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La vera storia della Genesi

Pietro Gava, in questo suo componimento, riscrive e reinterpreta con toni leggeri e comici i primi capitoli della Genesi, dagli inizi alla creazione dell’arcobaleno, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi. 

L’intento di questa riscrittura è raccontare in una nuova forma il processo creazionale biblico, mantenendo la veridicità contenutistica ma smorzando i toni dando note di colore e ironia. Con questo procedimento ho voluto desacralizzare l’argomento per disinvestirlo dell’aura di intoccabilità che normalmente assume un testo sacro e rendere la lettura più agevole e coinvolgente anche per un pubblico giovane.

*

Molti anni fa tutto era diverso
non c’era la terra, non l’universo.
Non c’eran le piante, non c’era la vita
o qualsiasi altra cosa sia mai esistita.
Vi era un unico Dio, e sentendosi solo,
volle far la Terra partendo dal Polo.
Così fece il primo, poi fece il secondo
ed è in così poco che nacque il mondo.
E quando ebbe finito la sfera,
s’accorse che ormai si era fatta sera;
anche la luce aveva inventato,
affinché il suo bel gioco fosse illuminato.
Decise di spegnerla, almeno di notte,
affinché le bollette fosser ridotte.
Il mattino dopo, facendosi giorno,
Dio si svegliò, guardandosi intorno:
deciso a impegnarsi con fervido zelo
fece le acque, poi fece il cielo.
E fu una gran lunga settimana,
senza nemmeno una pausa tisana:
prima le piante e gli alberi in fiore,
dopo le stelle, la luna ed il sole;
uccelli, animali e pesci nel mare
furon creati per popolare.
Ma il quinto giorno, un venerdì
(sempre si contino i giorni così)
prese un po’ di argilla, e con la sua mano
ecco creato il genere umano.
Lo fece simile a sé per diletto,
di tutto il creato il prediletto.
Ma tale favore durò assai poco,
forse per superbia, forse per gioco,
la prima fu Eva, poi il turno di Adamo
a coglier la mela dal vietato ramo.
«La colpa è tutta del serpente»
furon le parole del penitente;
ma Dio non lo ascoltava neppure,
riversò su di lui immense sciagure.
E fu così che Eva ed Adamo,
lei menzoniera, lui gran villano,
furono espulsi dal giardino divino:
a consolazione generaron Caino.
Tempo dopo fu il fratello Abele,
figliol più gradito a un Dio ancor crudele.
Visto preferito il fratello minore,
ecco che Cain, con rabbia e rancore,
si scagliò contro il malcapitato
e a oriente di Eden venne cacciato.
E dopo di loro una stirpe radiosa
con patriarchi e grand’uomini a iosa;
per secoli e secoli vissero in molti
diventando – ahiloro – malvagi e assai stolti.
Uno soltanto a Dio era gradito,
Noè si chiamava, uomo compito,
fedele, devoto, incorrotto ed eccelso:
insomma era chiaro che fosse diverso.
Il Signore infatti era pronto a inondare
un mondo di uomini da non salvare
«Tu solo, mio caro, di questo sei degno,
unico ancor colmo di fede e ritegno.
Su, fabbrica un’arca di legno e di pece
colma di animali: una coppia per specie.
Porta con te anche tua moglie ed i figli
prima che il diluvio, sprovvisti, vi pigli».
Per quaranta giorni piovve a dirotto
spazzando dal suolo quanto vi era sotto.
Ma sopra le acque Noè galleggiava
e sull’Ararat mesi dop si arenava.
Incerto sull’esito dell’acquazzone
più volte inviò un corvo in perlustrazione.
Poi, giorni dopo, una colomba bianca,
la qual, verso sera, tornò, un poco stanca:
portava nel becco un rametto d’ulivo;
le acque: sparite, il suolo: vivo!
E fu un nuovo inizio per la comitiva,
ogni specie, festante, dall’arca usciva;
sacrifici, offerte e perfino un altare
fu quanto Noè a Dio volle donare.
Così un’alleanza fu tra i due stabilita,
sola garanzia di morte e di vita,
un accordo divino a cui non venir meno:
a suggello, simbolico, l’arcobaleno.

