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Italiano: la libertà di una lingua classica

Venerdì 18 ottobre 2019
Incontro al Circolo dei lettori con Gian Luigi Beccaria

La lingua italiana è nata e si è sviluppata fortemente ancorata al suo retroterra greco-latino, ma non necessariamente questo modello illustre ha costituito una costrizione o un ostacolo al suo evolversi; l’intervento di Gian Luigi Beccaria al Circolo dei lettori sviscera in una prospettiva storica la ricchezza, la fecondità e la libertà di quella che può essere definita, in tutti i sensi, una lingua classica. 

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La lingua dei classici non ha costituito per l’italiano un impaccio, ma ha collaborato a mettere a disposizione una più libera e ricca varietà di registri, agendo anche come spinta al rinnovamento neologico sia nella forma che nel significato.

Rispetto alle altre lingue europee l’italiano contiene una straordinaria quantità di tratti greco-latini, che non hanno costituito una verniciatura di stantio, bensì un segno distintivo di nobiltà. Se le altre lingue sorelle hanno in molti casi adottato parole dal sapore più quotidiano e dimesso, l’italiano ha invece amato coloriture dotte e anticheggianti. Le opposizioni tra parole italiane dall’origine dotta e parole francesi più umili sono innumerevoli: basti pensare alla nostra cipria, che prende il nome dall’isola di Cipro mentre l’equivalente francese poudre può vantare un’origine molto meno nobile, oppure al piroscafo, chiamato più semplicemente dai francesi bateaux, o al nostro solenne fiammifero paragonato al più dimesso alumette.

Molte rivalità lessicali hanno rivolto il conflitto a favore della soluzione anticheggiante: il telescopio venne preferito al cannocchiale di Galileo, e il dotto Pietro Giordani, che nell’Ottocento suggeriva di utilizzare radici italiane per modellare nuovi termini scientifici, sostituendo grecismi come termometro e anemometro con coniazioni italianeggianti come segnacaldo, misuravento, non vide realizzato il suo desiderio.

Innumerevoli cultismi e latinismi sono entrati nell’uso medio-alto della nostra lingua, tanto incombenti da portare a un’esibizione del latino foneticamente non adattato (aurea medietas, est modus in rebus), che nel pomposo italiano avvocatesco conobbe il suo terreno più fertile. Negli scrittori la classicità ha poi ricoperto svariate funzioni: non solo ha steso una patina anticheggiante sul lessico e sulla sintassi, ma è diventata un ingrediente essenziale del ribollio espressionistico di tanti autori che hanno voluto intenzionalmente accostare l’alto e il basso, il sublime e l’antico con il dialettale, da Dante a Gadda a Michele Mari.

L’antico ha insomma costituito un elemento fondamentale della nostra tradizione letteraria e le ha fornito una gravità segreta che pescava dal passato, una scelta anticheggiante che sembra minore nella tradizione di altri paesi: l’italiano ha conservato più a lungo il senso robusto del periodo, l’onda lunga latineggiante e compatta che ricerca la simmetria, gli effetti retorici delle clausole medievali, il parallelismo delle rispondenze di concetti e di ritmi. Il latino ha arricchito sin dalle origini le risorse del volgare, e la prosa medievale nasce già ricca dell’ornatus ciceroniano, il cui impianto durerà fino ai prosatori dell’Ottocento.

In particolare è nell’ambito della poesia che in Italia si è guardato alla tradizione classica: Alfieri amava in maniera appassionata i costrutti con sapore latino e greco, si estasiava di fronte alle inversioni, alla posizione innaturale dell’aggettivo prima del nome. Eloquente è la sua annotazione autografa sul sonetto 162, “Ad alte cose io nato me sentiva”, e ancora di più lo è il modo in cui definisce l’ordine non marcato della frase: “fiacchissimo verso”.

Dovremmo parlare di un modello o piuttosto di una costrizione? Che tipo di libertà può avere una lingua che guarda costantemente all’indietro?

