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Omnia mutantur, nihil interit. Le influenze ovidiane nella filosofia della natura di Leonardo da Vinci

di Andrea Pace

Scrivere di Leonardo da Vinci, e in particolare della Gioconda, può, con molta facilità, sfociare in luoghi comuni sedimentati da secoli nella mente e nell’immaginario di chiunque ne abbia sentito parlare: il genio dell’artista, il più importante ritratto – o addirittura il dipinto – mai fatto, lo sfumato di Leonardo e il sorriso enigmatico della Gioconda.

Un aspetto, a parer mio importante, spesso tralasciato o magari solo considerato marginale è quello della filosofia della natura di Leonardo, troppo importante per un uomo che ha votato l’intera sua esistenza allo studio ossessivo di tutti gli aspetti della grande Madre, dalle conchiglie fossili che trovava nel giardino di casa ai mari, dai fiumi alle montagne, senza mai tralasciare di raffigurare ogni cosa attraverso il suo sublime disegno e i suoi dipinti. Una filosofia della natura che, fra le tante influenze, deve tantissimo alle Metamorfosi di Ovidio, a partire dalla sua descrizione della genesi del cosmo e dell’uomo, fino al quindicesimo libro, da cui l’artista fiorentino ricava gran parte della sua concezione naturale.

Omo sanza lettere, come si autodefiniva nei suoi scritti, Leonardo non poté studiare, al pari dei suoi contemporanei umanisti, il latino e il greco; sentendosi in difetto andò alla ricerca continua di una nuova forma di conoscenza, sottovalutata e malconsiderata all’epoca, ovvero quella che lui definì la sperienza. Leonardo però non rifiutò mai di studiare i grandi scrittori del passato, da lui definiti altori, anzi tra i suoi innumerevoli manoscritti sono stati trovati diversi elenchi di libri in suo possesso o anche solo desiderati. Tra tutti i suoi testi, come spiega Carlo Vecce, le Metamorfosi ovidiane sono il grande libro della natura per il giovane Leonardo a Firenze negli anni Settanta[1] da cui trasse spunto per scritti, disegni e dipinti.

Le Metamorfosi

Il poema latino, che probabilmente costò l’esilio al suo scrittore, narra di forme mutate in corpi nuovi, di trasformazioni, violenze fatte e subite, fughe e inseguimenti, amori e tradimenti, ma soprattutto di una natura vitale, che nonostante le ire e i progetti di distruzione divini non muore mai, ma anzi si trasforma in altro, in qualcosa di migliore rispetto alla condizione precedente.

Nel Libro I Ovidio racconta che in principio era il Caos – descritto come il volto della natura (naturea vultus) al verso n.6 – ma una natura melior, una divinità – non importa quale – intervenne per mettere ordine e così separò il cielo dalla terra, quest’ultima dall’acqua e poi l’aria spessa dal cielo puro. Il passo successivo furono i quattro elementi per dare ulteriore ordine all’universo, poi avvenne la separazione delle acque, dei venti e delle aree climatiche, fino a giungere alle stelle scintillanti e palpitanti. In ultimo fu creato l’uomo, proprio per guardare la meraviglia del cielo stellato.

Questa descrizione della creazione del cosmo, in molti aspetti simile a quella biblica[2], deve molto alla filosofia antica, in particolare a quelle anassagorea e pitagorica. La prima non è mai citata esplicitamente, ma diversi termini del primo libro sembrano essere diretti rimandi al pensatore di Clazomene – o almeno a un contesto culturale influenzato dalle sue idee sul cosmo –: il Caos iniziale, descritto come rudis indigesteque moles… non bene iunctarum discordia semina rerum[3]e ordinato da una divinità – quisquis fuit[4] –, è troppo simile alle anassagoree omeomerie (termine dato da Aristotele ai semi originari di Anassagora) inizialmente mescolate caoticamente, ma poi ordinate da un non meglio determinato Nous, una ragione ordinatrice, una forza separatrice che porta il filosofo a comprendere che tutto è in tutto, che in natura ogni cosa è unita alle altre.

La filosofia pitagorica di Ovidio invece è esplicitamente mostrata nel Libro XV, in cui è proprio il filosofo di Samo a parlare dalla sua adottiva Crotone enunciando un discorso che mescola il pitagorismo con varie filosofie, come quelle Anassimandrea – di cui Pitagora fu allievo –, Empedoclea ed Eraclitea: la nuova filosofia deve portare i suoi acusmatici[5] discepoli a elevarsi a non temere più la morte, poiché i corpi si dissolvono e si decompongono, ma le anime sopravvivono e si reincarnano. Le forme cambiano, così come i fiumi, le acque, il colore del cielo, i quattro elementi, la Luna, le stagioni, gli uomini, i cadaveri, i popoli, le civiltà e i costumi, ma una sola è la verità che permane nel tempo: Omnia mutantur, nihil interit[6].

La filosofia della natura di Leonardo

A questo punto il passaggio alla filosofia della natura di Leonardo è fin troppo semplice: tutte le sue tensioni epistemologiche riguardo le ragioni seminali del cosmo vengono a galla (parafrasando l’introduzione di Carlo Vecce agli Scritti di Leonardo) e

trovano espressione in quei fogli del primo periodo milanese che in un discorso unitario, introdurranno il mito vinciano della caverna scrigno dei segreti naturali…collegato all’esposizione della dottrina di Pitagora nel XV libro delle Metamorfosi di Ovidio.[7]

In quegli scritti Leonardo inventò e raccontò alcuni miti, di cui sarà utile al presente discorso tenerne a mente tre: Il mostro marino (Ar. 156), L’accrescimento della terra (Atl.715) e La caverna (Ar. 155v). Nel primo si narra la storia di un oscuro e terribile mostro marino che distrugge e intimorisce ogni cosa gli si ponga di fronte; ma anche questo mostro è costretto a morire, come ogni elemento della natura, poiché il tempo, consumatore delle cose[8],in sé rivolgendole dà alle tratte vite nuove e varie abitazioni e ora il mostro disfatto dal tempo, paziente diace in questo chiuso loco. Colle ispogliate, spolpate e ignude ossa ha fatto armadura e sostegno al sopraposto monte[9].

