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La nona onda

Camilla Montanaro, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Questo testo nasce con l’intenzione di descrivere un episodio banale di vita quotidiana e trascinarlo su piani inattesi grazie all’attualità del Pericle shakespeariano e alla potenza del dialogo artistico.

*

-3 gradi, nuvole grigie e un freddo pungente sulla pelle. 
Entrare nell’atrio del museo e togliersi il cappello è una liberazione per Emma e Federico.
Le decorazioni natalizie per le strade riscaldano l’inverno russo, ma ciò non impedisce ai soffi gelati di vento di lambire le poche porzioni di pelle nuda.
La statua bronzea di Puskin, posta proprio nel centro di Piazza delle Arti con il braccio teso e fiero, sembra esortare i turisti ad entrare il prima possibile nel Palazzo Michajlovskij per cercare calore, più che per inebriarsi di arte.
Emma aveva sviluppato una passione per i musei fin da piccola grazie ai giochi di suo padre: 
«Scegli il quadro più bello.»
«Mimi, trova i tre quadri più rossi del corridoio.»
«Cerca quello che ti rende più allegra e quello che ti fa più paura.»
E lei sfrecciava per i corridoi desiderosa di completare il test per vincere il preziosissimo premio in palio: una zeppola con panna. 
La raffinatezza di ogni dettaglio del Palazzo Russo fa tornare Emma al suo mondo di bambina: per un attimo si immagina duchessa, con un vestito bello e lungo, mentre cammina per il corridoio e… «Ticket?» risuona una voce. 
«Sure, one second. Li hai tu, no?»
Federico sfila dalla tasca destra del cappotto il CityPass, abbonamento che permette di accedere ai numerosi musei di San Pietroburgo. Prova un senso di soddisfazione nel saltare le code e illudersi che siano tutti gratis. «Se non lo avessi fatto – si compiace – ora saremmo ancora fuori al freddo.»
Percorrono i corridoi con l’intenzione di mantenere un ritmo costante fino alla fine ma, quando scoprono che mancano ancora due piani del museo, si arrendono. La panchina, che è solo un asse di legno, pare una poltrona di piume d’oca. Davanti a loro, in una sfavillante cornice dorata, un’onda bagna la tela. 
La luce del quadro è talmente particolare che Emma sente il bisogno di socchiudere leggermente gli occhi per osservare i dettagli. La curiosità la costringe ad alzarsi per guardare il cartellino sottostante: La nona onda di Ajvazovskij (1850). 
Dicerie marinaresche raccontano che le onde si ripetano periodicamente a gruppi di nove e che sia proprio la nona ad essere la più grande e la più pericolosa, quella contro la quale l’uomo non ha potere.
L’acqua verdastra scolorisce in un manto di spuma. Le nuvole sembrano estranee agli sconvolgimenti del mare, proseguono inalterate il loro percorso. L’agitazione dei naufraghi stona con un cielo tanto luminoso. «Come lo trovi?»
«Quello?»
«Sì, Fè.»
«Bello.» 
«Perché?»
«Bella luce.»
Lo osservano ancora qualche secondo.
«Mimi, dobbiamo tornare qualche giorno nella casa al mare.»
«Hai ragione, ho bisogno di aria fresca.»
«Non smetteremo di andarci, vero?»
«Ma no, basta organizzarsi.»
«Magari diventa un tuffatore.»
«O magari un’atleta di nuoto sincronizzato.»
Emma si sfiora il ventre appena arrotondato.
Mentre parlano osservando il quadro, l’onda sembra gonfiarsi. La rabbia del mare stride con la serenità del cielo. Si tratta di una sensazione che Emma ha già provato. Un senso di angoscia la pervade. Ripensa alla pila di fogli che ha lasciato sul tavolo prima di partire. Avrebbe dovuto preparare la lezione per il rientro in classe dopo le vacanze e ancora non aveva scelto i saggi da proporre. ‘Amleto’ è un’opera colossale e lei vorrebbe farne conoscere una minore come Pericle, Principe di Tiro.
«Marina!»
«Cosa?»
«Se è una femmina voglio chiamarla Marina.»
«Manco per sogno.»
«Oh, Federico, è un nome bellissimo.»
«Perché Marina?»
«Sto pensando al Pericle di Shakespeare.»
«Ecco, ci risiamo…»
«E’ un personaggio stupendo.»
«Emma, nostra figlia vivrà nel mondo reale, non in un’opera letteraria. Marina è un nome da sirena, non da    bambina.»
«Ti racconto la storia. »
Federico aveva conosciuto Emma a Oxford, durante una vacanza studio. Lei era già allora appassionata di letteratura inglese, ma aveva deciso di farne una professione andando avanti con gli studi universitari.
Quando la chiamarono per una supplenza annuale stapparono una bottiglia e ordinarono la pizza.
«Pericle si reca dal re Antioco e scopre la soluzione di un indovinello grazie al quale ottiene la mano della figlia.»
«Fine della storia?»
«Ma capisce che la figlia ha un rapporto incestuoso con il padre.»
«Si fa interessante.»
«Il re allora manda dei sicari per ucciderlo.»
«E lui scappa, immagino.»
«Lascia provvisoriamente il suo regno, Tiro, all’amico Elicano e va a Tarso dove aiuta i sovrani.»
«Poi?»
«Una tempesta lo scaraventa a Pentapoli.»
«Te la stai prendendo comoda, Mimi, non ho ancora sentito il nome Marina.»
«Qui vince un torneo per sposare la figlia del re, Taisa.»
«E’ un vizio insomma.»
«Insieme partono per tornare a Tiro e Taisa è incinta.»
«Precoce il ragazzo.»
«Subiscono un altro naufragio e Taisa sembra morire di parto.»
«Sembra morire o muore?»
«Tutti credono che sia morta, ma in realtà è viva; sta di fatto che viene gettata in mare. E’ un momento di    sofferenza assoluta.»
«E per quale assurdo motivo vuoi chiamare mia figlia Marina?»
«La bambina, però, sopravvive. Le viene dato il nome di Marina.»
«Tiè! Vorrei una notte tranquilla il giorno del parto, per piacere.»
«Poi ci sono una serie di peripezie, Marina viene cresciuta dai sovrani di Tarso.»
«I sovrani di Tarso? Ah sì, quelli dell’inizio.»
«Taisa è salvata da un mago, Marina rischia di essere ammazzata, finisce in un bordello…»
 «Di bene in meglio, insomma.»
«Pericle è disperato. E’ convinto che sia la moglie che la figlia siano morte. Si taglia i capelli,  indossa un saio, decide di non parlare più.»
«Speri che chiamando nostra figlia Marina io smetta di parlare?»
«Alla fine, però, Pericle incontra nuovamente sua figlia. Inizialmente non crede sia lei, ma poi la riconosce.»
«E Taisa?»
«Si ricongiungono tutti e tre.»
«Storia molto carina. Ora dimmi, per quale accidenti di motivo vuoi chiamare mia figlia come una    sirenetta?»
«Perché Marina è un personaggio mitico, Fè. E’ in grado di aprire ogni comunicazione. Grazie solo alla      parola cambia la realtà in cui vive. Quando viene trascinata nel bordello, converte ogni cliente e non si fa  toccare. Riesce a parlare perfino con suo padre che si è chiuso a qualsiasi tipo di comunicazione. E’ il ruolo che Shakespeare affida all’arte e al teatro. Marina ricrea la vita.»
Federico si ferma a riflettere. Il nome Marina proprio non gli piace, ma la passione con cui Emma parla della letteratura lo intenerisce profondamente.
«Perché ti è venuto in mente ora?»
«Stavo guardando il quadro. Penso di averlo associato alla tempesta. Pericle stava vivendo la sua nona onda, ma Shakespeare sapeva che si sarebbe sgonfiata. Vedo Marina in quel cielo arancio.»
«Tutta colpa di Ajvazovskij, insomma.»
«E’ un sì?!»
«E’ un ‘vedremo’.»
«Che bello, Fè! Marina è un nome stupendo, non è banale, dobbiamo trovare il soprannome e…»
«Speriamo nasca maschio.»
Emma e Federico escono due ore dopo dal Palazzo.
Non vedranno mai più la statua di Puskin, non torneranno sotto le luci natalizie russe e non finiranno mai l’ultimo piano del museo.
Ma ricorderanno, sempre, La nona onda. 