Bibliografia
La Parola del Signore. La Bibbia interconfessionale, a cura di E. Pollet e L. Zonta, Elledici, 2009
Francesco Guccini, La Genesi, in Opera Buffa, 1973

L’origine

Alessandro Antonio Vercelli, in questa sua composizione, scrive un’inedito dialogo tra il cantore Esiodo e il titano Prometeo sull’origine e sul destino dell’universo, degli dei e degli uomini a partire dalla Teogonia esiodea, dalle Metamorfosi ovidiane e dal libro biblico della Genesi, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi. 

L’origine consiste in una riscrittura della Teogonia esiodea trasposta in un dialogo tra il cantore Esiodo ed il titano Prometeo ispirato ai Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese. Il testo presenta contaminazioni con le Metamorfosi ovidiane e con la Genesi. I due protagonisti sulla cima di un monte parlano di quel mondo e di quell’umanità a cui hanno donato tutti loro stessi e che ora più nemmeno li riconosce. Tutto ciò che ha avuto inizio, avrà fine. «Tutto ciò che è stato, sarà. […] Sarà il Caos. Sarà il Nulla».

*

[Parlano Esiodo e Prometeo].

Esiodo
Nulla più rimane altrove di questo luogo, Prometeo; solo quando torno qui su posso rivestirmi del vero me, liberarmi della vacua e festante apparenza con cui mi rendo ogni giorno accettabile agli uomini e respirare nuovamente l’odore della vita.

Prometeo
Tutto ciò che potevi fare per loro l’hai fatto, Esiodo. C’è stato un tempo in cui la tua parola aleggiava limpida sulle terre, creava e dava forma all’universo, ogni giorno. Ora non ha più spazio, non è più nemmeno voce. È singhiozzo soffocato, muto.

Esiodo
So lo sconforto e la disillusione, Titano, dei tuoi occhi.

Prometeo
Disinteresse.

Esiodo
Come è possibile che tu, figlio di Iapeto, abbia potuto accettare la segregazione imposta da Zeus, ti sia piegato alla sua ragione?

Prometeo
Un Titano non accetta né è piegato. Zeus nulla può contro le forze del Tartaro. Quando ho plasmato l’uomo l’ho palpato con le mie mani, subito dopo avervi insufflato il soffio divino di vita, e già più non l’ho riconosciuto. Era corpo estraneo ormai, lui, generato dal fango, modellato dalle mie dita, freddo. Testardo.

Esiodo
Che cosa non hai subìto per lui, che cosa non hai patito per i doni che gli hai fatto?

Prometeo
Te l’ho detto, Ascreo, non ho subìto né patito: ho scelto. Speravo di trovare la morte scegliendo la punizione dell’accorto Zeus, ma mi illudevo ancora che la ragione potesse qualcosa contro le forze del Tartaro.

Esiodo
Ma dimmi almeno perché l’hai tanto favorito, l’uomo; come un padre onnipotente sei stato tu per loro.

Prometeo
E loro hanno scelto l’egidarmato Zeus. Ho tentato ancora di ispirare l’amore di me negli uomini, ho donato loro la carne nel sacrificio, ho ingannato l’Olimpico, ho donato loro che li riscaldasse il fuoco. Ma il freddo della loro carne, quel freddo che ho sentito tra le mie dita all’origine, non li ha mai più lasciati. Non c’è più spazio per l’amore della vita vera nel cuore degli uomini, forti della loro razionalità onnipotente, onnipotenti, come Zeus crede di essere.

Esiodo
Eppure anch’io ero uno di loro.

Prometeo
Ma tu hai saputo guardare il cielo profondo e battere le cime dei monti. Per questo sai.

Esiodo
Come ho potuto allora porre il mio canto, pur conoscendo la Verità, al servizio della celebrazione del grande Zeus?

Prometeo
Zeus non ha colpe. È dovuto cambiare tanto per poter continuare a vivere con gli uomini, proprio come hai dovuto far tu.

Esiodo
Io ero uno di loro. Ma non so far a meno, ora, di tornare qui, sulle cime dei monti dove ho incontrato le Muse, a respirare la vita.

