Stefania Albanese, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.
L’idea di adattare la storia del Pericle shakespeariano a una realtà così vicina ai nostri giorni, come quella dei migranti, nasce dal continuo ascolto di battaglie e norme che coinvolgo vite altrui, su cui la politica europea lavora già da parecchi anni, con corsi e ricorsi, con alti e bassi.
*
Il mare si agitava mentre rifletteva la luce della
luna sopra le nostre teste. Già da 4 giorni sedevamo su quel barcone, in attesa
che qualcuno ci venisse a salvare. Non era la notte ideale per viaggiare fino
all’Italia, e la mia anima non era rilassata. Mi chiedevo quando e se saremmo
arrivati, cosa ci avrebbe cambiato la vita, come ci avrebbero accolto, cosa ci
avrebbero dato da mangiare dopo una vita di povere diete occasionali, dove ci
avrebbero fatto riposare dopo notti insonne.
Sul traghetto dormivano quasi tutti, invece io
preferivo guardare le stelle e pensare che loro fossero più fortunate di me: si
accendono, vivono a lungo e poi si spengono, non soffrono, non hanno
sentimenti, non sono mai sole, non vengono deluse, non devono lavorare per
sopravvivere, non hanno responsabilità; il loro compito è solo illuminare
l’universo.
Ricordo benissimo il momento in cui notai di non essere
l’unico pensieroso durante la traversata: una ragazza dai lunghi capelli neri
quanto l’oscurità e gli occhi celesti quanto il cielo a mezzogiorno in estate
stava fissando l’acqua scorrere sotto di noi, e lacrime le bagnavano il viso.
Riconobbi subito mia moglie: teneva in braccio nostra figlia, Marina, partorita
nel Mediterraneo solo due giorni prima.
Taisa non era mai stata d’accordo a partire e lasciare
la nostra Siria per cercare fortuna in Europa; avrebbe piuttosto preferito
morire in guerra, o essere stuprata probabilmente, ma entro il confine di casa,
e questo non gliel’avrei mai permesso, io, Pericle, professore siriano di
letteratura costretto, dal desiderio di un futuro migliore, a perdere tutto,
compreso l’amore della propria moglie. Casa, parenti, gioielli, lavoro, in
cambio della speranza di riottenere tutto ciò, altrove. Quando ci imbarcammo,
non sapevamo nemmeno se ci saremmo fermati in Italia o se avremmo proseguito
per la Francia o Spagna, ogni posto era indifferente quanto sconosciuto per noi,
volevamo soltanto garantire un’adeguata infanzia alla nascitura. Solo su questo
eravamo d’accordo.
Già dalla partenza, aveva smesso di parlare con tutti
per isolarsi e trovare una sorta di pace interiore; decise di non rivolgermi la
parola nemmeno quando diede alla luce quella creatura dalla pelle quasi più
scura della nostra e dagli occhi chiari come quelli della madre. Ricordo alla
perfezione quel giorno, potevano essere circa le nove di un mercoledì sera: ero
usuale contare i tramonti e le albe per non perdere la cognizione del tempo e
cercavo di fare lo stesso con il passare delle ore. L’unico gesto, da parte di
quella che consideravo l’unica donna che avrei potuto amare più della mia terra
natale, fu uno sguardo fuggitivo accompagnato da un sorriso imbevuto di
lacrime. Stringeva Marina in segno di totale appartenenza, nonostante sapesse
bene che quel dono era stato destinato a me quanto a lei, creato da entrambi,
che le fosse piaciuto o no.
