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Miti di fondazione – le riscritture dei classici

Cosa sono i miti di fondazione e perché ancora oggi è importante analizzarli e riscriverli? Un mito di fondazione riguarda la genesi di un sistema sociopolitico, è la prima forma di narrazione di un’entità organizzata che celebra con il mito l’aggregazione di persone in comunità. Un tema attuale da sempre e che per sempre resterà attuale. Celebrare questi sistemi significa celebrale la nostra umanità, il nostro bisogno di relazionarci con il prossimo per il raggiungimento dei nostri obiettivi, per la necessità di uno scambio culturale ed economico. Ricordare la fondazione della città di Torino o la leggendaria Atlantide, attualizzare ciò che per secoli ha destato meraviglia nei lettori, è un passo importante per legare nuovamente i singoli individui a quel senso di comunità spesso dimenticato; significa ricordare come ricordarono gli antichi che la fondazione di questi agglomerati sociali, di queste pseudo-città, e la loro possibile caduta, sia un evento degno di diventare mito e di essere ricordato e celebrato al pari degli dei. Dobbiamo nuovamente trovare questo senso di importanza nella comunità di cui tutti facciamo parte.

a cura di Matteo Bonino e della Redazione del Blog

Flash Call #1: Fetonte o non Fetonte?

Triptychum

di Emanuele Mendozzi

*

Giunge Fetonte alla reggia solare,
Ch’alta s’ergeva su colonne d’oro
Fulgido, e strale
Di sole lo trafigge, e un coro
Diafano, librato nell’aria,
Incanta l’orecchie e il padrone loro,
Ch’egli si ferma e mira
E mirando, intontito, grida:
«O lux immensi publica mundi!
Phoebe pater!
 io vengo
A chiedere del sangue, del mio sangue,
Una prova di linea sangue!»
Ed egli, velato in porpora veste,
Posando la sua corona di raggi:
«Clymene veros» ait «edidit ortus,
Tu sei figlio della mia carne
E io sono il padre tuo.
Chiedi ciò che vuoi
E ciò che vuoi
Dalle mani paterne,
Tenere d’amore paterno,
Ti sarà dato»
E parlando giura sulla palude
Stigia, nei pressi della terra
Dei Cimmeri, coperta
Da fitto tessuto di nebbia,
Che non raggio di sole la trafigge
E di cui il fato affligge
Uomini e dei –
Eguali in Morte, e silenzio
Di Morte.
«Lasciate padre mio
Che io conduca il sole…

*

Eridanus qui et Pheton Solis Egyptii filius,
In sinum, quem Lygustinum dicimus, venit.

Giunto nei pressi della costa rocciosa,
Laddove il Bisagno s’imbianca
D’un sole quasi miracoloso,
Con suis longa fatigatus navigatione,

Attraccò e discese dalla nave.
Qui lasciò il compagno Genuino,
In preda alla nausea, cum parte suorum navium
Custodem liquit in litore;
E mentre il mare divo
Schiumava
Diviso dalla nave nera, prese
Fiato, e ripartì.
E col sangue ed il sale, e il ferro bruciato, che ha odore di sangue
E di sale, Genuino sterminò i popoli autoctoni;
Et Genuam de suo nomine nuncupavit.
Superate l’Alpi liguri, giunse
Euridano d’Egitto,
In amplissimam atque fertilem planiciem,
E mentre l’Alpi diafane,
Raccoglievano il fiume turchese
E i prati gonfi d’acqua,
Gli sghimbesci del sole,
O la sera veniva,
Sulla terra, sui tronchi dei pioppi,
(non è importante);
I soldati di Euridano facevano grandi pile di cadaveri
E gli davano fuoco.
…secus Padum consedit, et, ut idem refert Paulus, videtur
Eustachium velle Taurinum oppidum suum fuisse opus, sed
Eridanum Nuncupatum.

E sul sangue,
Lungo le rive del fiume
Verde turchese
Eresse una città.
E lì regnò fino alla morte, che avvenne
D’inverno o d’estate.
Scivolando nel fiume,
All’ombra di tre pioppi,
In Pado periit.
Così il Po porta il suo nome,
E gli Egizi, in memoriam compatriote,
Affissero la sua immagine
Nella volta celeste.1

*

Ζεύς
La folgore, l’acquila,
Il fallo del padre celeste.
XX le jugement.

