Agata Scarsi, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva la nascita dell’arcobaleno, abbinandola a tavole da lei realizzate, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.
Una rivisitazione di fantasia del mito delle origini, in endecasillabi, su modello soprattutto ovidiano ma senza escludere altri echi, con l’arcobaleno per protagonista: la luce bianca sostituisce la condizione indistinta primordiale, fino alla scissione, improvvisa, nei sette colori che dà origine all’Universo. L’arcobaleno come simbolo di bellezza, di mistero, di grandezza, e quindi del sublime, nonché, in definitiva, come metafora dell’amore all’origine della vita.
Valeria
Pellegrini, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva l’Edda
di Snorri Sturluson, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I
miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara
Lombardi.
Questa riscrittura nasce da un desiderio di immaginazione, da un piccolo viaggio intrapreso oltre le pagine di un libro. Gefjun è una dea che perde la sua immortalità nel momento in cui viene dimenticata dagli uomini e racconta la sua fine attraverso una sorta di epitaffio ispirato all’Antologia di Spoon River.
*
I
miei occhi e questo buio.
Sono seppellita tra le insenature,
sono seppellita tra le onde.
Non sento le carezze,
e il peso di una promessa
e le preghiere e i sospiri.
Intreccio ghirlande con fili di nulla. Può morire una dea?
I
miei occhi e questo sangue.
Sono Gefjun,
la dea,
la giullaressa,
la donna dimenticata,
la madre dei tori.
La mia storia giace sul fondo del lago Mälaren. Non sentite il canto?
I
miei occhi e questa bugia.
Re Gylfi volle ricompensarmi; “per i tuoi capelli color corallo”, disse “per la tua pelle di alabastro”, sussurrò.
Mi diede la terra e io creai un mondo
fatto di acqua,
di abissi e solitudine. Non prova dolore una dea?
I
miei occhi e questa rabbia.
Un tempo conobbi un gigante,
ebbi dei figli da lui,
li trasformai in tori e li aggiogai all’aratro.
Così forti che la terra si staccò,
così vivi che l’acqua affiorò.
Forse sono io stessa quel lago. Non ascoltate la voce?
I
miei occhi e questo freddo.
Sono morta in sconfinate notti;
morta, quando gli uomini mi dimenticarono;
morta, quando l’ultima supplica divenne sussurro.
Una volta splendevo,
adesso sono seppellita qui
sul fondo del lago Mälaren Voi conoscete l’amore?
Bibliografia Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, a cura di Fernanda Pivano, Einaudi, 2014 Snorri Sturluson, Edda, a cura di Giorgio Dolfini, Milano, Adelphi edizioni, 2019
Manuela Mangiocco, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva l’Odissea di Omero, nell’ottica del corso Raccontare, riscrivere l’Odissea. In prosa, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.
Se la prigione di Ulisse nell’isola di Ogigia divenisse la mente: se il suo pensiero in tormento rileggesse il passato con impietosa, severa condanna. Mentre, come prodigio o ineludibile necessità, il tempo tuttavia scorre: pronto a cantare un capitolo nuovo. Vivo e grandioso come l’urlo di un gabbiano
*
Ulisse cammina a piedi nudi, lento; il luccicore infuriato del giorno gli confonde la vista, gli annebbia la mente. Siede sopra uno scoglio argenteo, levigato: il mare è di una vastità atroce, sconfinata.
Fluttuanti,
scivolosi come l’acqua i suoi pensieri, che sembrerebbe immobile in una
giornata come questa eppure va e viene senza sosta, fino a inondare terre
innocenti, straniere, emerse a farsi luogo abitato, o spoglio. Finanche alla
sua adorata Itaca che oggi è sospiro amaro e assente, petroso di malinconia.
Sono
trascorse settimane, mesi, persino anni; Ulisse più non li rammenta. Da quando
gli è apparsa Calypso tra le fronde degli ontani, con le sue trecce molli
adolescenti, su un viso acceso da malizie tremende. Da quando incredulo si è
scoperto prigioniero di lei, del suo amore da piovra, lo stupore, la rabbia, il
dolore feroce. Da certe notti disperate in cui l’ha posseduta con vigore, lo
smarrirsi dei sensi odoroso di rovi e peonie, invocando gli dei tutti affinché
quell’oblio potesse durare per sempre e cancellasse ogni ricordo.
