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Il dono di Marina

Alice Moretto, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod.1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Accettare la verità quando da essa si vorrebbe fuggire, imparare a guardare il mondo da una diversa prospettiva. Queste le più grandi sfide che l’instancabile Pericle, alla fine, deve superare.

*

Con le mani appoggiate sul legno freddo e duro della poppa della mia nave, scrutavo l’orizzonte ancora scuro, si scorgeva solo una tenue luce, che indicava l’alba imminente. Chiusi gli occhi e inspirai a fondo, nel tentativo di calmare il tremolio che sentivo nel petto. A poche ore da quel momento avrei finalmente potuto conoscere mia figlia Marina, affidata ai fedeli Cleone e Dionisa, sovrani di Tarso, tanto tempo addietro.
Mi abbandonai ai pensieri e iniziai a ricordare la notte in cui nacque Marina.
Io e la mia amata moglie Taisa, figlia di Re Simonide, ci eravamo da poco imbarcati in direzione della mia terra madre, Tiro, poiché io dovevo tornare a ricoprire la mia carica di sovrano dopo un lungo periodo di assenza.
La tempesta ci investì senza preavviso e senza pietà, il vento e la pioggia sferzavano la nave e i marinai con la forza di fruste e rasoi, e il cielo tuonava con rabbia inaudita.
Quella notte la furia degli Dei sembrava provocata da un dolore intimo e profondo. A causa di questa furia la mia dolce Taisa, già incinta, entrò in travaglio e diede alla luce una bambina, chiamata Marina poiché nata tra le onde del mare.
La gioia più grande fu accompagnata dal più grande dolore: Taisa morì dopo il parto. Sollecitato dai miei marinai, fui costretto ad abbandonare il suo corpo al mare.
Il peso della vita mi crollò addosso come un forte macigno che ruzzola giù dal fianco di una montagna. Le poche forze che mi erano rimaste le ricavavo dal viso sereno della mia dolce, piccola Marina. Mentre la guardavo, ricordai una vecchia leggenda che circolava tra gli uomini di mare. La leggenda recitava che i nati sotto il segno della tempesta e delle grandi onde, sono portatori di male in questo mondo, poiché nascono dall’ira e dalla paura. Sorrisi ricordando le parole dei marinai e continuai a guardare il viso della piccola, convinto che una creatura così pura non potesse portare che bontà e amore.
Quando la tempesta si placò, fui costretto a lasciare la mia amata figlia ancora in fasce a Tarso, per paura delle conseguenze di una traversata in mare tanto lunga.

Ridestandomi dal torpore dei ricordi lontani, che mi avevano gelato il cuore in un dolore ormai tanto famigliare, scorsi il profilo della terra di Tarso e il mio cuore iniziò nuovamente a tremare al pensiero di essere tanto vicino alla mia Marina.

L’accoglienza di Dionisa e Cleone fu diversa da ciò che mi aspettavo. Nei loro occhi c’era una luce differente da quella che ricordavo, ma, preso dai miei sentimenti, non me ne curai.
Quando chiesi loro di condurmi da Marina, il loro volto mutò. Si fece duro, addolorato e arrabbiato al tempo stesso. Iniziai a provare emozioni confuse.
Mi condussero in una bella sala del loro palazzo, adibita ad accogliere ospiti e intrattenere conversazioni. I sovrani di Tarso mi fecero accomodare, poi si accomodarono di fronte a me.
Trovai il loro comportamento bizzarro, non mi spiegavo perché dover intrattenere una conversazione prima ancora di farmi vedere mia figlia, ne avremmo avuto l’occasione a tempo debito.
Non appena Dionisa iniziò a parlare, iniziai a capire i motivi del loro strano comportamento dal momento del mio arrivo. “Pericle,” mi disse, “Marina non è qui.” Un dolore lancinante mi pervase il petto. Cleone colse i segni della mia agitazione e mi interruppe prima che potessi dire qualsiasi cosa: “Pericle, la storia che sto per raccontarti non ti aggraderà, ti chiedo però di credermi perché non c’è menzogna nelle mie parole né cattiveria nelle mie intenzioni. Io e mia moglie Dionisa abbiamo cresciuto Marina come si conviene a una principessa, educandola alla pari della nostra dolce figliola nelle arti e nelle buone maniere. Per tanti anni l’abbiamo ritenuta una bambina gentile, affettuosa e sincera. Abbiamo faticato e tardato a vedere la verità anche di fronte all’evidenza. Durante gli anni sono accaduti episodi insoliti a palazzo. Abbiamo recluso e allontanato molti servi, poiché abbiamo sempre creduto alle parole di Marina che li accusava di piccoli furti o ingiustizie. Abbiamo creduto alle parole di Marina persino quando ha accusato la sua povera nutrice, Licorida,” Cleone si interruppe, la voce spezzata dall’emozione, poi riprese a parlare. “oh, povera Licorida, che destino infausto le hanno riservato gli Dei, giustiziata per un atto da lei mai commesso!” Cleone interruppe nuovamente il racconto, il senso di colpa che gli attanagliava lo sguardo. Si passò una mano sul volto e riprese: “come dicevo, abbiamo creduto a tua figlia Marina anche nel momento in cui ha accusato Licorida di un atto così increscioso che non riesco a farne parola. Licorida ha perso la vita a causa delle parole di Marina.” Una sensazione di calore iniziò a farsi largo nel mio stomaco, mi imposi di stare calmo e dissi, tagliando le parole tra i denti: “state dando della bugiarda a Marina, figlia di Taisa da Pentapoli e Pericle da Tiro?” mi resi conto di essermi alzato in piedi solamente quando Dionisa mi chiese di sedermi. “per favore, grande Pericle,” mi disse, “ascolta ciò che dobbiamo dirti.” Mi sedetti, dopodiché Cleone riprese a parlare: “la prima ad accorgersi che Marina spesso proferiva il falso è stata la nostra dolce figlia, che è stata punita severamente, poiché io e mia moglie abbiamo per lungo tempo creduto che fosse vittima di gelosia nei confronti delle meravigliose doti di Marina. Marina infatti, sa cucire molto bene e sa cantare, ma la sua più grande dote è quella di raccontare storie. Le racconta così bene da ipnotizzare gli ascoltatori, facendoli allontanare dalla realtà. Da quando ha iniziato a parlare abbiamo creduto che avesse il dono della Parola. Ci siamo accorti troppo tardi, purtroppo, che utilizza questo grande dono in segno del male, per esaudire i suoi capricci e i suoi desideri, manipolando la realtà al fine di raggiungere i suoi scopi.”
Quando Cleone smise di parlare, sentivo la rabbia che mi esplodeva da ogni parte del corpo. Dal petto, dalla pancia, dalla bocca e persino dalle dita. “Esigo sapere dove si trova mia figlia, vili bugiardi!” esplosi, ero nuovamente scattato in piedi, i pugni stretti lungo i fianchi e la mascella serrata. Dionisa si ritrasse sulla sedia, spaventata dalla mia reazione. Cleone al contrario si alzò e guardandomi negli occhi, come se volesse farmi capire che non aveva paura della mia ira, ripose: “Nel momento in cui abbiamo appreso la sua natura, abbiamo deciso di tenerla in prigione fino al momento in cui saresti arrivato. Marina è allora scappata, corrompendo un gruppo di pirati e imbarcandosi con loro. Stando alle ultime notizie che ci sono giunte si trova ora a Mitilene.”
Di ciò che feci dopo l’incontro con Cleone e Dionisa mi rimangono solamente ricordi confusi. Ricordo però chiaramente ciò che provai: rabbia, per non aver trovato mia figlia dalle persone a cui avevo affidato la sua vita. Rabbia, nei confronti dei sovrani di Tarso di cui mi fidavo e che mi avevano tradito e proferito menzogne.
Cercavo di scacciare il pensiero di quella vecchia leggenda di marinai che mi raccontarono tempo addietro e mi concentrai sul ricordo sbiadito del dolce viso di Marina.