La realtà è che i modelli antichi non hanno mai stretto in ceppi la nostra lingua, ma al contrario le hanno dato vigorose spinte verso un progressivo miglioramento. La frequenza dei latinismi lessicali e sintattici non è causata dalla debolezza di una prosa neonata che si va formando e che ha bisogno di stampelle, ma dalla ricerca consapevole e libera di una guida forte. Non a caso i grecismi e i latinismi apportano una fortissima spinta alla neologia, non solo di forma ma anche di significato: il latino captivus passa dal significato di “prigioniero” a quello di “malvagio”, sotto l’influsso del cristianesimo; sul significato di tradire il cristianesimo opera poi un passaggio semantico notevole, da “consegnare” a “consegnare qualcosa al nemico con l’inganno” – ai tempi delle persecuzioni infatti i vescovi traditores consegnavano i libri sacri alle autorità.

L’impronta latina sul significato delle parole nei primi secoli della letteratura italiana è particolarmente evidente in quanto conferisce ai singoli termini una potenza etimologica che col tempo è andata lentamente svanendo: nella Commedia gli aggettivi molesto e mesto compaiono in situazioni di particolare drammaticità e il loro valore è notevolmente più connotato in senso gravoso rispetto a quello odierno, è più forte in quanto desunto direttamente dal latino. Il latinismo quindi non fornisce solo una patina di vetusto e arcaico, ma riporta la parola ad un significato potente originario, per forza di etimo, che viene sfruttato sapientemente dagli scrittori per conferire sfumature ai loro testi.

La ripresa neoclassica ottocentesca e il conseguente incremento dell’uso del latino costituiscono una spinta di ardimento innovativa, che sarà intensificata con i contributi di D’Annunzio e Carducci – quest’ultimo in particolare esprime la sua preferenza nei confronti dei latinismi anche nello schema accentuale dei termini da lui scelti, tendenzialmente proparossitoni (colubro, adamantino, cuculo).

Gli agganci alla classicità continuano ancora nella seconda metà del Novecento; proprio quando tutte le vie per segnare la distanza dal passato sono state attraversate gli echi del passato continuano ad affiorare, anche quando si dà l’addio al tono liricamente aulico non ci si riesce a staccare dall’ancoraggio all’antico. Un esempio lampante di questa persistenza è l’iperbato, figura nobile e anticheggiante che viene ripresa spesso nel secondo Novecento, proprio quando la poesia simula maggiormente il parlato e l’oralità. Gli autori del secolo scorso quando scendono verso il parlato non vogliono mostrare nessun sintomo di depressione stilistica, e corrono a mettersi al riparo di coperture anticheggianti: Sereni e Caproni preferiscono spesso una sintassi antilineare, che però non assume il significato di esposizione di antiquariato, bensì viene applicata all’interno dei loro andamenti più colloquiali, per innalzare il tenore di una sintassi che tende all’oralità.

Se il Novecento è caratterizzato da versi moderni che scrivono a tratti all’antica in una voluta ed esibita innaturalità, possiamo ravvisare in Leopardi l’ultimo ad aver scritto per arcaismi nel modo più naturale, ad aver saputo coniugare l’attualità e la spontaneità con il cultismo, ad aver espresso messaggi di contenuto nuovo tramite strumenti antichi. La libertà e l’antico in lui collimano, nella sua poesia si condensano tutta la tradizione antica e quella moderna e i classici si fanno davvero carne, non solamente sterili citazioni: i fuochi di Troia e le luci di Recanati diventano la stessa cosa, la sua luna domestica coincide con quella di Virgilio e di Omero.

Volgendo il capo ai predecessori Leopardi ha saputo raccogliere i frutti migliori, i cosiddetti “frutti freschi fuori di stagione”, come lui definiva gli arcaismi, pensando la letteratura italiana come una corrente dal suono familiare e insieme antico. In lui più di ogni altro la lingua dei classici non ha rappresentato una prigione o un freno, ma ha suscitato una continua libertà espressiva.

Linda Dellacroce

Intervista a Patrick Kingsley

Federica Bassignana, per la sua tesi di laurea magistrale (Oltre i confini. Il reportage narrativo tra letteratura e giornalismo, relatrice: prof.ssa Chiara Lombardi. discussa il 26/11/2019, 110/110L), intervista il giornalista Patrick Kingsley, autore di The New Odyssey: The Story of Europe’s Refugee Crisis (Guardian Books, 2016). L’intervista ha ricevuto l’approvazione ai fini della ricerca dal New York Times Management Departement.

