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Cymbeline, king of Britain

Francesca Caprioli, studentessa del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi, a. a. 2019-2020, riscrive in forma di fumetto il Cymbelin di Shakespeare.

Il testo base che ho utilizzato è il dramma romanzesco di Shakespeare: Cymbelin, King of Britain, in particolare tutte le scene dell’atto I e le scene I e II dell’atto II.

Per la mia riscrittura ho pensato ad un fumetto che potesse narrare le parti più importanti di queste scene dell’opera, con un linguaggio semplice e veloce, usando “il tu”, invece che “il lei” o “il voi” proprio per rendere più conversativo, informale – quasi quotidiano – il messaggio tra opera e lettore.

Secondo me è proprio attraverso le immagini del fumetto che si può accedere all’opera in modo piuttosto diretto. Infatti, ho scelto questa tecnica pensando anche al pubblico dei “più piccoli”, affinché questo tipo di opere possano essere conosciute anche da loro. Per la realizzazione delle scene del fumetto ho tratto le immagini da una rappresentazione teatrale dell’opera (Shakespeare’s Cymbeline- 2016, LOSALYVSTUDIO1), poi le ho cartoonizzate tramite il filtro di un’applicazione e, infine, le ho inserite in apposite slides, corredandole di vignette e didascalie.


Francesca Caprioli

I fili

Arianna Guidotto, in questa sua composizione, riscrive i personaggi shakespeariani di Marina e Innogene, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

La mia riscrittura incrocia i destini di due personaggi femminili nel Perycles e nel Cymbeline di Shakespeare. Tutto è racchiuso nella cornice mitologica e onirica delle Parche che nella cultura romana erano le divinità che intessevano il destino degli uomini. E come i sette giovani nel Decameron o delle seducenti Sherazade, scuciranno e ricomporranno i fili a loro piacimento. Il tessuto delle storie di Marina e Innogene qui si lacera sprigionando sentimenti torbidi e strazianti: Marina e il suo sentimento di abbandono da parte del padre e Innogene che in preda ad una crisi esistenziale annienterà gli sguardi degli uomini della sua vita per poi riscoprirsi e rinascere come una fenice da grumi di sangue incandescente.

*

Era una nenia ipnotica; l’aria stantia catturava il profumo della pioggia battente sulle pareti.
Le vene rigonfie sulle dita adunche; chiazze tiepide sporcavano la pelle incartapecorita, il respiro rotto della fiamma nel camino non riusciva a scansare quel gelo innaturale. Un freddo dello stesso sapore della polvere di secoli, millenni. La stessa consistenza algida del liquido amniotico in cui danzava l’universo non ancora formato.
“C’era una volta…”
Le unghie ingiallite volteggiavano veloci, tessevano figure con l’ago lucente. La vecchia dagli occhi cisposi si fermò un istante.
“Vorrei che non fosse tutto così semplice, così scontato; non possiamo accontentarci sempre del solito lieto fine.”, il filo blu le si afflosciò tra le nocche.
La sorella senza volgere lo sguardo annuì tra i fulgori aranciati del fuoco; la finestra cigolò lasciando trapelare la sinfonia delle nuvole, l’olezzo di erba zuppa di tempesta.
“Cambiare direzione a metà dell’opera potrebbe disgregare il tessuto”; rispose l’altra circondata da ghirigori lanosi.
La terza sorella stava muta, un po’ discosta osservava il soffitto picchiettato dal temporale.
“Meritano di più, meritano di vedere, di saggiare il destino in tutte le sue sfumature, scoprire le possibilità nascoste nell’anima”; sussurrò metallica la prima voce, gli occhi sbarrati.
C’erano una volta le tre Parche, Signore del Destino, Figlie della Notte. Abbandonate in una torre ripida e dimessa, avvolte nello scialle dell’eterna vecchiaia.
C’erano una volta tre sorelle cieche che intessevano opere mirabolanti, brulicanti di vita. Di morte.
La prima arrotolava i fili al fuso, spaghi palpitanti di migliaia di corpi, generazioni di uomini in balia dell’esistere.
La seconda ne intrecciava gli sguardi, le ore, i respiri.
La terza acquattata in un cantuccio con la sua forbice ammiccante nel buio, era pronta a spargere la quiete dell’immobilità perenne.
“C’era una volta una figlia nata in simbiosi con la morte, sovrastata da saette e nubi spesse,
c’era una volta Marina, che ammaliava gli uomini con il suo candore; fino a quando un giorno decise di fare ritorno al luogo che aveva ascoltato il suo vagito. Le sirene l’accolsero tra loro; tranciarono le sue gambe, le diedero un intruglio denso contenente l’essenza del mare. Per tre giorni e tre notti il suo corpo fu cavalcato dai fremiti, crampi lancinanti. Squama dopo squama, stilettata dopo stilettata una magnifica coda emerse dal suo stesso sangue. Il grido della fanciulla squassò le profondità degli abissi…”