Prometeo
Zeus non è mai tornato qui. Lui non è figlio di Memoria, lui non ricorda. Ha tentato di farla sua unendosi a lei, un tempo; ma la loro è stata una lotta inutile e figlie di questa lotta sono le Muse. L’attimo passato è vissuto per quello nuovo e più non ritorna, per Zeus. Zeus, addomesticatore del Tempo. Tu sei d’un’altra linfa, Esiodo, una linfa di vita millenaria e te soltanto hanno scelto le Muse, le figlie di Memoria. Tu ricordi. Tu torni.

Esiodo
Come posso accettare di vederli oggi, fanatici di formule e predizioni, credere a ciò che io da millenni ho cantato e scritto; veder loro prestare fede a uomini che studiano, predicono, sperimentano, postulano un futuro che verrà tra millenni infiniti? Eppure la fine è l’inizio. Ed è ora. Tutto è scritto. Ciò che è stato, sarà.

Prometeo
Questo dimentica Zeus, l’adunatore di nembi. Il Tempo non è cancellato. Zeus non lo ricorda, eppure loro sono là sotto e non tessono trame sovversive: loro sono, esercitano la loro forza, attraggono, turbano, piegano traiettorie, spazi, tempi. Ciò che è stato, sarà.

Esiodo
In quel canto che ho scritto e composto sta il segreto, la Verità. Ogni tanto penso che la scrittura debba esser figlia di Zeus: una concatenazione di parole, disposte in linea, le une dopo le altre.

Prometeo
E mai che l’uomo pensi a legger le altre dopo le une.

Esiodo
L’uomo non legge, non lo fa più; studia, analizza, scompone il canto. L’uomo non ascolta.

Prometeo
L’uomo vede, costruisce, viaggia. Il mio dono è la loro rovina e il loro vanto.

Esiodo
Ah, la grande tecnica! Croce e delizia degli uomini! Ma come può l’uomo che postula, calcola e predice non rendersi conto che tutto ciò che è stato sarà di nuovo?

Prometeo
Ti sbagli, Esiodo d’Ascra. Saremo di nuovo noi, saranno di nuovo le sofferenze e le gioie, quelle assolute. Ma l’uomo non sarà mai più e nella regressione del tempo non potrà rivivere nemmeno le Età perdute.

Esiodo
E di Zeus? Sai che sarà di lui?

Prometeo
Zeus sopravvivrà, si adatterà, come ha fatto per sopravvivere fino ad oggi. Zeus perpetua sé stesso. Sarà lui, ragione tecnocratica, a riportare noi e il Tartaro tutto a dominare l’universo, di nuovo.

Esiodo
Non finirà nemmeno così.

Prometeo
Tu non sai. Sei un uomo e più non sarai.

Esiodo
È da tempo che io più non sono. Ma loro, le Muse Eliconie, me l’hanno rivelato, e lo rivelano con le parole di ogni cantore del Vero. Eppure nessuno mai ascolta; non gli uomini, non voi, stirpe titania. Vi arrendete al canto, dimenticate, non ne reggete l’armonia, sonno e sogni vi subissano, vi fate cullare.

Prometeo
Taci, Esiodo, t’inganni.

Esiodo
Ciò che è stato, sarà, Prometeo. L’alto Olimpo tremerà, sarà sfilato dalle nubi in cui è accucciato da millenni e sprofonderà nel Tartaro che si aprirà. Vivrete. Ma così come foste generati, morrete. Sarete stipati nella Terra. Sarete il peso immenso. Sarete la forza pura ed incontrollata. Tutto piegherete a voi e tutto sarà inghiottito, con voi. Perderete il controllo.

Prometeo
T’inganni, Esiodo. I nostri padri posero fine una volta per tutte alla costipazione, fecero esplodere l’universo e lo fecero espandere. Liberarono le forze e generarono ogni cosa. Non tutto ciò che è stato sarà.

Esiodo
Tutto ciò che è stato, sarà. Saranno allora la Terra ed il Cielo.

Prometeo
Tu sei crudele, Esiodo.

Esiodo
Sarà il Caos. Sarà il Nulla.