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Patrick Kingsley (Londra, 1989) è attualmente giornalista del «New York Times» come corrispondente per gli affari internazionali ed è stato precedentemente giornalista per il «Guardian», che lo ha nominato nel 2015 il primo corrispondente di migrazione. Per conto del celebre quotidiano britannico è stato corrispondente da Il Cairo, Istanbul, ha seguito il traffico di esseri umani dalla Libia all’Egitto, dalla Turchia al Niger e insieme al collega David Hearst ha condotto l’ultima intervista a Mohamed Morsi come presidente d’Egitto prima della sua destituzione nel 2013.  Per lo spessore delle sue inchieste e la meticolosità dei suoi reportage, nel 2015 Kingsley è stato nominato giornalista dell’anno per gli affari esteri in occasione dei British Journalism Awards; tra i numerosi premi, gli è stato conferito il Frontline Club Award nel 2013 per il suo reportage Killing in Cairo – the full story of the Republican Guards’ club shootings[1]. Nel 2012 viene pubblicato il suo primo libro How to be Danish[2], un viaggio di esplorazione nel cuore della cultura danese e nel 2016, in seguito alla sua esperienza di corrispondente di migrazione per il «Guardian», racconta la storia della contemporanea crisi dei rifugiati in Europa in The New Odyssey[3], su cui verte la seguente intervista. 

The title of your book is The New Odyssey. The Story of Europe’s refugee crisis. What’s the reason that led you to compare the classic epic to the contemporary European migration crisis?      
There are two main reasons: the first reason is that the journey that Odysseus goes on from a war, torn apart Asia minor, trough dangerous adventures in the east of the Mediterranean towards Greece. It is obviously very similar to the journey that lot of refugees are making in 2015 and indeed continue to make today. Refugees are leaving from Turkey not too far actually from where Troy was supposed to have been built a thousand of years ago. They are attempting to get to a Greek island not unlike Odysseus was trying to reach the Greek Island Ithaca. And the second reason is an editorial reason: by framing migrants as Greek heroes I hope someone shift the narrative about who these people are or why they are moving. In certain sections of public opinion migrants are often considered bad and problematic, but I wanted to show how in another light what they are doing is heroic.

Aeneas, as well as Odysseus, has fled the war but he is fulfilling his destiny of setting up a new dynasty, finding a new home, rather than going back home as Odysseus. Why did you decide to change the first chosen title The New Aeneid to The New Odyssey?

I would have called The New Aeneid if more people in the English-speaking world had heard of the Aeneid. As I said in the book and as you repeat in your question, Aeneas is more a refugee than Odysseus because Aeneas is fleeing his home in search of a new one whereas Odysseus is fleeing a warzone in order to go back home. Instead of that, the reason why I didn’t call The New Aeneid but The New Odyssey is that not many people have heard of The Aeneid but they have heard of The Odyssey because it is more famous in the English speaking world.

To what extent Aeneas and Odysseus represent the refugee experience and how? You said that central narrative in The Aeneid is about a refugee called Aeneas. Is Odysseus then, in your opinion, a different symbol of the migration experience?

Aeneas and Odysseus are both on the move and they shared the travel experiences –  tough experiences –  but one of them, Odysseus, is going home, and the other, Aeneas, is leaving home and trying to find a new one, and that is much more comparable to the contemporary migrants experience. I don’t think Odysseus journey has a particularly close contemporary comparison, maybe you might compare Odysseus’ journey home to a migrant in Libya who decides, instead of going to Italy, to go back home but going back through the Sahara desert is just as dangerous as trying to go through the Sahara in the first place, and trying to get to Libya. So maybe one might compare their experience: an African migrant experience trying to get back to Nigeria or Senegal to Odysseus and his journey back to Ithaca, but I don’t think it is a particularly close resembles.

Your reporting is based on a thematic focus, rather than one geographical location. What are the pros and cons of this specific focus?