Il carro,
Φαέθων-Michelangelo,
I quattro cavalli solari (FW: uno dal pene eretto),
La Potenza sessuale,
L’orgasmo e la castrazione.
XVI La Maison-Dieu.

Ἠριδανός/Po Ἡλιάδες (divenire pianta) Kýknos (divenire animale)

La macchina seno attaccata
Al petto maschile, il fiume,
Il divenire altro, l’oggetto parziale.
XIII.

«Tommaso, se questo schizzo non vi piace, ditelo a Urbino, acciò che io abbi tempo
d’averne facto un altro doman da.ssera, come vi promessi».2


«Inconsideratamente, messer Tomao signor mio carissimo fui mosso a scrivere a
Vostra signoria…. come se creduto m’avesse passare con le piante asciucte un piccolo
fiume, o vero per poca aqqua un manifesto guado. Ma poi che partito sono dalla
spiaggia, non che piccol fiume abbi trovato, ma l’oceano con soprastante onde m’è
apparito inanzi, tanto che se potessi, per non esser in tucto da quelle sommerso, alla
spiaggia ond’io prima parti’ volentieri mi ritornerei. Ma poi che son qui.. andremo
inanzi… per l’onde del mare … perché chi è solo in ogni cosa, in cosa alcuna non può
aver compagni. Però Vostra signoria, luce del secol nostro unica al mondo…
E se pure delle cose mia, che io spero e promecto di fare, alcuna ne piacerà, la
chiamerò molto più avventurata che buona… a Vostra signoria, il tempo presente, con
tucto quello che per me ha a venire, donerò a quella… che sarà poco, perché son tropo
vechio.
…Leggiate il cuore e non la lettera… quanto è da meravigliarsi che Dio facci miracoli,
tant’è che a Roma produca uomini divini. E di questo l’universo ne può far fede».3

«Vivo della mia morte e se, ben guardo,
Felice vivo d’infelice sorte;
E chi viver non sa d’angoscia e morte,
Nel foco venga, ov’io mi struggo e ardo»4

Ecco due figure da conciliare:
Il più frivolo e il più serio;
L’uno: affare divo, l’istituzione,
O il problema moderno della città.
L’altro: l’uomo chino, disegna,
Produce la produzione – un sistema
Forsennato di segni.
Un mondo
Alla rovescia: dove
Si vive della morte, e gli dei (morendo)
Fanno della filosofia politica-
«Homme, jouet de dieu, et dieu, Jouet de lui-même»5

Un empirismo radicale:
Che l’uomo si liberi di Dio,
E Dio di sé stesso.
Che non ci siano più
Ragione o Fondazione,
Famiglia o Figliazione.
Ovunque non è che la Crudeltà.
Le città, L’amore… Io stesso
non sono…
Corpo inceppato della mia poesia!
L’incompiuto, il fallimento,
Il fiume turchese, il cazzo solare,
La Morte, la città, l’amare.
Ovunque non è che la Crudeltà.
Ho già scritto troppo, e troppo
sconsideratamente,
Ora sono stanco, perciò smetto.
Va bene?

NOTE:
1. In parte dal Boccaccio,
Genealogia deorum gentilum,
Scritta alla mattina o alla sera,
In data vicina o lontana dal 1375.
2. Caduta di Fetonte
M. per il Cavalieri,
Prodotto d’un soggetto forsennato.
Carboncino su carta,
Circa 1533
3. M. al Cavalieri
Fine Dicembre 1532.
4. Dietro una lettera, Da Sebastiano del Piombo a M.,
Probabilmente per il Cavalieri,
8 Giugno 1532
5. Artaud, Le Supplice de Tantale

Se il sole Risorge

di Filippo Pittavino

Perché cadon sempre i figli ribelli
Primo dei quali Lucifero fu,
Giovane angelo a capo di quelli
Che ora dimorano al buio laggiù?

Fetonte, racconta di come cadesti
Col carro del padre divino che un giorno
Ti diede, ascoltando e accettando funesti
Desii di evitar da un rivale lo scorno.
Nessuno credeva che fossi la prole,
il figlio capace del carro guidare.
Le redini, allora, prendesti del sole,
che sempre sorge e tramonta nel mare.

Mi piace pensare che in cielo quel dì
Ci fosse anche un altro figlio superbo,
Icaro alato passava da lì
Col padre maturo, lui ancora acerbo.
Dedalo disse “Vola più in basso!
Non vedi che il sole ti brucia le ali?”
Ma Icaro il sole, da vero gradasso,
Voleva raggiunger volando in spirali.