Bibliografia:

William Shakespeare, Pericle, Principe di Tiro, Bergamo, Lemma Press, 2019

Vladimir Stoyanov, Ivan Aivazovsky: Selected Paintings, CreateSpace

Indipendent Publishing Platform, 2017

Renée

Sara Cofone, in questa composizione, riscrive, in forma di lettera, il Pericle shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I/II, letterature comparate B, mod. 1 e 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

Sulle orme dell’intima scrittura di Marcel Proust, ho voluto mettere in luce la potenzialità della parola che, se scritta, può vincere il tempo che passa e perpetuare i legami. Una parola che cerca di fermare, tra carta e penna, la tempesta di un’esistenza e che conduce alla rinascita di una vita.

*

Cari mamma e papà,

l’ultima volta che mi trovai in mare fu la più crudele di tutte. L’abisso, come risvegliato dalla furia di Nettuno, si agitò sempre più forte, sempre di più. In un tempo poco più lungo di un batter di ciglia, quella stessa nave che per me, Marina perché nata dal mare, fu culla, si trasformò sotto i miei occhi  in letto di Moira. La furia del mare vi vinse e vi seppellì sotto un’onda più pesante della terra consacrata che sigilla il ricordo di una presenza. Tutto finì, all’apparire di un’alba che ha portato la notte in cui assaporai il vero gusto del sale che, dal primo mio respiro, aveva profumato la mia esistenza. Una lacrima salata  arrivò alle mie labbra e, dopo avermi scalfito il viso marmoreo e pallido, mi bruciò in gola e scatenò la più violenta delle tempeste: quella del cuore. In un attimo finì quella vita felice che vissi con voi, dopo che lo stesso crudele mare ci aveva fatti rincontrare,  e, con questa, quel dolce canto che intonavamo insieme.  Il mare è stato per noi mondo, un’incognita insieme dolce e amara; è stato il misterioso specchio dell’esistenza che, come la nostra nave, scivolava su di una distesa di tutto e di nulla verso non precisate destinazioni, non precisati incontri. Quella coperta salata, che a guardarla da riva faceva  paura, è stata per noi il nodo delle nostre esistenze incrociate, l’intreccio che abbiamo sfidato seguendo la stella dell’amore, la navigazione delle emozioni.  Eppure, in me, più nulla cantava;  Amore, da poeta e pittore delle mie giornate, si era trasformato in pesante pietra che mi portava a fondo, in un corpo che si muoveva senza sapere dove e perché andare.  Non più una goccia di vita scorreva nel mio corpo impietrito dalla perdita, da quello che non avevo più e che mai più potevo avere.  Avevo perso voi e, quindi, me stessa perché voi siete sempre stati me e più di me. Ho pazientato a lungo nella speranza di vedervi ritornare, ma sentivo che non c’era fuoco o musica che potesse ridarvi la vita, né voce che potesse guidarvi sulla via per ritornare al mondo insieme a me.

  Tutto d’un tratto, mesi fa,  involontario richiamo del cuore:  camminavo sulla riva del mare, sul sottile filo tra terra e acqua, quando la brezza marina mi strinse in un abbraccio materno, portando al mio naso uno strano profumo, il vostro, quello che mi ha riportata indietro nel tempo e che per un effimero, ma potente secondo mi ha fatto percorrere qualche metro di sabbia con voi al mio fianco.  Improvvisamente, ho capito che quell’antico canto era sempre rimasto chiuso in me e che a salvarmi, una volta ancora, sarebbe stata la più bella delle arti che voi mi regalaste: l’arte magica del dire, la mia parola.  Ho incollato ogni brandello del mio cuore lacerato con il potente collante della comunicazione che sfida ogni tempo e spazio. Tutto in me era soffocato dal disordine degli eventi e, con la parola, ho trovato il luogo più sicuro per rifondare la mia leggera città di sogni di donna. Ho preso carta e penna e mi sono addentrata nella foresta dei ricordi, foresta fitta di immagini, profumi, momenti e voci che mi hanno permesso di riporre la mia anima scossa e turbata in ciò che mi era familiare, e che era sempre stato in me, senza che io lo sapessi.  Sono rinata. Sono Renée.  Mi avete cresciuta nel culto del verbo e io,  da fedele discepolo, ho sempre creduto nella potenza della parola che , se detta è magica, scritta può essere miracolosa. Amati genitori, oggi vi scrivo per rivendicare un tempo di gioia che ci è stato negato. Per riportare al palato il gusto felice di un ricordo inzuppato di vita, anche se fragile come una gocciolina su un filo al passare rapido del vento e per fermare, nero su bianco, le intermittenti emozioni che ancora mi legano a voi e turbano dolcemente la mia mente cresciuta, ma ancora bambina. Vi scrivo per ricercarvi accanto a me come quel giorno in riva al mare e perché ogni mia nuova parola possa schiudere, come conchiglia di mare, la perla più preziosa di un tempo perduto.