I think it does look at themes that make me to go to specific geographic locations like Libya, Egypt, Niger, Greece, Italy, Turkey and I would hope that by exploring themes you do actually get a good sense about placing and about the environment in which people are coming from and do some moving through.

Your text is a narrative report about travel and emigration, offering its readers a clear and detailed full experience of nowadays emigration. What’s the book genesis? 

I was the migration correspondent for “The Guardian” and I had the opportunity to see the refugee crisis of 2015/16 and I was able to travel through several countries: from Sahara to Niger, from Sweden, to Turkey, from Italy to Greece.  In the end for the book I choose 17 countries but in the course of my report I poorly went to 24/25 and during my reporting, I felt that I had the privilege to see the crisis in more detail than most other people. I wanted to be able to put all the things that I have learnt in a single narrative that hopefully might open some people’s eyes to a more new understanding of why people are on the move and how they move in the first place, and it was an attempt to use all the things that I have learnt to help enhance public discuss.

Your book moves from report to literature, using prose’s characteristics while fulfilling the facts and the reality though Hashem al-Soukis’s story. Is there any editorial aim behind this choice? Or does it specifically want to show a connection between one single life to a universal common destiny?

This decision to use a little more literally  form of writing for Hashem al-Soukis’ storywas just an attempt to make it more vivid and engrossing and to make you feel like you are there with him, and by writing not only in a factual way but in a way that was written like a novel. I hoped that a reader might be able to identify more with him slightly more because the journalistic prose might be more alienating to the reader than the more fluid and warm-hearted literary style.


[1] Patrick Kingsley, Killing in Cairo – the full story of the Republican Guards’ club shootings, The Guardian, 18 luglio 2013.

[2] Patrick Kingsley, How to be Danish, Marble Arch Press, New York, 2014.

[3] Patrick Kingsley, The New Odyssey. The story of Europe’s refugee crisis, Guardian Books and Faber & Faber, Londra, 2016.

Omnia mutantur, nihil interit. Le influenze ovidiane nella filosofia della natura di Leonardo da Vinci

di Andrea Pace

Scrivere di Leonardo da Vinci, e in particolare della Gioconda, può, con molta facilità, sfociare in luoghi comuni sedimentati da secoli nella mente e nell’immaginario di chiunque ne abbia sentito parlare: il genio dell’artista, il più importante ritratto – o addirittura il dipinto – mai fatto, lo sfumato di Leonardo e il sorriso enigmatico della Gioconda.

Un aspetto, a parer mio importante, spesso tralasciato o magari solo considerato marginale è quello della filosofia della natura di Leonardo, troppo importante per un uomo che ha votato l’intera sua esistenza allo studio ossessivo di tutti gli aspetti della grande Madre, dalle conchiglie fossili che trovava nel giardino di casa ai mari, dai fiumi alle montagne, senza mai tralasciare di raffigurare ogni cosa attraverso il suo sublime disegno e i suoi dipinti. Una filosofia della natura che, fra le tante influenze, deve tantissimo alle Metamorfosi di Ovidio, a partire dalla sua descrizione della genesi del cosmo e dell’uomo, fino al quindicesimo libro, da cui l’artista fiorentino ricava gran parte della sua concezione naturale.

Omo sanza lettere, come si autodefiniva nei suoi scritti, Leonardo non poté studiare, al pari dei suoi contemporanei umanisti, il latino e il greco; sentendosi in difetto andò alla ricerca continua di una nuova forma di conoscenza, sottovalutata e malconsiderata all’epoca, ovvero quella che lui definì la sperienza. Leonardo però non rifiutò mai di studiare i grandi scrittori del passato, da lui definiti altori, anzi tra i suoi innumerevoli manoscritti sono stati trovati diversi elenchi di libri in suo possesso o anche solo desiderati. Tra tutti i suoi testi, come spiega Carlo Vecce, le Metamorfosi ovidiane sono il grande libro della natura per il giovane Leonardo a Firenze negli anni Settanta[1] da cui trasse spunto per scritti, disegni e dipinti.