Il mostro è morto e decomposto, ma la legge che domina l’universo vinciano è quella di Ovidio, quella dell’omnia mutantur, nihil interit, che in Leonardo diviene la legge di accrescimento della terra, che lo porta a chiedersi: Or non s’è veduto le sassose cime de’ monti, la viva pietra per lungo tempo col suo accrescimento aver inghiottito una appoggiata colonna, e… aver lasciato nel vivo sasso la sua accanalata forma?[10] La necessità naturale prevede dunque che nulla si distrugga, nemmeno le rocce, ma che ogni elemento si trasformi in un altro riassumendo in questo modo le principali influenze prima descritte: Anassagora – citato esplicitamente da Leonardo in Atl. 1067[11] – e Pitagora, riassunti nella figura di Ovidio scrittore delle Metamorfosi.

Il mostro deceduto e decomposto non si trasforma in un qualsiasi elemento naturale, ma in sostegno al sopraposto monte, che sembra essere la Caverna di cui Leonardo aveva già parlato nei suoi scritti con questi termini:

E tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, piegato le mie reni in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio e colla destra mi feci tenebre alle abbassate e chiuse ciglia e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era. E stato alquanto, subito salse in me due cose, paura e desidero: paura per la minacciante e scura spilonca, desidero per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa.[12]

Una caverna che è il simbolo della vita di Leonardo, della sua brama di conoscenza che, in quanto omo sanza lettere, deve partire dall’esperienza sensibile del mondo, ma in quanto genio deve essere accompagnata e stimolata dalla lettura di quegli altori tanto stimati, ma senza divenire uno dei trombetti e recitatori delle altrui opere, che vanno sconfiati e pomposi, vestiti e ornati non delle loro ma delle altrui fatiche[13].

La Gioconda

Per Leonardo dunque le forme non sono mai fisse o stabili, la natura non è mai sempre la stessa; riprendendo le antiche filosofie ricorda alla sua epoca che l’universo muta costantemente e senza riguardi per gli esseri che lo popolano, compresi gli uomini. Tutto si trasforma, nulla perisce è il suo insegnamento, che porta con sé tante questioni esistenziali che saranno care ad altri pensatori e scrittori del futuro[14]. Leonardo è ben cosciente che queste teorie possano spaventare gli uomini, che la necessità naturale con il suo ciclo fatto di nascita, vita, morte e rinascita in altra forma atterrisca ogni individuo che ignori le ragioni ultime, seminali, del cosmo, ma proprio per questo propone un dipinto come mai ne furono realizzati prima: la Gioconda.

L’esperienza – unita alla ragione e allo studio – deve portare alla ricerca delle suddette ragioni, alla comprensione delle leggi naturali e alla loro rappresentazione nei dipinti e negli infiniti disegni e abbozzi[15], che culminano nella Monna Lisa, che forse più che un ritratto può essere considerato un trattato di filosofia della natura[16]. Leonardo nel Trattato sulla pittura dimostra come ogni figura per essere perfettamente dipinta debba partecipare della luce e dell’ombra: le due non devono mai essere separate, anzi devono sfumare l’una nell’altra in una coincidentia oppositorum che ancora rimanda alle filosofie precedentemente menzionate e si rafforza con l’uso di colori opposti affiancati; questa teoria in Leonardo prende il nome di recto contrario ed elimina la concezione del simile conosce il simile, conducendo lo spettatore in un dipinto che si fa specchio, interpretazione e ricreazione della natura, cercando di unire opposti apparentemente inconciliabili (luce e ombra, bianco e nero, necessità e libertà, distruzione e rinascita, paura e ardente desiderio).

Nella Gioconda, tralasciando tutte le questioni riguardo l’identificazione storica, la donna ritratta viene mostrata dall’artista come altro rispetto al pensabile e al dicibile[17], come l’unione di tutti gli archetipi umani, delle figure di donne viste e immaginate: le linee sfumate e il colore perfettamente distribuito rendono quel volto inafferrabile e non commentabile. Il suo volto si fa specchio, si lascia guardare, ma prima di tutto guarda: ricambia lo sguardo dello spettatore, ma in realtà è lei stessa che lo sta aspettando da secoli. Questo sguardo che dura secoli trascina lo spettatore all’interno del dipinto e attraverso i contorni levigati e sfumati lo trasporta direttamente nel paesaggio retrostante, desolato, triste e dai colori uggiosi: montagne stanno per crollare, fiumi in piena stanno per inondare e distruggere ogni cosa, i ponti sono sul punto di essere abbattuti dalle acque e il mondo intero sembra dover cambiare totalmente. Lei però, divina figura, ammicca e sorride, quasi indifferente a tutto ciò; in questo rapporto di singolo a singolo, o meglio di singolo a incomprensibile divinità Leonardo mostra il suo più grande lascito: ha oramai fuso completamente uomo e natura, ha compreso l’indivisibile unione tra tutti gli opposti, tra chiaro e scuro, distruzione e rinascita, necessità e forza creatrice carica di bellezza e armonia; ma non è solo questo, anzi sta dicendo che il mondo fuori di noi è sì meraviglioso, ma è anche terrificante poiché c’è sempre quel mostro marino, scuro e gigantesco, simbolo della necessità naturale che è pronto a distruggerci con diluvi, tempeste, eruzioni vulcaniche e il debole uomo nulla può fare se non cogliere la divina armonia in tutto questo, o meglio trasformare quel mostro nel volto meraviglioso di una donna storica che forse non è mai esistita, che più che una donna forse è la personificazione di quel naturae vultus descritto da Ovidio.

Sulle orme del Pitagora ovidiano insegna a non temere la morte e la distruzione, poiché i corpi, una volta che li ha dissolti il rogo con la fiamma, o il tempo con la decomposizione, non soffrono più[18], idea che per Leonardo si traduce nel meraviglioso ed enigmatico volto di una dama, in un dipinto che non fa altro che riprendere e rendere più diretto e comprensibile il poema ovidiano e le sue teorie pitagoriche – ciò non deve stupire in Leonardo, che appena poteva spendeva parole per sottolineare la superiorità della pittura su tutte le forme artistiche e in particolare sulla poesia, troppo complessa e prolissa, che rischia costantemente di annoiare e rimanere ermetica, mentre il dipinto, con l’uso delle suddette conoscenze e tecniche, è immediato, diretto e facilmente comprensibile.