Dal giorno in cui l’onda amara vi strappò da me,  mi rifugiai in un’isola deserta e mi assicurai che il mio sposo Lisimaco mi credesse morta. So papà quanto è dolorosa una tale notizia all’orecchio di un uomo che ama, ma non ho mentito: Marina era morta davvero. Ho accettato e accolto, ma non ero più la Marina che voi lasciaste sola sulla terra prima di sparire tra la braccia della Morte.  Quando rinacqui Renée, capii che era arrivato il tempo di portare la dolce primavera che,  mi aveva fatta rifiorire,  anche a Mitilene. Vi trovai il mio sposo, che da anni tesseva la speranza di vedermi ritornare, fedele e vinto dal più tenero amore che con il tempo non era sfumato, proprio perché, come ho imparato a cercarvi io,  mi aveva trovata nel ricordo delle parole che  la voce spensierata, di quella che un tempo fu Marina, gli intonava ogni sera sulle note di una piccola cetra. Nelle sue mani era scolpita la fatica. Mi disse che l’arazzo della speranza si intrecciava nel coraggio del giorno e si disfaceva  nella paura della notte; mi confessò che il suo palazzo era invaso dal timore e dall’impazienza di sentire di nuovo la mia voce. Era tempo di ricominciare, per tutti. Raccontai a Lisimaco il miracolo della parola e gli mostrai il quaderno, quell’insieme di fogli  su cui si riversava il mio impeto di doloroso amore, in cui voi rivivevate. La parola si faceva, lettera dopo lettera, corpo e il corpo diventava nuova vita. Come ogni lettera componeva una parola e ogni foglio componeva il libro della mia ricerca, quel libro componeva la mia, la nostra storia, che tra lacrime sorrisi e singhiozzi, regalo all’eternità schiusa in ogni piccolo gesto d’amore.

In quella primavera che emanava effluvi di armoniosa lietezza, Lisimaco colse la mia rosa e, dentro di me, in quel terreno una volta arido di dolore, sbocciò il più bello dei germogli: nostra figlia  Emma.  Sì, siete nonni ora. Da piccola era una bambina bellissima, ma dovreste vederla adesso come è splendida! Sai mamma, se fossi qui con noi,  riconosceresti in lei gli stessi tuoi capelli ondulati e profumati di amore, le tue gote alte e rosate e la bocca che, come scrigno, schiude il  più dolce mistero che possa giacere in una donna. Papà, la tua forza e la tua tenacia da sovrano rivivono, in abiti femminili, nella nostra Emma.  A Lisimaco assomiglia solo per bontà d’animo; da me, la natura ha voluto che ereditasse la potente arte, che esercita in modo diverso da me. Parla poco, solo all’occorrenza, ma le sue parole di miele addolciscono il grezzo della carta. Emma legge molto, vive ogni giorno un’illusione diversa in ogni nuovo libro; illusione che non la inganna, ma che sa filtrare e scatenare, con controllata forza, per dar valore alla realtà. 

Una tiepida mattina d’estate, mentre districavo i più ostinati nodi dalla sua chioma ondulata, ho sentito lo stesso profumo di rose e di viole che si spargeva nella mia stanza quando tu, mamma, intrecciavi i capelli di quella giovane fanciulla, ora mamma come te. Sulle sfumature di quel tenero profumo floreale, senza spostarmi di un passo dalla mia dolce creatura, sono ritornata in quella stanza piena di mattina che accoglieva le nostre chiacchierate complici. Ricordo con quanta elasticità queste cambiavano argomento e come mi sentivo libera tra le parole che echeggiavano nella stanza e mi parlavano di vita pura. Avevi sempre un grande controllo in quello che dicevi, mentre mi insegnavi a essere una donna.

Vorrei poter dare a Emma, ancora giovane e inesperta, la meraviglia che mi avete insegnato a coltivare e che oggi, anche se non siete più, con il corpo, insieme a noi, parla di voi e fa splendere la terra della vostra grazia da sovrani, prima di Tiro, del regno dell’amore e della vita semplice che mi lasciaste in eredità prima di soffocare tra i furiosi flutti di sale.

Più questa lettera conquista spazio sul bianco del foglio, più io vi sento accanto a me : la mamma alla mia destra che mi dice di non piangere perché il nostro amore è arte e, si sa: l’arte sola salva dalla morte. Papà, tu, sei alla mia sinistra e, con le tue possenti mani da guerriero che ha infinitamente sopportato, mi stringi le spalle e diventi scudo nella mia guerra, che solo questa sequenza illogica di parole può vincere. Così, armata di penna nel campo bianco cosparso di nero, ritrovo le emozioni più profonde, ritrovo racchiusi i beni interiori che, come quelli materiali, pensavo che la fatale tempesta avesse perduto per sempre. Vedo parole che sembrano scritte in una lingua solo per me che ricrea la mia realtà e vi restituisce al mio amore di figlia.  Ritrovo, nello spazio tra una parola e l’altra, il respiro che la vista della vostra morte ha soffocato nella mia  gola che ,per anni, ha smesso di cantare.  Per ritornare a cantare un canto che un tempo fu cantato, “to sing a song that old was sung”, iniziai a scrivere la mia ricerca. Sono passati anni da quando, per la prima volta, presi in mano quella bacchetta magica che è la penna, da quando l’antico canto ha ristorato il mio presente, un meraviglioso  presente di cui mai mi sarei detta destinata e che canta un canto nuovo, ma sulle stesse dolci ed eterne note d’amore e di vita.

 Mamma, papà, lasciate che la parola vi raggiunga, ovunque voi siate e che riempia il vuoto che vi separa da me, da noi perché ogni parola è come un fragile fiore sospeso tra memoria e presente, tra dolore e nuovo inizio; insieme loto che dona l’oblio e girasole che segue la luce celeste e sconfigge le tenebre, cantando l’armonia della vostra voce che urla sul muto foglio e, proprio come un tempo, intona il dolce canto insieme a me . Adesso che scrivo vi riscopro, cade il travestimento e, in quella cicatrice di dolore rivedo il mio passato che ritrovo presente. Anche quando la morte cancella, sapete, la parola rigenera e nel mio scrivere ricostruisco in nome dell’amore perché dopotutto, come scrive Proust, c’è sempre una sopravvivenza negli abissi del cuore e, nel fluire implacabile e incontrollato del finito,  la nave scivola verso la ricerca dell’eternità del nostro  prezioso tempo perduto.

La vostra Marina, oggi Renée.

Bibliografia:

Flaubert G. (1857), Madame Bovary, Gallimard 2001

Omero, Odissea, traduzione di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2014

Marcel P. (1913) , Le intermittenze del cuore, traduzione di M. Noja, La Vita Felice, Milano 2018

The Last Winged Time

Francesca Luppino, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva alcuni capolavori shakespeariani, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, e mod. 2, I drammi romanzeschi di Shakespeare II:  Il racconto d’inverno e la Tempesta, prof.ssa Chiara Lombardi.

The last Winged Time
is a four-part stream
which could be seen
as an angel first
as the wind of Choice then
as the plague of decay
and as the arms
of a mother at last.
It is the last
for every man
as his one life is,
which is lived for its invisible drops.
The last Winged Time
is the only touchable god
for atheist souls
and the main equal faith
for a rich and poor humanity.