Le Metamorfosi

Il poema latino, che probabilmente costò l’esilio al suo scrittore, narra di forme mutate in corpi nuovi, di trasformazioni, violenze fatte e subite, fughe e inseguimenti, amori e tradimenti, ma soprattutto di una natura vitale, che nonostante le ire e i progetti di distruzione divini non muore mai, ma anzi si trasforma in altro, in qualcosa di migliore rispetto alla condizione precedente.

Nel Libro I Ovidio racconta che in principio era il Caos – descritto come il volto della natura (naturea vultus) al verso n.6 – ma una natura melior, una divinità – non importa quale – intervenne per mettere ordine e così separò il cielo dalla terra, quest’ultima dall’acqua e poi l’aria spessa dal cielo puro. Il passo successivo furono i quattro elementi per dare ulteriore ordine all’universo, poi avvenne la separazione delle acque, dei venti e delle aree climatiche, fino a giungere alle stelle scintillanti e palpitanti. In ultimo fu creato l’uomo, proprio per guardare la meraviglia del cielo stellato.

Questa descrizione della creazione del cosmo, in molti aspetti simile a quella biblica[2], deve molto alla filosofia antica, in particolare a quelle anassagorea e pitagorica. La prima non è mai citata esplicitamente, ma diversi termini del primo libro sembrano essere diretti rimandi al pensatore di Clazomene – o almeno a un contesto culturale influenzato dalle sue idee sul cosmo –: il Caos iniziale, descritto come rudis indigesteque moles… non bene iunctarum discordia semina rerum[3]e ordinato da una divinità – quisquis fuit[4] –, è troppo simile alle anassagoree omeomerie (termine dato da Aristotele ai semi originari di Anassagora) inizialmente mescolate caoticamente, ma poi ordinate da un non meglio determinato Nous, una ragione ordinatrice, una forza separatrice che porta il filosofo a comprendere che tutto è in tutto, che in natura ogni cosa è unita alle altre.

La filosofia pitagorica di Ovidio invece è esplicitamente mostrata nel Libro XV, in cui è proprio il filosofo di Samo a parlare dalla sua adottiva Crotone enunciando un discorso che mescola il pitagorismo con varie filosofie, come quelle Anassimandrea – di cui Pitagora fu allievo –, Empedoclea ed Eraclitea: la nuova filosofia deve portare i suoi acusmatici[5] discepoli a elevarsi a non temere più la morte, poiché i corpi si dissolvono e si decompongono, ma le anime sopravvivono e si reincarnano. Le forme cambiano, così come i fiumi, le acque, il colore del cielo, i quattro elementi, la Luna, le stagioni, gli uomini, i cadaveri, i popoli, le civiltà e i costumi, ma una sola è la verità che permane nel tempo: Omnia mutantur, nihil interit[6].

La filosofia della natura di Leonardo

A questo punto il passaggio alla filosofia della natura di Leonardo è fin troppo semplice: tutte le sue tensioni epistemologiche riguardo le ragioni seminali del cosmo vengono a galla (parafrasando l’introduzione di Carlo Vecce agli Scritti di Leonardo) e

trovano espressione in quei fogli del primo periodo milanese che in un discorso unitario, introdurranno il mito vinciano della caverna scrigno dei segreti naturali…collegato all’esposizione della dottrina di Pitagora nel XV libro delle Metamorfosi di Ovidio.[7]

In quegli scritti Leonardo inventò e raccontò alcuni miti, di cui sarà utile al presente discorso tenerne a mente tre: Il mostro marino (Ar. 156), L’accrescimento della terra (Atl.715) e La caverna (Ar. 155v). Nel primo si narra la storia di un oscuro e terribile mostro marino che distrugge e intimorisce ogni cosa gli si ponga di fronte; ma anche questo mostro è costretto a morire, come ogni elemento della natura, poiché il tempo, consumatore delle cose[8],in sé rivolgendole dà alle tratte vite nuove e varie abitazioni e ora il mostro disfatto dal tempo, paziente diace in questo chiuso loco. Colle ispogliate, spolpate e ignude ossa ha fatto armadura e sostegno al sopraposto monte[9].

