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Il racconto ad Alcinòo: l’avventura del Ciclope

Viola Bossolasco, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva l’Odissea omerica, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I/II, Letterature comparate B, mod. 1 e 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

Questo fumetto propone in chiave ironica il libro nono dell’Odissea: Ulisse e i suoi compagni arrivano nell’isola dei ciclopi dove incontrano il buffo Polifemo.

*

Edge

Matilde Penta, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva i quattro drammi romanzeschi di Shakespeare, nell’ottica dei corsi I drammi romanzeschi di Shakespeare I e II: Pericle, Cimbelino, Il racconto d’inverno e la Tempesta, Letterature Comparate B, modd. 1 e 2, prof. ssa Chiara Lombardi.

Sembrava una normale notte estiva, quando il sonno inquieto di William venne spezzato: una voce imperativa, una visita inaspettata, due dame, la luna e il semplice timore del domani.

*

Will… Will…” un brusio confuso e indistinto echeggiava nel buio delle palpebre. William si rigirava nel letto: il sonno irrequieto, la fronte imperlata di sudore, le lenzuola avvinghiate all’esile corpo come serpi, i pugni stretti lungo i fianchi. Will… Will… il pallore lunare tappezzava la stanza, un flebile sospiro s’infilava dalla finestra rimasta socchiusa, le candide tende sventolavano debolmente disegnando forme sinuose come fantasmi. Will… Will… il ticchettio del pendolo sembrava rallentare, il tempo si assopiva.

Fra le mille voci se ne levò una, limpida e imperativa: Will! L’uomo si tirò a sedere sul letto con uno scatto fulmineo. Il petto si sollevava e abbassava a una velocità insolita, gli occhi stropicciati si misero ad indagare l’oscurità, alla intimorita ma curiosa ricerca della fonte del suo brusco risveglio. La stanza sembrava non essere diversa da come l’aveva vista prima di lasciarsi scaldare dall’abbraccio di Morfeo eppure aveva come la sensazione di non essere solo.

“Sono desolata di aver disturbato il vostro sogno, caro” quella stessa voce ora suonava più chiara, calda e vicina.

“Chi è là?” sentenziò Will con la voce ancora spezzata dal sonno, ma inspiegabilmente serena.

“Non lasciate che il canto della notte faccia naufragare la vostra memoria, non mi riconoscete?”

William ancora non era in grado di dire con precisione da dove venisse quella voce, ma non gli era del tutto nuova.

“Se mi concedeste la grazia di mostrarvi a me vi libererei dallo scomodo ufficio di presentarvi” disse spingendosi al fondo del letto. Tentò di fendere le tenebre aguzzando la vista verso il camino, dove il fuoco ormai ridotto a un fioco bagliore rossastro sepolto sotto la cenere illuminava solo le gambe della vecchia poltrona di velluto, ma non solo. Strinse le palpebre e finalmente riuscì a tracciare i contorni di una figura. Sulla poltrona stava comodamente seduta una fanciulla.

Nonostante la sua giovane età, sedeva con la compostezza di una dama, con le mani giunte in grembo e le spalle dritte. Eppure c’era qualcosa di particolare nella sua figura, qualcosa che sembrava darle un’aurea d’impalpabilità.

La ragazza sollevò lo sguardo e lo intrecciò a quello di Will. Un raggio di luna non solo le incorniciò la parte sinistra del volto, ma la attraversò come un dardo.

“Rivelatevi a me, siete forse un fantasma?” domandò senza lasciarsi scomporre dalle parole che aveva appena pronunciato.

“Non temete caro, non sono qui per affidarti alcuna vendetta. Guardatemi con attenzione, piuttosto. Orsù, non mi riconoscete? Eppure è stato il vostro intelletto a darmi questo aspetto”.

William scese dal letto con passo delicato: il legno sconnesso scricchiolò sotto il suo peso. D’un tratto si sentì fastidiosamente pesante. Avvicinandosi prese a scrutare quel volto con chirurgica attenzione: quei lineamenti giovanili, quegli occhi svegli, quel sorriso savio. Capì.

“Mia cara, l’invidiosa notte mi velò gli occhi e vi nascose al mio animo” si sedette sulla poltrona dirimpetto. Si sentiva a disagio così sciupato, con il pigiama stropicciato e i capelli arruffati, dinanzi a quella figura così regalmente composta.