*

PART I
scene i
Ma Morire
è per tutti?
princìpi a parte
Morire è da prìncipi
siamo tutti degni del regno dell’abissale conoscenza?
La meta conoscitiva anche dei bambini
è assurdo
patetico, parlare di uguaglianza
su queste cose
Morire non è per tutti
Morire è sentire la spinta verso il buco
d’altrove
dove il vento smette di soffiare
finalmente. Pace.
dove la luna illumina quanto il sole
e dove il tempo si sfilaccia le ali
le poggia nel fluttuante attorno
si guarda in giro
e pensa di farsi una passeggiata
ora che la commedia è finita.
Non credo nella resurrezione
nella seconda possibilità
né nel Paradiso.
L’Eden possibile è nella testa per fortuna
solo lì
se no saremmo rovinati.
Meglio perdersi e ritrovarsi da soli
nel peccato
il mondo non deve vedere
il mondo non deve mai vedere.
Ma qui, qui è tutto sigillato
imbottigliato con cura
poi magari versato
come adesso
ma mai come all’origine
mai come appena colto.
Lo stesso è l’uomo
che non è mai lo stesso Morendo
mentre viene versato, l’uomo
cambia
ma non ogni uomo, almeno credo
cambiano i peggiori forse
avrebbe senso
cambiano gli scartati a fine fila
avrebbe senso
cambiano i superficiali
avrebbe senso
i vinti cambiano
vincono
e capiscono.
Morire è per i vinti in vita
Vivere è per i morti in vita
e i vincitori?
Quelli non se ne accorgono nemmeno
non se lo aspettavano
ritardavano
si nascondevano tra i ceppi verdoni
tra le opere d’arte
tra le culle
credendo ancora nell’immortalità e nelle fate.
I vincitori vanno bene per romanzi
personaggi per commedie.
Il resto è prosa d’arte
flusso, errore, verità
finalmente. Redenzione.

scene ii
Piango come le giovani bestie piangono;
piango se questi miei pensieri mi fan male;
piango per i tetti dei palazzi,
che li raggiungono ma non li superano;
e piango per i cieli
che non piangono mai, ma guardano
e si lasciano ritrarre
col colore della natura che sembra finire sempre
per primo
nella memoria di ognuno.
Non mi ricordo il colore dei prati
ed ho bisogno di corrervi
spogliarmici
con un giovane accanto e bello dev’essere,
che corra insieme a me
senza dire una parola, e con la luce forte del giorno negli occhi.
Lui mi farà sdraiare sull’umida terra
scura
coperta dai peli di nostra madre
dove mai ci fece ribrezzo dormirvi qualche ora d’estate,
e chiedendomi di attenderlo
correrà a raccoglier fiori per me
da incoronarmi e da coprirmi
vestirmi di piume
e soffiarmi nei raggi del sole,
trasformando la mia bruttezza in una tomba giuliva,
in una mascherata,
in un carnevale da pastori.
Quasi interamente vestita di petali ripenserò
a quanto ho pianto
quanto ho sospettato
della mia inutilità: tutto quel male fattami
tornerà a galla e vi camminerò sopra
come fosse fatto di fresche ninfee,
vi ci dormirò sopra
senza che il cuscino si renda duro e crespo di sale
senza che il mondo possa sbagliarsi
ancora
su di me e sulla mia vita.
Sarò giovane come solo le divine creature
possono davvero essere. Ho vissuto nella grotta.
Lì ho finito il pennarello azzurro
e lì ho sognato tanto
cambiando lato del cuscino ogni notte
ma ora posso uscire
ora mi si lascerà andare al vento,
cadrò nei dirupi finalmente
e saprò di non essermi mai sbagliata
di poi così tanto, sull’arte di morire.
Ora poggio le lenti a terra
lavandomi
la faccia da artifici
nulla vedo, tocco e basta il mio corpo
che non è abbastanza
ma nel suo essere mostro, l’aria tra le branchie
si fa sentire.
Ora capisco. Capisco
che nuoterei mari interi al mondo
e che è un oceano
quel che ho da dire.

PART II
scene i
Lassateme sta’.
Ho capito che comannate voi, su de me
perché io c’ho scelto? Laggente
che me porta via, come voi
che mi costrignete ad esse’, senza il tempo de capì
infonno, che vorrei solo nun dove’ esse’
ciò che vorrei nun esse’.
Io ora ve cedo
ma state certi che gni’ finisce qua.
Io so’ er più timido e nun vedete che sto
a fatica’, pe’ stuprarve
co’ ‘e parole mie.
E stateve boni che nun me sto
appoggia’.
Io me sostengo. E vivo.

scene ii
“Abbattimi Dio
o fammi essere chiodo rovente
a sollevar e tener presente
il corpo del martire
dell’anima e mente mia.
Fammi corda di sipario
a tener su il cielo stellato.
Fai di me qualcosa
o abbattimi come si suol fare
con le piante morte
per troppa sete e poc’Amore”.

Vorrei esser degna di essere immortale.
Mi basterebbe il vostro Credo.
Non ve la sentite? Perché io ve lo chiedo
in ginocchio.
Ma lo so! Lo so, che mi trovo in un mondo
di Dimostrazione e parlo di Credo.
Guardate! Ridete!
Ho talmente la faccia da ‘credo’
che non ci crederete mai.
Ma il naufragio non è più un tormento
a me, ormai.
Certo, ho paura che sia tutto
solo un diario.
Ma Tiresia ha detto che vivrò a lungo
come Narciso, se non vedrò me stessa.
Mi vedrete voi! Che bello!
Un peso in meno: menomale!
Menomale che finché non appartengo a questo mondo
non avrò mai un grado di rabbia
e mi consumerò piacevolmente per compiacervi.
La mia parata è iniziata
son pronta a scomparire
e a lasciar due canzoni
come asciugamani per i vostri piedi
miei signori.
L’arte non è più una ribellione
per me, ormai.
E ringrazio voi se ad oggi conosco il vetro che è me stessa.