Tenendola in braccio, mi accorsi che sembrava un
angelo, nata nel momento sbagliato. Le sussurrai solo “mite possa essere
la tua vita! Perché più burrascosa nascita mai ebbe bambina; quieta e gentile
sia la tua esistenza, perché hai avuto il più rude benvenuto a questo mondo”, e chiusi gli
occhi, avvicinando le mie labbra alle sue morbide guance, e la mia Marina
subito s’addormentò. La osservavo come se non mi fossi trovato davanti mai
altro infante, e pensavo“Hai avuto nascita nel più gran frastuono
che fuoco, aria, acqua, terra e cielo potessero fare”. Taisa stava
riposando, e io potei godermi la mia bambina, in mezzo alle decine di sguardi
curiosi e congratulazioni. Tutti erano preoccupati, io in primis, per una
nascita durante un simil viaggio, eppure non fummo né i primi, né gli ultimi, a
dare alla luce una creatura in un contesto così disperato. Al contrario,
potemmo considerarci fortunati, dato che, spesso, si nasce morti oppure si
muore subito dopo il parto per il freddo e la mancanza di igiene. No, a Marina
non successe nulla di tutto ciò, era forte lei, proprio come il suo papà; era
come se fosse stata già preparata ad affrontare e vivere i suoi primi giorni in
mezzo a quasi cento uomini e donne, all’aria aperta, su una barca umile e
stretta, rinunciando all’affetto materno dopo poco più di 48 ore dalla sua
comparsa.
Taisa
morì davanti ai miei occhi, esattamente nel momento in cui mi accorsi di lei al
vegliar della luna. Girò lo sguardo verso me, sembrava arrabbiata, delusa, e
stava frignando; lasciò Marina nelle mani di una donna, Licorida si chiamava se
la memoria non m’inganna, sua confidente fin dalla partenza. Era una nutrice,
conosceva qualsiasi cosa a proposito di neonati e come crescerli, quindi mia
moglie non poteva scegliere individuo migliore, lì sopra, a cui affidare la sua
piccola prima di gettarsi in mare, e non uscirne più.
Quando
la vidi tuffarsi, fui sconvolto: non era un tuffo professionale, si trattava di
un tuffo a peso morto, di fronte all’acqua, senza un minimo di esitazione. Voleva
morire, non nuotare nel bel mezzo del Mediterraneo. Accorsi alla soglia del
gommone per affacciarmi dal punto in cui era caduta, ma non scorgevo nessuna
traccia nelle profondità. Iniziai a urlare e prepararmi per soccorrerla, quando
vidi un cadavere risalire in superficie. Era talmente magra e vestita di
stracci che galleggiava. Ritenni opportuno buttare un ultimo grido di
disperazione, sconfitta, perdita, e lasciare la mia sposa lì dove aveva deciso
di morire, senza riportarla a bordo, sarebbe stato tutto inutile. Il mare ha
ancora il sapore delle sue lacrime.
Il
mezzo che ci trasportava tirava dritto, e pian piano il corpo divenne solo un
miraggio. Alcuni passeggeri continuarono a dormire, non comprendendo ciò che
fosse accaduto; altri si svegliarono per venire in mio aiuto, futilmente; altri
ancora non sapevano che fare o dire e si tennero in disparte; però dagli
sguardi di tutti si evinceva pena, compassione e sorpresa verso me e la mia
bambina, ancora nelle mani di Licorida, la quale continuava a bagnare le guance
di Marina dormiente. Ancora ringrazio Dio per non averle permesso di assistere
al suicidio di sua madre. Forse, non avrei voluto assisterci nemmeno io, nonostante
sia tuttora ancora convinto che lei stesse aspettando, per farlo, solamente
l’attimo in cui io sarei stato a guardarla. Ho sempre interpretato il gesto
come un’ultima manifestazione di stanchezza, rabbia, insoddisfazione, delusione,
con un pizzico di vendetta nei miei confronti, per averla trascinata attraverso
quel destino non richiesto, tradita. Ripresi Marina dalle mani della donna, e
le dissi “fin dall’inizio ciò che hai perso è più di quanto potrà ripagare
ogni tuo guadagno in questa vita”, promettendole che
le avrei fatto trovare la felicità, un giorno.
Il
viaggio durò poco più di una settimana, mi sentivo più solo che mai. La
mancanza di Taisa si fece sentire fin dall’attimo in cui realizzai di dover
invecchiare senza lei accanto. Inoltre, ero l’unico punto di riferimento di mia
figlia, e non avevo di certo latte materno da assicurarle per i suoi primi mesi
di vita, tanto meno una culla diversa dalle mie braccia, o abbastanza acqua
pulita per lavarla. Non nego che tante volte ho pensato di mollare tutto,
seguire le orme di mia moglie, però mi bastava rivolgere lo sguardo a quelle manine
che mi toccavano, per vergognarmi delle mie fantasie così sbagliate e
vigliacche.
