costruzione viene paragonata ad uno «spropositato punto esclamativo», E gli aggettivi che la descrivono stridono fortemente con l’attaccamento paterno che dovrebbe invece raffigurare: Levi dice addirittura che è «brutta, presuntuosa e poco funzionale», e non nasconde il suo sollievo sottolineando come la storia della comunità ebraica locale si sia fortunatamente staccata dalla costruzione, figlia invece del «pessimo uso del pubblico denaro».

Con la cessione permessa da Carlo Alberto, sarebbero stati proprio fedeli israeliti a doversi occupare economicamente dei lavori di realizzazione e mantenimento dello stabile. Le spese sempre più ingenti e le continue riprogettazioni di Antonelli li costrinsero infatti, oltraggiati dall’insensibilità nei confronti delle loro richieste, a rinunciare alla proprietà e a chiedere la concessione di un altro luogo di culto il cui impiego fosse meno dispendioso. La Mole raggiungeva allora soltanto settanta metri di altezza: avrebbe raggiunto la sua attuale forma soltanto in seguito a continue rielaborazioni del progetto originale e un cantiere che durò quarant’anni (oltre ai lavori di ristrutturazione per riparare i danni contratti in seguito al ciclone che, negli anni Cinquanta, ne spezzò la punta).

Per loro fortuna, scrive Levi: «abbiamo corso il serio rischio di condividere con Alessandro Antonelli la responsabilità per la presenza, in pieno centro urbano, della Mole», certo bellissima per qualunque turista che visiti il centro storico, ma fortemente aliena rispetto al carattere dei fedeli che un tempo ne occuparono i locali – per un periodo assai breve – mentre recitavano le loro preghiere e celebravano le loro festività e funzioni religiose. «Paradossalmente, la nostra storia di gente tranquilla e dimessa è connessa con quella del maggior monumento torinese, che dimesso non è, né conforme alla nostra indole»: il suo giudizio è netto, tagliente e definitivo, oltre che coerente alla caratterizzazione che ritroviamo in diversi punti della sua opera in relazione all’ereditario credo religioso della sua famiglia, nobile e inerte come i gas che occupano i primi quadranti della tavola periodica di Mendeleev.

Mole Antonelliana

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G. Tesio, Torino, 1980, III: 190

Passo
Io fui deportato da Aosta a Fossoli, prima della vera e propria deportazione ad Auschwitz. Quando il treno arrivò a Chivasso, era un tramonto di febbraio. Il cielo era torbido ma dalla stazione riuscii a vedere la Mole. Fu quello il momento dello strappo, un addio che mi straziò.

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Senz’altro curioso, il fatto che la Mole Antonelliana compaia soltanto di scorcio nelle opere di Levi lascia un dubbio a dir poco amletico dietro di sé: come è possibile che il chimico scrittore, affezionato così tanto alla società, non ne citi praticamente mai il simbolo più noto non solo in tutta Italia, ma anche in tutto il mondo? Eppure è così, tant’è che la citazione qui riportata proviene da un’intervista dedicata alla città, fatta a Levi da Giovanni Tesio, e non – come ci si aspetterebbe – da un testo letterario che ne descrive l’aspetto, le qualità, la storia o il significato. Non che questo non ci sia, ma sicuramente manca una descrizione con un rilievo geocritico importante, come è invece per molti altri luoghi.

A ben vedere, tuttavia, emerge chiaramente come la Mole sia, agli occhi di Levi, l’emblema architettonico per eccellenza di Torino: nella linea dei tetti della capitale piemontese, la sua cupola e il suo pennacchio svettano e si fanno riconoscere rendendosi ben visibili da ogni punto della città. La Mole si contende oggi con alcune opere architettoniche quali grattacieli e grandi palazzi il dominio dello skyline che una volta invece spettava a lei sola: guardando Torino dagli occhi di Levi, vediamo infatti la sua cupola innalzarsi maestosa in prospettiva alle montagne che si ergono all’orizzonte. Se ragionassimo infatti sulla presenza di alcune vedute torinesi nelle opere del chimico-scrittore, troveremmo certamente che i più significativi sono quelli legati alle montagne, appunto simbolo di casa poiché il loro profilo è ben visibile (fatto salvo per i giorni di nebbia, o durante acquazzoni e temporali) dalla pianura che punta in alto, verso le Alpi.