PART III
scene i
Il tempo che i re misurano
in stelle acquee
è lo stesso degli abitanti dei campi di grano dorato?
L’oro ci asfalta tutti.
Gli occhi lastrati e forgiati
come nuovi
ma ecco il trucco
che ho capito: funzionan meno di prima.
La mente rimbomba suoni meschini
acuti e metallici
ed hai il cuore come un garage
il tuo sangue vi cerca posto
ma è già pieno
di altra roba e gente, non capisco.
Forse ho esagerato.
Ho preso la stella al volo
me ne sono andato via dal Mondo
a cavalcioni di quel proiettile dorato
che mi ha portato in una roulotte.
Parlavano di mirtilli laggiù
ma ho visto solo sangue, era sangue, si sangue
e ne bevvi troppo
per essere ancora così giovane com’ero.
Ho sentito tutti dire che non c’è più
Nulla
da pregare. Perché Dio è morto
ed io non sono che la sua fica squarciata contro un muro.
Ero davvero troppo piccolo per bere quei calici così puri e densi.
Troppo orgoglio.
Ma dato che ora son re
penso che perseverò in tutti i miei peccati
così da poter farmi delle ali
e scuoterle magari.
Io spero che voi tutti mi amiate come a corte
noi amiamo tutti voi
e voi farete lo stesso, di certo.
Ci farete sesso con la corte, di certo.
O luna dolce di miele
che parole dolci di miele pronuncio
stasera.
O luna dolce di miele
sento che ti verrò a prendere presto
questo mondo-oceano è così crudele
che muta i miei modi,
come i tuoi.
Io son re ma tu no
io canto ma tu non puoi
io bevo e tu brilli
io uccido e tu sei santa.
Io provo invidia per te, o mia luna senza occhi.
Inalo e sniffo polvere di stelle acquee
tutto il giorno
bacio le ninfe acquee
dono pesci ai mondi acquei
e le maree ancora
mi odiano.
Io provo invidia per tutti quanti.
Provo invidia per me
che solo in questo sono più giovane di com’ero
prima.

scene ii
Ricordo i cipressi che disegnavo
con te, mamma
e gli elfi nella foresta.
Adesso ho l’India in testa,
e gli stessi (della foresta)
ridono di me.
Ma adesso ho l’India in testa, mamma
ed un canto lontano
che voglio,
che devo
e che ho bisogno di ascoltare.

Giustiziata.
Giustificata.
Non trovo la mia salvezza
ed ho avuto la mia possibilità di avere Fede
ma né il Suo Sacrificio
né il sacrificio di nessun altro, basterà
mai.
Mamma, Senta sono io.
L’Olandese Volante sono io.

PART IV
scene i
O Ariele, ti canto il sole
ma cerco ancora la notte
ed eri tu
ad avermi promesso una cometa
d’oro.
Allora sarà il mondo
a trovare quel miracolo in me:
una cadaverica Venere,
un fuoco che continuerà
a bruciare
quando tutto attorno sarà
ormai cenere.
O Ariele, ti canto il sole
ma non la voglio nemmeno più
la tua notte
ne ho solo più paura;
che la cometa d’oro non venga vista
che il miracolo smetta di esistere
e che Dio rimanga a dormire
ancora così distante
da me.

scene ii
‘Quel che è fatto è fatto’ è stato detto.
L’immagine che ci è stata data
l’abbiam guardata e riguardata, odiata e mascherata, smascherata
e riconosciuta, come
naturalmente
bella e pura e nostra.
I muri ormai sembran porte di vetro
la mente si abbandona e le apre
vi passiamo attraverso.
A terra siam caduti e lì
rimasti, distesi ora
ne siam parte
ed è famiglia il fango
se l’odore di natura è casa nostra, come la pioggia è domenica.
Il cambiamento non è nemmeno avvenuto
a parte qualche solco in più
l’anima funziona
e vola quanto prima ma è più
labile, piange prima (vero padre?)
e gli occhi sono umide biglie: è il mare
che ci renderà infanti ancora.
Madri di noi tutti,
o mare mio nero
copri il mio vello trasparente e idiota
di pelliccia vistosa e tingi
le mie cortine antiche;
che mi si noti nell’abisso, come mai in superficie fu.
I palazzi volli erigere da giovane
ed ora non li vedo
da qua, nemmeno più.
La statura è diversa e le nubi son più fitte.
Temo che il Nulla
non abbia digiunato questa volta.
In effetti il copione si sapeva
dall’inizio
devo ammettere che lo avrei ucciso
quel drammaturgo maledetto, che mi chiamò a recitare
e recitare e ripetere di fingere e fingere
di ripetere, ancora
e di più e ci morii.
La tragedia aveva questo epilogo dall’inizio,a
chiaro, tutto torna
ma il cielo almeno l’ho strappato
e lo ricordo solamente, come un sogno
chissà se vero.
Mi fischieranno le orecchie, spero.
Mi pruderanno le dita, spero
e mi solleticherete i piedi, spero
coi vostri nuovi palazzi,
ragazzi
vi prego io che accada.
Non lasciatevi tranciare come torte.
Perché per fortuna
non si è qui per esistere, e voi
per fortuna, come me,
mai esisterete.

La Tempesta

Marco Cappa, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva musicale La Tempesta di Shakespeare, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare II:  Il racconto d’inverno e la Tempesta, Letterature comparate B, mod. 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

La riscrittura che vado a presentare è una piccola suite di due movimenti ognuno dei quali incentrati su due personaggi del dramma romanzesco shakespeariano. I due soggetti che ho voluto analizzare sono Ariel e Calibano, entrambi rappresentanti della natura ed entrambi servi o schiavi di Prospero. Ho voluto utilizzare per questi due brani tre strumenti a me non così vicini, ma comunque dal timbro molto caratteristico e a mio parere azzeccato per i due esseri presi da me in considerazione. Il flauto traverso con i suoi acuti e la sua velocità mi è subito sembrato perfetto per Ariel, mentre il fagotto con il suo timbro scuro e cavernoso mi ha fatto pensare a Calibano. A chiudere il triangolo l’oboe che con il suo suono funge quasi da collante tra le sonorità alte e basse dei due strumenti prima citati. Parlando del livello compositivo per quanto riguarda il primo brano, quello dedicato ad Ariel, mi sono voluto concentrare di più sulla sua natura di spirito del vento e sulla sua capacità di mutare forma e diventare invisibile, tenendo anche conto però del suo desiderio di libertà. Il primo tema viene suonato dal flauto per poi essere rafforzato anche dal timbro dell’oboe. In seguito i tre strumenti entrano in un secondo periodo musicale più serio caratterizzato dal ritornello. Superata questa parte il flauto e l’oboe introducono la ripresa dove il fagotto suona il tema principale. Per Calibano invece ho voluto dare più importanza al suo essere un personaggio con delle sfumature poetiche più che alla sua bestialità. Il fagotto, che come già ho detto, è il protagonista del suo brano, esegue una melodia malinconica, con alti e bassi di forza e di frustrazione che però concludono in modo non positivo e disperato. Gli altri due strumenti diventano d’accompagnamento e traghettano il fagotto verso la sua triste fine ripetendo la melodia e spartendosi gli elementi accordali dell’armonia.

Marco Cappa, (Casale Monferrato, classe 2000), si avvicina da piccolo alla musica con il pianoforte, per poi passare al flauto traverso durante le scuole medie. Si innamora sin da subito del basso tuba, strumento grande e possente della famiglia degli ottoni. Dall’estate del 2014 studia la tuba (anche con il Maestro Enrico Montanari) e suona nella banda che lo ha fatto incontrare col suo strumento. Presso il liceo musicale di Novara ha studiato con i Maestri Simone Morellini, Francesco Rossi e Domenico Mazzù; con il Maestro Rino Ghiretti, invece, al Conservatorio statale di Torino, che frequenta ancora oggi. Oltre alla musica si interessa alle arti ed alle loro vie di rappresentazione. Dal 2018 è studente del corso di laurea triennale Culture e Letterature del Mondo Moderno, curriculum Arti e Letterature.