Sbarcammo
un sabato mattina nel porto di Lampedusa, con il sole coperto da diverse nuvole
ammassate sui nostri capi. Mi sentivo esausto ed entusiasta allo stesso tempo,
stanco del viaggio ed eccitato per la nuova avventura che ci aspettava. Ma se
il buongiorno si vede dal mattino, quella non poteva essere una bella giornata:
arrivati nel centro raccolta immigrati, trattati come un gregge di pecore
maledette, ci fecero sedere a terra, nell’attesa del numero preciso di
stranieri che l’Italia avrebbe potuto accogliere al momento. Ringrazio Marina
per avermi aiutato, con i suoi sorrisi, a non scoraggiarmi e perdere la speranza,
mai.
L’esito
arrivò solo dopo due ore circa: non si trattava di una buona novella. La
nostra, a quanto pare, non era l’unica imbarcazione migrante ad essere giunta,
in quei giorni, a quel porto; eravamo all’incirca un migliaio di
extracomunitari, arrivati da ogni parte d’Africa e Medio Oriente, i quali
lottavano e speravano per e in uno tra quei 200 posti disponibili all’interno
della penisola. Di conseguenza, le possibilità che io rimanessi in Italia erano
davvero minime, considerando che priorità assoluta spettava a donne e bambini.
Gli altri sarebbero stati liberi di tornare a casa, oppure risalire nuovamente
a bordo delle onde, in direzione di un’altra costa europea.
L’afflizione
e perturbazione iniziarono a intasare la mia mente. Una voce, dal fondo della
stanza in cui giacevamo, ordinò a tutte le madri, accompagnate da un infante o
adolescente, di avvicinarsi alla porta d’uscita, perché sarebbero state
smistate nelle varie regioni italiane. Il secondo turno fu quello delle donne senza
figli, costrette a separarsi dai propri mariti o compagni. Il terzo non fu di
certo il mio. Vidi, di sfuggita, Licorida che si incamminava, mentre alzava la
mano per salutarmi; non mi aveva mai abbandonato durante il viaggio, era sempre
stata al fianco del mio lutto e del mio cuore divenuto debole.
Tre
guardie passeggiavano tra la folla silenziosa, con le mani incrociate dietro la
schiena, fissandoci a uno a uno per controllare che nessuna avesse disobbedito
pur di rimanere al fianco del proprio uomo. Uno degli agenti mi si fermò di
fronte, quasi commovendosi alla scena di un povero padre che stringeva al petto
una creatura con una settimana di vita. Non osai degnarlo di sguardo, sapevo
già che avrei dovuto dire addio, a quel punto, a Marina. In un inglese
comprensibile, mi disse: “Signore, ci deve lasciare suo figlio; in quanto
minorenne, ha la precedenza a ricevere cure sanitarie e un’educazione adeguata
nel nostro Paese. Ci penseremo noi a lui”. In una lingua altrettanto capibile,
alzando la testa, risposi: “Mia figlia è una bambina, si chiama Marina, perché
nata in mare, ed è tutto ciò che mi rimane e affido a voi”. Drizzai in piedi
per consegnargli il mio unico tesoro e feci appena in tempo a mormorarle
nell’orecchio qualcosa come “ora Dio volga a te il suo migliore sguardo”,
per vedere l’ufficiale girarsi e dirigersi verso il corridoio che portava
all’esterno. Scoppiai nel mio ultimo pianto disperato e rassegnato.
Non
potevo permettermi di ribellarmi, controbattere; probabilmente, era quella la
scelta giusta per lei. Pochi minuti dopo, lo stesso uomo rientrò nel nostro
tugurio per annunciare che solo i 41 più giovani del genere maschile sarebbero
stati selezionati. Ricordai di aver festeggiato da poco i miei 39 anni, e di
ragazzi tra i 18 e i 38 ne erano presenti molti più di quaranta. Dissi “addio”
al sogno italiano. Noi, futuri “uomini d’Europa”, fummo caricati come bestie su
vari pulmini, poco più grandi degli scuolabus che ero abituato a veder passare
ogni mattina fuori dal viale di casa, prima che iniziasse la guerra siriana,
pieno di bambini allegri, rumorosi e spensierati; la differenza è che, a bordo
del mio, all’appello, solo adulti sventurati, silenziosi e preoccupati. La
direzione? Lo scalo da dove saremmo ripartiti in vista della Spagna, Francia o
del Portogallo. Ci divisero in tre gruppi di equa dimensione, prima di farci
salire e annunciare quella che fu definita la “nostra prossima patria”. A me,
toccò il Paese della paella e di Gaudì.