Fetonte, un puntino vedesti lontano,
forse un uccello, pensasti, senz’altro.
Sgomento ti prese, scoprendolo umano.
Sterzare o frenare, sii svelto, sii scaltro!
Icaro vide una luce accecante

Incontro sfrecciargli senza fermarsi
Fin quando distinse un carro volante
E giovani occhi in cui rispecchiarsi.

Giovani vite in cerca del cielo
Lacrime d’ambra, ali di cera
S’intreccian nella sfera
Di fuoco, uno sfacelo.
Nel vortice confuso,
Doppia voce dirà:
“T’ho deluso,
Papà”
.

Ma mi piace pensare un finale diverso
Da quello che narra il tragico schianto.
Un nuovo finale sarà controverso,
ma almen sarà privo di lacrime e pianto.
Mi piace pensar che si siano rialzati
Nel luogo in cui il sole quel giorno cascò.
Non dai padri, ma da un fiume salvati,
seconda occasione donata dal Po!

Sanno cambiare i figli ribelli
Di un padre mortale o un padre divino
E i miti fondanti sono più belli
Se il sole risorge su questa Torino.

Flash Call #2: Atlantidei Platonici

Fort’una

di Gloria Policaro

«Forte
una donna si
lascia stringere:
fortuna.
Divino
un uomo si
lascia amare:
destino.
Madre e monito:
fort’una donna amata,
estratta ama
se stessa
benedicendo
ricchezza
accarezza il mare, forzando
le mura,
alte
a sè
le cinge strette:
amore e
potere,
carnale in dieci
unioni:
nodi. Fili amari
legano il loro tempo
barbaro,
stretto:
figli. Decidono
sete e vita,
morte e fame,
sacrificio e oro,

eterna e suprema
a loro
fedeltà,
onore e
giustizia.
Barbaro uccide
il tempo. Lusso sospira
alle ore. Amaro punisce
chi non rispetta
destino e saggezza.
Dolce accarezza
dolcezza
della sua punizione,
abbracciando
il mare
come forte e
amata
sua maledizione,
più crudele
la sua stessa e
sola e medesima
sua contraddizione.
Fort’una terra,
fort’uno mare
lascia che sia
io
ad accogliere chi
punire e
amare, stringere o
eternare.
Donna forte,
uomo amato
non esiste fardello al mondo che
non possa
essere
dall’uomo
portato.
Grazia e prodezza,
O maledetta sregolatezza,
fatali le sue ore.
Sofferenza e prudenza ,
O vera saggezza,

fai del tuo genio il tuo modo
di soffrire. Aduna chi
decide. Punisci chi
fort’uno
fu
divino
amò
ma questo mortale segno
con sè
portò,
ora e sempre
saltuariamente,
mai.»

NOTA AL TESTO:

Titolo. Fort’una: la contraddizione e la punizione di una stirpe divina e mortale.
Fortunata è la terra di Atlantide, assegnata al governo del dio Poseidone, come fortunata è la bella
fanciulla Clito, amata e adorata dallo stesso corpo e dalla stessa anima divina e potente. Bella,
mortale e terrena viene baciata dal suo amore. Bagnata dalle onde del Mare viene estratta dal
mondo alla fortuna per essere resa ricca e divina. Come terra, come donna, come moglie e come
madre.
La storia di un amore sigillato tra le mura preziose di un’isola ricca e innamorata. Clito e Atlantide,
legate dal filo dorato della fort’una(ta) poesia, vengono accolte dalla dolcezza e dall’amore del
divino.
Forte e prosperosa è l’isola come forte e saldo è l’amore dei due: il palazzo ne è il simbolo, la luce.
Barbara e lontana non guarda negli occhi della perfezione di Atene: godere dell’ordine e della
salvezza è un atto politico a cui non tutti possono accedere. Atlantide è troppo lontana per essere
bagnata dalle onde di quel mare.
Divini e fortunati sono i dieci figli nati dal matrimonium della bella fanciulla e del potente dio.
Un’unione sancita, etimologicamente e moralmente, da un monito fedele e materno, destinato alle
carezze e alle carenze eterne del mare e delle mura lontane. Barbari e amari furono i fili del loro
potere che, correndo veloce e lontano in attimi infiniti nel tempo, smarrirono le orme di un amore
nato sotto il segno di un bacio divino. Estratto e gettato, perso tra il succedere degli attimi e il lusso
della sregolatezza, il segno divino si trasformò da Fortuna concessa a Punizione costretta, ma
necessaria per il ripristino della saggezza.
Zeus, voce della poesia, osservatore e giudice delle orme e delle ore umane continua le sue parole
in un canto in cui il suo genio si prostra alla sua stessa saggezza nel segno sofferto di rime amare.
Sceglie una lectionem sancita, etimologicamente e moralmente, come lezione e lettura, punizione
ma adorazione.