Le
ore infinite trascorse dinnanzi al mare han trasformato a poco a poco i suoi
pensieri. Il desiderio di casa, di affetti, la nostalgia struggente si è fatta
lama sottile, puntuta, a perforargli mente e cuore: la ferita che di giorno in
giorno diviene più profonda sa di rimorso, condanna. Per quei lunghi infiniti
anni di guerra e di viaggio che sente oggi non solo perduti ma ahimè!,
sciupati. Il furore che cova nel petto, frustrato sempre più dall’impossibilità
di tramutarsi in azione e vendetta, non ha ormai come bersaglio Calypso, gli
dei, la misera sorte. Ma è contro Ulisse, Ulisse stesso!, che Ulisse va
sguainando la spada del rimprovero, del giudizio, della condanna.
Ulisse
curioso e avventuriero che per la fame insaziabile di conoscenza ha trascinato
se stesso e i suoi compagni in mille folli avventure “su isole incantate,
sfidando forze arcane”1, e ritardando all’infinito il ritorno.
Ulisse
lascivo e libertino, che per un anno intero si è smarrito tra le braccia
voluttuose di Circe e se non fosse stato per i compagni savi e piangenti, forse
oggi sarebbe ancora lì, dimentico di tutto.
E
che dire poi di Ulisse superbo ed orgoglioso che ha rivelato per insulsa
civetteria la sua identità al mostruoso sconfitto Polifemo, attirandosi le ire
funeste del tremendo Poseidone.
E
poi ancora Ulisse pigro ed ozioso che per ben due volte, non sorvegliando a
dovere gli stolti compagni, ha permesso che questi compissero sacrileghe
azioni, madri delle più nefaste conseguenze.
Ma
il vero e più colpevole Ulisse, pensa ora meditabondo, mentre una brezza
leggera gli scompiglia la chioma, è Ulisse stolto, ignaro, ignorante. Ulisse
che per interminabili anni non ha compreso il valore infinito del tempo, questa
implacabile clessidra fatale agli umani che granello dopo granello porta via,
per sempre, il mistero chiamato vita. E nulla rende in cambio.
Ed
ora che lo comprende appieno non può tornare indietro a mutare la sorte né
tantomeno andare avanti: che in quest’isola tutto è stasi, immobile segreto
dell’orrenda dea; il tempo pur scorrendo non scorre. Come un uccello divenuto
pioppo intrappolato dalle sue radici.
E
maledice mille volte il dono che lei vorrebbe fargli, quello dell’immortalità!
Gli sembra l’ultima beffa crudele del destino. Per farne cosa? Contemplare
all’infinito gli errori, le mancanze, le folli sue condotte? Darsi in eterno
dello stolto, dell’imbecille, dell’ignorante? Meglio sarebbe stato trangugiare
il loto e avvicendarsi immemore, con un sorriso da ubriaco. O farsi trascinare
nel fondo degli abissi turbolenti dalle sirene incantatrici, fino a scomparire
nel vuoto…
Ma
se pure ha imparato qualcosa in tutto questo peregrinare tra battaglie e
incantesimi, malie e avventure, a cosa può servire? Se non potrà narrarlo
all’unica donna di cui ha saggiato il cuore fedele, la saggia Penelope; se mai
il figlio suo potrà farne tesoro e insegnamento.
Se
così è, ogni lezione è stata vana. Nulla ha avuto senso.
Ulisse
oggi è solo un “misero battello perduto, spinto dall’uragano, che non troverà
mai più la rotta. Perché ogni sole è ormai atroce e ogni luna amara”2:
nell’isola di Ogigia il paradiso è inferno, l’incanto è dannazione.
Eppure
sente ancora, in un angolo riposto del suo cuore, una scintilla fievole, che
non può, non vuole chiamare speranza.
Ha
la voce amorosa di Penelope, l’abbaio festoso di Argo, il tenero vagito di
Telemaco. E’ pura e illesa come la bianca conchiglia che tiene tra le mani.
La
guarda, la odora, la ascolta, sa di mare infinito e turchese, sa di ritorno.
(Ulisse
ignora che nel frattempo la dea Calypso ha ricevuto per mezzo di un messaggero
di Zeus l’ordine di liberarlo e procurargli i mezzi per tornare alla patria).
Diventa
lacrima sottile, gli trafigge la guancia.
(Il volere degli dei non potrà mai essere inadempiuto).
Mentre un gabbiano sta planando sull’acqua, col suo urlo di vita.
Bibliografia F. Guccini, Odysseus, Ritratti, 2004 A. Rimbaud (1871), Il battello ebbro,in Opere, tr. it. di I. Margoni, Feltrinelli, Milano, 2009
Irene Fiducia, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles e il Cymbelineshakespeariani, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.