Mi diressi verso Mitilene senza esitare, risoluto più che mai a ritrovare mia figlia. Durante il viaggio da Tarso a Mitilene la rabbia lasciò spazio al dolore e alla delusione, le speranze di trovare la mia bambina perduta erano poche e io sentivo il peso della solitudine.
Il dolore era così incombente che mi rifugiai dentro me stesso, smettendo di parlare e chiudendo qualsiasi tipo di comunicazione. Mi curavo così poco di tutto ciò che non fosse la mia sofferenza che mi vestii di un saio e mi lasciai crescere barba e capelli.

Arrivato a Mitilene incontrai il suo governatore, Lisimaco, a cui chiesi se conoscesse una giovane donna di nome Marina, arrivata da qualche tempo in città. Egli mi indirizzò presso un bordello, di cui, diceva, la padrona portava il nome di Marina. Stentavo a credere che una creatura pura come ero convinto potesse essere mia figlia avesse un simile ruolo, ma essendo quella l’unica fievole speranza che avevo mi diressi verso quel posto accompagnato dal gentile Lisimaco.
Nel momento esatto in cui vidi per la prima volta la giovane donna non ebbi alcun dubbio: era Marina. Mia figlia aveva le sembianze di sua madre Taisa alla sua età. La sofferenza provata fino a quel momento mi abbandonò, sostituita da gioia e gratitudine. Ricordo che mi tremavano le mani e mi si inumidirono gli occhi, un sorriso genuino mi pervase il volto.
Mi presi qualche momento per osservarla. Aveva gli stessi occhi azzurri della madre, gli stessi capelli corvini, le stesse mani eleganti e affusolate. Eppure qualcosa in lei era completamente diverso. I suoi occhi erano vitrei, non caldi e profondi come quelli della madre. L’espressione enigmatica ricordava una maschera che non lasciava trasparire l’orizzonte dei suoi pensieri.
“Oh, caro Lisimaco, quale piacere!” esclamò la ragazza quando vide il governatore, illuminandosi in un sorriso sorpreso. Si rivolgeva a lui come una donna innamorata, eppure non si scorgeva passione nel suo sguardo.
Lisimaco le rispose in tono cordiale e mi introdusse a lei. Marina mi guardò, studiò il mio volto stanco e il mio umile saio, come per calcolare quanto denaro avrei potuto fruttare alla sua attività. Mi parlò  in fretta, senza calore, menzionando qualcosa su qualcuna delle sue ragazze, prima di rivolgere nuovamente la sua attenzione a Lisimaco.
“Marina..” dissi, la voce ridotta a un sussurro. “Marina.. mia figlia. Ti ho trovata.”
Marina mi guardò, fissò il suo sguardo duro nei miei occhi, sospirò e scoppiò in una risata amara. “pensa che ironia” disse, “mi è stato raccontato tutta la vita che mio padre era un sovrano! Il grande principe di Tiro! E adesso un vecchio straccione viene a reclamarmi come figlia sua! Non credo che tu sia mio padre, anche se lo fossi, non ti riconoscerei come tale.”
Le sue parole furono taglienti quanto lame, più difficili da ascoltare della notizia della morte della mia amata.
“Marina, io mi chiamo Pericle, sono principe di Tiro. Sei stata partorita nel ventre del Mediterraneo, tra l’impetuosità di una tempesta. Durante la stessa tempesta tua madre ha perso la vita. Ti ho dovuta affidare ai sovrani di Tarso poiché eri ancora un’infante e non avresti avuto possibilità di superare un viaggio per mare.” Queste le uniche parole che riuscii a pronunciare, avvilito.
“Oh, padre! Padre! Quanto tempo ho aspettato questo momento, tutta la vita ho sperato di potermi rifugiare tra le tue braccia forti. Tante volte mi sono fatta raccontare dalla mia dolce nutrice Licordia la storia della notte in cui nacqui. Oh padre!” Marina si accasciò ai miei piedi, le mani a coprire il suo volto.
Le sue parole insinuarono dentro di me il seme del dubbio. La giovane donna aveva cambiato idea riconoscendomi come padre non appena avuta la conferma di essere figlia di un sovrano. Aveva inoltre nominato la nutrice, definendola dolce, eppure io conoscevo la storia della sua fine. Le parole di Cleone e Dionisa mi tornarono nitide in mente e decisi di chiedere a Marina come fosse arrivata a Militene.
“Oh, padre,” disse Marina “sapessi come mi trattavano a Tarso! Dionisa e suo marito Cleone hanno cercato di uccidermi, essendo la donna invidiosa delle mie innumerevoli doti. Fortunatamente, riuscii a scappare prima che ciò accadesse.”
Nel mio cuore era subentrata la conferma più dolorosa. Mi resi conto che Marina era figlia della tempesta e come tale era venuta al mondo per recare dolore e frustrazione. Utilizzava il suo dono prestigioso per ottenere un tornaconto personale, senza mai pensare al bene del prossimo. Era molto abile e avrebbe ingannato e raggirato tante anime nella sua vita, ma agli occhi di suo padre, il suo intento appariva cristallino.
“Marina, io ti conosco. Della tua buona madre e del tuo saggio padre non hai ereditato nulla, sei figlia della tempesta e come tale porti dentro l’avidità e la crudeltà del mare arrabbiato. Io qui ti saluto e con immenso rammarico ti volto le spalle.” Furono le parole più dolorose della mia vita, eppure le pronunciai con la consapevolezza della verità sulle spalle.
Tornai alla mia imbarcazione, pronto a salpare e lasciarmi per sempre alle spalle Mitilene e la tanto ricercata Marina.
Marina mi seguì fino al porto, a tratti implorandomi a tratti maledicendomi. Sapevo in cuor mio che aveva visto in me la possibilità di avere una vita più ricca e dignitosa, non aveva riconosciuto un padre. Salii sulla nave addolorato e deluso, ma convinto della mia posizione.