“Non tediatevi, bensì ascoltate le mie parole e prestate attenzione.” la fanciulla sistemò l’unica piega del lungo abito “Lasciare le spiagge di Tarso è un dolore tollerabile finché il sole non ne sfiora i tetti. La ragione che mi spinge sin qui ha un nome e un volto.”

Will si strofinò gli occhi, non perché faticasse a credere a ciò che vedeva, ma per tentare di assumere quel contegno che tanto lo assillava “Qualcuno vuole il mio male? Non ho arrecato torto a nessuno!” tentava di occultare quella scintilla di nervosismo che gli solleticava le spalle.

“Così credete, mio caro.” sorrise, sembrava divertita dall’inquietudine di Will “Ormai sarà alle vostre porte”

“Chi, saggia Marina, chi fa tuonare le mie porte nel cuore della notte? Sciogli il timore che mi attanaglia il cuore, non fare mistero della mia sorte” Will strinse con forza i braccioli della logora e polverosa poltrona, fissò gli occhi sgranati sullo spettro, immersa nel buio solo per metà.

“Una delle tue figlie, delle tue dame, delle tue chimere, stanche di nascere e morire ogni notte per i capricci di altri, viene a pregarti di impugnare il tuo tagliente ferro un’altra volta e di darle una vita nuova.”

La pacatezza di Marina tradiva il senso delle sue parole. Il cuore di William avrebbe dovuto tremare, ma fremeva, impaziente.

D’improvviso un rumore sordo lo fece sobbalzare. Il suo cuore ebbe un sussulto, si voltò di scatto e un tenero sorriso gli increspò le guance.

Una fanciulla, dalla stessa evanescenza pallida di Marina, stava accovacciata con il braccio teso. Raccolse il piccolo volume che le era goffamente sfuggito dalle mani e si alzò. Con la testa ancora china sollevò i lembi dell’abito dai contorni indefiniti rivelando i piccoli piedi scalzi e accennò un composto inchino ai due. Quando alzò lo sguardo su Will, l’uomo provò nei suoi confronti un amore quasi paterno.

“Perdonate, Milord, il tremore dei polsi”. Rimase lì, in piedi nel mezzo della stanza, come attendendo il permesso di Marina. Quando questa le accennò un segno col capo, la fanciulla andò a sedersi ai piedi della sua poltrona. I lunghi capelli legati in una morbida acconciatura e cadevano sulle spalle come onde rubate a quel mare che tanto bene conosceva.

Con il libro stretto fra le piccole e tozze dita, lo guardava con ammirazione, ammaliata e attonita.

“È una gioia vedervi, mia cara Miranda” Will si sporse in avanti, avrebbe voluto stringere quella figura così minuta e dagli occhi scintillanti tra le braccia.

La giovane tentò di nascondere un risolino con la rigida copertina del libro “L’onore è mio, Milord, la più ambiziosa delle mie brame è finalmente reale! Tutte le stelle del cielo sono invidiose dello splendore della vostra penna, poter…” il rapido e incalzante fiume di parole venne arrestato dalla mano di Marina che si posò delicata sulla spalla della ragazza. Marina sollevò lo sguardo sulla fanciulla che sedeva sulla poltrona: avevano pressoché la stessa età, eppure lustri sembravano separarle.

“Avete ragione, tempus fugit e la luce dell’alba già solletica le lacrime di rugiada. Devo sbrigarmi!”.

Esitò, inspirò come a cercare nell’aria la forza di confessare ciò che le opprimeva quel suo cuore di luce.

“Milord” riprese con gli occhi bassi “la vostra mente mi ha dato vita, la vostra arte mi ha condannata.”

Il cuore di Will trasalì. Improvvisamente una sensazione di soffocante colpevolezza lo avvolse. Non aveva ancora concluso neppure il primo atto, come poteva Miranda già detestare il suo destino?

“Nata duchessa, cresciuta selvaggia. Vissuta tra menzogna e solitudine. Figlia di un padre sofferente e tiranno, nelle mie vene scorre il putrido sangue di un vile traditore, lacrime versate per un passato di cui non ho memoria. Indegna sorte mi costrinse su quelle rive. Senza conoscere il mondo e le sue meraviglie, prigioniera delle stesse albe e dei soliti tramonti, quanti segreti. Perché punirmi con un simile destino maligno? Un’esistenza votata a pagare colpe di cui la mia anima mai si macchiò. Sciogliete il mio vincolo, Milord, sganciate le catene che mi ancorano a quell’isola: amorevole madre ma crudele matrigna. Prima che la vostra penna sigli la mia condanna, ve ne prego, riflettete se desiderate vedere il virtuoso cuore della vostra creatura appassire e donare i suoi petali stanchi al suolo che la ha dato vita e morte.”