Nata dal mare

Stefania Albanese, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

L’idea di adattare la storia del Pericle shakespeariano a una realtà così vicina ai nostri giorni, come quella dei migranti, nasce dal continuo ascolto di battaglie e norme che coinvolgo vite altrui, su cui la politica europea lavora già da parecchi anni, con corsi e ricorsi, con alti e bassi.

*

Il mare si agitava mentre rifletteva la luce della luna sopra le nostre teste. Già da 4 giorni sedevamo su quel barcone, in attesa che qualcuno ci venisse a salvare. Non era la notte ideale per viaggiare fino all’Italia, e la mia anima non era rilassata. Mi chiedevo quando e se saremmo arrivati, cosa ci avrebbe cambiato la vita, come ci avrebbero accolto, cosa ci avrebbero dato da mangiare dopo una vita di povere diete occasionali, dove ci avrebbero fatto riposare dopo notti insonne.

Sul traghetto dormivano quasi tutti, invece io preferivo guardare le stelle e pensare che loro fossero più fortunate di me: si accendono, vivono a lungo e poi si spengono, non soffrono, non hanno sentimenti, non sono mai sole, non vengono deluse, non devono lavorare per sopravvivere, non hanno responsabilità; il loro compito è solo illuminare l’universo.

Ricordo benissimo il momento in cui notai di non essere l’unico pensieroso durante la traversata: una ragazza dai lunghi capelli neri quanto l’oscurità e gli occhi celesti quanto il cielo a mezzogiorno in estate stava fissando l’acqua scorrere sotto di noi, e lacrime le bagnavano il viso. Riconobbi subito mia moglie: teneva in braccio nostra figlia, Marina, partorita nel Mediterraneo solo due giorni prima.

Taisa non era mai stata d’accordo a partire e lasciare la nostra Siria per cercare fortuna in Europa; avrebbe piuttosto preferito morire in guerra, o essere stuprata probabilmente, ma entro il confine di casa, e questo non gliel’avrei mai permesso, io, Pericle, professore siriano di letteratura costretto, dal desiderio di un futuro migliore, a perdere tutto, compreso l’amore della propria moglie. Casa, parenti, gioielli, lavoro, in cambio della speranza di riottenere tutto ciò, altrove. Quando ci imbarcammo, non sapevamo nemmeno se ci saremmo fermati in Italia o se avremmo proseguito per la Francia o Spagna, ogni posto era indifferente quanto sconosciuto per noi, volevamo soltanto garantire un’adeguata infanzia alla nascitura. Solo su questo eravamo d’accordo.

Già dalla partenza, aveva smesso di parlare con tutti per isolarsi e trovare una sorta di pace interiore; decise di non rivolgermi la parola nemmeno quando diede alla luce quella creatura dalla pelle quasi più scura della nostra e dagli occhi chiari come quelli della madre. Ricordo alla perfezione quel giorno, potevano essere circa le nove di un mercoledì sera: ero usuale contare i tramonti e le albe per non perdere la cognizione del tempo e cercavo di fare lo stesso con il passare delle ore. L’unico gesto, da parte di quella che consideravo l’unica donna che avrei potuto amare più della mia terra natale, fu uno sguardo fuggitivo accompagnato da un sorriso imbevuto di lacrime. Stringeva Marina in segno di totale appartenenza, nonostante sapesse bene che quel dono era stato destinato a me quanto a lei, creato da entrambi, che le fosse piaciuto o no.

Tenendola in braccio, mi accorsi che sembrava un angelo, nata nel momento sbagliato. Le sussurrai solo “mite possa essere la tua vita! Perché più burrascosa nascita mai ebbe bambina; quieta e gentile sia la tua esistenza, perché hai avuto il più rude benvenuto a questo mondo”, e chiusi gli occhi, avvicinando le mie labbra alle sue morbide guance, e la mia Marina subito s’addormentò. La osservavo come se non mi fossi trovato davanti mai altro infante, e pensavo“Hai avuto nascita nel più gran frastuono che fuoco, aria, acqua, terra e cielo potessero fare. Taisa stava riposando, e io potei godermi la mia bambina, in mezzo alle decine di sguardi curiosi e congratulazioni. Tutti erano preoccupati, io in primis, per una nascita durante un simil viaggio, eppure non fummo né i primi, né gli ultimi, a dare alla luce una creatura in un contesto così disperato. Al contrario, potemmo considerarci fortunati, dato che, spesso, si nasce morti oppure si muore subito dopo il parto per il freddo e la mancanza di igiene. No, a Marina non successe nulla di tutto ciò, era forte lei, proprio come il suo papà; era come se fosse stata già preparata ad affrontare e vivere i suoi primi giorni in mezzo a quasi cento uomini e donne, all’aria aperta, su una barca umile e stretta, rinunciando all’affetto materno dopo poco più di 48 ore dalla sua comparsa.

Taisa morì davanti ai miei occhi, esattamente nel momento in cui mi accorsi di lei al vegliar della luna. Girò lo sguardo verso me, sembrava arrabbiata, delusa, e stava frignando; lasciò Marina nelle mani di una donna, Licorida si chiamava se la memoria non m’inganna, sua confidente fin dalla partenza. Era una nutrice, conosceva qualsiasi cosa a proposito di neonati e come crescerli, quindi mia moglie non poteva scegliere individuo migliore, lì sopra, a cui affidare la sua piccola prima di gettarsi in mare, e non uscirne più.

Quando la vidi tuffarsi, fui sconvolto: non era un tuffo professionale, si trattava di un tuffo a peso morto, di fronte all’acqua, senza un minimo di esitazione. Voleva morire, non nuotare nel bel mezzo del Mediterraneo. Accorsi alla soglia del gommone per affacciarmi dal punto in cui era caduta, ma non scorgevo nessuna traccia nelle profondità. Iniziai a urlare e prepararmi per soccorrerla, quando vidi un cadavere risalire in superficie. Era talmente magra e vestita di stracci che galleggiava. Ritenni opportuno buttare un ultimo grido di disperazione, sconfitta, perdita, e lasciare la mia sposa lì dove aveva deciso di morire, senza riportarla a bordo, sarebbe stato tutto inutile. Il mare ha ancora il sapore delle sue lacrime.