Ma alla Mole spetta la presenza in un quadro celeste tutt’altro che positivo: nell’intervista qui riportata, emerge chiaramente come sia l’ultima immagine di Torino che il partigiano deportato Primo Levi vede quando viene condotto verso Fossoli, a Modena, e da lì poi verso la Polonia. Arrivato dalla Val d’Aosta a Chivasso, una città nella periferia di Torino, nel lugubre tramonto in cui quel giorno tanto sfortunato volge al termine, riconosce senza alcuna ombra di dubbio la gigantesca cupola che riempie il suo sguardo di amarezza, nostalgia e paura, come un pargolo che si sente abbandonato dall’abbraccio caldo e confortevole della propria madre: in cuor suo, pur non sapendo dove sarebbe andato a finire e cosa ne sarebbe stato di lui, Levi – magari con leggero sentimento retrospettivo – confessa al suo intervistatore di aver creduto che fosse quello il suo ultimo sguardo alla regina dell’architettura custodita nel centro di Torino.

Palazzo Carignano – marciapiedi

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Segni sulla pietra, 1979, poi in AM,II: 848

Passo
I marciapiedi più vecchi e più tipici sono invece fatti di lastroni di pietra dura, pazientemente sgrossata e scalpellata a mano. Il grado dei loro logorìo ne consente una grossolana datazione: le lastre più antiche sono lisce e lucide, lavorate dai passi di generazioni di pedoni, ed hanno assunto l’aspetto e la patina calda delle rocce alpine levigate dal mostruoso attrito dei ghiacciai. […] Dove […] l’attrito è stato minore o nullo, si distingue ancora la ruvidezza originaria della pietra, e spesso i singoli colpi di scalpello: questo si vede bene lungo i muri, per una distanza di un palmo, e particolarmente bene sul lastricato che sta davanti al Palazzo Carignano; il percorso rettilineo tangente all’ingresso principale è eroso normalmente, mentre i recessi della facciata barocca albergano lastre ruvide, perché per più di tre secoli non ci è passato quasi nessuno.

Fonte: https://www.facebook.com/photo/?fbid=1360938033976871&set=gm.406803093016678

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Nell’Altrui mestiere, la raccolta pubblicata nel 1985 che conteneva gli articoli pubblicati su «La Stampa» a partire dal 1976, Primo Levi dà sfogo al suo caledoscopico talento di scrittore, compiendo invasioni di campo che lo portano a speculare su settori assai diversi dalla memorialistica e dalla chimica, di cui era ormai divenuto campione. Nelle pagine di questa raccolta è all’opera un talento poliedrico interessato alle manifestazioni della cultura in tutte le sue forme: dalla linguistica alla critica letteraria, dalla chimica alla biologia e all’entomologia, dalla geografia alla storia, il vagabondaggio del letterato curioso e chimico ormai in pensione segna una delle tappe di riflessione più interessanti del secondo Novecento. In particolare, possiamo vedere qui all’opera una tendenza archeologica: il tarlo metodologico di Levi sembra portarlo costantemente verso la pratica di scavo nel passato, specialmente in relazione alla sedimentazione delle parole, componendo un’assidua e originale ricerca (e ricomposizione) della loro storia perduta. Quasi come uno storico che interroga i segni lasciati dall’ineffabile flusso degli eventi che dietro di sé non lascia che disunite tracce da interrogare, il chimico-scrittore ragiona su quanto osserva e stende i propri testi offrendo ai suoi lettori i risultati delle sue elucubrazioni e ricostruzioni.

L’articolo da cui proviene l’estratto succitato, Segni sulla pietra, mantiene il suo nome anche dopo la conversione nella raccolta di saggi (a differenza di molti altri testi). Iniziando dapprima con un’attenta disamina della storia torinese che si può osservare sulle superfici pietrose e rocciose che occupano i lati delle strade cittadine, termina infine con la presa in considerazione dell’azione dirimente e deturpante della modernità su quella parte della facciata urbana di Torino che sembra essere lì da tempi immemori. Oggetto di osservazione privilegiato sono proprio i marciapiedi, le cui superfici lastricate che furono posizionate moltissimo tempo fa (in specie agli albori della città in epoca moderna), e resistono tutt’oggi, affiancati dai loro nuovi compagni in asfalto e cemento. «I marciapiedi della mia città (e, non ne dubito, quelli di qualsiasi altra città) sono pieni di sorprese» (Segni sulla pietra, 1979, poi in AM,II: 847), scrive esattamente: sono dunque pieni di segni da inventariare che possono essere fecondamente interrogati, tanto guardando al passato quanto immaginando il futuro. Così come noi oggi possiamo leggere le trame e gli avvicendamenti della Storia che proprio su questa parte del quadro urbano hanno lasciato la loro traccia, anche gli archeologi del futuro potranno infatti ritrovare quanto noi oggi lasciamo distrattamente e imprudentemente dietro di noi in seguito al nostro passaggio. Levi immagina che, nel futuro, tutte le scorie da noi depositate verranno ritrovate, saranno restituite dal sottosuolo e, come fossili, interrogate da appositi studiosi interessati a ricostruire le nostre abitudini, e non da meno tutto quello che fa parte della nostra quotidianità senza che noi ce ne accorgiamo, mentre nelle nostre frenetiche vite scalpicciamo su questi luoghi, lasciando traccia del nostro passaggio.