Insomma il terrificante mostro marino è morto, il suo scheletro simbolo della necessità naturale ha subito la metamorfosi in caverna e infine in dama rinascimentale, ma ora non spaventa più; ora l’uomo, seguendo Leonardo – che per primo si è avventurato in essa caverna –, ha le armi per comprendere che il sorriso della Gioconda è sì ambiguo, ma che solo lo studio e la conoscenza della natura possono renderlo rassicurante e non più qualcosa di beffardo e incomprensibile: qui sta per Leonardo la libertà umana, nell’inserirsi nel sistema della natura, nella necessità che la domina e ricercando le ragioni seminali delle innumerevoli metamorfosi che la contraddistinguono trovarne l’infinita bellezza.

Bibliografia

Ovidio (2015), Metamorfosi, trad. it. a cura di P.B. Marzolla, Torino, Einaudi.

L. da Vinci (1992), Scritti, a cura di C. Vecce, Milano, Mursia.

G. Cuozzo (2013), Dentro l’immagine. Natura arte e prospettiva in Leonardo da Vinci, Bologna, Il Mulino.

Carlo Vecce (2017), La biblioteca perduta. I libri di Leonardo, Roma, Salerno editrice.

Genesi, in La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, ed. Dehoniane.


[1] Carlo Vecce (2017), La biblioteca perduta. I libri di Leonardo, Roma, Salerno editrice, pag. 156.

[2] Si vedano, come più lampanti esempi, in Genesi 1-2 la cosmogonia derivante da un processo di separazione delle forze e di ordinamento da parte di Dio e la creazione di un uomo a Sua immagine e somiglianza per mezzo della polvere del suolo, mentre per Ovidio avviene attraverso la terra ancora recente, che ancora ha in sé parte del cielo divino.

[3] Ovidio, Metamorfosi, Libro I, vv. 8-9, pag. 4. Mole informe e confusa… ammasso di germi discordi di cose mal combinate.

[4] Ivi, v. 32, pag. 6. Chiunque egli fosse.

[5] Ivi, Libro XV, pag. 607. Schiere di discepoli muti e compresi d’ammirazione.

[6] Ivi, v. 165, pag. 612. Tutto si trasforma, nulla perisce.

[7] C. Vecce (1992), Introduzione, in Leonardo da Vinci. Scritti, Milano, Mursia, pag. 7.

[8] Traduzione letterale del Tempus edax rerum di Ovidio in Metamorfosi, Libro XV, v. 234.

[9] L. da Vinci, Il mostro marino, in Leonardo da Vinci. Scritti, pagg. 164-65.

[10] Ivi, L’accrescimento della terra, pagg. 163-64.

[11] Anassagora. Ogni cosa viene da ogni cosa, e d’ogni cosa si fa ogni cosa, e ogni cosa torna in ogni cosa, perché ciò ch’è nelli elementi è fatto da essi elementi.

[12] Ivi, La caverna, pag. 162.

[13] Ovvero coloro i quali non fanno altro che citare e allegare le tesi dei grandi uomini del passato senza però conoscerne le ragioni seminali, senza sperimentarne la verità.

[14] Si pensi anche solo a Leopardi e alla sua ripresa del tema leonardiano della natura madre e matrigna e della sua indifferenza verso l’uomo, ben rappresentata nel Dialogo della Natura e di un Islandese.

[15] Si può dire che con il disegno Leonardo mette in ordine la realtà, ne comprende le forme originarie, ma con la pittura fa ciò che Ovidio fece con la poesia: spiega ai comuni mortali ciò che ha scoperto della natura ricreandola con forme e colori. Come detto nel retro del ritratto di Ginevra de’ Benci: Virtutem Forma Decorat, ovvero la forma adorna la virtù, interpretabile anche come la bellezza adorna la conoscenza.

[16] Come sostiene G. Cuozzo (2013) in Dentro l’immagine. Natura, arte e prospettiva in Leonardo da Vinci, Bologna, Il Mulino.

[17] Ivi, pag. 121.

[18] Ovidio, Metamorfosi, Libro XV, vv. 156-57.

L’‘altro’ allo stetoscopio: il racconto odisseico di François Beaune

Martedì 21 marzo 2018, presso il Campus Einaudi di Torino, il professor Benoit Monginot ha introdotto lo scrittore François Beaune, giovane autore gallimardiano. Nell’ambito delle Giornate della Francofonia (Torino 2018) promosse da “Alliance Française”, l’ospite ha dato agli studenti la possibilità di conoscere direttamente il piano della sua ultima opera, La lune dans le puits.

Sostanzialmente il libro è composto da più di centosettanta brevi storie direttamente prelevate dal reale, histoires vraies che parlano della realtà nuda e cruda e che la presentano senza abbellimenti, modificazioni o rimaneggiamenti, proprio come l’autore stesso le ha ascoltate. La sua fonte di ispirazione è stata l’esperienza da lui fatta tra il 2011 e il 2014, durante la quale, presi microfono e registratore, è partito per un tour del bacino mediterraneo intenzionato a collezionare un’ingente pluralità di voci che chiedeva solo di essere ascoltata.

 

Diversi sono stati gli argomenti principali della conferenza, così come tante sono le relazioni tra pensieri, fatti e parole da ricordare per comprendere la sua ricerca: innanzitutto il motivo che lo ha spinto verso questa impresa odisseica; poi il metodo, argomento fondamentale per realizzare un lavoro di questo respiro; il disegno finale del libro, fortemente collegato al suo titolo, cioè quello di costruire un ponte tra gli uomini che abitano il Mediterraneo; e infine l’augurio più significativo, ossia rendere sempre fecondo e mai deleterio l’incontro con l’‘altro’.

Il suo progetto prende le mosse da un disegno simile dello scrittore americano Paul Auster, il quale, per la National Public Radio, negli anni Zero ha portato a termine il volume True Tales of American Life, raccolta di singole e spontanee testimonianze di cittadini americani, nonché storia statunitense collettiva. Parimenti, Beaune decise di avviare un progetto gemello, dedicato però al mare nostrum e in particolare a Marsiglia, testa di ponte del Mediterraneo e culla di tutte le entità culturali lì presenti, con il saldo presupposto  di creare una biblioteca delle histoires vraies che rispecchiasse la storica frammentarietà dei tanti popoli di queste zone.

Reclamando il diritto alla parola di ogni essere umano, Beaune ha ripercorso questi territori intervistando diverse persone e proponendo loro uno scambio singolare: la loro sincerità nel raccontare per la verità nel riportare; ed è così che è arrivato alla scelta metodologica e narratologica di eclissarsi, unico modo per lasciar emergere agli occhi del lettore la storia di ognuno. Intento a trovare, come ha spiegato, la persona che racconta la storia attraverso la musica delle proprie parole, con il testimone da una parte e la verità dall’altra egli ha dovuto muoversi attentamente, come un equilibrista, per tentare di conservare l’emozione ascoltata e riprodurla così per come si era presentata a lui stesso.