Quegli occhi eterei imperlati di lucciole e quella bianca voce spezzata dal tremore frantumarono il cuore di Will in mille prismi di quarzo e anche più. Miranda abbandonò il capo al bracciolo della poltrona, come se quelle parole l’avessero affaticata più della tempesta che le aveva turbato il cuore, là sulla riva del suo esilio ameno.

L’autore la guardò con dolcezza. Niente più che una giovinetta, sola davanti all’immensità del futuro, ignoto e spaventoso. Gioventù e ingenuità fanno nascere nel cuore il suo smarrimento. “Non temere” pensò Will “ti darò il più brillante dei domani. Ti libererò dal giogo che ti appesantisce le spalle per donartene uno che ti abbellirà il capo: sarai sapiente regina, rispettabile moglie, amorevole madre, devota figlia.”

Will sapeva, però, di non poterle rivelare la verità. Miranda avrebbe dovuto soffrire e imparare prima di poter godere delle meraviglie che l’autore aveva in serbo per lei. Così diceva il copione e lo spettacolo doveva continuare.

“Fiore innocente, sospiro di purezza, splendida creatura tu temi l’ombra di una nuvola. Non può farti perdere un solo capello: la sua oscurità è intensa ma effimera e fuggevole. Sii paziente, mia Miranda e abbi fede. Il futuro non è chiaro finché non lo si chiama passato. Ricorda al tuo cuore che sappiamo ciò che siamo ma non quello che potremmo essere.”

Sul volto della fanciulla che pendeva da un lato spuntò uno sguardo enigmatico. Non era sicura di aver compreso le parole di Will, ma per qualche ragione quel senso un po’ oscuro placò l’infuriare dei suoi pensieri.

Le prime luci dell’alba cominciavano a dipingere d’oro gli stracci di nuvole cuciti nel cielo ancora assopito. I primi cinguettii spezzarono il silenzio della notte e scossero Will dal torpore in cui era scivolato.

“Mia cara, il giorno si desta, è tempo per noi di tornare alle nostre pagine” disse Marina.

La giovane seduta ai piedi della poltrona inspirò profondamente, come intimorita dall’idea di tornare da dove era venuta, fra quelle righe che sembravano giocare con il suo destino.

“Per il tempo che mi avete concesso, Milord, e per le parole che mi avete rivolto, serberò nel cuore questa notte finché la vostra penna mi darà respiro.”

I primi bagliori squarciarono la penombra della stanza e dipinsero di brillanti virgole d’oro le sue pareti. Le due giovani donne si alzarono, rivolsero un sinuoso inchino al Will incorniciate dai voluminosi abiti. Come un’ombra fugge la luce, così Miranda si sottrasse allo sguardo dell’autore e si dissolse nell’aria densa del mattino.

“So che vi prenderete cura di lei, Will e le darete quel futuro glorioso che già onorò me e le mie sorelle. Il suo esempio sopravvivrà alla morte di mille lune”. Chinò la testa un’ultima volta e, come schiudendo le soglie dell’oscurità, scomparve.

Will si ritrovò di nuovo solo: stanco e stordito. Passò la mano sul velluto intiepidito dal primo sole del mattino e fece scivolare lo sguardo su quelle coperte che poco prima lo avevano fatto sentire prigioniero. Improvvisamente si sentì così simile a Miranda: solo in un domani ignoto.

Le palpebre cominciarono a pesare e nell’istante in cui chiuse gli occhi, un brivido gli scosse la schiena. 

Quando li riaprì si ritrovò nel letto: le campane in lontananza battevano lo scoccare delle tre, la stanza era immersa nel pallore perlaceo della luna, vuota.

Eppure non si sentiva solo: in fondo, siamo fatti della materia di cui son fatti i sogni.