La ragazza continuò a correre anche nel momento il cui la nave fu salpata. Continuò a correre persino quando non c’era più terra sotto i suoi piedi e cadde, inghiottita dal blu del mare.
Fu l’ultima volta che vidi Marina, figlia mia quanto figlia della tempesta. In quel momento capii che non poteva essere in alcun altro modo, lei era tornata al suo elemento e non avrebbe più potuto ferire nessuno.

Volsi gli occhi all’orizzonte, più stanco e addolorato di quanto non fossi mai stato.
In quel momento ancora non sapevo che il mio viaggio mi avrebbe portato al tempio di Diana, dove avrei ritrovato il dono più prezioso: l’amore di Taisa.



Bibliografia:
William Shakespeare, Pricle, Principe di Tiro, Milano, Bompiani, 2019

Rami di quercia

Barbara Bo, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva i quattro drammi romanzeschi di Shakespeare, nell’ottica dei corsi I drammi romanzeschi di Shakespeare I e II: Pericle, Cimbelino, Il racconto d’inverno e La tempesta, Letterature Comparate B, modd. 1 e 2, prof.ssa Chiara Lombardi.   

Innogene, Guiderio, Arvirago, Antonio e Sebastiano si trovano in un giardino immaginario e simbolico, di carattere onirico, dove sono portati a riflettere sul rapporto fraterno dalla visione di due bambini.

*

Una rondine scendeva planando dolcemente verso il prato illuminato dal sole. All’ombra di una grossa quercia due bambini si riposavano appoggiati alle radici come tra le braccia affettuose di una madre; parole gentili sussurrate attraverso le foglie risvegliavano le risa dei bambini. Innogene si avvicinò attirata dal campanellio lieve ma, più gli andava incontro, più l’albero risultava lontano, irraggiungibile; si voltò verso i fratelli: “Guiderio! Arvirago! Venite a vedere!”.

Mentre i due giovani si avvicinavano il suono si insinuò dentro di loro dove trovò il ricordo di sé stesso e riportò alla mente un tremore incontrollato e la richiesta esigente di un sospiro. Sorridendo, Guiderio affermò: “Sono fratelli! Se anche non avessero gli stessi capelli del colore del grano, se anche nei loro occhi non ci fosse memoria del medesimo bacio materno e dello stesso sorriso paterno, si riconoscerebbe comunque che quelle risa nascono dalla necessità di tutti i fratelli di volersi bene, tanto che paia non conoscano nient’altro.”

“Forse uno dei due ride, sì, ma solo per nascondere le sue vere intenzioni” interruppe un uomo, detto Antonio, avvicinatosi, il capo chino, in volto un’espressione priva di tenerezza. “Non c’è nulla di più facile che ingannare un fratello che vive per dare fiducia: se mio fratello fosse disteso accanto a me sotto quell’albero, con ogni sorriso luminoso io tramerei un piano brillante, e, con l’ausilio del caso, arriverebbe il momento in cui il suo affetto diverrebbe il mio guadagno, e il mio inganno il suo difetto.”

Quelle gelide parole provocarono in Innogene un’emozione tale da farla tremare: “O crudele straniero! Come si può leggere sulle labbra di quell’angelo, che ora sta lì, correndo felice dietro al fratellino più piccolo, una simile oscurità d’animo? Il fanciullino non scappa per terrore, affatto, scappa per un gioco che gli insegna a vedere la differenza fra compagno e nemico.”

Un secondo uomo si avvicinò ad Antonio, ridendo alle parole della ragazza: “Compagno tu dici? A me sembra che la corsa intrapresa da quel bimbo non sia diversa da quella che intraprende un condannato a morte di fronte al boia. Fratello può essere anche colui che ti ispira ribrezzo: non si combatte con lui per primo per l’affetto dei genitori? Io, Sebastiano, non esiterei a uccidere mio fratello per il potere, e così potrebbe fare quel pargoletto in futuro. Certo, ora corre e gioisce, ma le risa svaniscono quando devono affrontare il passare del tempo come un disegno sulla sabbia al vento”.

Arvirago rispose infervorato: “Cosa significa potere? Potente è la malattia che consuma il corpo, potente è la tempesta che distrugge la foresta. Ma entrambe hanno fine, sono contingenti, sono destinate alla sconfitta. Il legame fraterno, invece, non può terminare, esso è, per sua stessa natura, punto di partenza assoluto perché nasce con il primo respiro di una persona ed è quindi indissolubilmente legato alla vita.”

Le parole di Arvirago furono interrotte da un leggero tonfo e dal pianto cristallino di uno dei due bimbi che, dopo essere caduto a terra, si abbracciava il ginocchio offeso, singhiozzando dolcemente. Il fratello gli corse incontro e gli si sedette vicino: agli angoli degli occhi gli luccicavano delle lacrime che minacciavano di cadere, ma gli angoli della bocca erano rivolti verso l’alto in un sorriso di conforto.

Innogene rispose guardando la quercia perché la vista dei suoi interlocutori non reggeva il confronto con la tenerezza dell’abbraccio sotto la quercia: “Non si può fingere quel dispiacere. Un ginocchio sbucciato significa sia un graffio nella carne sia uno strattone per chi, come quel bambino che ora stringe e cerca di consolare il fratellino, sente nel sangue il dovere di proteggere più forte di qualunque altro istinto. È un obbligo che proviene da una promessa fra una madre e la natura: ella con il dolore del parto si assicura che il suo bambino sarà nel mondo amato da qualcuno e in cambio la natura lascia la stessa impronta sui figli dello stesso seno.” Si girò verso Arvirago e Guiderio. “Per questo un fratello è capace di riconoscerne un altro senza il bisogno di alcuna prova: sotto la pelle io riconosco questi miei fratelli al di là di ogni travestimento, tant’è che se dovessi scordare i loro nomi, identificherei il loro dolore come mio.”