Una splendida prova di questa pratica è costituita proprio dall’analisi dei marciapiedi più antichi in cui il chimico-scrittore si cimenta nel suo articolo: il lastricato che troviamo davanti a Palazzo Carignano nel centro storico di Torino subito dietro piazza Castello (che fu vitale organo pulsante della vita politica cittadina nell’Ottocento), è un esempio che ben si presta a una lettura di questo tipo. Nell’estratto succitato è descritta la facciata barocca costruita nella seconda metà del Seicento da Guarino Guarini, architetto che ha progettato la costruzione di diversi edifici nel centro del capoluogo.

Qui il lessico descrittivo di Levi diventa estremamente chiaro e preciso: parla dei «recessi», cioè delle rientranze che spezzano la monotonia delle facciate e dei plessi circostanti (caratteristiche dello squadratissimo centro torinese), e con il suo cristallino modo di esprimersi descrive l’usura del lastricato (purtroppo oggi giorno sostituito dai tipici porfidi geometricamente disposti a forme di onde). Al suo tempo, si poteva infatti scorgere una differenza notevole: le lastre su cui fluiva il traffico cittadino erano quelle parallele alla linea della facciata, e non quelle che rientravano verso l’interno dell’edificio; erano dunque le prime a dover sopportare un frequente e continuo attrito dovuto al passaggio di uomini, bestie, carri e, più tardi, automobili. Lo stesso attrito di cui, con grande interesse e acribia di urbanista storico, Levi porta notizia, descrivendone minuziosamente gli effetti nel suo interessante e originale articolo.

Via Lagrange

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Le zie, CS, I: 1158

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Le zie di Faussone abitavano in una vecchia casa di via Lagrange, di soli due piani, rinserrata tra edifici più recenti (ma altrettanto trascurati) alti almeno il triplo. La facciata era modesta, di un colore terroso indefinito, su cui risaltavano, ormai appena distinguibili, false finestre e falsi balconcini dipinti in rosso mattone. La scala B che io cercavo era in fondo al cortile: mi sono soffermato ad osservare il cortile, mentre due massaie mi guardavano con sospetto dai rispettivi ballatoi. La corte ed il portico di ingresso erano in acciottolato, e sotto il portico correvano due carraie in lastre di pietra di Luserna, solcate e logorate dal passaggio di generazioni di carri. In un angolo era un lavatoio fuori uso: era stato riempito di terra e vi era stato piantato un salice piangente. In un altro angolo c’era un mucchio di sabbia, evidentemente scaricata là per qualche lavoro di riparazione e poi dimenticata: la pioggia l’aveva erosa in forme che ricordavano le Dolomiti, e i gatti vi avevano scavato varie comode cucce. Di fronte era la porta di legno di un’antica latrina, macerata in basso dall’umidità e dalle esalazioni alcaline, più in alto ricoperta di una vernice bigia che si era contratta sul fondo più scuro assumendo l’aspetto della pelle di coccodrillo. I due ballatoi correvano lungo tre lati, interrotti soltanto da cancelli rugginosi che si prolungavano fuori delle ringhiere in punte a ferro di lancia. Ad otto metri dalla via congestionata e pretenziosa, si respirava in quel cortile un vago odore claustrale, insieme col fascino dimesso delle cose un tempo utili, e poi lungamente abbandonate.

Fonte: https://www.facebook.com/photo?fbid=2762595800734257&set=gm.1275262709504041

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Anche in un lavoro (quasi) completamente fittizio come La chiave a stella, Levi non manca di citare la sua amata Torino: il deuteragonista del libro, il finzionale Libertino Faussone che il chimico-scrittore crea mettendo insieme i tratti di più operai specializzati conosciuti durante le sue trasferte di lavoro, è infatti legato alla città per più di un motivo. Innanzitutto dal fatto che fa il mestiere che fa, ovverosia il capacissimo montatore di tralicci, proprio perché (come indica chiaramente il suo nome) non intende andare a lavorare alla Lancia, l’enorme fabbrica che inghiotte la personalità dei suoi operai e li getta in uno sconfinato esistenza pullulante di alienazione. Ma anche perché non intende lavorare nell’officina-bottega (la storica boita) di suo padre, né aprirne una propria in futuro (andando dunque contro il naturale mestiere di famiglia). Nell’orchestrazione complessiva del vissuto di Faussone, Torino e la sua geografia diventano un pretesto tramite cui aumentare la verosimiglianza del personaggio: tramite la sua voce, Levi fa riferimenti inconfondibili alla sua città, dando spessore alle osservazioni e ai racconti del suo deuteragonista.