Il mostro è morto e decomposto, ma la legge che domina l’universo vinciano è quella di Ovidio, quella dell’omnia mutantur, nihil interit, che in Leonardo diviene la legge di accrescimento della terra, che lo porta a chiedersi: Or non s’è veduto le sassose cime de’ monti, la viva pietra per lungo tempo col suo accrescimento aver inghiottito una appoggiata colonna, e… aver lasciato nel vivo sasso la sua accanalata forma?[10] La necessità naturale prevede dunque che nulla si distrugga, nemmeno le rocce, ma che ogni elemento si trasformi in un altro riassumendo in questo modo le principali influenze prima descritte: Anassagora – citato esplicitamente da Leonardo in Atl. 1067[11] – e Pitagora, riassunti nella figura di Ovidio scrittore delle Metamorfosi.

Il mostro deceduto e decomposto non si trasforma in un qualsiasi elemento naturale, ma in sostegno al sopraposto monte, che sembra essere la Caverna di cui Leonardo aveva già parlato nei suoi scritti con questi termini:

E tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, piegato le mie reni in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio e colla destra mi feci tenebre alle abbassate e chiuse ciglia e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era. E stato alquanto, subito salse in me due cose, paura e desidero: paura per la minacciante e scura spilonca, desidero per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa.[12]

Una caverna che è il simbolo della vita di Leonardo, della sua brama di conoscenza che, in quanto omo sanza lettere, deve partire dall’esperienza sensibile del mondo, ma in quanto genio deve essere accompagnata e stimolata dalla lettura di quegli altori tanto stimati, ma senza divenire uno dei trombetti e recitatori delle altrui opere, che vanno sconfiati e pomposi, vestiti e ornati non delle loro ma delle altrui fatiche[13].

La Gioconda

Per Leonardo dunque le forme non sono mai fisse o stabili, la natura non è mai sempre la stessa; riprendendo le antiche filosofie ricorda alla sua epoca che l’universo muta costantemente e senza riguardi per gli esseri che lo popolano, compresi gli uomini. Tutto si trasforma, nulla perisce è il suo insegnamento, che porta con sé tante questioni esistenziali che saranno care ad altri pensatori e scrittori del futuro[14]. Leonardo è ben cosciente che queste teorie possano spaventare gli uomini, che la necessità naturale con il suo ciclo fatto di nascita, vita, morte e rinascita in altra forma atterrisca ogni individuo che ignori le ragioni ultime, seminali, del cosmo, ma proprio per questo propone un dipinto come mai ne furono realizzati prima: la Gioconda.

L’esperienza – unita alla ragione e allo studio – deve portare alla ricerca delle suddette ragioni, alla comprensione delle leggi naturali e alla loro rappresentazione nei dipinti e negli infiniti disegni e abbozzi[15], che culminano nella Monna Lisa, che forse più che un ritratto può essere considerato un trattato di filosofia della natura[16]. Leonardo nel Trattato sulla pittura dimostra come ogni figura per essere perfettamente dipinta debba partecipare della luce e dell’ombra: le due non devono mai essere separate, anzi devono sfumare l’una nell’altra in una coincidentia oppositorum che ancora rimanda alle filosofie precedentemente menzionate e si rafforza con l’uso di colori opposti affiancati; questa teoria in Leonardo prende il nome di recto contrario ed elimina la concezione del simile conosce il simile, conducendo lo spettatore in un dipinto che si fa specchio, interpretazione e ricreazione della natura, cercando di unire opposti apparentemente inconciliabili (luce e ombra, bianco e nero, necessità e libertà, distruzione e rinascita, paura e ardente desiderio).