I tre si scambiarono a loro volta un abbraccio, ignorando gli altri due uomini che li fissavano con aria sprezzante. Sebastiano disse quasi ridendo: “Non sono figlio unico, ma l’unica persona che sento di dover proteggere sono io. Si nasce soli, e così si vive: non vi è nessuna somiglianza fra gli uomini, siamo tutti stranieri che viaggiano nel mondo, e se pensate che vi siano dei legami intrinsechi che permangono al di sopra di tutto, siete degli illusi che cercano di trovare una goccia di acqua dolce nel mare”.

Innogene, le cui convinzioni non erano affatto messe in dubbio da quelle parole ostili, rispose tranquilla: “Se tu avessi ragione, e i sentimenti fra quei due bambini fossero un’illusione, perché mai adesso uno starebbe cercando di consolare l’altro come se la sua vita dipendesse da questo? Con i sorrisi, con le smorfie volte a provocare il riso? E guarda come si prepara a raccontare una storia che potrà sicuramente distrarre dal dolore e risollevare l’umore! E ascolta come, non sentendo di aver fatto abbastanza decide di cantare questa filastrocca che ora non può far altro che scaldare anche il tuo cuore gelido!”

La voce angelica del fanciullo li avvolse, accompagnata dal vento che frusciava attraverso le foglie; il racconto cavalcava il vento e riempiva di meraviglia i presenti. Il bimbo cantava di due rami che, provenendo dallo stesso albero si misero a giocare e giocando crebbero grandi e forti, fino a staccarsi per girare il mondo. Il bambino tornò a ridere, complice la memoria labile propria della sua età, e intraprese un nuovo gioco con il fratello.

Antonio non riuscì ad accogliere il sentimento lieto che li circondava, forse perché risvegliava una mancanza dentro di sé. Invece che sorridere, si mostrò irritato e ancora sostenne: “Si potesse rappresentare meglio l’illusione rispetto a ciò che è davanti ai miei occhi! Canzoni, affetti, giochi, favole… Tutti esempi di ciò che gli sciocchi credono sia importante quando sono troppo deboli per inseguire il potere e controllare chi è così sciocco da non farlo. Chi pensa solo a sé, lasciandosi alle spalle anche i vincoli familiari, vedrà che niente di buono vale la pena di essere condiviso, se non per necessità o convenienza!” Fece allora un cenno a Sebastiano che annuiva concorde.

Innogene, che aveva perso nuovamente il sorriso, parlò in un impeto di compassione: “Il mio cuore piange per voi che non avete mai amato un fratello! Il fato non vi ha mai mostrato il vostro difetto? O forse, non potete capire per stoltezza di cuore o di mente? O forse ancora il vostro animo non è abbastanza nobile da conoscere un così nobile amore, e di questo mi dispiaccio e prego che possa cambiare.” Arvirago si mosse verso la sorella: “Innogene cara, non sprecare il tuo pianto per questi uomini che non riuscirebbero a riconoscere la verità neanche se fosse una montagna sul loro cammino, vieni, calmati. In quanto a voi, penso che mia sorella abbia ragione: il più umile degli schiavi giudica suo fratello come il più prezioso dei tesori se il suo animo è abbastanza virtuoso da consentirglielo. Voi, al contrario, siete consumati dall’egoismo e nulla potrà mai cambiare la vostra opinione. Forse un giorno incontrerete i vostri fratelli, e doverli affrontare vi costringerà a testimoniare le vostre vite corrotte dall’odio, più che inebriate dall’affetto. Arrivederci.” Così dicendo i due fratelli si voltarono e iniziarono a camminare.

Innogene, però, ebbe un ultimo atto di esitazione, si fermò e tornò sui suoi passi per dare un abbraccio ad Antonio e Sebastiano: “Vi regalo questo abbraccio in quanto nel mio cuore risuona la speranza che come un bosco, che in autunno cambia il suo colore, anche voi possiate un giorno cambiare. A presto.” Si ricongiunse quindi ai due uomini poco lontani, andandosene con loro.

I bambini si erano infine addormentati, le loro gambe intrecciate come radici della quercia che li ricopriva con
le sue foglie.

Bibliografia
W. Shakespeare, Cimbelino, in Id., Tutte le opere. IV – Tragicommedie, drammi romanzeschi, sonetti, poemi, poesie occasionali, a cura di F. Marenco, Milano, Bompiani, 2019.

W. Shakespeare, La tempesta, ibidem.

Ulysses-Pericles

Linda Dellacroce, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Pericle è naufragato a Pentapoli e nella desolazione della sua condizione un flusso di coscienza (sul modello dello stream of consciousness joyciano) lo porta a rivivere le scene terribili della notte passata. Sopraggiungono tre pescatori che lo informano dell’esistenza della corte del re Simonide e del torneo indetto per scegliere lo sposo della figlia; improvvisamente trovano impigliata nelle loro reti l’armatura che il padre di Pericle gli aveva lasciato in eredità prima di morire. 

*

Whooosh. Whiiiish. Giù e su giù e su poppa prua poppa prua, whoooshh. Il vento era proprio forte. Avrei potuto cadere da un momento all’altro e via di nuovo con un’altra onda, whooooshh. E c’erano anche delle altre persone con me, dove sono finiti tutti? Due persone. No, quanti erano? Forse tre. No due, ne vedo due, boh non so non so dove sono.

Pelliccia, Pezzalculo, hanno poi dei nomi strani, mamma mia che onde alte che c’erano. Le stelle non si vedevano più. Da piccolo mi piaceva guardare le stelle, cercavo sempre Orione. Che poi davvero sarà stata una cintura? La mia cintura se l’è mangiata la focena. Ah magari loro la trovano la focena, hanno una rete bella grossa, ma poi cosa me ne frega a me per me posso anche morire tanto a Tarso mica ci arrivo più, però sento delle voci boh avrò le allucinazioni whooosh whiiiiish whoooosh non ci sento più c’era troppo rumore con quelle onde.

Cos’è che dicono? Che le balene stanno sulla terraferma? Si mangiano le parrocchie? Io non me le mangerei le parrocchie devono essere indigeste con tutti quei mattoni e quei libri e quegli organi però gli organi hanno proprio un bel suono, ci assomiglia un po’ alle onde, erano assordanti come l’organo. Se voglio starmene qua devo pure trovarmi qualcosa da fare sto a sentire questi che dicono che mi sembra divertente stanno mettendo insieme i sacrestani con i pesci però anche di pesci stanotte mi sembrava di vederne tanti, in tutto quel whiiiish whoooosh, la focena che mi ha mangiato la cintura no però di balene manco sembravano pesci fatti d’acqua o era l’acqua sulla prua o era il mare sulla poppa o ero io dentro il mare? Non so adesso dicono dindondan come fanno le campane, e Simonide. Simone? No no ho sentito bene, boh chissà sarà il nome di un pesce. Mi sembra gente che di pesci ne ha visti tanti chissà quanti ne pescano in quelle reti, però io Simonide un pesce ecco io non lo chiamerei mai, tanto non ci puoi neanche parlare col pesce che senso ha dargli il nome.