Questa riscrittura nasce dall’idea secondo cui «quel che succede quando una nuova opera d’arte è prodotta è qualcosa che avviene simultaneamente in tutte le opere che l’hanno preceduta» (Eliot, Tradition and individual talent, 1919). Invertendo il rapporto di filiazione tra Shakespeare e le sue fonti ho quindi immaginato un Pericles scritto da Omero e un Cymbeline uscito dalla penna di Boccaccio, nella consapevolezza che non siamo altro che “nani sulle spalle dei giganti”.
*
Περικλῆς ὁ βασιλεύς Τύριος
Solcava i rapidi flutti la nera nave, lasciata alle spalle la luminosa Pentapoli. Per molti giorni attraversarono la scura distesa del mare; Zefiro soffiava benigno. Riposava sereno Pericle Tirio stringendo la sposa, sognando la casa e il ritorno: e illesi sarebbero giunti alla terra dei Padri, ma il Fato crudele li strappò ai dolci lidi. Violento infuriò il dio Enosictono, radunò i nembi e nell’atra notte tutti scatenò i turbini. Euro e Noto piombando impetuosi sul mare aprirono alti gorghi. Fu sballottata la nave e vacillò, investita dai grandi flutti. Invano si affannava Pericle Tirio, confortava i compagni, fronteggiava i marosi. Invano invocava l’Olimpio, che placasse la turba dei venti. Accorse allora la cara Licorida portando in braccio la figlia, pargoletta, e così si rivolse al sovrano: «Nobile Pericle, per il terrore la Simonidea, tua sposa, ha dato alla luce questa infelice ed è presto perita». Si sciolsero a Pericle le ginocchia e il cuore; levate le palme al cielo lanciò un lamento e così pregò gli alti numi: «Ahimè, sventurato! Davvero non hanno mai fine il travaglio e le pene, che ora trascinano me e i miei affetti più cari! Ecco, Taisa dai riccioli belli discende volando nell’Ade: dolenti la piangono la dolce bambina e il caro sposo. Zeus e voi numi tutti, fate che cresca, questa mia figlia, così come Taisa fu, giovane distinta fra le altre, e un giorno dica qualcuno: “È molto più bella di sua madre!”. Porti ella nobili pretendenti, goda in cuore il padre!». Dopo aver detto così, mise in braccio alla fida nutrice la figlia sua e riprese il timone contro la furia dei flutti. Neppure così si placò il dio che addensa le nubi, ma suscitò Borea e un tremendo uragano e con le nubi ravvolse terra e mare. Come un vento impetuoso trascina le fragili foglie e le sparpaglia qua e là, così l’Enosictono con una grande onda sparpagliò i lunghi legni. Vide questo il saggio nocchiero e così si rivolse al sovrano: «Gettate la dolce sposa in mare, signore: non avanza la rapida nave finché un morto è a bordo, ed è lontano ogni approdo». Un tremendo dolore invase il nobile Pericle, che pur soffrendo nel cuore cedette; fece portare una cassa ricolma di molte ricchezze e, ivi posta la Simonidea, disse: «Donna, io temo l’abisso profondo e il naufragio dei miei; ma non tanto dolore avrò per i compagni quanto per te, che qualche maroso trascinerà a fondo o su lidi stranieri, giusta sepoltura togliendoti. Dirà forse qualcuno che ti vedrà morta: “Ecco la sposa di Pericle, ch’era il più forte a combattere tra i nobili pretendenti!”» Disse così il nobile Pericle e, gettata la cassa, vagò sull’onda dura. Spesso il suo cuore intravide la morte; ma quando Aurora dai riccioli belli portò il nuovo giorno il vento cessò: aguzzando la vista egli scorse vicino la terra.
Giornata II, Novella 9
Postumo Lionato, da messer Giacomo ingannato, perde il
suo e comanda che la moglie Innozene sia uccisa; ella scampa e in abito d’uomo
serve un ambasciadore romano: ritrova lo ‘ngannatore e Postumo in
Bretanniadove, lo ‘ngannatore punito, ripreso abito femminile e ritrovati i
fratelli, col marito riappacificossi e con il padre.