MARINA
Il profumo ruvido
dei granelli di sabbia
incrostano le ciglia
mi avvolgono in un refolo spinoso
respiro il sole pungente
un brivido gelato
un soffio
solitudine
qui, sullo scoglio aguzzo
spuma frizzante
schiaffeggia il mio volto
arrotolo una ciocca tra le dita
il mare ha tinto di blu i capelli
profumano di alghe
la mia voce è il fruscio di una conchiglia
affonda lentamente
elegante


Hanno amputato le mie gambe
belle, tornite
martoriate dal destino
in cambio di una coda
ho barattato i miei sospiri                                               
per il canto maledetto e suadente
delle sirene
ho scelto la leggerezza di una bollicina
la violenza irriverente del buio                                                         
che macchia lo sciabordio
quando il cielo si veste di pioggia
ed Eolo scatena la sua furia
ascolto il rollio della tua nave
riconosco quello sguardo umido
gli stessi occhi che mi spinsero lontano
tra braccia sconosciute
quattordici anni fa
sono io, Marina
ho scelto di annegare i ricordi
sei così emaciato, consumato
Pericle
intravedo la tua anima
sotto la pelle ormai evanescente
so che puoi vedermi
non fingere più
qui su questa nuda pietra
guardami
stringi le mie dita gelide
sono tua figlia
vieni con me
il fondale tracima di colori
sfumature
bellezza
silenzio
seguimi
dimentichiamo le assenze
chiudi le palpebre
il tuo viso diventa sempre più blu
come la mia chioma
ascolto i tuoi battiti assopirsi
sorridi
i tuoi pensieri si affievoliscono
spegnendosi nell’abisso muto
abbracciami
e resta con me,
papà
per sempre.


“E’ uno scempio!”
La seconda sorella si rizzò sulle gambe sottili scagliandosi sulla prima, afferrandola per la gola.
 E Strinse. Ma l’altra, dimenandosi, riuscì a rifugiarsi dietro la terza sorella apparentemente indifferente.
“Non osare…” il volto incavato si deformò in un ghigno;
“Non posso più stare a questo gioco, l’ira degli dei si abbatterà su di noi, terza sorella aiutami!”
“La forbice è ben affilata” bisbigliò quest’ultima.
“Gli dei non ci fermeranno” tuonò la prima, “le donne non saranno più solo delle belle statuine da ammirare; possiamo incoronarle eroine e spogliare uomini e dei della loro superbia”.
“Moriremo tutte e con noi l’umanità” singhiozzò la tessitrice di destini.