PLIC PLIC PLIC o Atlant(id)e nella stanza

di Filippo Pittavino

Plic plic plic.
Insopportabile. Atlante si mise le mani sulle orecchie.
“È pronto!” La voce squillante della nonna sembrava arrivare da molto lontano, eppure la
cucina era giusto lì dietro. Plic plic. Atlante si alzò bruscamente e si spostò col piatto
dall’altro lato del tavolone apparecchiato per due. Plic. Tutto inutile. Si ricoprì le orecchie.
“Ecco qua, lasagne a volontà, come piacciono a te!” La nonna era elegante e ben truccata.
Era sempre così, che non si sa mai che possano venire ospiti. Ma Atlante sapeva che non
sarebbe venuto nessuno.
Nessuno a parte l’elefante, s’intende. Il pachiderma stava seduto mollemente sulla sedia
di fronte e guardava vorace la grande teglia appena poggiata dalla nonna.
“Atlante, che fai? Stai un po’ dritto, via i gomiti dal tavolo! La testa sta su da sola.”
“Le teste pesano, signora! Guardi la mia quanto è grossa!” le rispose l’elefante,
addentando la prima fetta.
La nonna si sedette al solito posto e accese meccanicamente la tivù. Non si perdeva mai
un telegiornale. Atlante non aveva mai capito questa abitudine. A lui sarebbero piaciuti
pranzi domenicali senza ascoltare disgrazie. Però quel giorno non era domenica e,
stranamente, la nonna spense subito. Si rigirò verso il nipotino.
“Come farai a mangiare così? Via le mani dalle orecchie!”
Vedendo che Atlante non accennava a cambiare posizione (plic plic plic), la nonna decise
di cambiare tattica e gli chiese con dolcezza: “Perché hai cambiato posto, tesoro? Ti sei
sempre…”
“Comode queste sedie, ma a che ve ne servono così tante, se siete solo in due?” la
interruppe l’elefante, masticando rumorosamente. Munch munch. Plic plic.
“… seduto vicino alla finestra.” continuò la nonna, imperterrita.
Vero, ogni domenica Atlante si sedeva là, principalmente per non guardare il telegiornale.
Ai grandi che gliene importava? Erano cose brutte o noiose che succedevano agli altri.
Ogni domenica quindi si sedeva lontano dalla tivù, ma quel giorno non era domenica.
Strano andare da nonna il giovedì.
L’elefante, intanto, si era mangiato tutte le lasagne. La nonna sembrava nervosa.
“Non ti vanno? Tu adori le lasagne! Ti ricordi, a Natale…” Abbozzò una risata, ma ad
Atlante non faceva ridere.
Plic plic plic. Ma cos’era quel rumore insopportabile? Premette ancora di più i palmi sulle
orecchie, quasi al punto di farsi male.
La nonna si alzò e tornò in cucina.
“Tua nonna non è molto sveglia, eh?” chiese allora l’elefante, intento a divorare anche
tutto il pane. Plic plic plic.