Bibliografia

  • “La tempesta” e “Pericle principe di Tiro” da “William Shakespeare: i drammi romanzeschi”, a cura di Giorgio Melchiori, Milano, Mondadori, 2015

Oh, Dear

Marta Brentan, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva i personaggi shakespeariani di Postumo e Innogene, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Lo scambio epistolare riguarda due giovani sposi, Innogene, figlia del presidente degli Stati Uniti d’America e Postumo, siciliano, portato dalle difficoltà economiche a lasciare la sua patria e cercare fortuna nel Nuovo Mondo. Allontanati, i due innamorati non avranno altro legame che la penna. Fino alla partenza e morte di Innogene.

*

Se la Boemia fosse sul mare

Martina Gnorra, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva i quattro drammi romanzeschi di Shakespeare, nell’ottica dei corsi I drammi romanzeschi di Shakespeare I e II: Pericle, Cimbelino, Il racconto d’inverno e la Tempesta, Letterature Comparate B, modd. 1 e 2, prof. ssa Chiara Lombardi.

Ispirata dall’opera “La Boemia è sul mare” di Ingeborg Bachmann, ho composto questa poesia soffermandomi sugli aspetti e i temi più eloquenti dei quattro drammi romanzeschi di Shakespeare, attualizzandoli e proponendoli come scelte ipotetiche. La composizione si conclude lasciandoci intravedere l’esistenza di un possibile rifugio, di un luogo adeguato a soddisfare le ambizioni e i desideri di chi si è innamorato e di chi si innamora ogni giorno della letteratura e del rapporto che quest’ultima intrattiene con l’uomo. Un luogo magico e utopico come la Boemia sul mare.

*

Se la Boemia fosse sul mare, ci verresti a nuotare?
Se Miranda si fosse innamorata di Calibano, Prospero avrebbe accettato il loro amore?
Se ti avessero privato di tutto come Griselda, il duca Gualtieri lo avresti perdonato?
Se tua madre potesse ritornare in vita, quante statue scolpiresti?
Se la gelosia ti tesse il cuore, riusciresti a resisterle?
Se il vino ti facesse dimenticare il mostro che sei, quanti bicchieri berresti?
Se ti insegnassero a parlare al prezzo della tua libertà, accetteresti di essere muto?
Se una tempesta ti colpisse, ritorneresti in mare?
Se la meraviglia si trasformasse in amore, vorresti essere la mia Miranda?
Se per valere come donna dovessi travestirti da uomo, saresti disposto a farlo?
Se ti descrivessero la mia camera da letto, penseresti che ti abbia tradito?
Se un racconto potesse allietarmi dal dolore, mi racconteresti la storia della tua vita?
Se rinascessi con la primavera e fuori è inverno, saresti in grado di descrivermela?
Se potessi travestirti per un giorno, sceglieresti di essere regina come Perdita o Nessuno
come Ulisse?
Se i sogni attenuassero le passioni, ti sveglieresti?
Se ti volessero solo per il tuo corpo, crederesti ancora di avere un’anima?

Se la Boemia fosse sul mare,
io avrei un posto dove stare
dove chi si sente incompreso,
può liberarsi da ogni peso.
La Boemia è sul mare,
la mia anima è lì ad aspettare
un altro vulnerabile cuore,
un altro ingenuo sognatore.

PISANIO SULLA LUNA

Adele Ziano, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Cymbeline shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Come l’Orlando ariostesco perde il senno a causa dell’amore di Angelica per Medoro, così Postumo diventa folle per l’immaginario tradimento di Imogene con Iachimo. Allo stesso modo, in questo mio racconto, ho voluto comparare il personaggio di Pisanio a quello di Astolfo durante il suo viaggio sulla Luna, passando attraverso la dimensione onirica del sogno.

*

Un messaggero giunge da Roma al palazzo di Cimbelino; con sé reca una lettera destinata alla principessa Imogene, splendida come mattutina stella e giglio d’orto e rosa del giardino. Ella, conosciuto il luogo da cui le viene inviata la missiva, sente il cuore riempirsi di gioia poiché pensa che quelle siano le dolci parole del suo amato sposo. Ma dopo aver letto le prime righe, ecco mutare l’espressione sul suo volto: corrugata la fronte, lo sguardo si fa cupo, le gote rosee si scoloriscono lasciando spazio ad un pallore diffuso e le labbra, un tempo vermiglie, si torcono in una smorfia di dolore. Misera Imogene! quelle parole non suonano soavi bensì, come tanti chiodi, ti feriscono pungendoti il cuore. Ella va cercando in mille modi col pensiero di non credere a ciò che a suo malgrado crede. E subito una lacrima le disegna un rigo lungo il viso esangue. 