“C’era una volta una principessa divorata dalla fiamma di Amore. E proprio per questo il sadico padre la rinchiuse in una torre; la giovane rinunciò alla luce del sole. La reclusione diluiva il ticchettio delle ore, dei giorni. Ma il tempo scioglieva le voci sedimentate in angoli reconditi della sua anima. Erano bisbigli insinuanti, melliflui. “Innogene, la bambola incantevole di Cimbelino. Innogene la moglie senza macchia…”
Ma era davvero così? Era lei quella fanciulla trasformata in burattino da un vortice di sguardi?
Lei chi era? 
Il grido della vendetta avviluppava la sua mente, offuscandola…”

INNOGENE
Eccomi qui, finalmente accanto a te. Fluidi vermigli scivolano sul pavimento, schizzi rossi, un caleidoscopio di sangue sulle pareti.
C’è qualcosa che luccica, una scintilla dorata in questa polla dal fetore penetrante.
È il nostro anello, amore; ha abbandonato il tuo anulare inerte.
Riesco a percepire il baluginio nero delle tue pupille, mi osservi attraverso una patina che s’ispessisce di minuto in minuto.
Rigiro questo pugnale algido con queste mani impregnate di te, gocce vermiglie colano lungo i miei polsi cerei. Non sento più nulla, il respiro è immobile.
Ho dovuto farlo, Postumo, il tuo amore succhiava la mia vita giorno dopo giorno, impallidiva le mie guance, divorava la mia fame di vita.
La tua passione era così incombente da uccidermi. Mi riempiva fino ad implodere. Per questo ho scelto di rubarti la prossima aurora.
Volevo essere libera, volevo svincolarti da questa magica illusione. Perché io non sono perfetta e pura! E non voglio esserlo. Non mi conosco ancora e ho intenzione di scoprirmi poco alla volta.

Sei così bello nel tuo candore marmoreo. Uno squarcio slabbrato avvolge il tuo collo come un manto regale; le tue labbra socchiuse sembrano volermi parlare, ma è solo la lama argentea della luna a intagliare inganni.
Chissà cosa sognavi, la tua fronte è ancora corrucciata. Forse pensavi al nostro matrimonio, alla tua bella sposa ricoperta di bianco, i fiori odorosi sul petto.
Forse ti amavo, Postumo, ma ho scelto di dimenticarci per imparare ad amare me, a mettermi al primo posto. Una donna che non conosce se stessa, che non si vuol bene non può essere amata a sua volta. Oggi finalmente ho infranto le immagini fasulle dei vostri sguardi.
I tuoi.
Quelli di mio padre. che adesso giace sulla pozza delle sue stesse vene squarciate.
Ho distrutto la vostra incantevole fanciulla. La vostra Innogene.
Non sono l’innocente, l’angelica, la casta.
Sono umana.
E voglio vivere al ritmo dei miei palpiti impazziti, sulla melodia tumultuosa del domani.
Addio Postumo.
Addio Innogene.


Il buio invase la torre, le fiamme nel camino spirarono tra la cenere. Le sorelle si strinsero con le braccia ossute, piangevano lacrime pesanti come gli anni.
Aghi e fili riposavano sull’impiantito di pietre sconnesse. Sul tessuto accanto ai piedi nudi rilucevano colori nuovi. Erano vividi, violenti. Erano vivi e anche gli dei ne avrebbero gioito, forse.
Un rumore metallico sfiorò l’oscurità pastosa.
Un taglio netto, il fruscio dei fili spezzati.

Filling Shakespeare in: una e più postille al Romeo e Giulietta

Qui allegato il file contenente il prodotto finale del seminario Riscritture dell’a. a. 2017-2018, incentrato sul tema La bellezza in Shakespeare: Romeo and Juliet nell’ottica del corso Letterature comparate B, mod. 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

seminario Riscritture – Romeo and Juliet di Shakespeare

Pigmalione, o apologia di una giovane sposa

La seguente composizione, scritta da Valentina Monateri,  racconta la storia ed il rapporto tra Pigmalione e la Statua di cui è caduto innamorato. Quest’opera è frutto di un progetto sulle riscritture di opere classiche come Le Metamorfosi e L’Iliade.