Il mezzo che ci trasportava tirava dritto, e pian piano il corpo divenne solo un miraggio. Alcuni passeggeri continuarono a dormire, non comprendendo ciò che fosse accaduto; altri si svegliarono per venire in mio aiuto, futilmente; altri ancora non sapevano che fare o dire e si tennero in disparte; però dagli sguardi di tutti si evinceva pena, compassione e sorpresa verso me e la mia bambina, ancora nelle mani di Licorida, la quale continuava a bagnare le guance di Marina dormiente. Ancora ringrazio Dio per non averle permesso di assistere al suicidio di sua madre. Forse, non avrei voluto assisterci nemmeno io, nonostante sia tuttora ancora convinto che lei stesse aspettando, per farlo, solamente l’attimo in cui io sarei stato a guardarla. Ho sempre interpretato il gesto come un’ultima manifestazione di stanchezza, rabbia, insoddisfazione, delusione, con un pizzico di vendetta nei miei confronti, per averla trascinata attraverso quel destino non richiesto, tradita. Ripresi Marina dalle mani della donna, e le dissi “fin dall’inizio ciò che hai perso è più di quanto potrà ripagare ogni tuo guadagno in questa vita”, promettendole che le avrei fatto trovare la felicità, un giorno.

Il viaggio durò poco più di una settimana, mi sentivo più solo che mai. La mancanza di Taisa si fece sentire fin dall’attimo in cui realizzai di dover invecchiare senza lei accanto. Inoltre, ero l’unico punto di riferimento di mia figlia, e non avevo di certo latte materno da assicurarle per i suoi primi mesi di vita, tanto meno una culla diversa dalle mie braccia, o abbastanza acqua pulita per lavarla. Non nego che tante volte ho pensato di mollare tutto, seguire le orme di mia moglie, però mi bastava rivolgere lo sguardo a quelle manine che mi toccavano, per vergognarmi delle mie fantasie così sbagliate e vigliacche.

Sbarcammo un sabato mattina nel porto di Lampedusa, con il sole coperto da diverse nuvole ammassate sui nostri capi. Mi sentivo esausto ed entusiasta allo stesso tempo, stanco del viaggio ed eccitato per la nuova avventura che ci aspettava. Ma se il buongiorno si vede dal mattino, quella non poteva essere una bella giornata: arrivati nel centro raccolta immigrati, trattati come un gregge di pecore maledette, ci fecero sedere a terra, nell’attesa del numero preciso di stranieri che l’Italia avrebbe potuto accogliere al momento. Ringrazio Marina per avermi aiutato, con i suoi sorrisi, a non scoraggiarmi e perdere la speranza, mai.

L’esito arrivò solo dopo due ore circa: non si trattava di una buona novella. La nostra, a quanto pare, non era l’unica imbarcazione migrante ad essere giunta, in quei giorni, a quel porto; eravamo all’incirca un migliaio di extracomunitari, arrivati da ogni parte d’Africa e Medio Oriente, i quali lottavano e speravano per e in uno tra quei 200 posti disponibili all’interno della penisola. Di conseguenza, le possibilità che io rimanessi in Italia erano davvero minime, considerando che priorità assoluta spettava a donne e bambini. Gli altri sarebbero stati liberi di tornare a casa, oppure risalire nuovamente a bordo delle onde, in direzione di un’altra costa europea.

L’afflizione e perturbazione iniziarono a intasare la mia mente. Una voce, dal fondo della stanza in cui giacevamo, ordinò a tutte le madri, accompagnate da un infante o adolescente, di avvicinarsi alla porta d’uscita, perché sarebbero state smistate nelle varie regioni italiane. Il secondo turno fu quello delle donne senza figli, costrette a separarsi dai propri mariti o compagni. Il terzo non fu di certo il mio. Vidi, di sfuggita, Licorida che si incamminava, mentre alzava la mano per salutarmi; non mi aveva mai abbandonato durante il viaggio, era sempre stata al fianco del mio lutto e del mio cuore divenuto debole.

Tre guardie passeggiavano tra la folla silenziosa, con le mani incrociate dietro la schiena, fissandoci a uno a uno per controllare che nessuna avesse disobbedito pur di rimanere al fianco del proprio uomo. Uno degli agenti mi si fermò di fronte, quasi commovendosi alla scena di un povero padre che stringeva al petto una creatura con una settimana di vita. Non osai degnarlo di sguardo, sapevo già che avrei dovuto dire addio, a quel punto, a Marina. In un inglese comprensibile, mi disse: “Signore, ci deve lasciare suo figlio; in quanto minorenne, ha la precedenza a ricevere cure sanitarie e un’educazione adeguata nel nostro Paese. Ci penseremo noi a lui”. In una lingua altrettanto capibile, alzando la testa, risposi: “Mia figlia è una bambina, si chiama Marina, perché nata in mare, ed è tutto ciò che mi rimane e affido a voi”. Drizzai in piedi per consegnargli il mio unico tesoro e feci appena in tempo a mormorarle nell’orecchio qualcosa come “ora Dio volga a te il suo migliore sguardo”, per vedere l’ufficiale girarsi e dirigersi verso il corridoio che portava all’esterno. Scoppiai nel mio ultimo pianto disperato e rassegnato.

Non potevo permettermi di ribellarmi, controbattere; probabilmente, era quella la scelta giusta per lei. Pochi minuti dopo, lo stesso uomo rientrò nel nostro tugurio per annunciare che solo i 41 più giovani del genere maschile sarebbero stati selezionati. Ricordai di aver festeggiato da poco i miei 39 anni, e di ragazzi tra i 18 e i 38 ne erano presenti molti più di quaranta. Dissi “addio” al sogno italiano. Noi, futuri “uomini d’Europa”, fummo caricati come bestie su vari pulmini, poco più grandi degli scuolabus che ero abituato a veder passare ogni mattina fuori dal viale di casa, prima che iniziasse la guerra siriana, pieno di bambini allegri, rumorosi e spensierati; la differenza è che, a bordo del mio, all’appello, solo adulti sventurati, silenziosi e preoccupati. La direzione? Lo scalo da dove saremmo ripartiti in vista della Spagna, Francia o del Portogallo. Ci divisero in tre gruppi di equa dimensione, prima di farci salire e annunciare quella che fu definita la “nostra prossima patria”. A me, toccò il Paese della paella e di Gaudì.

Ho vissuto vent’anni in Spagna, lavorando come insegnante di lingue mediorientali e traduttore dal siriano all’inglese e spagnolo e viceversa. Una scarsa, ma accettabile, conoscenza della lingua locale mi ha salvato dalla miseria. Decisi di non risposarmi e tanto meno avere rapporti con altre donne; il mio pensiero sempre rivolto a dove stesse mia figlia, il mio sguardo costantemente alto tra le stelle per mia moglie. “Come reagirebbe se la cercassi?”, “Mi potrà mai riconoscere come padre?”, mi domandavo la sera, quando mi coricavo, solo con i miei pensieri. Chissà quante cose avremmo fatto in 20 anni; quante volte l’avrei accompagnata a fare compere, quante volte saremmo andati al cinema, quante volte ci saremmo addormentati insieme, quante volte avremmo passeggiato al mare, quante volte saremmo passati sotto le luminarie natalizie braccio sotto braccio, se non me l’avessero tolta dalle mani. Tutte queste domande hanno portato a un’unica conclusione per il mio cuore tormentato: trovarla. Ed è così che è iniziata la seconda avventura che vi narro e che mi vede coinvolto da un paio di settimane.