Dunque, il suo libro è interattivo, viaggia in due direzioni: al lettore non viene proposto soltanto la lettura, ma, allo stesso tempo e con un procedimento parallelo, la riscoperta di se stesso: solo specchiandosi nel diverso potrà capire meglio se stesso, interrogarsi sulla propria coscienza di sé e ridefinirsi in funzione degli altri. Insomma, se da un lato l’uomo ha il diritto di parlare, dall’altro ha anche il dovere di ascoltare e conoscere le esistenze degli altri, senza fermarsi soltanto a se stesso e chiudersi nell’individualismo. E questo è anche il messaggio del titolo, che allude ad una citazione di Leonardo Sciascia: “La vérité est au fond du puits. Vous regardez dans un puits: vous y voyez le soleil ou la lune, mais si vous vous jetez dans le puits il n’y a plus ni soleil ni lune; il y a la vérité”. Secondo il siciliano, perciò, soltanto al fondo del pozzo c’è la verità; Beaune, invece, non è interessato direttamente ad essa, quanto più – come spiega restando nella metafora sciasciana – al sole e alla luna che si riflettono sull’acqua del pozzo, cioè al racconto della storia così per come viene narrata dai suoi testimoni. Pertanto ognuno può riscoprirsi e, come la luna, riflettersi sulla superficie dell’acqua, non dimenticando mai, come diceva già Primo Levi, che “parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta” (Se questo è un uomo, 1947).

Il messaggio più evidente di La lune dans le puits è proprio quello che riguarda chi e cosa è ‘altro’ da noi, quello che concerne il sentimento del diverso, quello che al giorno d’oggi è sempre più improntato verso la diffidenza, l’odio e il male. L’augurio con cui l’autore conclude l’incontro riassume alla perfezione il suo spirito: Beaune vorrebbe che il progetto da lui iniziato, sulla scia del suo esempio, diventasse sempre più importante e guadagnasse sempre più sostenitori, fino a farsi mondiale. Soltanto se si avesse a che fare con tutto il mondo, infatti, ci si potrebbe avvicinare notevolmente all’ideale da cui il progetto ha mosso i primi passi. Un ideale che, al giorno d’oggi, sembra venire sempre meno, ma che non per questo merita di passare in secondo piano.

Topos e tema: una distinzione teorica. Incontro con Guido Paduano

Giovedì 15 febbraio si è tenuto nella Sala Lauree della Scuola di Scienze Umanistiche un incontro con Guido Paduano, Professore Emerito di filologia classica e di letterature comparate all’Università di Pisa. Paduano si è distinto nel corso della sua lunga carriera accademica per varie traduzioni e commenti ad opere della classicità greca e latina, oltre che studi in ambito musicale e di teoria della letteratura (due suoi libri a riguardo sono: La nascita dell’eroe. Achille, Odisseo, Enea: le origini della cultura occidentale (2008) e Il testo e il mondo. Elementi di teoria della letteratura (2013) ). Il discorso di Paduano, per la sua tematica, si intreccia, sin dall’introduzione del professor R. Gilodi, alla fondamentale opera di E. R. Curtius, Letteratura europea e Medioevo latino (1948), pubblicata in traduzione italiana soltanto nel 1992, in cui l’autore aveva dimostrato la continuità della letteratura europea dall’antichità greca e romana al ‘700 attraverso la persistenza di alcuni topoi fondamentali.

La tesi di Paduano viene immediatamente esplicitata: la distinzione, o meglio, opposizione tra topos e tema è “teorica” in quanto appartenente più al linguaggio metacritico che ad una realtà effettiva. Essi sarebbero, infatti, più vicini di quanto si sia soliti pensare. Entrambi sono legati al fenomeno dell’intertestualità e caratterizzati dalla ricorsività di un’unità fondamentale all’interno di macrotesti appartenenti ad una sola cultura oppure a culture ed epoche totalmente diversi. Il tema (parola nata in ambito musicale attorno al 1830 e legata da un rapporto definitorio a “variazione”) però viene generalmente visto come un’unità mobile e metamorfica; invece il topos, termine preso in prestito alla retorica classica, è in genere associato ad un’idea di staticità, di forte stereotipizzazione, di fissità. L’opposizione così posta si riflette perfettamente nelle recensioni all’opera di Curtius, che subì alcune critiche, pagando, secondo Paduano, la “cattiva fama” del topos, ovvero la sua supposta rigidità. Le critiche sorsero principalmente proprio dall’aver scelto il topos come concetto portante del libro, ad esempio sostenendo che gran parte dell’erudizione dell’opera mostra semplicemente che “a commonplace remained a commonplace”, oltre al fatto di essersi concentrato più sui fenomeni di persistenza piuttosto che su quelli di mutamento, di innovazione. In verità, nota Paduano, già Roberto Antonelli, nella prefazione all’edizione italiana del volume, contraddice questa visione attribuendo al metodo topologico di Curtius la capacità di entrare nella dialettica “testo-sistema”, indirizzando quindi la fruizione di Letteratura europea verso la critica tematica.