“Manco si è accorta che in casa c’è una perdita.” La sua sedia scricchiolò sinistramente.
“Sì, una perdita, ti dico. Non pretendo che tu ci capisca qualcosa di idraulica. Quanti anni
avrai? Nove? Dieci?”
La nonna tornò in sala, schivò le sedie vuote (e l’elefante) ed esclamò: “Fuori è una bella
giornata, non trovi? Finalmente è tornato il sole.” Aveva in mano un fazzoletto blu, sporco
di mascara. Non stava male abbinato al vestito, ma si sa, il nero sta bene con tutto.
Plic plic plic plic.
L’elefante: “Una perdita bella grossa, secondo la mia esperienza. Signora, non crede che
sia meglio controllare?”
La nonna: “Dopo potremmo andare al parco, come ti piaceva da piccolo. Ricordi?”
L’elefante: “Munch. Sa, spesso le perdite sono difficili da arginare. Io vengo da un’isola e
di acqua me ne intendo.” Stava ora addentando la prima delle sedie vuote ai suoi lati.
Plic plic plic.
La nonna: “Spero l’abbiano già ripulito, dopo…” Plic plic. “Oppure possiamo andare a
prendere un gelato, ti va? Ti va un gelato, Atlante? Come ogni domenica.”
Plic plic plic.
L’elefante: “Sa, signora, è brutto vivere su un’isola. Non importa quanto sia bella, ricca,
quanto ci sia da mangiare! Non puoi toglierti la sensazione di essere… isolato.”
Plic plic plic.
“Che c’è, tesoro?” La nonna si chinò verso Atlante.
“E poi,” proseguì l’elefante “c’è sempre il rischio che affondi.”
PLUFF.
“Atlante, stai piangendo! Ma c’è qui nonna, sei a casa!”
Atlante non riuscì più a reggere la testa e con essa gli crollò tutto il cielo addosso. “Questa
non è la mia casa! La mia casa era vicino al fiume e ora è nel TG! Non fingere che tutto
sia normale! Oggi non è domenica!” gridò. Il plic plic plic era ormai un’alluvione.
“Gli argini si sono rotti.” commentò l’elefante bagnato fradicio, ingoiando la seconda sedia
vuota.
La nonna, allora, sollevò con delicatezza il volto del bambino e gli asciugò le lacrime (plic
plic).
“Hai ragione, tesoro. Forse dobbiamo parlare di quel che è successo.”
E nella stanza rimasero solo la nonna, Atlante e un vuoto grande quanto un elefante.

*

Un ringraziamento a tutti i partecipanti e alla prossima CALL!

The Witches’ Hat. Ultima notte a Glasgow

Linda Demichelis, in questa sua riscrittura, racconta le paure di una giovane protagonista nella sua ultima notte d’Erasmus in Scozia, terra del Macbeth. Realizzato nell’ottica del corso Letterature Comparate b, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi)

“In questo racconto, l’ultima notte d’Erasmus in Scozia di una giovane studentessa si trasforma in una piccola odissea urbana al confine fra incubo e realtà. La città di Glasgow trascina Viola in un viaggio introspettivo guidato dall’enigmatica narrazione in versi di due Weird Sisters shakespeariane alla ricerca di una nuova sorella. Poesia narrativa, prosa e teatro si fondono per dare voce alle paure più profonde di una giovane adulta divisa fra il desiderio di fermare il tempo e l’inevitabile spinta verso il futuro, in una riflessione onirica su scelte, crescita e identità”.

*

Era solo giovedì sera, ma al Doublet Bar c’era aria di festa.
Il Doublet era il pub che i tifosi del Patrick Thistle avevano adottato per la Scottish Cup di quell’anno. Non avevano alcuna possibilità di vittoria contro la capolista, ma la sala con il grande schermo esplodeva ai boati di rabbia per i rigori assegnati ingiustamente, e di sorpresa per le reti mancate, che spesso coprivano gli sforzi musicali del giovane chitarrista di turno nella sala accanto. Ma quella sera, contro ogni aspettativa, il Patrick Thistle aveva messo a segno un goal insperato, che contava tanto quanto una vittoria in piena regola.
Il Doublet era esploso in ruggiti di gioia che si erano uniti ai festeggiamenti del club universitario di teatro shakespeariano, che celebrava il successo dell’ultimo spettacolo della stagione accademica. I veterani brindavano a quello che sarebbe stato l’ultimo allestimento della loro carriera universitaria, i freshmen al primo di una lunga serie.
Viola, la sola studentessa internazionale del gruppo, festeggiava l’unico.
Solo qualche ora prima era stata una Weird Sister sul palcoscenico del Cottiers, uno dei teatri più frequentati della città. Poche ore più tardi avrebbe dovuto imbarcarsi sul volo per tornare a casa, poco meno di un anno dopo essere atterrata a Glasgow.
«Viola! Viola, come closer! I loved you on stage tonight, girl! How would you say in Italian tomorrow, and tomorrow, and tomorrow?» urlò Steph.
«I think it would be something like domani, e domani, e domani». Steph annuì ridendo, fingendo di aver sentito.

Domani.