Già a partire dalla vicenda biografica: nella Chiave a stella si dice infatti che Faussone ha due zie che abitano nel centro storico di Torino, nella pittoresca via Lagrange (oggi pedonalizzata, ma in passato assai trafficata) che collega piazza Castello alla stazione di Porta Nuova e fende il cuore della città, squadrandone la struttura urbanistica mentre converge con le vie sorelle a lei parallele e perpendicolari. Anche le due anziane sono degne rappresentanti secolari del capoluogo piemontese: portando loro notizie del nipote che ha incontrato durante i suoi viaggi di lavoro, l’alter-ego letterario del chimico-scrittore ne riporta un ritratto assai preciso, minuzioso e attento ad ogni dettaglio.

Vive così un luogo mai esistito: in più di un’intervista, il chimico-scrittore affermerà di essersi basato completamente sulla propria fantasia per inventare il passato del suo personaggio, e con esso tutti i parenti che ne fanno parte. Le zie di Faussone, dunque, non esistono, né esiste la loro casa tanto dettagliatamente descritta: le parole di Levi nell’estratto succitato non sono altro che un fantastico gioco di invenzione, che non trova alcun risvolto pratico nella ricerca fisica del luogo descritto. Potremmo tuttavia pensare che, come per la creazione del personaggio del montatore di tralicci, anche per questo luogo il chimico-scrittore abbia voluto utilizzare brandelli di memoria collezionati qui e lì durante la sua vita; o magari sbirciando, durante le sue passeggiate da dilettante curioso per il centro della sua città, qualche misterioso interno delle abitazioni.

Ciononostante, è notevole l’attenzione che impiega per descrivere l’abitazione delle due anziane, insieme al loro cortile con tutto il disordinato strame di oggetti e le curiose presenze che ospitava. Nell’atmosfera che prende forma sulla pagina troviamo infatti molte spie che ci riportano indietro nel tempo: l’ambientazione molto vecchia (quasi ancora ottocentesca) della dimora, le tipiche lastre di pietra montana provenienti da Luserna (in Val Pellice) e una volta impiegate per pavimentare i patii torinesi, l’antica porta di legno macero che si regge in piedi per miracolo nel mezzo del degrado in cui il grazioso interno è stato abbandonato. L’obiettivo di Levi è quello di creare un’oasi immersa nel pieno centro della città ma da essa totalmente separata: esattamente come la stretta delle due zie voleva, teneramente, tener separato il giovane Faussone dal resto del mondo; e così la loro casa diventa una sorta di punto simbolico che riflette i loro personaggi caratterizzando le loro figure. «Ad otto metri dalla via congestionata e pretenziosa, si respirava in quel cortile un vago odore claustrale, insieme col fascino dimesso delle cose un tempo utili, e poi lungamente abbandonate»: le parole di Levi rievocano qui un tempo ormai scomparso, insieme alla coltre di polvere e ricordi con cui il suo ineffabile scorrere ha ammantato ogni cosa in quella fantastica parentesi lontana dal trambusto del centro di Torino.

Piazza Statuto – monumento

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Clausura, CS, I: 1044

Passo
Ma anche se non avevo la competenza, mi piaceva lo stesso vederlo crescere, giorno per giorno, e mi sembrava di veder crescere un bambino, voglio dire un bambino ancora da nascere, quando ancora nella pancia di sua mamma. Si capisce che come bambino era un po’ strano perché pesava sulle sessanta tonnellate solo la carpenteria, ma cresceva non così basta che sia, come cresce la gramigna: veniva su ordinato e preciso come nei disegni, in maniera che quando poi abbiamo montato le scalette fra piano e piano, che erano abbastanza complicate, hanno quadrato subito senza che ci fossero da fare dei tagli o delle giunte, e questa è una cosa che dà soddisfazione, come quando hanno fatto il traforo del Fréjus, che ci hanno messo tredici anni, ma poi il buco francese e il buco italiano si sono incontrati con uno sbaglio neanche di venti centimetri, tant’è vero che gli hanno poi fatto quel monumento tutto nero in piazza Statuto, con in cima quella signora che vola.