Paduano definisce dunque il topos “un tema di cui si parla male” e la sua opposizione con il tema come frutto di un’analisi viziata dal “pregiudizio” di valore, cioè da un giudizio che precede l’analisi contestuale. Al contrario Paduano propone una definizione che lega le due categorie secondo rapporti differenti: definisce il topos come “un tema in un certo senso abortito”, cioè che non ha trovato una creatività capace di rigenerarlo (un non-evento, una creatività non intervenuta) e il tema invece come un topos che “si afferma attraverso le sue mutazioni”, un terremoto di valori che spesso porta allo stravolgimento, alla vera e propria “esplosione di un senso nuovo”. Ed illustra questa seconda idea attraverso tre esempi letterari di altissimo livello, tre topoi che, a partire dalla loro origine antica, subiscono nel corso della storia stimolanti e imprevedibili trasformazioni, e che dimostrano una vitalità che contraddice la comune visione immobilistica e sterile di questa categoria. Il primo di questi esempi è il topos dell’insufficienza del tempo amoroso che troviamo per la prima volta nell’Odissea (la notte, prolungata da Atena, in cui Odisseo e Penelope, ricongiunti, si raccontano a vicenda gli anni trascorsi) e che viene ricreato e rielaborato finemente nel Romeo and Juliet shakespeariano, nel contesto della separazione degli amanti al sorgere del sole. Nell’opera esso si manifesta attraverso un interessante scambio delle parti: Giulietta nega l’evidenza dell’alba che sopraggiunge (affermando che il canto dell’allodola è invece il canto notturno dell’usignolo), Romeo l’asseconda, ed infine Giulietta ribalta quanto detto in precedenza, comprendendo la pericolosità della loro situazione, e lo congeda. In Romeo e Giulietta questo topos dell’alba demonizzata “si scontra”, inoltre, con un altro topos, anch’esso molto antico e di valenza quasi antropologica: quello dell’opposizione luce-buio, secondo cui la luce (e il giorno) è associata al polo della positività, della vita, mentre il buio (e la notte) a quello della negatività, della morte e del disvalore. Lo scambio che avviene nella scena della separazione degli amanti viene infatti anticipato e contraddetto da un passo in cui Romeo definisce Giulietta come “un sole”, che lui invita a sorgere scacciando la luna invidiosa.

Il secondo topos trattato è quello, invece, del “dialogo con se stessi” nel racconto Lenz di Georg Büchner, un topos antico quanto l’Iliade, che però nella sua formulazione originaria presupponeva la fondamentale unitarietà del soggetto in cui avviene il monologo interiore. Al contrario, nel personaggio di Lenz, poeta folle, viene sancita l’impossibilità di questa unità proprio dall’incapacità stessa di avviare questa comunicazione con se stesso e dalla conseguente affermazione del soggetto come entità frammentaria e scissa.

Infine, Paduano ha trattato l’antico topos della “natura che ride”, ovvero della natura che riflette lo stato d’animo dell’uomo, la sua letizia, e la sua profonda trasformazione nel III atto del Parsifal di Wagner. Nel Parsifal il riso assume più di una connotazione: è risata denigratoria quella di Kundry, la donna che ride di Gesù sulla Croce, e che per questo verrà punita con una maledizione secolare, quella di non poter piangere. Solo dopo un lungo percorso di redenzione Kundry riuscirà di nuovo a erompere nel pianto, in contemporanea alla rinascita della natura nell’incantesimo del Venerdì Santo. Le parole di Parsifal saranno: “Tu piangi, vedi! il prato ride”. In questo caso, a differenza dell’originaria declinazione del topos, la natura e l’uomo hanno due manifestazioni opposte, eppure coincidenti ad un livello più profondo.

Gli spunti di riflessione suscitati dalle considerazioni di Paduano sono molti. Le operazioni della comparatistica, così come lo studio dei topoi attraverso i secoli e le letterature, non devono limitarsi esclusivamente ai rapporti di discendenza genetica tra i testi, all’automatismo dell’imitatio. E allo stesso tempo non si può ritenere come frutto di coincidenza o caso tutto ciò che non può essere ricondotto alla filiera genetica, come non si può ricondurlo al modello degli archetipi junghiani, strutture che, secondo Paduano, non possono servire alla critica letteraria, in quanto distruttive di ogni differenziazione e significato. Ciò che invece dev’essere indagato è, analizzando singolo testo per singolo testo, come in diverse circostanze storiche siano state stimolate risposte simili, dando vita a interessanti parallelismi, e privilegiando nello studio i fenomeni di ricreazione autonoma rispetto alla semplice meccanicità dell’imitatio o aemulatio. Ciò che rende un testo un capolavoro non è, infatti, la sterile ripetizione di pattern letterari precedenti, di topoi, bensì l’elemento di novità, di scarto, di originalità, così come emerge dagli esempi letterari citati. Una delle linee di accesso più interessanti a questo aspetto, come suggerito dal professor Gilodi in commento alle tesi di Paduano, è stato forse proprio quel “senso dell’individuale” in relazione all’opera letteraria, in cui per “individuale” si intende “unico nella sua irrepetibilità”, assunto dal circolo protoromantico di Jena come cifra del loro pensiero nonché come essenza della poesia moderna rispetto a quella antica.

Pasolini Pittore

Il breve articolo di Federico Masci segue sommariamente parte del percorso artistico pasoliniano, soffermandosi su alcuni tratti della sua produzione pittorica, nel tentativo di stabilire costanti con altre modalità d’espressione.

* * *

Potrei anche tornare alla stupenda fase
della pittura…..
Sento già i cinque o sei
miei colori amati profumare acuti
tra la ragia e la colla
dei telai appena pronti…..”

P. P. Pasolini, La ricerca di una casa, in Poesia in forma di rosa

P.P. Pasolini, Autoritratto col fiore in bocca (1947)

Tra le varie suggestioni che contribuiscono a definire la magmatica tensione produttiva di Pasolini, risalta, con ingenua e limpida evidenza, la pittura. Questa è intesa non solo come lucido interesse e saldo punto di confronto con una certa parte della storia dell’Arte italiana, ma anche, più in particolare, come una costante abitudine a prodursi “tecnicamente” nell’attività pittorica, parallelamente alle altre espressioni artistiche (poesia, cinema, narrativa).

Le prime acerbe esperienze si collocano durante l’infanzia (inizia a disegnare ancora prima di comporre versi), ma è solo all’università di Bologna che, tramite l’incontro fondamentale con Roberto Longhi, questa sotterranea “vocazione” assume un aspetto più definito.

Le lezioni e le ricerche dell’illustre critico d’arte, che allora spaziavano dai fatti di Masolino e Masaccio a Piero della Francesca, dalla pittura duecentesca e trecentesca al Caravaggio, furono quasi un’illuminazione per il giovane e timido studente friulano: “...Allora, in quell’inverno bolognese di guerra, egli è stato semplicemente la Rivelazione.1; egli esprime la sua gratitudine e precisa i termini di questa decisiva influenza in una sua recensione per il volume Da Cimabue a Morandi, curato da Contini, che antologizza gli scritti del vecchio professore.

Le sue “meravigliose capacità istrioniche”2, le sue “gioiellerie severe”3, consumate nelle anguste aule di via Zamboni, corrispondono in toto con un “lucido, umile ascetismo di osservatore del moto delle forme”4.

Ciò che Pasolini filtra dalla lezione Longhiana è proprio un tentativo di approccio, privo di utopie o terrorismi progressisti, ad una storia dell’Arte che in sé e per sé si realizza come struttura ed evoluzione delle forme che la reggono e la compongono, secondo una rigida logica interna.

