Arianna di Pascale, in questa sua composizione, propone una riflessione inedita sulla figura di Elena di Troia e sul suo ruolo in un ambito di rinascita. La riscrittura è stata elaborata durante il corso Scritture delle origini. I miti e la scienza, Letterature Comparate B mod. 1, prof. ssa Chiara Lombardi.
In questa riscrittura ho rimaneggiato la storia e la fama di Elena di Troia, proponendone una nuova lettura in chiave di rinascita. Elena è da sempre una figura negativa nelle narrazioni mitiche, colei che scelse di macchiarsi non solo di adulterio, ma di tradimento verso la patria. Nel mio scritto, da una situazione iniziale di desolazione e caos post apocalittico dopo la terribile guerra di Troia – che rappresenta anche la negatività del ruolo assunto dalla donna nell’immaginario comune – si arriva ad una conclusione di ribaltamento in positivo della figura di Elena, dando così inizio ad una nuova età dell’oro. Questa rinascita avviene grazie al processo di “catarsi” provocato in Afrodite dal discorso di Elena; si verifica così una nuova origine della razza umana.
*
“…ἢ γὰρ Τύχης
βουλήμασι
καὶ θεῶν βουλεύμασι καὶ Ἀνάγκης
ψηφίσμασιν ἔπραξεν ἃ ἔπραξεν,
ἢ βίᾳ ἁρπασθεῖσα,
ἢ λόγοις πεισθεῖσα,
ἢ ὄψει ὲρασθεῖσα”[1]
La terra si
mischia con il cielo urlante, come le lacrime sono ormai indistinguibili dalle
gote, non più degne dell’epiteto “belle” che le designava un tempo. Lacrime
amare, di un dolore dall’ampio petto[2], che raccoglie
colpa, disperazione, rabbia. Molte lune sono trascorse dalla causa del pianto,
eppure i fiumi che scorrono dai begli occhi sembrano avere fonte infinita.
Elena alza gli occhi alla volta celeste,
che ricambia con sguardo iroso e scoppia in un tuono che sembra divorare quel
che resta della terra, ormai sterile stagno di fuoco e di zolfo[3].
Ebbene questa è la mia colpa… anche il
mare, il cielo, sono attraversati da tempesta e sconvolgimento alla mia vista:
solo incrociando il mio sguardo perdono ogni lume, e si abbandonano al Caos.
Ebbene, questa è la mia colpa… il dono
tanto gradito ai più è per me insieme vita e morte.
Sopravvivere alla mia stessa bellezza, è
forse vita questa?
Guardare fiumi di sangue scorrere
violenti, in piena, mentre tingono gli oceani di rosso. Molte volte il sole ha
danzato attorno alla terra, e cammino da altrettante, alla ricerca anche solo
di una goccia d’acqua che, non toccata dalla mia colpa, abbia conservato il
colore della purezza.
Non merito tuttavia quella goccia, qualora
ancora ce ne fosse una; o così credono gli Dei dell’Olimpo.
La mia sventura ebbe inizio in un giorno
che avrebbe dovuto essere il giorno più felice. Si celebravano le nozze di una
dea del mare, Teti, con un uomo bellissimo, Peleo, e tutti gli dei erano venuti
a festeggiare gli sposi portando loro una grande quantità di doni.
Nessuno però giudicò opportuno invitare
Eris, dea della Discordia, ché la sua presenza, degna di biasimo, avrebbe
assicurato litigi furibondi in un giorno tanto piacevole. Infatti, se è vero
che nessun mortale l’ama, gli dei, costretti, fanno sì che le si ponga rispetto[4].
Il banchetto procedeva lieto, e già Teti e
Peleo erano andati nel talamo, condottivi da Anfitrite e da Nettuno. La Discordia, stizzita, colse
il tempo, e, non veduta da nessuno gettò nella sala del banchetto un pomo
lucente, tutto d’oro, e con una scritta che diceva: la più bella l’abbia.
Quello ruzzolò, e giunse, come a posta, dove erano sedute Giunone, Venere e
Minerva. Tra loro sorse contesa, e ciascuna desiderava il pomo per sé; così
Giove designò giudice Paride. Eris, ridendo del male provocato[5], ammirava il banchetto.
Ogni dea offerse doni per persuadere il
bel giovane a proprio favore, e tuttavia egli scelse Afrodite- insieme con il
premio da lei offerto, che fu la mia persona.
La sua scelta, che da un lato pose fine
alla contesa, diede adito ad altro tipo di odio: Minerva e Giunone, adirate,
maledissero il premio offerto dalla dea vincitrice, facendo della mia bellezza,
ritenuta impareggiabile da alcuna donna, ragione di follia per chiunque posasse
lo sguardo sulle gradevoli membra.
Afrodite però promise l’amore di una donna
sposata; Paride, così, mi rapì dalla casa achea e dagli affetti.
Menelao, mio legittimo marito, dichiarò
guerra alla patria del figlio di Priamo: quel conflitto, l’ennesimo, nella
bellicosa storia dell’uomo, fu tuttavia l’ultimo. Come il fuoco vorace, rovina
dei rami[6], divora ogni cosa sul suo
cammino, così la furia di Ares si scatenò, mortale, sull’umanità: un ardore
prodigioso penetrava Caos[7].