Bibliografia
Esiodo, Teogonia, tr. it. di G. Arrighetti, BUR, Milano, 2020 [1984]
La Sacra Bibbia. vol. 1, tr. it. di E. Galbiati et al., Utet, Torino 1973
S. Hawking, Dal big bang ai buchi neri: breve storia del tempo, BUR, 2018 [1988]
Ovidio, Le metamorfosi, tr. it. di G. Faranda Villa, BUR, Milano, 2016 [1994]
C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 2014 [1947]

Verrà la morte e avrà i miei occhi

Sara Staiti Sellitto, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva la figura di Loki dell’Edda, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.  

In questa riscrittura ho cercato di rendere la sofferenza di Loki, incatenato in una grotta dopo la morte di Baldr. A dargli la forza per resistere sono il suo forte desiderio di vendetta nei confronti degli dèi che lo hanno punito e una profezia rivelata a Ódhinn.

*

Tic.

Una goccia mi brucia il viso e mi riga la guancia come una lacrima di veleno.

Tic.

Un’altra. Il dolore deve avermi stordito a tal punto che ho perso conoscenza; succede spesso ormai. A poco a poco riprendo i sensi, stringo i denti cercando di sopportare il dolore e non urlare; tendo i muscoli e stringo i pugni, le unghie conficcate nei palmi. Mentre mi divincolo in preda alla disperazione le catene mi graffiano i polsi e rivoli di sangue scorrono lungo le braccia incrostate di sangue rappreso e terra. È passato molto tempo da quando Thórr e Skadhi mi hanno legato a queste rocce, qui, in questa caverna buia; all’inizio contavo i giorni del mio supplizio per mantenere almeno un barlume di lucidità, ma qui attorno a me è tutto così buio che ho finito per perdere la cognizione del tempo. Ormai la vista del sole è solo un vago e lontano ricordo.

Tic.

Mia moglie, Sigyn, non c’è: il veleno ha corroso la ciotola che si ostina a voler tenere sopra la mia testa e appena se ne accorta è corsa a cercarne un’altra. Anche nella disgrazia mi è rimasta fedele, ma temo che non sarà così ancora per molto e che presto sarà costretta a cedere: le tremano le braccia e le gambe mentre tiene alzata la ciotola, ogni giorno mi sembra di scorgere sul suo viso ingrigito, un tempo candido e roseo , una nuova ruga, segno del tempo che scorre implacabile ma anche della fatica a cui si sottopone.

Tic.

Mi lascio sfuggire un gemito soffocato che diventa presto un urlo, un urlo di disperazione, sì, ma anche di rabbia. Il mio corpo è scosso da violenti fremiti e così la terra, che comincia a tremare con fragore tutto attorno a me. Mi divincolo, tiro le catene con tutta la forza che mi è rimasta nel corpo per cercare di sfuggire a quelle gocce di fuoco che cadono dalla bocca del serpente ma è tutto inutile, non riesco a liberarmi. Almeno per ora.

Tic.

Il bruciore mi toglie il fiato; le lacrime mi bruciano la gola, ma cerco di ricacciarle indietro, come ho fatto quella volta. Le immagini di quel giorno tornano a susseguirsi vivide nella mia mente, ogni volta è come se rivivessi la loro morte, la morte dei miei poveri figli. Nelle orecchie mi risuonano ancora i latrati di Váli e le urla strazianti di Narvi, la carne dilaniata strappata con forza dal suo esile corpo, il sangue che cola insieme a brandelli di carne viva masticata dalle fauci di Váli, mentre loro stavano lì, diritti, a godersi il macabro spettacolo con la soddisfazione dipinta sul volto. Gli dèi Asi sono i colpevoli della loro morte e della mia tortura: hanno voluto punirmi per la scomparsa del loro amato Baldr che probabilmente tutti staranno piangendo in questo momento e continueranno a farlo. Tutti tranne me. Anzi, se avessi la possibilità di tornare indietro, pur sapendo quale punizione mi attende, lo farei uccidere di nuovo, tutto purché loro soffrano. E soffriranno ancora, lo so.

Tic.