Per arrivare in Italia, questa volta, sono riuscito a permettermi un aereo da Madrid, non più un barcone umiliante. Dopo ricerche su ricerche, chiamate su chiamate, di cui non sto qui a descrivervene i dettagli, ho scoperto che Marina vive in Puglia, in un paesino nella provincia di Brindisi, adottata fin dall’età di 1 mese da una famiglia meridionale che non riusciva ad avere figli, con il sogno di crescerne almeno uno. Cosa più importante: all’anagrafe, avevano conservato il nome di Marina, partorita dal mare, comunicato dalla casa-famiglia occupatasi di lei nei suoi primi 30 giorni circa in Italia e dell’adozione. Mi era arrivata anche una sua foto all’età di 10 anni: capelli scuri e occhi azzurri. La commozione era più che scontata vedendo quanto somigliasse a Taisa, nel sorriso, nell’espressione, nella forma delle labbra. Ho subito pensato che non avesse preso nulla dai miei geni, tranne il naso forse, e la cosa peggiore è che non ricorderà, al momento, nemmeno la mia presenza o quella della madre, tantomeno avrà una nostra immagine, né cartacea né mentale.

Mia figlia, sangue del mio sangue, ha il diritto di conoscere la sua storia e il suo vero padre, quello biologico; non ho intenzione di prendere il posto dei genitori che l’hanno cresciuta e amata come fosse stata concepita da loro; voglio solo avere un posto nel suo cuore, nella sua vita, e instaurare un rapporto con lei, farle sapere che io ci sono, esisto.

Mi sento così agitato mentre, seduto sulla panchina di un parco nel suo paesino, penso a quando riuscirò a incontrarla, a quando capirò dove abita. Purtroppo, il suo indirizzo è un’informazione protetta dalla privacy anche per me; ottenere i nomi di battesimo dei due genitori adottivi è stato già un grande aiuto. Singhiozzo, e mi rendo conto di quanto sia inevitabile piagnucolare ogni volta che penso a lei, alla famiglia che avremmo potuto formare, io, Marina e Taisa. Singhiozzo, e ascolto il vento che soffia tra gli alberi che mi circondano, mi perdo nel tramonto che sta per giungere e nei bambini che giocano a calcio a qualche metro da me, quando una palla arriva sotto la panchina dove siedo. Mi piego per prenderla, mi rialzo asciugandomi le lacrime con la manica del cappotto e vedo un bambino di circa 6 anni che mi osserva. Gli sorrido e restituisco la palla, però lui mi chiede perché piango.

Mi rendo conto che sono giorni che non spiccico parola, che non apro bocca, non avendo contatti umani con persone con cui discutere ed esprimersi, da quando mi son messo in ricerca in Italia. Rispondo che piango perché mi manca una bambina bella e gioiosa come lui, strappatami dalle mani tanti anni fa. In lontananza, sento una voce femminile che urla “Giacomo, torna qui e non importunare il signore!”. Ha gli occhiali da sole e un cappello su dei capelli legati. Si tratta di una ragazza alta e snella, la quale si fa spazio tra gli altri bambini per giungere a me e Giacomo.

“Mi scusi, è senza pudore e vergogna”, si giustifica. “Figurati, mi ha fatto piacere avere una conversazione di due battute con lui. Non mi chiedevano perché piangessi da non so quanto tempo…”, le rispondo, guardandola in viso e cercando di scorgere i suoi lineamenti. “E come mai piange?”, domanda, mentre Giacomo torna a giocare senza salutare e la ragazza mi si siede accanto.

“Sto cercando mia figlia naturale da un bel po’, dopo 20 anni di totale assenza costretta”, confido. “E perché ha aspettato così tanto?”; sembra incuriosita.

“Veniamo dalla Siria; nacque durante la traversata per l’Italia, e sua madre si suicidò in mare. Arrivati a destinazione, scoprii che non c’era posto per me in questo Paese, quindi dovetti abbandonarla a chi di dovere e riprendere il viaggio per la Spagna. Nonostante non abbia avuto in mente nient’altro che lei, in questi anni non mi sono mai mosso da casa per cercarla, anche se ho sempre provato ad avere sue notizie. Mai nulla di tanto rilevante da potermi mettere in moto, fino a poco tempo fa, quando ho preso la decisione di avventurarmi in quello che spero sia il successo più grande della mia vita”, riepilogo.

Sono riuscito a strapparle appena un sorriso, che si interrompe per chiedermi come si chiami questa ragazza ora. “Marina”, rispondo. La vedo togliersi occhiali e copricapo, slegarsi i capelli, porgermi la sua carta d’identità. Leggo “Marina” affiancato da un cognome italiano che non riesco nemmeno a pronunciare. La tessera mi cade dalle mani e alzo la testa: ho bisogno di esaminare attentamente il colore dei suoi occhi, la forma delle sue labbra, il suo naso, e tutto ciò che potrebbe portarmi a credere che sto parlando con mia figlia. Tiro fuori dalla tasca la foto di 10 anni addietro e gliela pongo delicatamente sulle mani sudate; è agitata e incredula quanto me. La guarda per un paio di secondi, per poi farmi affondare in un suo abbraccio, il più vero e caloroso mai ricevuto.

“Sono 20 anni che mi chiedo come sia, ora, il mio vero papà e perché non sia ancora venuto a bussare alla porta di casa”. Si ritrae per mostrarmi un’immagine consumata dal portafoglio. A essere ritratta è una scena così dolce, da poter fare il giro del mondo: c’è un tale di colore che tiene in braccio una bambina in fasce e le avvicina le labbra come per parlarle, e di fronte ce n’è un altro, bianco, con cappello e divisa, dritto in piedi a qualche centimetro dai due, mentre pone la mano all’altro uomo, vestito di pantaloni strappati e camicia bagnata, per strappare via la neonata. E poi c’è una seconda fotografia, che mostra una bambina con qualche giorno di vita che piange e strilla in mano a un agente. E ancora un’altra, dove un signore sui quaranta ha la testa bassa e cammina goffo tra altri uomini, tutti abbastanza sporchi e sconsolati; sembrano aver perso tutto, compresa la motivazione per esistere.

Queste immagini, in vent’anni, sono diventate simbolo di immigrazione, di non-accoglienza, di abbandono, di perdita, virali in Italia, e io non lo sapevo. Così come non sapevo che mia figlia sognasse, un giorno, di ritornare a trovarsi tra le braccia del suo primo padre; che condividevamo lo stesso sogno.