Nella Gioconda, tralasciando tutte le questioni riguardo l’identificazione storica, la donna ritratta viene mostrata dall’artista come altro rispetto al pensabile e al dicibile[17], come l’unione di tutti gli archetipi umani, delle figure di donne viste e immaginate: le linee sfumate e il colore perfettamente distribuito rendono quel volto inafferrabile e non commentabile. Il suo volto si fa specchio, si lascia guardare, ma prima di tutto guarda: ricambia lo sguardo dello spettatore, ma in realtà è lei stessa che lo sta aspettando da secoli. Questo sguardo che dura secoli trascina lo spettatore all’interno del dipinto e attraverso i contorni levigati e sfumati lo trasporta direttamente nel paesaggio retrostante, desolato, triste e dai colori uggiosi: montagne stanno per crollare, fiumi in piena stanno per inondare e distruggere ogni cosa, i ponti sono sul punto di essere abbattuti dalle acque e il mondo intero sembra dover cambiare totalmente. Lei però, divina figura, ammicca e sorride, quasi indifferente a tutto ciò; in questo rapporto di singolo a singolo, o meglio di singolo a incomprensibile divinità Leonardo mostra il suo più grande lascito: ha oramai fuso completamente uomo e natura, ha compreso l’indivisibile unione tra tutti gli opposti, tra chiaro e scuro, distruzione e rinascita, necessità e forza creatrice carica di bellezza e armonia; ma non è solo questo, anzi sta dicendo che il mondo fuori di noi è sì meraviglioso, ma è anche terrificante poiché c’è sempre quel mostro marino, scuro e gigantesco, simbolo della necessità naturale che è pronto a distruggerci con diluvi, tempeste, eruzioni vulcaniche e il debole uomo nulla può fare se non cogliere la divina armonia in tutto questo, o meglio trasformare quel mostro nel volto meraviglioso di una donna storica che forse non è mai esistita, che più che una donna forse è la personificazione di quel naturae vultus descritto da Ovidio.

Sulle orme del Pitagora ovidiano insegna a non temere la morte e la distruzione, poiché i corpi, una volta che li ha dissolti il rogo con la fiamma, o il tempo con la decomposizione, non soffrono più[18], idea che per Leonardo si traduce nel meraviglioso ed enigmatico volto di una dama, in un dipinto che non fa altro che riprendere e rendere più diretto e comprensibile il poema ovidiano e le sue teorie pitagoriche – ciò non deve stupire in Leonardo, che appena poteva spendeva parole per sottolineare la superiorità della pittura su tutte le forme artistiche e in particolare sulla poesia, troppo complessa e prolissa, che rischia costantemente di annoiare e rimanere ermetica, mentre il dipinto, con l’uso delle suddette conoscenze e tecniche, è immediato, diretto e facilmente comprensibile.

Insomma il terrificante mostro marino è morto, il suo scheletro simbolo della necessità naturale ha subito la metamorfosi in caverna e infine in dama rinascimentale, ma ora non spaventa più; ora l’uomo, seguendo Leonardo – che per primo si è avventurato in essa caverna –, ha le armi per comprendere che il sorriso della Gioconda è sì ambiguo, ma che solo lo studio e la conoscenza della natura possono renderlo rassicurante e non più qualcosa di beffardo e incomprensibile: qui sta per Leonardo la libertà umana, nell’inserirsi nel sistema della natura, nella necessità che la domina e ricercando le ragioni seminali delle innumerevoli metamorfosi che la contraddistinguono trovarne l’infinita bellezza.

Bibliografia

Ovidio (2015), Metamorfosi, trad. it. a cura di P.B. Marzolla, Torino, Einaudi.

L. da Vinci (1992), Scritti, a cura di C. Vecce, Milano, Mursia.

G. Cuozzo (2013), Dentro l’immagine. Natura arte e prospettiva in Leonardo da Vinci, Bologna, Il Mulino.

Carlo Vecce (2017), La biblioteca perduta. I libri di Leonardo, Roma, Salerno editrice.

Genesi, in La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, ed. Dehoniane.


[1] Carlo Vecce (2017), La biblioteca perduta. I libri di Leonardo, Roma, Salerno editrice, pag. 156.

[2] Si vedano, come più lampanti esempi, in Genesi 1-2 la cosmogonia derivante da un processo di separazione delle forze e di ordinamento da parte di Dio e la creazione di un uomo a Sua immagine e somiglianza per mezzo della polvere del suolo, mentre per Ovidio avviene attraverso la terra ancora recente, che ancora ha in sé parte del cielo divino.

[3] Ovidio, Metamorfosi, Libro I, vv. 8-9, pag. 4. Mole informe e confusa… ammasso di germi discordi di cose mal combinate.

[4] Ivi, v. 32, pag. 6. Chiunque egli fosse.