So della profezia rivelata a Ódhinn. Pensava di non essere visto mentre si recava furtivo dalla veggente per conoscere gli avvenimenti passati e soprattutto quelli futuri, ma non poteva sfuggire al dio degli inganni e, prendendo le sembianze del suo corvo Huginn, l’ho seguito fino all’antro oscuro che era la sede della vecchia. Non entrai, rimasi all’ingresso della grotta per evitare che lei potesse accorgersi della mia presenza e ascoltai. La lontananza non mi permise di afferrare tutte le sue parole, ma quello che sentii fu sufficiente: parlò della fine del mondo, la fine che attendeva gli dèi Asi e la battaglia che avrebbero combattuto contro le forze del male. Tra loro c’ero anche io. E mentre loro ora si affannano cercando di causare tra i mortali infinite guerre per riempire la Valhöll di un esercito  sempre più numeroso, io trovo una consolazione per le mie pene nella consapevolezza che prima o poi tutto questo finirà e potrò vendicarmi. Me li immagino, tutti quei valorosi guerrieri, che si addestrano strenuamente e si abbuffano di carne e met, ignari di essere solo delle misere pedine in mano a dèi a cui si affidano e che pregano.

Tic.

Mi consola il pensiero della resa dei conti e la speranza che quel momento arrivi presto. Li affronterò e restituirò loro tutto il dolore che mi hanno causato, ucciderò i loro stessi figli di fronte ai loro occhi, mi trasformerò in lupo e li divorerò lentamente perché sentano il dolore di ogni singolo nervo lacerato, di ogni singolo osso spezzato mentre affondo le fauci nel sangue caldo e allora sarò io a godere della loro morte. Ucciderò Frigg proprio davanti a Odhinn, riesco quasi a percepire la sua rabbia mentre si rende conto di averla persa per mano mia, e poi Thórr e ancora Niördhr e poi Freyr e poi…

Tic.

Il veleno mi scorre lungo il corpo, il fragore della terra che trema copre le mie grida. Sigyr è via da un po’ ormai, sicuramente sta per tornare. Sì, sarà di certo sulla via del ritorno, pronta a soffrire ancora una volta insieme a me. Sì, eccola, sento rumore di passi, si sta avvicinando. Mi sembra che qualcosa si stia muovendo nell’oscurità, diretta verso di me. Ma perché non mi ha ancora raggiunto? Quanto manca? Perché ci sta mettendo tanto? Mi si annebbia la vista, mi pulsa la testa e le orecchie iniziano a ronzare, gli arti mi si irrigidiscono e a poco a poco smetto di agitarmi, la testa mi cade all’indietro.

Tic.                                                 

Tic.

Tic.

Bibliografia

S. Sturluson, Edda, a cura di G. Dolfini, Milano, Adelphi edizioni, 2019

Sconosciuto multiforme

Veronica Fenoglio, in questa sua composizione, riscrive e commenta in un’inedita prospettiva la nascita del mondo dal caos, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi. 

L’ uomo, animale pensante dotato di un naturale istinto per la speculazione, si è da sempre interrogato sull’origine delle cose. Questa sua indagine costante ha generato una moltitudine di interpretazioni la cui esposizione è stata poi affidata alle narrazioni. Da questi racconti emerge spesso l’idea che tutto si sia originato da uno stato primordiale definito comunemente ‘caos’: termine che assume differenti connotazioni a seconda della cultura a cui si fa riferimento.
La riscrittura vuole presentarsi come un’interrogazione ontologica che il Caos compie su se stesso. Attraverso l’analisi delle varie definizioni che gli sono state attribuite nel tempo, egli si domanda se una di esse potrà mai aiutarlo a capire cosa è veramente.
Un Caos triste, sconosciuto a se stesso, che si indaga alla ricerca del proprio nome e del proprio io in un lamento eterno senza risposta.

*

In principio c’ero io?

Mi manifestai all’improvviso e fui assimilato all’inizio di ogni cosa. Non so come mi originai, né perché.

Subito, senza far nulla e senza che avessi nemmeno il tempo di accorgermi della mia esistenza, fui temuto poiché io ero il Prima. Apparivo spaventoso perché fa paura ciò che non si conosce: molti furono i tentativi di definirmi per far scomparire quella terribile sensazione di incertezza e timore.

Mentre cercavo di capire cosa in me scatenasse quella reazione, una verità straziante mi si presentò dinnanzi: nemmeno io sapevo cosa fossi realmente.

Mi accorsi di non aver memoria né storia. Non sapevo dove trovare risposta.