Fonte: https://www.museotorino.it/images/34/a6/9e/ac/34a69eac45e84c17858add472d4093b2-1.jpg?VSCL=100

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 Anche in un lavoro (quasi) completamente fittizio come La chiave a stella, Levi non manca di citare la sua amata Torino: il deuteragonista del libro, il finzionale Libertino Faussone che il chimico-scrittore crea mettendo insieme i tratti di più operai specializzati conosciuti durante le sue trasferte di lavoro, è infatti legato alla città per più di un motivo. Innanzitutto dal fatto che fa il mestiere che fa, ovverosia il capacissimo montatore di tralicci, proprio perché (come indica chiaramente il suo nome) non intende andare a lavorare alla Lancia, l’enorme fabbrica che inghiotte la personalità dei suoi operai e li getta in uno sconfinato esistenza pullulante di alienazione. Ma anche perché non intende lavorare nell’officina-bottega (la storica boita) di suo padre, né aprirne una propria in futuro (andando dunque contro il naturale mestiere di famiglia). Nell’orchestrazione complessiva del vissuto di Faussone, Torino e la sua geografia diventano un pretesto tramite cui aumentare la verosimiglianza del personaggio: tramite la sua voce, Levi fa riferimenti inconfondibili alla sua città, dando spessore alle osservazioni e ai racconti del suo deuteragonista.

Nell’estratto citato, in particolare, possiamo vedere il montatore di tralicci in azione come prevede la consueta prassi del libro: al pari di un bizzarro e infantile narratore di storie, il suo modo di parlare è irruente, torrenziale, denso di colloquialismi, intercalari, calchi ed espressioni dialettali e, non da ultimo, espressioni tecniche appartenenti al suo settore lavorativo. Il caso qui presentato, infatti, riporta la storia della genesi di una sua grande opera: emerge chiaramente la connotazione biologica che ci fa intuire il colosso di metallo al pari di una creatura vivente, creazione di Faussone che, orgoglioso, ne racconta la costruzione in quella che dovrebbe prendere la forma di un’avvincente epica del lavoro ben fatto.

Il giovane è infatti meticoloso, prodigo e si sente profondamente chiamato a svolgere il suo lavoro: è la sua vocazione, e questo emerge in maniera preponderante dal racconto della sua esperienza lavorativa. In particolare, porta all’attenzione del suo interlocutore la sensazione che si ha una volta concluso un lavoro con maestria e precisione: quando si ammira il proprio risultato, non si può che essere soddisfatti, vedendo rispecchiate le proprie abilità nella perfetta (o quasi) creatura a cui è stato possibile dar vita.

È particolarmente importante il suggello che accompagna questa immagine: ricordando la grande opera ingegneristica che creò uno dei primi punti di contatto diretto tra l’Italia e la Francia tramite la galleria scavata nelle montagne (il traforo del Fréjus, opera che cambiò abissalmente il collegamento di Torino con il resto dell’Europa), il suo pensiero chiama in scena il monumento che torreggia la torinese piazza Statuto. Nella visione giovane montatore, questa non è altro che la celebrazione che inneggia alla perfezione del lavoro riuscito: in un’opera dalle dimensioni ciclopiche quanto quella in questione, gli ingegneri e gli operai incaricati erano riusciti a completarla con un margine di errore di soli venti centimetri, erano riusciti a elaborare previsioni e progettare un piano di azione che è stato rispettato quasi in tutto e per tutto. L’evento epocale meritava dunque una equa opera pubblica che ne ricordasse la grandezza: nella scena raffigurata, la «signora che vola» è una sorta di Nike che raffigura la vittoria del Genio Alato (la perizia umana) contro i Titani (la potenza della natura) che, esausti e sconfitti dallo scontro con la forza che li ha vinti tramite l’ingegno, giacciono sconfitti sul versante della piramide (peraltro realizzata con le stesse pietre estratte durante gli scavi).

Ma piazza Statuto si lega al personaggio di Faussone non solo sotto questo punto di vista: nel luglio del 1962 ospitò una delle storiche manifestazioni torinesi del dissenso operaio. In quei giorni migliaia di lavoratori provenienti dalla Fiat e dalla Lancia scioperarono dalle loro mansioni e, protestando contro il sindacato in reclamo dei loro diritti, si unirono e si scontrarono duramente con le forze dell’ordine, creando un vero e proprio piccolo campo di battaglia all’interno della città.