Continua la lettura di The Witches’ Hat. Ultima notte a Glasgow

Properata retexite fata! La catabasi di Romeo

Chiara Giordano, in questa sua composizione, immagina ciò che accade a Romeo dal momento in cui decide di morire per poter rivedere e amare, almeno negli Inferi, la sua Giulietta,  nell’ottica del corso di Letterature comparate, Shakespeare e il paesaggio culturale italiano (Prof.ssa Chiara Lombardi)

“Cosa accade nel lasso di tempo tra la morte di Romeo e quella di Giulietta? Nella speranza di riconciliarsi alla sua amata attraverso la morte, il giovane Montecchi discende agli Inferi come Orfeo alla ricerca di Euridice. In modo differente, certo. Romeo, infatti, si è ucciso a causa dell’erronea convinzione della morte di Giulietta; Orfeo, invece, tenta da vivo di riportare alla luce la donna che ama. Mentre quello del cantore tracio è un percorso all’insegna della disperazione e di un sogno realizzabile, quello di Romeo si configura come un viaggio altrettanto disperato ma avente come meta una tragica e macabra consapevolezza.”

*

[Romeo, ormai più speranzoso che afflitto, viene condotto attraverso le acque dello Stige su una barca colma di corpi inconsistenti e volti anonimi, senza scorgere la ragione della sua vita e della sua morte]

Romeo
Non più sole, non più luce e vampa investono il mio cammino. Chi son io, pellegrino privo d’una sacra meta? Accendi, mia dolce nemica in vita, una lampada che rischiari le tenebre, non lasciare che mi perda tra i flutti di questa tempesta. Come sono asceso verso il tuo proibito amore, nel nome dello stesso mi immergo ora nell’abisso.

Caronte
Taci, arciere senza più dardi. Perché abbai? In silenzio voglio menarvi all’altra riva, da cui nessuno più fa ritorno.

Romeo
Poiché insopportabile era il giorno, mi sono addentrato ora nella più oscura delle notti. Ho rinunciato al mio nome e raggiunto il più lontano dei mari, cos’altro devo fare per poter tornare a respirare grazie a un suo bacio?

[Da un angolo della barca emerge tra le ombre Paride]

Continua la lettura di Properata retexite fata! La catabasi di Romeo

❧ SEGNALE 3 “Il corpo della lingua” Giorgio Agamben

“Che Rabelais tenga a nominare Merlin Cocai, alias Teofilo Folengo mantovano, non stupisce, se si considera l’influenza che ha esercitato su di lui il Macaronei opus quod inscribitur Baldus, pubblicato il 5 gennaio 1521 apud lacum benacense, cioè su quella riviera del Garda dove doveva approdare secoli dopo il defunto cacciatore Gracco. Da Folengo, monaco benedettino come lui era francescano, Rabelais ha appreso a esaltare un’altra corporeità oltre a quella fisiologica del gigante, una corporeità che concerne non la sregolatezza e l’eccesso della mole, ma la dismisura e la licenza della lingua. Innanzitutto nel senso letterale, come quando un personaggio si lagna che gli abbiano senza motivo morrambouzevezengouzequoquemorguatasacbacguevezinemaffressé l’occhio sinistro (Rabelais, p. 1264) e un altro che per via dei gran pugni ricevuti si ritrova esperruquancluzelubelouzerirelu al tallone. L’idioma di Pantagruel è immenso quanto il suo corpo”.

da Il corpo della lingua. esperruquancluzelubelouzerirelu di Giorgio Agamben, Einaudi, Torino, 2024, pp. 97, pp. 6-7.

Giorgio Agamben (1942) è un filosofo italiano, ha insegnato in diverse università italiane e straniere e negli anni si è occupato delle più disparate questioni, dall’estetica alla filosofia politica, dalla linguistica alla storia dei concetti. In questo saggio Agamben torna a riflettere sulla lingua, in particolare su quella corporea, plurima e sregolata di Rabelais e Teofilo Folengo, sul suo potere sovversivo, non tanto nell’ottica dei costumi morali, ma in quella più profonda dell’identità e dell’organizzazione del mondo che la lingua struttura.

Mediante un’analisi critica dello stile l’autore sonda il testo al di là della superficie narrativa, facendo così emergere le implicazioni più profonde dell’invenzione linguistica, specialmente in rapporto a questioni culturali e opere coeve o attigue e ai fondamentali lavori su Rabelais di studiosi precedenti, quali Bachtin e Leo Spitzer.

G. Agamben, Il corpo della lingua. esperruquancluzelubelouzerirelu, Einaudi, Torino, 2024.