Avendo Elissa con la sua compassionevole novella il suo
dover fornito, Filomena reina, la quale bella e grande era della persona e nel
viso più che altra piacevole e ridente, sopra sé recatasi, cominciò:
– Cimbelino, prencipe di Bretannia, fu signore assai umano e
di benigno ingegno, se egli in sua vecchiezza ligato non si fosse ad una assai
cruda reina; il quale in tutto lo spazio della sua vita ebbe tre figliuoli, ma
li maggiori due venendogli portati via, una giovinetta sola gli restò.
Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcuna
altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia più che a donna per
avventura non si richiedea. E veggendo molti uomini nella corte del padre
usare, e considerate le maniere e’ costumi di molti, tra gli altri un giovane
valletto del padre, il cui nome era Postumo Lionato, uom di nazione assai umile
ma per vertù e per costumi nobile, più che altro le piacque, e di lui
tacitamente, spesso vedendolo, fieramente s’accese. E il giovane, il quale
ancora non era poco avveduto, essendosi di lei accorto, l’aveva per sì fatta
maniera nel cuor ricevuta, che da ogni altra cosa quasi che da amar lei aveva
la mente rimossa.
In cotal guisa adunque amando l’un l’altro, niuna altra cosa
tanto disiderando i giovani quanto di maritarsi, avvenne poi che il fecero
segretamente. La qual cosa il padre scoprendo e adirandosene fortemente, prese
partito di farlo esiliare.
Giunse in Roma Postumo presso una certa sua brigata, e
avendo una sera fra l’altre tutti lietamente cenato, cominciarono di diverse
cose a ragionare, e d’un ragionamento in altro travalicando sovvenne loro una
giovenil tenzone.
Era tra questi un giovane chiamato Giacomo, il quale tosto
smanioso si fece di saper per che si fosse disputato: e cominciò Lionato ad
affermare di aver per moglie una donna la più compiuta di tutte quelle virtù
che donna dee avere, e niuna altra più onesta né più casta potersene trovar di
lei; per la qual cagione disse che in gioventù ebbe a scontrarsi con un tale
che di questo dubitava.
Di questa loda che Lionato aveva data alla sua donna
cominciò Giacomo a far le maggior risa del mondo, e disse: «Postumo, io non
dubito punto che tu non ti creda dir vero, ma per quello che a me paia, tu hai
poco riguardato alla natura delle cose, per ciò che, se riguardato v’avessi,
non ti sento di sì grosso ingegno, che tu non avessi in quella cognosciute cose
che ti farebbono sopra questa materia più temperatamente parlare. E dicoti
così, che, se io fossi presso a questa tua così santissima donna, io mi crederei,
poco più lungiamente conversando con ella che or con te, recarla a quello che
io ho già di altre recate».
Al quale Postumo rispose e disse: «In nessun modo avrei
cagione di dubitar della mia sposa, ch’ella è davvero un’angelica criatura; e
io spero che Iddio mi serbi sempre questa grazia che mi ha conceduta».
Allora disse Giacomo: «Se a tal punto sei persuaso che tua
moglie non sia di carne e d’ossa e femina come son l’altre, metti il tuo
diamante contro al mio patrimonio, e infra tre mesi dal dì che io mi partirò di
qui avrò della tua donna fatta mia volontà e tu avrai pruova di ciò che ho
ragionato».
Postumo turbato rispose: «Acciò che io ti faccia certo della
onestà della mia donna, ti prometto sopra la mia fede il mio diamante se tu mai
a cosa che ti piaccia in cotale atto la puoi conducere, e sono pronto ad
obligarmi a te con uno scritto di mia mano».
Fatta la obligagione, Postumo rimase e Giacomo quanto più
tosto poté se ne andò in Bretannia.
Bibliografia:
W. Shakespeare, Pericle, principe di Tiro, in Willliam Shakespeare. Tutte le opere, vol. 4: Tragicommedie, drammi romanzeschi, sonetti, poemi, poesie occasionali, a cura di F. Marenco, Milano, Bompiani, 2019
Omero, Odissea, a cura di G. Aurelio Privitera, Milano, Mondadori, 2003
Omero, Iliade, a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Milano, 2012
G. Boccaccio, Decameron II,9 e IV,1, a cura di Vittore Branca, Torino, Einaudi, 2014
Sofia D’Agostino, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva “ The winter’s tale”, nell’ottica dei corsi I drammi romanzeschi di Shakespeare I e II: Pericle, Cimbelino, Il racconto d’inverno e La tempesta, Letterature Comparate B, mod.1 e 2, prof.ssa Chiara Lombardi.
La mia riscrittura propone una rivisitazione in chiave moderna del dramma The winter’s tale, incentrata in particolar modo sul personaggio di Laerte.