Una paura prepotente si impossessò di me da quel momento: il terrore di non poter mai conoscere la mia identità, il significato di questa mia esistenza.

Ancora adesso voglio disperatamente trovare un senso a ciò che sono.

Neppure il mio nome posso dare per certo. Troppi me ne sono stati dati, nati guardandomi con il terrore negli occhi e caduti davanti ad altri ritenuti più veri.

In principio,

Mi chiamarono voragine.

Videro in me una caduta eterna, inesorabile sprofondo, vertigine immensa. Mi trovo ai confini di ciò che esiste, esattamente nel mezzo, poiché il mio abisso si genera quando ciò che è si interrompe. E lì inizia il precipizio che sono io. Ha un limite la profondità del mio essere? Sono forse finito? Come posso essere certo della mia infinità?

Poi,

Mi chiamarono buio.

Mi venne assegnato questo nome perché mi trovo dove luce non può essere. Sono oscurità nera, intensa, spaventosa perché al suo interno nulla si riconosce più, tutto si perde e diventa indefinito. Eppure al mio interno tutto permane nella sua forma originaria e aspetta solo di essere scrutato. Più che assenza di luce, non sono forse assenza di sguardo capace di cogliere il contenuto del mio essere? Non sono semplicemente incomprensibile entità a coloro che vivono di luce?

In seguito,

Mi chiamarono disordine

Fui descritto come moto infrenabile e mancanza di stabilità. Dove io sono non c’è posto per alcun ordine, la confusione è sovrana. Mi definirono come un insieme di elementi fuori posto ma come potevano esserlo elementi che ancora un luogo fisso non avevano?  Non sono piuttosto governato da un ordine diverso in questa mia diversa realtà?

Ancora,

Mi chiamarono nulla.

Pensarono a me come un’assenza totale, come ciò che non è. Eppure questa visione di me porta in se stessa un paradosso insolubile: come posso essere vuoto assoluto se da me si è originato tutto ciò che esiste? Non sono piuttosto il tutto non ancora manifestato?

Poi,

Mi chiamarono caos.

Videro che in me nessun principio è valido, nessuna regola può essere rispettata. Ciò mi rende ancor più imprevedibile e terrificante. Sono confusione totale, assenza di punti di riferimento. Ma una realtà in cui domina il caso può dirsi priva di leggi? Il dominio del caso non è esso stesso un punto fermo, una caratteristica peculiare e permanente del mio essere?

Infine,

Mi chiamarono ignoto.

Si arresero alla mia incomprensibilità. Divenni inspiegabile ai loro occhi e decisero di smettere di cercare un modo per definirmi. Utilizzarono semplicemente la negazione: “non-noto”. Mi descrissero con immagini che sono negazione di altre o sottrazione di altro e non giunsero mai ad assegnarmi un qualsiasi statuto netto che non fosse rappresentato da un contrasto. Esisto dunque solo per negazione di ciò che è conosciuto? Significa forse che non c’è modo per conoscermi?

La domanda vive con me. Il mio tempo continua, la mia indagine prosegue.

Sono solo questo? Sono tutto questo?

Non comprendo chi io sia, e mi domando se mai riuscirò ad avere risposta.

Affranto, rimango sconosciuto a me stesso.

Non trovo specchio che mi rifletta, non trovo idea che mi comprenda, non trovo nome che mi rappresenti.

Qui il file commentato.

Muri nel mare

Rossella Cutuli, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva la nascita del mondo, nell’ottica del corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi. 

La mia riscrittura è incentrata sulle origini, non tanto del mondo bensì della sua bellezza in cui la vera forza creatrice e al contempo distruttrice è la Natura. Ispirata in parte alla Genesi e in parte alle Metamorfosi, non preclude un discorso scientifico. L’origine qui viene narrata dal punto di vista di un non-corpo che dalla propria immobilità coglie il più impercettibile dei movimenti. La narrazione è infatti affidata a un coro millenario, a dei faraglioni in mezzo al mare. Anche se non è esplicitato, i faraglioni in questione sono quelli di Acitrezza, in Sicilia, un luogo che è stato di ispirazione per tanti artisti e poeti, non soltanto Verga ma anche lo stesso Ovidio nell’episodio di Aci e Galatea (Met. 13).