Non ho ancora capito se parlano a metafore o cosa, cos’era già la metafora? Ah sì giusto, i capelli di grano, il mare di pece, che poi di solito mica è vero il mare non è così però ieri sera whiiiish whoooosh sembrava una metafora adatta. Questi qui poi Pelliccia Pezzalculo come si chiamano stanno dicendo cose sensate vedono solo i pesci tutto il giorno però c’hanno poi ragione che le balene sono anche sulla terra. Ma quasi quasi gli parlo tanto cosa mi cambia per stare qui a crepare solo posso crepare di fianco a loro magari mi buttano in mare insieme ai pesci così poi faccio whiiiish whooosh insieme alle onde e vado a riprendere la cintura.

Cos’è? Il mare è ubriaco? Sì può anche darsi visto che mi ha vomitato qui. Non sarò stato facile da digerire, mi è successa una volta la stessa cosa però avevo mangiato anche trenta pasticcini che buoni che erano ce n’era uno che me lo ricordo come fosse ieri aveva tutto quello che poteva esserci su un pasticcino era proprio un pasticcino al quadrato al cubo il pasticcino dell’Iperuranio dei pasticcini ne vorrei proprio uno adesso non so da quanto non mangio ho freddo ho fame aiutatemi.

Grazie del mantello è proprio caldo adesso sto già meglio cos’è? carne pesce sanguinaccio frittelle? Sono ospitali davvero tanto questi Pelliccia Pezzalculo e l’altro che non ha un nome ah forse è lui quello con il pesce che si chiama Simonide. Tornano in mare con le reti ma chissà che sperano di pigliare che il mare si è già mangiato tutto lui stanotte e ha vomitato gli scarti però questo qui adesso si è messo a chiamare il suo pesce ah no forse no, cos’è? Persepoli? Costantinopoli? Ah no Pentapoli. E il pesce che c’entra? Ah no è un re ora torna tutto ecco perché mi sembrava proprio strano che fosse il nome di un pesce bel nome Simonide anch’io mi chiamerei così se fossi un re. Simonide di Pentapoli e io sono Pericle di niente perché il mio regno chissà dov’è chissà se c’è ancora sarà sparito pure lui sotto tutto quel whiiiish whoooosh meglio per me che mi faccio amici sti pigliapesci che almeno loro sanno pescare sennò qua mi resta solo da mangiare la sabbia. Però ecco una visita a Simonide potrei anche farla quanto ci si mette a piedi? Mezza giornata? Deve essere poi grande sto regno per l’amor di Dio a me sembra una spiaggia senza nessuno invece ecco c’è pure un re sono stato fortunato nella sfortuna come si dice la speranza è l’ultima a morire. Cosa dice? Un’amabile figlia? Allora la forza nelle gambe posso pure trovarla per vedere la bella principessa sarà poi bella davvero ma sì tutte le principesse sono belle e faccio pure il torneo e la sposo così ritorno ad essere Pericle di qualcosa Pericle di Pentapoli mica male c’è pure l’allitterazione spero che lei si chiami Penelope così facciamo proprio una coppia perfetta sarebbe un nome perfetto Penelope come quella di Ulisse, così io sono Ulisse e lei Penelope e anche Ulisse ora che ci penso aveva viaggiato per mare ed era naufragato due tre volte anche di più boh chi si ricorda però alla fine a casa ci era tornato e Penelope c’era ancora magari vuoi vedere che non muoio? Speriamo proprio si chiami Penelope sennò non importa io nemmeno mi chiamo Ulisse ma sono Ulisse lo stesso. Oh ma quelli hanno preso un pesce bello grosso, vuoi vedere che è la focena che si è mangiata la mia cintura? Non le ho mai viste le focene non so manco che forma abbiano però ecco le squame di ferro devono essere belle dure da digerire non credo che ne mangerò mai una guarda come brilla al sole ci faranno i soldi con quella roba lì anche se non è che sembri proprio un pesce sembra un’armatura un’armatura sì ma è proprio quello che mi serve per vincere il torneo e tornare con la mia Penelope. Mi spiace per i pigliapesci che non potranno mangiarsi niente stasera però in compenso hanno il sanguinaccio io ho la corazza è quella di mio padre la riconosco, beato sia tu Pelliccia o Pezzalculo o come ti chiamavi che l’hai trovata in fondo al mare chissà se il mare di pece ha vomitato pure quella insieme a me dopo tutta l’indigestione e il whiiiish whoooosh di stanotte l’hanno portata via a lui e adesso la riportano a me questa sì che si chiama provvidenza. Così sembro davvero Ulisse che combatte contro la sorte, sorte avversa maledetta che non vuoi farmi trovare la mia Itaca ma il mare che mi ha odiato stanotte adesso mi ama e mi aiuta e cavalcherò il cavallo e sconfiggerò tutti e mangerò al banchetto tutti i sanguinacci che si mangeranno questi pigliapesci qui.

Le onde, le onde, le onde. Whiiiish Whoooosh. E un’altra onda ancora, ma ora mi rialzo.

L’affittacamere

Alessandro Maria Flavio, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Il ragno indietreggiò, raggomitolandosi su se stesso, poi, quando la tela smise di vibrare, ne collegò i fili spezzati.

*

Il passo successivo andava pianificato con cura, lo suggeriva l’esperienza. Anni e anni di duro lavoro gli avevano consentito la creazione di un sistema complesso fatto di collaboratori, false promesse, strizzatine d’occhio provate e riprovate allo specchio, cavilli contrattuali sfuggiti a occhi ingenui. Ora, sotto la pioggia battente di un comunissimo mercoledì sera, si sentiva calmo e fiducioso. L’inquilino lo aveva accolto da signore: stretta di mano, “lei”, bicchiere di vino, casa linda. Si era aggirato nelle stanze con il suo timoroso accompagnatore, portandosi alla bocca il calice che reggeva con la mano a coppa. Niente di cui preoccuparsi, una macchia qui, una là. Non sono un decoratore, premetto, ma a occhio non credo ci voglia una fortuna. Avrebbe pensato a tutto lui, ma no, che grazie. Ci mancherebbe.