*
Tu ancora non conosci le infinite distese di questo mondo,
io stesso ne ho visto solo una misera parte. In questa breve vita, tra le varie
storie nelle quali mi son ritrovato, una in particolare provocò in me una sorta
di cambiamento. Vedo nei tuoi occhi di lattante uno strano brillio che
riconosco come mio. Ti racconterò questa storia che mi scosse nelle viscere,
confidando nel tuo brillio.
Molti anni fa conobbi Laerte in uno dei miei viaggi. Mi feci
invitare a corte, così da raggirare con le mie astuzie la gente e divertirmi
con i loro vezzi. Al tempo Laerte, da buon re che era, prese un brutto
raffreddore che gli gelò il cuore. Iniziò a vaneggiare, diceva cose che leggeva
in un suo specchio capovolto. Così costrinse la bella Ermione, sua moglie, a
lasciarsi morire, e sua figlia perduta fu, di fatto e di nome; chiamata così da
un servitore della patria, che la lasciò in fasce sulle lande della Boemia che,
impietosita, iniziò a lacrimare tanto da cintarsi di mura blu. Ecco cosa vidi
quel giorno che così tanto mi slegò dall’effimero.
Erano ormai passati sedici anni, eppure alcune cose
rimanevano intatte, così anch’ella rimaneva, viva dietro quella maschera di
marmo. Nella notte era un faro per le anime che ancora non avevano trovato la
pace. Illuminava la via con la sua aura pallida, era luna torva con una
parvenza di grigio sulla schiena che faceva ombra ai viandanti che cercavano
riparo dalle ingiustizie del mondo, rannicchiati sul suo dorso. Fiocchi di neve
si scioglievano impietriti su di essa e il tempo finiva per piangere sotto i
suoi begli occhi scolpiti. In un cimitero dove tutto era morto, essa piangeva per
il dolore di tutte quelle anime che insieme a lei si univano in un coro di
grida strazianti. Poi la neve si fece sangue, i sogni divennero folli desideri
di morte; la morte che accoglie tutti nel suo grembo scuro.
Da lontano lo vidi; un vecchio che danzava col suo viso tra
le mani, il viso di una statua che conservava nel suo silenzio la bellezza
dell’umanità.
Laerte: “Oh mia cara Ermione, sogno d’argento fatto una
notte di primavera. Lì sotto tu dormi da mille secoli in un’estate antica,
sbiadita al sole ma impressa nello sguardo eterno del cuore. Ricordando insieme
i nostri giorni più belli. Quando ancora il tempo non aveva scritto niente per
noi. Ti vidi lì intenta a raccogliere asfodeli in quel campo che ora so non ti
abbandonerà mai. Sfiorai il tuo viso e scoprii che avevi la stessa natura di quei
petali. Troppo bella che anche la morte come sposa ti scelse vestendoti solo d’
un velo di nero dolore ornato di singhiozzi moribondi, te ne sei andata verso
l’inferno sputandomi rose del colore del sangue. Giurerei che tu sia calda al
tocco, mano, forse mi inganni?
Eppure non riesco a capire se lì dove sei il tuo essere
attende, ti senti forse viva? Vorrei affondare le dita dentro di te e scuotere
via quella luce, lavare via tutto quel colore, non per capire chi tu sia stata,
ma chi tu fossi in principio, e che forse continui ad essere senza che tu lo
sappia. Maleditemi dei! Maleditemi ora che tanto all’inferno ci sono già! Le
lacrime misureranno il tempo, morendo annegato.”
Sollevò il velo ed
essa rimase nuda. Aveva il colore del bianco marcio di quel marmo addosso. Una
tempesta dai lampi viola e verde sembravano fare a pugni per rimanere vividi
sulla pelle nei lividi. Gemiti stanchi si udivano ogni volta che le versava le
sue lacrime addosso, dai capelli gocciolava sangue rugginoso, tanto che l’acqua
sembrava aver commesso un peccato.