Ho
vissuto vent’anni in Spagna, lavorando come insegnante di lingue mediorientali
e traduttore dal siriano all’inglese e spagnolo e viceversa. Una scarsa, ma
accettabile, conoscenza della lingua locale mi ha salvato dalla miseria. Decisi
di non risposarmi e tanto meno avere rapporti con altre donne; il mio pensiero
sempre rivolto a dove stesse mia figlia, il mio sguardo costantemente alto tra
le stelle per mia moglie. “Come reagirebbe se la cercassi?”, “Mi potrà mai
riconoscere come padre?”, mi domandavo la sera, quando mi coricavo, solo con i
miei pensieri. Chissà quante cose avremmo fatto in 20 anni; quante volte
l’avrei accompagnata a fare compere, quante volte saremmo andati al cinema,
quante volte ci saremmo addormentati insieme, quante volte avremmo passeggiato
al mare, quante volte saremmo passati sotto le luminarie natalizie braccio
sotto braccio, se non me l’avessero tolta dalle mani. Tutte queste domande
hanno portato a un’unica conclusione per il mio cuore tormentato: trovarla. Ed
è così che è iniziata la seconda avventura che vi narro e che mi vede coinvolto
da un paio di settimane.
Per
arrivare in Italia, questa volta, sono riuscito a permettermi un aereo da
Madrid, non più un barcone umiliante. Dopo ricerche su ricerche, chiamate su
chiamate, di cui non sto qui a descrivervene i dettagli, ho scoperto che Marina
vive in Puglia, in un paesino nella provincia di Brindisi, adottata fin dall’età
di 1 mese da una famiglia meridionale che non riusciva ad avere figli, con il
sogno di crescerne almeno uno. Cosa più importante: all’anagrafe, avevano
conservato il nome di Marina, partorita dal mare, comunicato dalla
casa-famiglia occupatasi di lei nei suoi primi 30 giorni circa in Italia e
dell’adozione. Mi era arrivata anche una sua foto all’età di 10 anni: capelli
scuri e occhi azzurri. La commozione era più che scontata vedendo quanto
somigliasse a Taisa, nel sorriso, nell’espressione, nella forma delle labbra.
Ho subito pensato che non avesse preso nulla dai miei geni, tranne il naso
forse, e la cosa peggiore è che non ricorderà, al momento, nemmeno la mia
presenza o quella della madre, tantomeno avrà una nostra immagine, né cartacea
né mentale.
Mia
figlia, sangue del mio sangue, ha il diritto di conoscere la sua storia e il
suo vero padre, quello biologico; non ho intenzione di prendere il posto dei
genitori che l’hanno cresciuta e amata come fosse stata concepita da loro;
voglio solo avere un posto nel suo cuore, nella sua vita, e instaurare un
rapporto con lei, farle sapere che io ci sono, esisto.
Mi
sento così agitato mentre, seduto sulla panchina di un parco nel suo paesino,
penso a quando riuscirò a incontrarla, a quando capirò dove abita. Purtroppo,
il suo indirizzo è un’informazione protetta dalla privacy anche per me;
ottenere i nomi di battesimo dei due genitori adottivi è stato già un grande
aiuto. Singhiozzo, e mi rendo conto di quanto sia inevitabile piagnucolare ogni
volta che penso a lei, alla famiglia che avremmo potuto formare, io, Marina e
Taisa. Singhiozzo, e ascolto il vento che soffia tra gli alberi che mi
circondano, mi perdo nel tramonto che sta per giungere e nei bambini che
giocano a calcio a qualche metro da me, quando una palla
arriva sotto la panchina dove siedo. Mi piego per prenderla, mi rialzo
asciugandomi le lacrime con la manica del cappotto e vedo un bambino di circa 6
anni che mi osserva. Gli sorrido e restituisco la palla, però lui mi chiede
perché piango.