Un’evoluzione da intendere in senso “puramente critico, vitale, concreto della parola”, 5in completa coincidenza con l’aspetto che la realtà assume nella visione dei pittori lungo i secoli, e nella quale verità critica e verità sempre si accompagnano.

Quasi contemporaneamente a questa riconosciuta filiazione, si avviano i primi consapevoli esperimenti pittorici pasoliniani, i quali presentano disegni a inchiostro, bozzetti di figure che ritraggono la vita quotidiana della gioventù con la netta e semplice evidenza, dal sapore pascoliano, di una realtà familiare, tenera, a tratti idillica.

“Ragazzo che legge”, 1942.

“Ragazza di San Vito”, 1943.

“Donna nel canneto”

A distanza di qualche anno, ecco altri tentativi che risentono dell’influenza dei paesaggi alla De Pisis, o a una verificata ammirazione per alcune opere di Bonnard.

“Autoritratto con la vecchia sciarpa” 1946

“Casarsa”

Forse meno visibile, ma comunque estremamente importante, l’effetto che la frequentazione della bottega longhiana e la conseguente formazione artistica hanno sul Pasolini narratore puro, cioè il cineasta.

In veste di regista, Pasolini abilmente recupera e utilizza questa sensibilità per strutturare formalmente le scene, a favore dunque di una scenografica visibilità, arricchendola di connessioni con la più importante cultura pittorica italiana. A partire dalla sua prima prova, Accattone, del 1961, Pasolini riconosce proprio l’influenza di Masaccio (“Mentre lo giravo il solo autore al quale ho pensato è stato Masaccio”6), che sembra tradursi in un’ansia di figurativa e austera sacralità tale da non poter che produrre scene virginali, vivide e epiche, nel senso di “epicità naturale,che si lega alle cose, ai fatti, ai personaggi7.

Il mondo pre-borghese di Accattone, quindi, immerso in una congèrie epica-mitica-fantastica, sconta i suoi debiti con una certa tradizione figurativa e vorrebbe, nelle intenzioni dell’autore, porsi in opposizione al contesto a tratti liricizzato e soggettivo, a tratti pseudo-naturalistico, del neorealismo, di cui comunque può essere considerato un ambiguo prodotto.

Come Accattone è tutto “sottoproletariato”, Mamma Roma, dedicata a Longhi,(1962) è quasi “piccolo borghese”. Se da una parte baraccopoli e rovine dominano lo spazio , dall’altra si stagliano all’orizzonte caseggiati, si sentono rumori di Tv e radio provenire da lontano. In quest’ultima fatica si segue l’itinerario che il vecchio sottoproletariato percorre, icasticamente rappresentato dal rapporto tra Bruna e il figlio Ettore ,quando inizia a trasformarsi in piccola borghesia, in una piccola borghesia meschina, fascista, conformista. Anche qui si staglia netta (in particolare nella scena finale del film, dove viene ripresa la morte del giovane Ettore) una precisa parentela artistica che però lo stesso Pasolini duramente corregge invece di suggerire, riferendosi agli erronei tentativi di individuazione da parte di alcuni critici:

Ma non hanno occhi questi critici? Non vedono che bianco e nero così essenziali e fortemente chiaroscurati della cella grigia dove Ettore [canottiera bianca e faccia scura] è disteso sul letto di contenzione, richiama pittori vissuti e operanti molti decenni prima del Mantegna? O che se mai si potrebbe parlare di un’assurda e squisita mistione tra Masaccio e Caravaggio?… 8

Per quanto riguarda La Ricotta (1963), invece, una simile vocazione,viva in un senso felicemente costruttivo, arriva a opporsi al disordine cialtronesco e buffonesco che presiede l’organizzazione delle riprese per un fantomatico film sulla passione di Cristo. In mezzo al folleggiare delle comparse, alle ciniche considerazioni di un falso regista, impersonato da Orson Welles, che terminano nella recita di una poesia tra le più conosciute ed eloquenti di Pasolini (“Io sono una forza del passato…”) si stagliano, monumentalmente, scene dalla cristallina e diretta ascendenza artistica; che letteralmente ricalcano opere di Rosso Pontormo e di Rosso Fiorentino.

Immagine dal film “La Ricotta”- “Deposizione ”, Rosso Pontormo (1525-1528)

Immagine dal film “La Ricotta”- “Deposizione di Cristo” di Rosso Fiorentino ( 1521)

Il materiale che invece appare nella messa in scena del Vangelo secondo Matteo viene utilizzato con una diversa funzione, utile al raggiungimento di una distanza “critica”. Nel tentativo di non proporre solo una ricostruzione storica per via cinematografica, Pasolini, in un intervista dove gli si chiede di ripercorrere l’itinerario dei suoi riferimenti estetici ,afferma di aver ricercato la “massima sincerità”, e di averlo fatto evitando programmaticamente la sistemazione delle scene come quadri: “Uno di questi momenti di sincerità era evitare la ricostruzione di quadri, in tutto il Vangelo non c’è mai un quadro ricostruito.9 Tuttavia, poco dopo, confessa che nella creazione del film risulta comunque essere determinante il rapporto con una certa cultura pittorica, perché “ io studiavo a Bologna col professor Longhi, dovevo laurearmi con lui, quindi l’elemento pittorico per me è un elemento molto importante della mia cultura” 10 e ancora: “ non potevo dimenticarmi di conoscere e quindi amare, addirittura venerare, i pittori dell’Umanesimo, del Rinascimento o del Trecento italiano, non lo potevo dimenticare”.11

Se quindi, questo confronto da una parte apre ai pregiudizi e alle problematiche di un certo tipo di rappresentazione estetizzante, dall’altra è anche un punto di riferimento imprescindibile per raffinare e definire in maniera polemica un atmosfera non documentaria, tutta giocata sul “gusto”, sullo sfumato pastiche di stili che suggerisce un epoca, piuttosto che visibilmente (e falsamente) restaurarla. 