«Pisanio! Pisanio! corri da me! sotto i colpi della Fortuna avversa, sento appressarsi la Morte!»

«Eccomi! Cosa succede mia signora?» e il fedele servo di Postumo si precipita appena in tempo perché riesca a sorreggerla.

Imogene non riesce a rispondere alle domande di Pisanio, la voce rotta da dolorosi singulti di pianto; così gli porge la lettera che stringe accartocciata nella mano.

La missiva recita così: 

“Vostra Altezza,

A scrivervi è un modesto soldato, nonché amico del vostro amato Postumo. Il mio nome è Filario e, come saprete, ospito nella mia dimora il vostro gentile sposo dal momento in cui fu esiliato dalle terre di vostro padre.

Vorrei potervi recare liete novelle a riguardo ma, aimè, mi farò portatore di infauste parole. Sembra che egli, da tutti conosciuto per il suo amino grande e virtuoso e che sì saggio è stimato, ora abbia perso il senno. E tutto ciò a causa di una scommessa perduta contro quell’uomo che di nome fa Iachimo, il quale credo che l’abbia vinta a torto. Lo ricordate essere venuto alla vostra corte tempo addietro, con l’intenzione di mettere alla prova, insidiandovi, quella fedeltà ed onore che di voi, spirito eccezionale, il vostro caro sposo assai lodava e che fu appunto motivo del loro patto.

Tornando a Roma, egli ci raccontò di come fosse riuscito nell’impresa, fornendoci una quantità tale di minuzie da rendere veritiera anche la più grande bugia. Da tempo conosco bene Iachimo e potrei dire la stessa cosa del vostro Postumo, nonostante la nostra amicizia sia recente: uno lo muovono l’astuzia e la spregiudicatezza e l’Invidia è al comando del suo cuore; l’altro è un animo puro e le sue parole sono frutto di tanta limpidezza e trasparenza. Ingiustamente, nel duello fra questi due temperamenti, il malvagio ha prevalso sul virtuoso, il cui sentire, già ingenuo di natura, temo fosse reso ancora più incerto da Amore che tutto soggioga e contro il quale è perdente anche colui che vinse tutte le altre cose. Se solo esistesse un modo per rintracciare il suo senno, ovunque si sia perduto, e così restituirglielo! Aimè, colui che per amor è divenuto pazzo furioso noi l’abbiamo perduto entrambi: io come amico e come soldato valoroso e impavido, le cui abilità sarebbero state decisive nel vincere una guerra contro la Britannia di vostro padre, la quale appare ormai imminente; voi, invece, come sposa oltremodo devota. 

Vostro umilissimo,

Filario

                                                                                                                                                             Terminata la lettera, Pisanio sente agitarsi nel petto un turbinio di sentimenti. Ma il suo smarrimento non dura a lungo; ecco che tra lo stupore e il turbamento si fa largo la ragione, imponendosi con il suo rigore. Cerca di rassicurare la bella Imogene e l’accompagna fin sulla soglia della sua camera. «Si riposi mia signora, provi a trovare nel sonno un po’ di requie» e con la promessa di restituirle l’uomo di cui si era innamorata si accomiata. 

Pisanio inizia a camminare su e giù per il palazzo; nel mentre pensa al suo signore, a come il discorso menzognero di Iachimo abbia scaturito in questi un dolore così insormontabile da generare una tale rabbia, un tale furore da far rimanere ogni suo senso offuscato. Gli vengono alla mente immagini terrificanti: accecato dall’ira, la forza di Postumo risulta ora pari a quella di un ciclone o di un terremoto e in questo modo sradica alberi e uccide chiunque gli si pari davanti, uomini o bestie che siano. Figurandoselo in quello stato, vedendolo correre come un ossesso per i boschi, a Pisanio si stringe il cuore dal dispiacere. Era convinto di dover agire per salvare il proprio signore, perché nel profondo è spinto da quei voti di fedeltà e di affetto che a questi lo legano.