Il marchio della mia maledizione ruppe le
ordinate file di soldati, volgendo la guerra in scontro informe, indistinto, in
cui non v’erano più nemici né alleati. La follia pose ambo le mani sugli occhi
di coloro che, anche solo una volta, avevano incrociato lo sguardo con il mio,
e come una pestilenza la follia si diffuse, rapida e invisibile, nel campo di
battaglia.
Non rimase nessuno, sola camminai tra gli
scudi abbandonati, i nudi piedi dolenti sulla terra sterile.
Strappati furono i figli dalle braccia
materne, i mariti dalle mogli, gli amici dal simposio, e non rimase nulla se
non macerie e corpi senza anime. Così, come Achille cullò, invocando la morte,
il corpo di Patroclo, la madre del Pelìde pianse il corpo del figlio, nato
dall’unione che fornì l’occasione della mia disgrazia.
Sola, sola con la mia colpa.
Colpa che mi macchiò le mani, mentre la
spingevo via con tutte le forze. È colpa, esser parte del rincorrersi degli
eventi?
Certamente nella storia, nella memoria,
ciò che conta sono i fatti, le evidenze, le conclusioni: solamente i gloriosi,
i valorosi, meritano di essere ricordati come esempio di virtù.
O madre, Nemesi, giustizia riparatrice,
non ho nulla di te nel mio essere, nessuna giustizia è in serbo per me.
È certamente dire il falso, affermare di
non aver peccato; nonostante il desiderio, bruciante, di porre la mia verità
agli occhi di alcuno mi abbia ormai consumata. Donna superba, adultera… così
morirò ai miei occhi, gli unici che ancora conservano il lume della vita e
conservano memoria.
Sarebbe forse più terribile finire i miei
giorni in una pace apparente, e sopravvivere in tal guisa alla memoria dei miei
figli, che avrebbero vissuto col capo chino per la vergogna causata dal
terribile strappo sul mio onore. Tuttavia la guerra che ho causato mi rende
imperdonabile, ai miei occhi per prima.
La mia bellezza? Peccai di superbia.
La mia fuga con Paride? Peccai di
adulterio e lussuria.
Che sia una colpa essere parte del piano
divino, questo è l’amaro destino umano.
Afrodite,
a te devo i tre mali della mia vita.
Con il tuo favore la madre legò,
indissolubile, l’anima impalpabile a questo corpo funesto.
Tu, Citerea[8] dalla splendida chioma, mi
maledicesti una seconda volta facendo di me premio e trofeo,
e infine, ferendo la vanità delle
contendenti, ne scatenasti l’invidia.
E tuttavia tu stessa fosti ugualmente
colpevole di azioni non tue: la triste Eris tirò la mela, il bel Paride ti
scelse.
Con questo mio ultimo gesto ti rendo
giustizia, l’unica, temo, che riuscirò mai ad ottenere.
E come il suo corpo cadde dall’alta roccia nel mare agitato, esso fu portato al largo per molto tempo; attorno alla bianca spuma, dalle mortali membra, lambita dai flutti nacque una figlia, e poi un figlio, e dopo essi molti[9]; come gocce di pioggia, dal fecondo oceano si generarono nuove stirpi. Questi figli, con il cuore ignaro del dolore, abiteranno terre spontaneamente feconde e corpi liberi dalla fatica e dal pianto; non li inseguirà il tempo e la vecchiaia misera, ma anzi, dopo una vita di pace, moriranno come colti dal sonno[10].
Per loro la dea fatta di spuma marina terrà separati i beni dai mali; il turbamento per le parole di Elena ne commuove ancora l’animo.
Bibliografia
Esiodo, Teogonia , BUR Rizzoli, Milano 2020
G. Guidorizzi, Kosmos – l’universo dei greci, vol. 1, Einaudi Scuola – Mondadori, Milano 2016
La Sacra Bibbia, Apocalisse, Società Biblica Britannica e Forestiera, Roma 1924
L. Settembrini, Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini, Vol I, 9. Ed. Felice Le Monnier, Firenze, 1862
S. Stulson, Edda, edizione a cura di G. Dolfini, Adelphi, Milano, 2018 [1975].
[1]
“Ella infatti fece quel che fece per
volontà del Caso, e desiderio di Dei, e Decreto di Necessità, oppure rapita per
forza, o persuasa con parole, o presa da Amore”. Gorgia, Encomio
di Elena, 1, 6.
[2]
Esiodo, Teogonia, vv. 117.
[3]
Apocalisse, 20: 14 – 15.
[4]
Esiodo, Opere e Giorni, vv. 11 – 16.
[5]
Esiodo, ibidem, vv. 28.
[6]
S. Stulson, Edda, cap. 4, p. 53.
[7]
Esiodo, Teogonia, vv. 699.
[8]
Esiodo, ibidem, vv. 196 – 198.
[9]
Esiodo, ibidem, vv. 188 – 193.
[10]
Esiodo, Opere e Giorni, vv. 112 – 120.