Laerte:” Nei miei sogni, spesso, c’è una luce dietro
l’occhio sinistro, vicino la tempia, quella luce mi ricorda te. Penso che tutto
me stesso si racchiuda lì in quel piccolissimo punto, questo vuol dire che tu
già mi eri dentro, ancor prima che t’incontrassi. Dimmi che è coincidenza,
forse pazzia, sento solo un gran senso di appartenenza, ora che ti prendo tra
le braccia sento di essere finalmente di nuovo intero, in un luogo immateriale,
dove non c’è dolore né vecchiaia. Non
c’è niente, o quasi. Ci sei tu e ci sono io. Eppure ora non siamo che un
piccolissimo punto dietro il mio occhio sinistro, vicino alla tempia. Si fa
piano quando si muore, quando la vita ti sembra andare sempre più veloce e
l’ultimo respiro è sempre il più bello. Non so quanto di questo sia reale, ma
se così non fosse, non voglio saperlo, per me questo è l’addio al mondo,
l’inganno più dolce.”
Sulla tomba dell’amata, Laerte ballava al suono di una
canzone che sembrava ortica per le orecchie di chi non era ancora pronto a
sentirla. Veniva direttamente dai suoi polsi squarciati, i tendini vibravano
come le corde di un violino e, in rivoli rossi, si riunì all’ amata Ermione in
un ultimo bacio che si trascina fino alla fine del mondo, rubando ai posteri il
mistero della mela proibita.
“Anime perdute” tuonarono gli dei. Sopra quella tomba
sembravano fare l’amore, ricordando a chi vive ancora, che il prezzo è la vita,
al male fattosi in un’ora. E senza perdono, continuavano ad amarsi all’ombra
del tempo che è morte e che, seppur onnisciente, il sangue non comprende. Gli
dei pensarono bene di punirli ma, provando a seppellirli, li confusero con la
natura dei semi. Nel bosco stellato un dio commosso pianse facendo nascere
dalla rugiada del mattino due boccioli d’asfodelo, li volle baciare e distratto
poi finì per intrecciare i loro steli, incastrandoli in un abbraccio immortale.
Rimasi nascosto a guardare tutto questo, poi la strada mi
trovò e mi portò a casa su di essa. In un viaggio mistico vidi le stagioni
confondersi e sfumarsi in un marasma di colori, come in un quadro con il mare
sullo sfondo. Come i sognatori cercavo di non ritornare a quella realtà che
triste non si poteva cambiare. Quando tentavo di capire cosa fosse quel “tutto”,
quello mi rispondeva con un fiocco di neve sul viso, un raggio di sole o una
scarica di pioggia che chiedeva ai miei occhi di dimenticare quei posti onirici.
Rumore bianco, e il tempo che prima era molle, inspiegabilmente sembrò accelerare.
Quel “tutto” mi sputò fuori, abbandonandomi di nuovo nella vita con questi
fiori intatti, che avevano il profumo di chi ancora sogna. Riscoprii un me che
sotto le palpebre aspettava di ricominciare a vivere. Ritrovatomi un’altra
volta nelle veci di spettatore dell’epilogo di quell’inverno rovinoso.
La vidi mentre
raccoglieva quei due asfodeli che avevano delle sfumature rosse, come se il
sangue scorresse nelle venature di quei petali. Un uomo che, cingendola tra le
braccia, danzava con essa stavolta in primavera. Mi parve di riconoscerli,
avevano la tua età quando li conobbi, e anche se il tempo cambia in superficie,
alcune cose non possono essere stravolte. L’uomo era il giovane principe di
Boemia e lei, bella come la madre, era Perdita, figlia di Laerte ed Ermione. Li
vidi mentre si raccontavano il loro amore.
Anime in festa mi passavano davanti in processione verso il castello. Vidi il matrimonio tra nuche dispotiche, tutto si svolse teneramente, e quando attraversarono la navata con un vestito sobrio, ornato solo di quei due asfodeli che lei stessa aveva colto, mi mancò il coraggio di dirle che forse, quei due fiori portati fermi al cuore, erano in realtà i suoi genitori. Mi dissi che non avrei pianto, eppure non potei sottrarmi. Vedere qualcuno che finalmente si univa senza più dolore o sangue mi dava speranza, speranza per le nuove generazioni. Giovane Ulisse, che questa storia ti sia d’esempio, portala nel cuore e ricordala, i ricordi sono potenti, ti permettono di agire con coscienza, non sprecare gli errori d’ altri e, quando arriverà il momento, tu non lo sperperare, tieni a mente l’amore e questo sarà capace di riportarti a sé.
Bibliografia: William Shakespeare, The Winter’s Tale, in Id., Tutte le opere. IV – Tragicommedie, drammi romanzeschi, sonetti, poemi, poesie occasionali, a cura di F. Marenco, Milano, Bompiani, 2019.
Omero, Odissea, a cura di R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi.
Il blog degli studenti di Culture e Letterature Comparate di Torino