*

Siamo nati più volte, senza mai morire.
Eravamo qui quando il Sole non esisteva,
e la Luna non esisteva e le Pleiadi non pulsavano
e il Mare non rumoreggiava.
Quando tutto era niente[1],
solo vuoto di liquide tenebre
s’accresceva nei suoi bordi frastagliati.

Eravamo qui prima di Poseidone
quando le unioni erano sterili
mortali o immortali che fossero.
Poi dai vortici d’argento fu disegnata
una bellezza sovrana,
essa creò i colori da un fiore
ornamento profumato per i suoi capelli,
ne creò un altro ancora più colorato del primo
da quello nacque un uccello
fu così che venne al mondo la bellezza, l’ineffabile, il sublime,
la facoltà dell’essere umani.

Di noi fece alte cime più divine del Parnaso,
qui nacquero le ninfe dalla bella chioma
qui cominciò il canto,
l’eco delle storie antiche[2]

Polifemo[3]ci scaraventò contro Odisseo ché l’aveva accecato[4].
Fummo sommersi dai diluvi[5],
a lungo non sentimmo il respiro del vento,
diventammo la casa e il riparo del ramingo Caino[6]
quando dio ci dimenticò nel tartaro,
ma svettammo ancora grazie alla forza sottomarina dell’Etna,
e ci rivestì della sua lava.
Accadde allora che Caino fu ucciso da un Re avido,
poi da un padre geloso
e infine per amore della Bellissima
ci abbandonò espiando.

Non apparteniamo a nessuna dinastia,
non siamo figli di alcun dio.
Eppure, molti furono i poeti che per noi narrarono
non demmo loro muse e ispirazioni
ma motivi e ambientazioni
da Omero a Verga, e a chicchessia
sorsero parole, immagini e personaggi
Odisseo, i Malavoglia, Aci e Galatea

«Aci era figlio di Fauno e una ninfa nata in riva al Simeto:
delizia grande di suo padre e di sua madre,
ma ancor più grande per me; l’unico che a sé mi abbia legata.
bello, aveva appena compiuto sedici anni
e un’ombra di peluria gli ombreggiava le tenere guance.
Senza fine io spasimavo per lui, il Ciclope per me».[7]



E qui, nel blu dello Ionio, restiamo immobili nella forma maestosa
cesellata dai venti,
con lo sguardo fisso da giganti e l’udito di roccia,
senza merito, né gloria
da cinquecentomila anni e più.
Non proviamo pena, né languore
le nostre ossa sono pietra
delle lacrime però abbiamo il sale.
Col tempo anche noi ci siamo evoluti,
a tal punto che il nostro orecchio, che orecchio non è,
riesce a udire i pensieri più remoti
e il nostro sguardo, che sguardo non è,
può vedere al di là dei corpi,
fino all’anima e ai sogni che si distendono oltre l’orizzonte.

Le anime dei vivi con i loro desideri e le loro paure
tracciano strade inarcate dal buio alla luce,
noi sappiamo tutto ciò che dall’anima si stacca e cosa vi è penetrato.
Anime il cui corpo cambia
e cambiando muove passi leggeri
lungo un cammino in eterna creazione,
un cammino circolare irto di fine e inizi.

-Una danza commovente per noi immobili-.

Con l’aiuto del vento, assorbiamo la polvere della loro memoria
perché ci chiedono verità e poesia
ma un solo nostro sospiro scatenerebbe cataclismi.
Soltanto quando tutto il rumore cessa nella quiete,
e terminano gli schiamazzi,
le urla dei mercanti di pesce, i pianti dei bambini,
quando l’intero Ionio è pace
e il sole è già calato con la stessa lentezza di una palpebra che s’abbandona nel sonno;
è allora che, nel silenzio dell’etere,
noi rispondiamo, non con parole funeste,
ma sul palco dei sogni,
è così che ripaghiamo i nostri dispensatori di storie
poiché esse ci svelano la verità.
Col tempo le storie sono diventate per noi ciò che per i pesci è l’acqua: l’essenziale.
Alla fine, secondo l’ordine del caos dove tutto va e viene, le lasciamo andare.
È la nostra unica legge. Il nostro unico movimento.
Ma qualcosa di quelle storie resta in noi, nella nostra immortalità.
La chiamano legge del tempo.
Noi sappiamo poco del tempo,
esso passa e non passa,
i vecchi ritornano bambini e i morti rinascono.
Ecco, tutto ciò che sappiamo.