Sforza l’ingegno Pisanio e pensa e ripensa a come far rinsavire Postumo e a porre così fine ai suoi dispiaceri, oltre che a quelli della sua bella Imogene. Nel mentre scende la notte e, stremato da tutto questo lavorio della mente, da tutto questo suo vano congetturare, Pisanio si siede, abbandonandosi con un po’ di sconforto. Guardando fuori da una finestra, alza lo sguardo al cielo stellato e fissa gli occhi su quel globo d’acciaio il cui freddo riverbero brilla sulla terra buia. Comincia così a contemplare la Luna che, splendida e silenziosa, sorge ogni sera a rimirare deserti e valli, eterna pellegrina; in questo modo, vinto dalla stanchezza, è abbracciato dal sonno. Ancora il fedele servo non sa che quel suo gran fantasticare sulla Luna lo porterà ad approdarvi sopra. 

Lassù Pisanio rimane meravigliato dalla grandezza del luogo e guardandosi intorno vede che vi sono fiumi, laghi e campagne simili a quelle sulla Terra, ma che tuttavia appaiono diverse. In quel luogo Pisanio si sente un po’ spaesato; sicuramente un’altra presenza umana lo rassicurerebbe, ma per il momento lì vicino non sembra esservene traccia. Anche se, leggermente più in là, verso l’orizzonte, gli pare di vedere un vecchio canuto tutto intento a scrivere chino su se stesso. 

«Mi scusi buon uomo, saprebbe dirmi dove mi trovo?», dice Pisano una volta andatogli vicino, «questa mi pare essere la Terra che io abito ma ora sembra apparirmi diversa…»

«Appunto, perché questa non è la Terra; quella si trova laggiù», e il vecchio indicò verso il basso una piccola palla che Pisanio riuscì a distinguere a malapena strizzando gli occhi; questo perché la Terra, con il mare che la circonda e la chiude proprio come la Luna, non emette luce. 

«Questa invece, caro straniero, è la Luna, nonché il paese dei poeti, di coloro che, servendosi di pochi semplici arnesi, scrivono di cose vedute e non vedute; di cose che sono, che potrebbero e non potrebbero essere; di ciò che è divino e sommo e di ciò che è infimo e triviale; del comico e del tragico. Noi siamo i profeti di una lettera sempre pronta a crescere su se stessa e ad ornarsi dei fiori del sublime.» 

Tra una parola e l’altra, ecco che quei due si ritrovano a passeggiare per i sentieri della Luna; discutendo delle grandi questioni dell’esistenza, il vecchio poeta guida Pisanio per quei luoghi che gli si svelano a poco a poco: lì vi sono altre pianure, altre valli, altre montagne, ognuna con le sue città e castelli, con case così grandi mai vedute prima d’ora da Pisanio. Così giungono all’ingresso di un vallone stretto tra due montagne.

«Qui dentro si raccoglie ciò che si smarrisce sulla Terra o per colpa degli uomini, o a causa del tempo o della Fortuna», dice il poeta; infatti il servo vi trova le lacrime e i sospiri degli amanti, il tempo che si butta via inutilmente nel gioco d’azzardo, il lungo ozio di uomini ignoranti, disegni vani che non si sono concretizzati mai e anche alcuni suoi fatti e giorni che aveva perduto. Arriva poi ad un mucchio più alto delle altre cose descritte; in esso vi sono numerose ampolle, quali più, quali meno capienti, tutte etichettate e contenenti un liquido poco denso e fluido, rapido a esalare se non si tiene ben chiuso.

«Questo che tu vedi è quella cosa che voi terrestri pensate di avere in abbondanza, ovvero il senno. Alcuni lo perdono in amore, altri nel ricercare gli onori, altri cercando le ricchezze per mare; altri nelle speranze dei signori, altri dietro alle sciocchezze della magia; altri in gemme, altri nelle opere dei pittori, ed altri in altre cose che apprezzano più di altro. La pazzia invece qui non è né poca né molta, poiché essa sta sulla Terra e non se ne allontana mai.»

A quel punto Pisanio, colto da una straordinaria intuizione, si ridesta di colpo dal suo sogno. «La Luna! la Luna! Lassù dovrò volare per recuperare il senno del mio signore!» Detto ciò, sentendosi rinvigorito nel corpo e nella mente, balza in piedi con uno scatto e prende a correre verso la camera della bella Imogene. 

Chissà se sulla Luna avrebbe trovato anche il suo di senno. 

Bibliografia:

W. Shakespeare, Cimbelino, Garzanti, 2015

L. Ariosto, Orlando Furioso, Feltrinelli, 2016

I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, Mondadori, 2016