***

STATUA:
Ero l’arte che nell’arte si cela.
Ora sono donna e carne vera.
Dice sempre che l’arte è come me:
Viva un bel giorno, senza un perché.
Lui mi istruisce e mi spiega la vita,
È convinto di avermi capita,
Di conoscere la donna perfetta,
Colei che ha pace, lei che aspetta.
Lui pensa: “Tu sei lì che aspetti me”,
E davvero son corpo appoggiato
– Come mobilia nella grande casa –
Per anni e anni io ho pensato
Di essere la più felice sposa.
Passo scalza sul freddo pavimento
E leggo i romanzi che mi ha dato,
Amo le eroine che son fantasia
E giorno per giorno sento lui dire
Che il mio corpo è pura poesia.
Io sto qui e aspetto il Natale
– Qui leggo i romantici inglesi –
Non so bene cosa desiderare,
Forse giorni pieni di avventura…
Ma si sa, son stupida, un po’ lenta
– Io ho il cervello in pietra dura –
Dice: “Se istruita, sarai contenta”.

PIGMALIONE:
Guardatela lì: sempre si lamenta.
Rientrato a casa trovo te, sposa,
Che premurosa dovresti soltanto
Accogliermi e assistermi in casa.
Non chiedo molto, dopotutto, dài,
Son gentiluomo a tutti gli effetti,
Non chiedo molto dopotutto, sai,
Ho aperto la tua mente ai concetti.

STATUA:
Tu fai l’errore di credermi tua,
Caro, tu non conosci la vera Natura:
Tu credi ch’io sia una tua creatura.
Come Creatore dalla tua altura
Ti sei illuso di dar forma alla vita
-Diversa da ciò che hai tra le dita-
Così diversa da ciò che tu credi,
Così imprevedibili e segreti
Sono tutti i suoi movimenti.
È stata un’illusione pensare
Che ciò che è e ha ragionamento
Veramente si potesse educare,
Che ciò che ama e ha turbamento
Non desideri amore e amare.
Ma lo sai: la vita tu non l’hai compresa,
Nonostante tu abbia tanto letto.
Siamo qui noi due, moglie e marito
Già legati nel connubio perfetto,
Eppure ti dico caro, quest’anno,
Quando qui noi vivremo il Natale,
Fissando le stelle, gli dei che vanno,
Io oserò poter desiderare.
Al cielo per commuoverli ardita
Esprimerò il segreto desiderio:
Forse per la mia forma di vita
– Imparando da te, senza criterio –
Chiederò una nuova forma,
Forse chiederò un nuovo amore
E farò ciò che sfugge alla ragione.
Tu questo non lo avevi previsto,
Tu hai osato crederti un dio,
Tu hai osato poter pretendere
La pura potenza della bellezza.
Ma ora la bellezza ti insegna
Che non tutto è poi prevedibile;
Ora la pura e bella forma dice,
A te che apri la mia fantasia,
Che esiste il caos dopo l’armonia.
La verità è che è poco sacro
Amare una cosa, un simulacro,
E desiderare l’inanimato.
Creatore hai confuso i confini
Di tutta la tua enorme distesa,
Come se proprio tu non lo sapessi
Fino a dove la terra è stesa
E fino a dove arriva il mare,
Quanto in là la vita può arrivare,
E dove regna solo l’irreale.

PIGMALIONE:
È così che si rimprovera un “dio”?
Così ci si inizia a insuperbire?
La tua forma è quanto amo io,
E questo è facile da capire,
Ma amo anche questa donna distruttiva,
Io amo colei che è prova viva
Di una vita vissuta come sogno,
Rara come i frutti di cotogno.0
Sì, io voglio tutti i tuoi turbamenti
E voglio la verità della cosa
Perfetta e unica che tu sei,
Voglio l’ordine dei tuoi sentimenti.

STATUA:
Io credo tu sogni l’impossibile,
Io credo, sai, sia irraggiungibile,
La meta che stavamo cercando.
Conosci la forma che mi stai dando,
Mentre io, vedi, la voglio creare:
Ami la donna che è qui a parlare,
Mentre io la sto ancora scoprendo.
Allora, per risolvere, ti chiedo
Per Natale mi farai un regalo:
Che questa terra che posso essere
Resti sempre pura e intoccata,
Che nessuna pianta sia calpestata,
Così che tu impari a capire
Come guardare una sponda fiorire,
Così che tu impari a credere
In una terra solo da vivere.