Uomini e donne ci raggiungono a nuoto dall’Isola dei Ciclopi.
I più coraggiosi si arrampicano sul nostro crinale di grigia roccia scura
e alcuni, desiderosi di belle imprese,
colmi di meraviglia e angoscia chiedono:

«Il mondo è stato tutto questo?»

Non fanno in tempo a finir la domanda che il mondo è già cambiato.
C’è sempre una voce che vuole raccontare,
dire cosa è stato e cosa sarà.

Ecco, tutto ciò che sappiamo.

Tuttavia,
per gran parte della gente noi non esistiamo.
Scogli. Muri nel mare.
Questo siamo per quelli che arrivano e non si fermano,
che passano senza ascoltare, ci girano attorno e ci evitano.

Siamo fatti di atomi, e un atomo funziona come un animale?

D’altronde anche per noi è impossibile non comunicare.
Ed è evocando le loro emozioni che comunichiamo
ciò che a parole non possiamo.
Non è forse vero che pensano di essere fatti della stessa materia delle stelle,
ignorando o scordando che tutto è della stessa materia delle stelle?

L’immobilità è la nostra condanna,
ci differenzia da quegli esseri in eterno movimento.
Portatori universali di anime.

Esiste un ”noi” e un ”voi”
malgrado fossimo già uniti in quel nucleo caldo e denso,
in un tempo in cui non esisteva ancora il tempo;
prima che lo scoppio del più grande evento creativo avesse inizio,
sì, chiamatelo Genesi o Big bang[8].

Se potessimo vi invidieremmo
la morte e la possibilità di ricominciare
non è che noi siamo immortali e voi no, niente affatto.
Dopo ogni morte si ritorna alla vita, ed è ciò che noi chiamiamo immortalità.
In noi, cose della natura, adulatori di storie,
c’è la chiave di lettura del linguaggio dell’universo;
in voi la voce.
La nostra missione è portare il messaggio e mostrare la strada
spesso entrambi falliamo.
Non era questo ciò che volevamo
ma a noi non è concesso volere qualcosa.
Essere muti portavoce di ciò che immaginiamo sia la realtà è il nostro mestiere.

Noi, voi, siamo l’universo.
Ditelo, siamo l’universo.


[1] Ovidio, Metamorfosi, I, 1-20.

[2] Cfr. Esiodo, Teogonia.

[3] Ciclope della mitologia greca citato da vari autori antichi: Omero, Teocrito, Euripide, Ovidio, Virgilio.

[4] Odissea, IX, 480-486. La scena dell’accecamento di Polifemo e del lancio di massi da parte del Ciclope trova un parallelismo nel gigante presente nella novella Sindbad il marinaio, nella raccolta Le mille e una notte.

[5] Riferimento al Diluvio Universale di Genesi, 6, 13 ssg.; Ovidio ne parla invece nel mito di Deucalione e Pirra (Metamorfosi, I, 313-415) e ritorna anche nella mitologia babilonese (cfr. l’Epopea di Gilgameš).

[6] Caino appare in Genesi, 4,1-15).

[7] È il riferimento all’episodio di Aci e Galateanarrato in Ovidio, Metamorfosi, XIII, 738- 897.

[8] Cfr. S. W. Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri-Breve storia del tempo, Bur, Milano, 1988.

Bibliografia
Bibbia, Genesi, in La Bibbia di Gerusalemme, Dehoniane, Bologna, 1974
Esiodo, Teogonia, a cura di G. Arrighetti, Rizzoli, Milano, 1984
S. W. Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri-Breve storia del tempo, Bur, Milano, 1988
Omero, Odissea, a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino, 2014
Ovidio, Metamorfosi, a cura di G. Rosati, BUR, Milano, 2003
N. K. Sandars (a cura di), L’epopea di Gilgameš, tr. it. di A. Passi, Adelphi, Milano, 1986