Più che continuare su questa linea, adesso, dopo aver parzialmente evidenziato la ricezione della dimensione artistica in una parte dell’opera pasoliniana, andrebbero evidenziati gli ultimi risultati, tra il ritratto e l’informale, in cui si realizza il lavoro pittorico. L’ultimo Pasolini, audacemente, non cessa di sintetizzare da un empito vitale un continuo tentativo di espressione, di tradizionalmente collaudata sperimentazione, sulle forme, per le forme, dalle forme. Questa sorta di eccitazione, causa e conseguenza del pericoloso cortocircuito comunicativo che sembra permeare i rivolgimenti amaramente confessionali in cui si esaurisce la sua più tarda produzione poetica, può trovare un incerto corrispettivo nelle tele che le sono coeve. Ecco infatti , da contrapporre alla pacata omogeneità delle prove giovanili, la scelta intrepida di materiali e tecniche, tutti elementi in un primo momento sfruttati, poi abbandonati e ripresi dopo almeno trent’anni ( dagli anni’40 agli anni’70).

Invece di utilizzare matite o chine, dipinge con la colla, caratterizza volti e immagini con dita macchiate direttamente dal colore, si ritrae e ritrae anche nuovi amici, amori e antichi maestri (Laura Betti, Ninetto Davoli, Roberto Longhi) ,punteggiando e schizzando in libertà, a volte sfruttando sacchi e cellophane:

Anche trent’anni fa mi creavo delle difficoltà materiali. Per la maggior parte i disegni di quel periodo li ho fatti col polpastrello sporcato di colore direttamente dal tubetto, sul cellophan; oppure disegnavo direttamente col tubetto, spremendolo. Quanto ai quadri veri e propri, li dipingevo su tela di sacco, lasciata il più possibile ruvida e piena di buchi, con della collaccia e del gesso passati malamente sopra. Eppure non si può dire che fossi (e eventualmente sia) un pittore materico. Mi interessa più la «composizione» — coi suoi contorni — che la materia. Ma riesco a fare le forme che voglio io, coi contorni che voglio io, solo se la materia è difficile, impossibile; e soprattutto se, in qualche modo, è «preziosa». 12

“Pali e reti del Safòn”,1970,tecnica mista su carta

“Ritratto di Roberto Longhi”,1975, pastello su carta

“Ninetto e Laura”, 1975

L’ingenuità ambiziosa con cui tenta di reinventare e ridefinire praticamente il linguaggio pittorico che dovrà usare risulta comunque coerente con la tensione sperimentale (e sotterraneamente distruttiva nei confronti di strumenti già acquisiti) della sua poetica:”Solo l’idea di fare qualcosa di tradizionale mi dà la nausea, mi fa stare letteralmente male”.13 La quale, in lungo e in largo, (come ha peculiarmente osservato Walter Siti nella curatela per i meridiani mondadori) attraversa e sorregge tutti gli sforzi Pasoliniani, rammentando, se vista “dall’alto”, una mostruosa progettualità: “Perché realizzare un opera quando è così bello sognarla soltanto?”.14

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NOTE

Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Garzanti, Milano, 2016, cit. p.331.

Ibidem, p.335.

Ibidem.

Ibidem.

Ibidem, p.334.

Pier Paolo Pasolini, Marxismo e Cristianesimo, in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, 1999, cit. p. 809.

Ibidem.

8  Vie Nuove, n. 40, a. XVII, 4 ottobre 1962, ora in Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere, cit., p. 198.

Pier Paolo Pasolini, Pasolini su Pasolini in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, 1999, cit. p. 1338.

10 Ibidem.

11 Ibidem.

12 Achille Bonito Oliva, Giuseppe Zigaina, Disegni e Pitture di Pier Paolo Pasolini, 1984, Balance Rief SA, Basilea .

13 Ibidem.

14 Citazione tratta dal film “Il Decameron”, 1971.

BIBLIOGRAFIA

Achille Bonito Oliva, Giuseppe Zigaina, Disegni e Pitture di Pier Paolo Pasolini, Balance Rief SA, Basilea, 1984.

Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Garzanti, Milano, 2016.

Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano, 1999.

Caproni recensore: un laboratorio di poetica

In questo articolo, Gaël Pernettaz propone un’interessante analisi della figura di Giorgio Caproni recensore. Attraverso lo spoglio di articoli e dichiarazioni si ricercano costanti di questo aspetto secondario dell’attività dello scrittore, delineando in modo più completo la sua poetica attraverso l’illustrazione del rapporto che intercorre fra le recensioni e i componimenti in versi.

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Poeta, fra i principali esponenti della corrente antinovecentista. Un uomo magro, dal fisico schietto e nodoso, grande fumatore e amante della musica e della poesia, a cui dedicò tutta la sua vita. Questo fu Giorgio Caproni, e molto altro ancora: fra le altre cose, scrittore di narrativa, traduttore e critico, o piuttosto recensore, come lui stesso preferiva definirsi.

Egli rifuggiva infatti l’epiteto forse troppo magniloquente di “critico letterario”, probabilmente perché sentiva che tale vestito cadeva largo, troppo largo, sulle sue minute fattezze. Forse per tale ragione ha costellato la sua intera carriera di momenti in cui autosvalutava il suo lavoro, preferendo mostrarsi come un semplice omino dedito al suo lavoro con zelo e calma, piuttosto che imbellettarsi con quell’artificiosa immagine di arbiter elegantiae e al contempo di giudice infernale che contorna la figura, tanto temuta, del critico letterario.

Ora non ci si fraintenda: Caproni non portava avanti una battaglia contro la critica, che invece amava e apprezzava, quando ben fatta (ovvero, secondo lui, quando fatta da altri), e queste prese di distanza non sono da intendersi né come espressioni di falsa modestia, né come attacchi all’attività critica, quanto piuttosto come la constatazione sine ira et studio di un uomo che ha già trovato altrove la sua vera voce -o la sua musa, se si preferisce- e che si occupa di recensioni solo per dovere, seppur con la passione e il fresco entusiasmo del non specialista. Passione e entusiasmo che non lo abbandonarono mai per gli oltre cinquant’anni di esperienza, durante i quali collaborò a diverse testate fra cui «La fiera letteraria», «Italia socialista», «Il lavoro nuovo», «Mondo operaio», «La Giustizia», «Il Punto» o ancora «La Nazione».