Salì in macchina e attivò i tergicristalli; tolse il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni e lo lanciò sul sedile del passeggero. L’acqua scorreva sul vetro dell’auto, vi fu un lampo. Il bagliore illuminò un oggetto che fino ad allora non aveva considerato, un cioccolatino dall’involucro violaceo. Lo recuperò con fatica dal fondo di un vano portamonete, lo mangiò e, mentre si sfaldava nella sua bocca, accese la luce sopra il cruscotto così da stirare l’involucro e leggere al suo interno: non hai amato troppo, ma hai scelto male.

Appena entrato in casa, si buttò sotto il getto caldo e vaporoso della doccia. Chiamerò il decoratore e pianificheremo uno spettacolo di tutto rispetto, ma prima devo individuare un dettaglio rilevante che lo metta all’angolo, ma quale, quale. Alzò la temperatura dell’acqua e rilassò i muscoli delle spalle, massaggiandosi il collo. Con la coda dell’occhio colse qualcosa nell’angolo della cabina, un ragno verdognolo zampettava all’interno della sua tela, avvicinandosi. Ehi dico a te, disse, deviando qualche goccia in direzione dell’animale con una manata. Vivi qui da settimane, ma la casa è mia. Non sarai mica velenoso! Il ragno indietreggiò, raggomitolandosi su se stesso, poi, quando la tela smise di vibrare, ne collegò i fili spezzati.

Ma certo, il fumo! Guarda come si è appannato lo specchio per il vapore, lo stesso si potrà dire delle pareti che, in alcune zone, illuminate come sono, sembrano gialle. Due volte sono andato, due volte il posacenere era stracolmo; dall’odore fuma in casa. Sentì lo scatto della serratura, piedi che strisciavano sullo zerbino: sua moglie. Ripose l’ombrello fradicio ai piedi dell’appendiabiti e sospirò, sollevata. Hai visto là fuori? Una tempesta! Come no, ero nell’altro appartamento fino a mezz’ora fa. E hai appiccato un incendio per riscaldarti. C’è fumo. Sia benedetto, tesoro. Chiuse la porta del bagno e si asciugò i capelli; alle sue spalle, il ragno tesseva.

Ordinarono del cibo indiano, nessuno voleva cucinare. Ascoltarono un giornalista di un’emittente locale dire che la pioggia non sarebbe cessata nemmeno l’indomani. Allerta rossa, rischio alluvione. Un’anziana fuori col cane, dopo esser scivolata sull’asfalto bagnato, era stata strozzata dal grosso animale che, correndo a cercare aiuto, l’aveva accalappiata col guinzaglio, portandola con sé per diversi metri. Vorrei farti conoscere quel mio nuovo collega di cui ti parlavo l’altro giorno, buffo come pochi. Oggi mi ha accompagnata a casa. Perché no, certo. Se hai bisogno di uno strappo comunque chiama. Mi annoio in casa da solo. Sarei anche venuta a piedi, ma passando in macchina mi ha vista e ha iniziato a seguirmi a passo d’uomo. Signorina, diceva, le si scioglie il trucco se continua così. Penseranno che le è successo qualcosa di grave. Signorina, ma che fa, ride?

La interruppe, facendole segno che voleva ascoltare le notizie. Inforcò un pezzo di pollo e lo immerse in una pozza di salsa piccante a margine del piatto. Pioggia, pioggia, pioggia, ancora pioggia. Prese il telefono e scrisse al decoratore: l’indomani lo avrebbe accompagnato all’appuntamento, senza entrare: il confronto doveva essere tra uno specialista e un principiante, nessun intermediario. Poi chiamò la domestica e le chiese di dare una pulita alla casa, sempre l’indomani.

Si svegliò di buon ora, ma il letto era vuoto. In cucina, arrotolato nell’impugnatura della sua tazza c’era un biglietto: cinema stasera? Scrisse un messaggio di scuse, non sapeva a che ora avrebbe finito con l’inquilino: l’appuntamento era in serata. Passò gran parte della giornata alla finestra, osservando la pioggia cadere nelle strade. La canaletta del giardino era allagata. Si puntò tre dita sullo sterno, lo sentiva oppresso. Calzò gli stivali di gomma, recuperò lo sturalavandini nell’armadio in dispensa e uscì sotto il diluvio. Lo strumento si rivelò inutile, fu necessario rimuovere fango e foglie a mano. Voleva farle una sorpresa: piombare in ufficio, caricarla in macchina, correre alla galleria d’arte di fianco al municipio, farle scegliere un quadro, comprarlo, e andare al cinema come da programma. Voleva anche dare un’occhiata al collega. Rientrò in casa e andò in bagno ad asciugarsi; alle sue spalle, il ragno tesseva.

Sotto l’appartamento, ripassò il canovaccio con il decoratore. I volti dei due uomini comparivano e scomparivano al ritmo meccanico dei tergicristalli, che la pioggia superava. Bene, vai.

L’inquilino gli mostrò le macchie individuate dal padrone di casa, una ad una, e chiese un preventivo. Il decoratore spiegò che, se avesse dato il bianco solo in quei punti, la differenza con il resto delle pareti sarebbe stata considerevole. Gli indicò una parete della camera da letto, per te è bianco questo? Crema, forse, ma bianco no di certo. Se avesse voluto gli avrebbe coperto solo le macchie, ma sarebbe stato evidente. Fare un lavoro del genere e presentarlo come proprio non gli avrebbe certo dato credito. Fece un passo verso il centro della stanza e osservò stringendo gli occhi la giuntura tra il soffitto e una parete adiacente. Fumi, vero? Guarda quella zona, è gialla. Fumando in stanza, c’era poco da stupirsi. Inoltre la clausola del suo contratto imponeva che la stanza venisse lasciata come era stata trovata, giusto? L’inquilino assentì. Effettivamente la zona individuata dal decoratore era gialla. E sia, allora. La ringrazio.