Mi
rendo conto che sono giorni che non spiccico parola,
che non apro bocca, non avendo contatti umani con persone con cui discutere ed
esprimersi, da quando mi son messo in ricerca in Italia. Rispondo che piango
perché mi manca una bambina bella e gioiosa come lui, strappatami dalle mani
tanti anni fa. In lontananza, sento una voce femminile che urla “Giacomo, torna
qui e non importunare il signore!”. Ha gli occhiali da sole e un cappello su
dei capelli legati. Si tratta di una ragazza alta e snella, la quale si fa
spazio tra gli altri bambini per giungere a me e Giacomo.
“Mi
scusi, è senza pudore e vergogna”, si giustifica. “Figurati, mi ha fatto
piacere avere una conversazione di due battute con lui. Non mi chiedevano
perché piangessi da non so quanto tempo…”, le rispondo, guardandola in viso e
cercando di scorgere i suoi lineamenti. “E come mai piange?”, domanda, mentre
Giacomo torna a giocare senza salutare e la ragazza mi si siede accanto.
“Sto
cercando mia figlia naturale da un bel po’, dopo 20 anni di totale assenza
costretta”, confido. “E perché ha aspettato così tanto?”; sembra incuriosita.
“Veniamo
dalla Siria; nacque durante la traversata per l’Italia, e sua madre si suicidò
in mare. Arrivati a destinazione, scoprii che non c’era posto per me in questo
Paese, quindi dovetti abbandonarla a chi di dovere e riprendere il viaggio per
la Spagna. Nonostante non abbia avuto in mente nient’altro che lei, in questi
anni non mi sono mai mosso da casa per cercarla, anche se ho sempre provato ad
avere sue notizie. Mai nulla di tanto rilevante da potermi mettere in moto,
fino a poco tempo fa, quando ho preso la decisione di avventurarmi in quello
che spero sia il successo più grande della mia vita”, riepilogo.
Sono
riuscito a strapparle appena un sorriso, che si interrompe per chiedermi come
si chiami questa ragazza ora. “Marina”, rispondo. La vedo togliersi occhiali e copricapo,
slegarsi i capelli, porgermi la sua carta d’identità. Leggo “Marina” affiancato
da un cognome italiano che non riesco nemmeno a pronunciare. La tessera mi cade
dalle mani e alzo la testa: ho bisogno di esaminare attentamente il colore dei
suoi occhi, la forma delle sue labbra, il suo naso, e tutto ciò che potrebbe
portarmi a credere che sto parlando con mia figlia. Tiro fuori dalla tasca la
foto di 10 anni addietro e gliela pongo delicatamente sulle mani sudate; è
agitata e incredula quanto me. La guarda per un paio di secondi, per poi farmi
affondare in un suo abbraccio, il più vero e caloroso mai ricevuto.
“Sono
20 anni che mi chiedo come sia, ora, il mio vero papà e perché non sia ancora
venuto a bussare alla porta di casa”. Si ritrae per mostrarmi un’immagine
consumata dal portafoglio. A essere ritratta è una scena così dolce, da poter
fare il giro del mondo: c’è un tale di colore che tiene in braccio una bambina
in fasce e le avvicina le labbra come per parlarle, e di fronte ce n’è un
altro, bianco, con cappello e divisa, dritto in piedi a qualche centimetro dai
due, mentre pone la mano all’altro uomo, vestito di pantaloni strappati e
camicia bagnata, per strappare via la neonata. E poi c’è una seconda
fotografia, che mostra una bambina con qualche giorno di vita che piange e
strilla in mano a un agente. E ancora un’altra, dove un signore sui quaranta ha
la testa bassa e cammina goffo tra altri uomini, tutti abbastanza sporchi e sconsolati;
sembrano aver perso tutto, compresa la motivazione per esistere.
Queste
immagini, in vent’anni, sono diventate simbolo di immigrazione, di
non-accoglienza, di abbandono, di perdita, virali in Italia, e io non lo
sapevo. Così come non sapevo che mia figlia sognasse, un giorno, di ritornare a
trovarsi tra le braccia del suo primo padre; che condividevamo lo stesso sogno.