È indubbio il fatto che nelle recensioni Caproni parli dei libri come ne parlerebbe con un amico davanti a un caffè, o come un ammiratore e non piuttosto in qualità di giudice, con il rigore e il distacco del critico, così come la mai sconfessata difficoltà nello scrivere recensioni, che a volte assume i caratteri molto più netti del rifiuto frontale se si pensa a certi versi del 1963 «Come sono felice/ dopo una recensione/ porre il libro lodato/ – Merda! «in un cassettone»./ Il pianto che m’è costato,/ il sudore, il groppone,/ il cuore che c’ho consumato/ a leggerlo/ che maledizione!/ […] Anch’io sarò divorato dai topi: è la condizione». Questo non basta però ancora a privare di interesse la figura tanto bistrattata (dallo stesso in primis) del Caproni recensore; e non solo per il valore documentario, di “dietro le quinte”, di laboratorio di poetica, che permea tutte le sue recensioni (una su tutte l’articolo Versi come utensili, apparso nel giorno di Natale del 1948 su «Mondo operaio» e poi divenuto celeberrimo), ma soprattutto perché in poche figure l’interdipendenza fra poesia e vita è infatti tanto stretta quanto lo fu per Caproni.

Proprio questa sua attitudine, che puntellò l’intera sua opera (per non dire l’intera sua vita) a ridurre tutto alla poesia, è ciò che lo portò non solo a riversare nell’attività di recensore tutta la sua esperienza da scrittore in versi, ma anche a cercare nei libri analizzati- per la maggior parte raccolte o antologie poetiche- i temi cari alla sua poesia. Senza dubbio l’esempio più evidente è l’articolo Poesie di Pasolini, apparso su «La fiera letteraria» del 20 marzo 1947, in cui Caproni loda artifici retorici della poesia di Pasolini (quali l’utilizzo del vezzeggiativo, la ripetizione del nome, la musicalità cavalcantiana) di cui lui stesso si servirà, dodici anni più tardi per cantare la madre Annina nei Versi livornesi, sezione de Il seme del piangere. Ad ogni modo nessuno degli autori recensiti, negli oltre cinquant’anni, sia i meno conosciuti (Ferri, Sbaraglia, Manzini, Reale, Belleli, Carra, Zoni o Verginelli per citarne alcuni) che i più affermati, italiani (quali gli amati liguri Montale, Roccatagliata Ceccardi, Novaro, Boine Grande o Barile, o ancora Rebora, Quasimodo, Saba, Ungaretti, Penna e Sereni) o stranieri (Jacobi, Guillén, Salinas, Machado, Pound, Brecht, Joyce o Apollinaire ), è potuto sfuggire a questo vaglio critico; così Caproni, nell’aprire una poesia di Saba o una di Montale, come una di Machado o di Pound sempre ha cercato -a titolo di esempio- i minimi che lo ossessionavano, quei tenui barbagli («Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto. Non mi è mai piaciuta: non l’ho mai usata, nemmeno come lettore») che permettevano alla Poesia di rifulgere, conferendo al testo letto quel carattere di universalità che è proprio della grande lirica.

In parallelo a questa ricerca, Caproni rivolgeva grande attenzione anche alla musicalità del verso e alla sua costruzione poiché, a suo parere, la forma era di primaria importanza e intimamente connessa alla poetica di un autore, e non mera tecnica applicata. Per tale ragione egli, trattando degli autori più disparati, si concentrò sul ritmo e la musicalità del verso, non risparmiando concetti, quali tonica, dominante, settima diminuita, che per il lettore che non si intende di musica, risultano incomprensibili. Questo perché, i vocaboli posseggono due nature, una fonica e una semantica, e la poesia, a differenza della prosa, si serve di ambedue, coniugandole o facendole stridere a seconda dell’intenzione del poeta.

A tale istanza di attenzione alla forma, e al suo legame con il testo, si collega inoltre il rifiuto per quelle che egli definisce le «poetiche a priori», riferendosi a quell’insieme di poetiche appunto, che, durante il secondo Dopoguerra, in opposizione alla precedente stagione ermetica, accusata di solipsismo e ignavia, fecero della poesia un mezzo per proporre -o per meglio dire “imporre”- idee, e non la considerarono invece quell’attività igienica che nasce da un bisogno interiore quale è e quale la intendeva il poeta. Non stupiscono quindi alcune pointes polemiche contro la poesia neorealista, rea di non aver raggiunto i risultati della prosa in quanto sterile esperimento in vitro e per tale motivo rivelatasi più perniciosa che altro. E sempre per la stessa ragione, non sorprende che Caproni in tutti gli autori analizzati cerchi l’afflato di vita, sia quello più palmare – quello, per intendersi dei suoi primi componimenti, in cui le donne erano ancora sapide («Sono donne che sanno/ così bene il mare…») e il fuoco bruciava ancora vivo («Bruciano alla bramosia/ segreta, le carnagioni/ giovani…») nelle vene del giovane poeta-, sia quello, più difficile a cogliersi, delle poesie permeate da una maggiore riflessione, quelle che Schiller definirebbe «sentimentali»: una su tutte La casa dei doganieri, il componimento montaliano da lui prediletto.

Infatti, la poesia non è certo equivalente a un saggio o a un discorso in prosa; non deve mostrare nulla di nuovo al suo lettore, quanto piuttosto, attraverso una forma originale, fare risorgere nel lettore quel je ne sais quoi appunto di poetico, che Caproni stesso non si vergogna di chiamare, con una punta di compiaciuta ingenuità, “emozione” o “sentimento”. Così, anche verso la fine della sua vita egli si riscalda quando sente che la poesia è morta, come dimostra l’articolo intitolato Poesia e scienza: si può ancora cantare la Luna (apparso sul «Tuttolibri» del 6 giugno 1987). Qui agli attacchi mossi da Giorgio Salvini, «illustre Fisico», che aveva osservato come nel mondo odierno, dominato dalla techné e dalla conoscenza, non ci fosse più spazio per la poesia essendo il mistero del mondo ormai svelato, egli risponde difendendo la magia dello scrivere versi, chiudendo con una citazione tratta da Apollinaire che racchiude e sintetizza magistralmente la figura di Caproni, nelle vesti del recensore, del poeta, ma, soprattutto, dell’uomo comune: «Poesia bella, amore mio,/ ci siamo amati storditamente./ Senti che razza di scampanio./ E vuoi non si crucci la gente?»

Gaël Pernettaz

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Bibliografia

Giorgio Caproni,  Prose critiche, a cura di Raffaella Scarpa, Aragno, Torino, 2012.

Giorgio Caproni, L’opera in versi, a cura di Luca Zuliani, Mondadori, Milano, 2005 (1998).

Raffaella Scarpa, Secondo Novecento. Lingua stile metrica, dell’Orso, Alessandria, 2011.