Si spartirono i soldi in auto, mentre cercava di raggiungere l’ufficio di sua moglie a una velocità ampiamente punibile per legge. Lasciò il decoratore all’incrocio a lui più comodo e proseguì. Per strada nemmeno un’anima, tombini e grondaie rigurgitavano acqua e detriti dalle bocche sdentate. Parcheggiò sul marciapiedi, giacca tesa sul capo salì le scale del palazzo. Venne fermato dall’usciere: chi era, chi cercava? Gli uffici erano semideserti, il personale addetto alle pulizie lustrava i pavimenti. Chiese di sua moglie e l’usciere riferì: uscita con quello nuovo. Non hai amato troppo, ma hai scelto male, pensò. Controllò il telefono e trovò un suo messaggio, diceva di far con calma, sarebbe andata al cinema comunque. Come poteva essere così sfacciata? Provò a chiamarla ma non rispose. Sbottonò il colletto della camicia e compose il numero di casa. Quando il telefono squillò, la domestica stava spolverando un mobile di fronte all’ingresso del bagno. La signorina? Oh, mi scusi, signora. È passata poco fa con un collega, pesavano cento chili l’uno gonfi d’acqua com’erano. Andati al cinema, quale non si sapeva; interruppe bruscamente la conversazione, la palpebra destra gli tremava. Portare l’amante in casa mentre il marito era assente, dargli la sua biancheria. La domestica stette in ascolto ancora qualche secondo; alle sue spalle, il ragno tesseva.

Passò la serata nell’unico bar aperto, quello della stazione. Aveva bevuto quanto mai in vita sua, ma prese piena coscienza del tasso alcolico che aveva in corpo solo quando si alzò per pagare. Alla cassa, malgrado biascicasse nomi e parole irripetibili, lo guardarono rispettosamente quando aprì il portafoglio e disse rivolto al titolare: non ho amato troppo, ma ho scelto male.

Avevano spento i lampioni. Sebbene a ogni passo rischiasse di rimanere vittima dei tipici ostacoli da marciapiede quali semafori, pali della luce, piastrelle sconnesse, fantasiosi escrementi, si reputava vicino al parcheggio delle auto quando, abbracciando una transenna o renna vista all’ultimo, il portafoglio schizzò via dalla sua tasca e con un glorioso ciaf si immerse in un tombino aperto. Si accucciò, raspando alla cieca nell’acqua torbida, sempre più in profondità, fece leva con le gambe e vi si catapultò dentro, nuotando a rana con gli arti superiori e finalmente, col fiato corto, sentì di averlo preso, ma era incastrato ora, non riusciva a tirare fuori il bacino, quasi l’ingresso si fosse rimpicciolito, strinse le labbra livide e spinse più che poté, senza successo. Le gambe rigide e storte dell’uomo si immobilizzarono di colpo, rami spezzati.

Pochi minuti più tardi, la domestica vide sua moglie scendere da un auto e salutare il collega. Al prossimo film, garantì lei, sarebbero stati in tre senz’altro. Lentamente, senza essere visto, un ragno aggirò la sottana della domestica e si dileguò nel buio sottoscala. Quanta polvere e quante ragnatele in questa casa, signora!

Tg interviste Italia S07E01, Stagione 7 prima puntata completa

Giuseppina Santoro, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

La mia riscrittura offre uno spunto per una rappresentazione teatrale sotto forma di intervista su stampo moderno e tecnologico anche attraverso l’uso del linguaggio e degli strumenti tecnologici del personaggio shakespeariano Pericle, principe di Tiro. Ricorrenti anche inserti tratti da Cibelino e dalla Tempesta.

*

Intervistatore
Buonasera cari telespettatori e benvenuti ad un’altra puntata del TG interviste. Oggi con noi in studio un ospite molto speciale; facciamo un caloroso applauso a Pericles il principe di Tiro.

[Applausi incontenibili accompagnati da fischi e schiamazzi accompagnano l’ingresso dell’uomo].

Pericle
Buonasera a tutti miei cari [Saluta il pubblico agitando la mano per aria].

Intervistatore
Buonasera Pericle. Come è andato il viaggio? Ti trovo in forma [Stringe la mano all’ospite].

Pericle
Sempre più è faticoso per me varcare il confine del mondo eterno e scendere nel mondo di voi mortali e nonostante le mie imprese eroiche per terra e per mare, il mio vecchio cuore mostra sempre più i segni dell’affanno. [Tossisce].

[I due si scambiano pacche sulle spalle. L’intervistatore gli fa cenno di accomodarsi alla postazione e consulta il block notes che tiene tra le mani].

Intervistatore
Pericle do you prefer to speak in English?

[L’ospite ride sotto i baffi].

Pericle
Negli anni il mio intelletto si è arricchito di idiomi, favorito anche dalle traduzioni della narrazione delle mie gesta. Ti è dunque consentito l’uso dell’italiano.

Intervistatore
Ti ringrazio, non me la cavo molto bene con le lingue. Inizio subito a porti la prima domanda: dopo la scoperta dell’incesto tra Antioco e sua figlia, quale è stata tua reazione?

Pericle
La prima volta che i miei occhi ebbero la possibilità di ammirare la bellezza di questa donna, ella mi apparve abbigliata come la Primavera, tanto bella da donare luce a tutte le creature che la circondavano. Gli dei, al momento della mia nascita, decisero di fare di me un uomo ed in quanto tale pregai loro affiche io potessi baciare tale bellezza sconfinata. La mia preghiera di certo non si fermò dinnanzi alla verità, seppur cruda e violenta questa colpì il mio cuore, io ero pronto a qualsiasi rischio. Al mio destino non fu data altra scelta se non quella della fuga così mi imbarcai ed affrontai il grande pericolo del mare. Presto il mio viaggio fu interrotto dalla tempesta, un vento impetuoso ruppe le vele dell’imbarcazione. Questa si distrusse e mi ritrovai tra tuoni e abissi. La potenza delle onde mi trascinò da costa in costa finché la Fortuna mi gettò sulla riva di Pentapoli e…

[L’intervistatore lo interrompe].

Intervistatore
Facendo confusione tra le scartoffie che ha in mano]. Bene bene stiamo perdendo le fila del discorso. Ecco la seconda domanda è questa: in che modo sei riuscito a superare le dure prove del Re Simonide e a prendere in sposa Taisa? Immagino ti sarai allenato per parecchio tempo per prevalere su ben cinque dei più forti cavalieri del tempo.

Pericle
La speranza fu la prima a guidarmi e la Fortuna l’ultima ad abbandonarmi. Questa mi permise di trovare un’armatura indistruttibile per mare; elmo, scudo, schinieri, pettorali e corazza. Mi sentii invincibile, e così fu. Sposai Taisa. La mia mente però celava ancora in segreto il ricordo della donna più bella di una dea dalla però fui costretto a fuggire. La Fortuna ancora una volta mi fu vicina, l’eros tra me e Taisa arse dopo una sola notte di fuoco.

Intervistatore
Mio caro Pericle, il primo amore non si scorda mai! Tutti i tuoi fan sono a conoscenza di ciò che viene dopo e, anche se sarà doloroso per te parlarne, e per questo abbiamo preparato dei fazzoletti proprio lì, ti chiedo di parlarci della perdita di tua moglie, seppur apparente.

[Pericle accenna un mesto sorriso, prende in mano preventivamente un fazzoletto e fa un grosso respiro. Lentamente ripercorre i ricordi].

Pericle
O Taisa, la donna della mia vita, l’unica per la quale fui “Puro e disposto a salire a le stelle” venne così strappata dalle mie braccia. Il tempo, fugace nemico, non fu dalla mia parte e non ci permise di vivere una vita serena.  Quanto dolore riporti alla mia memoria e quanta infelicità al mio vecchio cuore. [Toglie gli occhiali, si passa una mano sugli occhi e si soffia il naso]. Quell’orrida tempesta fu la causa non soltanto della morte di mia moglie ma anche della mia. Nulla più fu motivo di felicità per me e le parole di bocca non mi uscirono più. Conobbi un monaco che mi convinse a seguirlo e così feci. Il cappuccio della tonaca mi copriva il volto e gli occhi; vedevo buio come la mia amata sul fondo del mare…

[Il pubblico è in lacrime. L’intervistatore trattiene il respiro per non emozionarsi e si morde la lingua. Getta sotto la poltrona la lista delle domande preparatosi].

Intervistatore
Ti dispiacerebbe continuare a raccontare la storia, Pericle?

[Pericle si sistema sulla poltrona e accenna un freddo sorriso].

Pericle
La cassa nella quale si trovava Taisa galleggiò sul mare per tre giorni e tre notti finché non approdò sulle coste di un’isola. Ancora i miei pensieri sono incerti sul nome di questa, nel mediterraneo, tra Italia e Tunisia, ma chi aprì la cassa e riportò in vita mia moglie mi fu subito chiaro; Prospero il suo nome. Colui di cui vi parlo è il sommo mago; incantesimi, trucchi cui è impossibile disobbedire ed altre maleficenze del mestiere sono la sua specialità, egli è dotato perfino dalla capacità di evocare le anime. Panni e fuoco ci vollero per risvegliare la mia Taisa, aria, musica rozza e lamentosa, tanta. In questo modo Prospero riuscì a risvegliarla dal suo sonno mortale e di ciò io gli sarò eternamente riconoscente.

Intervistatore
Sono sicuro sia un tuo ottimo amico. Dunque dopo aver commosso l’intera sala facciamo tutti un grande applauso al nostro ospite [Applausi acclamanti]. Adesso posso finalmente dirtelo Pericle, fremo dalla voglia da quando sei entrato. Abbiamo preparato per te una sorpresa che ti lascerà a bocca aperta, te lo assicuro. Chiudi gli occhi e riaprili solo quando te lo dico io e, mi raccomando, non sbirciare!

[Pericle si copre gli occhi con le mani, una poltrona viene sistemata tra i due uomini e Marina viene fatta entrare in punta di piedi].

Intervistatore
Adesso puoi aprire gli occhi!

Pericle
For God’s sake! Long time no see! Vieni tra le braccia di tuo padre e mostrami la tua bellezza. Mia cara figlia, sangue del mio sangue, guardati, sei una donna ormai!

Marina
Caro padre troppo tempo è passato dall’ultimo nostro incontro nell’oltretomba.

Intervistatore
Quanta bellezza in studio! Quante emozioni ci regala questa famiglia! Marina chiedo a te adesso, spiegheresti al pubblico il significato del tuo nome?

Marina
Come immagino già sappiate la mia nascita avvenne in mare durante un naufragio nel quale mia madre perse la vita. Io riuscii a sopravvivere e mio padre [Stringe la mano del padre] mi diede in dono questo nome. Io appartengo al mare. Il mio nome nasconde delle caratteristiche del mio essere; sensuale, passionale, energica e sensibile son io.

Intervistatore
Riprendiamo adesso con momenti tragici e crudi mia cara, racconta al pubblico in che modo sei riuscita a non farti possedere in quel bordello nel quale ti mandò Dionisa, invidiosa della tua bellezza.

Marina
Oh quel posto, che orrore, che atrocità! Dell mia bellezza vollero approfittarsi e vendere il mio corpo a degli uomini! Rendo grazie agli Dei, a mia madre e a mio padre per avermi concesso l’abilità della danza e del canto. Cantai come un immortale e danzai simile a una dea sulle sue ammirate melodie. Queste arti ammutolirono chiunque io avessi dinanzi e nessuno mai ha osato poggiare dito sul mio corpo.

Pericle
Che ripugnanza, figlia mia!

Marina
E’ vero padre, ciò che non uccide fortifica ed io adesso mi sento invincibile.

Intervistatore
Accidenti io amo i happy ending! Concludiamo questa bellissima ed emozionante puntata del tg interviste con un’ultima domanda a te, Pericle. Ti chiedo di farci commuovere un’ultima volto con un altro tuo racconto ovvero quello dell’incontro con tua figlia e tua moglie…ah quasi dimenticavo, ragazzi dello staff, facciamo entrare l’altra sorpresa!

[Lo staff sistema un’altra poltrona e fa partire la sigla].

[Entra Taisa]

Intervistatore
Tale madre tale figlia. Buonasera Taisa sei splendida! Accomodati pure.

[Taisa abbraccia Marina e Pericle e si siede].

Pericle
Fu il giorno più bello della mia vita. Non potetti credere alle mie orecchie quando sentii quel canto proveniente dalla sua bocca. In un primo momento non capii bene chi io avessi dinnanzi, poi tutto mi fu chiaro. A partire dal suo nome, Marina, alla sua storia della nascita in mare compresi che la fanciulla che mi stava difronte era la mia amata figlia. Rinacqui. Come Taisa fu salvata dal mago anche io ripresi a respirare, il cuore rinsanì d’un colpo e le mie labbra, dopo tanto tempo, formarono un arco che rassomigliava ad un sorriso. Piansi. Piansi di gioia e di dolore. Si risvegliò in me la consapevolezza di ciò che ero, Re, e come tale ripresi a comportarmi.

Intervistatore
Che fortuna avervi avuto in studio oggi. È stato un enorme piacere per me. Vi chiedo di scattare una foto in ricordo di questo bel incontro da appendere alla “bacheca ospiti”. Venite, stringiamoci.

[Un ragazzo dello staff scatta la foto. L’intervistatore dà la mano agli ospiti e li abbraccia calorosamente].

Intervistatore
Arrivederci miei cari e buon ritorno, mi raccomando Pericle, attento al cuore, non ti affaticare! Sssssssigla!

[Escono].