[5] Ivi, Libro XV, pag. 607. Schiere di discepoli muti e compresi d’ammirazione.

[6] Ivi, v. 165, pag. 612. Tutto si trasforma, nulla perisce.

[7] C. Vecce (1992), Introduzione, in Leonardo da Vinci. Scritti, Milano, Mursia, pag. 7.

[8] Traduzione letterale del Tempus edax rerum di Ovidio in Metamorfosi, Libro XV, v. 234.

[9] L. da Vinci, Il mostro marino, in Leonardo da Vinci. Scritti, pagg. 164-65.

[10] Ivi, L’accrescimento della terra, pagg. 163-64.

[11] Anassagora. Ogni cosa viene da ogni cosa, e d’ogni cosa si fa ogni cosa, e ogni cosa torna in ogni cosa, perché ciò ch’è nelli elementi è fatto da essi elementi.

[12] Ivi, La caverna, pag. 162.

[13] Ovvero coloro i quali non fanno altro che citare e allegare le tesi dei grandi uomini del passato senza però conoscerne le ragioni seminali, senza sperimentarne la verità.

[14] Si pensi anche solo a Leopardi e alla sua ripresa del tema leonardiano della natura madre e matrigna e della sua indifferenza verso l’uomo, ben rappresentata nel Dialogo della Natura e di un Islandese.

[15] Si può dire che con il disegno Leonardo mette in ordine la realtà, ne comprende le forme originarie, ma con la pittura fa ciò che Ovidio fece con la poesia: spiega ai comuni mortali ciò che ha scoperto della natura ricreandola con forme e colori. Come detto nel retro del ritratto di Ginevra de’ Benci: Virtutem Forma Decorat, ovvero la forma adorna la virtù, interpretabile anche come la bellezza adorna la conoscenza.

[16] Come sostiene G. Cuozzo (2013) in Dentro l’immagine. Natura, arte e prospettiva in Leonardo da Vinci, Bologna, Il Mulino.

[17] Ivi, pag. 121.

[18] Ovidio, Metamorfosi, Libro XV, vv. 156-57.

L’‘altro’ allo stetoscopio: il racconto odisseico di François Beaune

Martedì 21 marzo 2018, presso il Campus Einaudi di Torino, il professor Benoit Monginot ha introdotto lo scrittore François Beaune, giovane autore gallimardiano. Nell’ambito delle Giornate della Francofonia (Torino 2018) promosse da “Alliance Française”, l’ospite ha dato agli studenti la possibilità di conoscere direttamente il piano della sua ultima opera, La lune dans le puits.

Sostanzialmente il libro è composto da più di centosettanta brevi storie direttamente prelevate dal reale, histoires vraies che parlano della realtà nuda e cruda e che la presentano senza abbellimenti, modificazioni o rimaneggiamenti, proprio come l’autore stesso le ha ascoltate. La sua fonte di ispirazione è stata l’esperienza da lui fatta tra il 2011 e il 2014, durante la quale, presi microfono e registratore, è partito per un tour del bacino mediterraneo intenzionato a collezionare un’ingente pluralità di voci che chiedeva solo di essere ascoltata.

 

Diversi sono stati gli argomenti principali della conferenza, così come tante sono le relazioni tra pensieri, fatti e parole da ricordare per comprendere la sua ricerca: innanzitutto il motivo che lo ha spinto verso questa impresa odisseica; poi il metodo, argomento fondamentale per realizzare un lavoro di questo respiro; il disegno finale del libro, fortemente collegato al suo titolo, cioè quello di costruire un ponte tra gli uomini che abitano il Mediterraneo; e infine l’augurio più significativo, ossia rendere sempre fecondo e mai deleterio l’incontro con l’‘altro’.

Il suo progetto prende le mosse da un disegno simile dello scrittore americano Paul Auster, il quale, per la National Public Radio, negli anni Zero ha portato a termine il volume True Tales of American Life, raccolta di singole e spontanee testimonianze di cittadini americani, nonché storia statunitense collettiva. Parimenti, Beaune decise di avviare un progetto gemello, dedicato però al mare nostrum e in particolare a Marsiglia, testa di ponte del Mediterraneo e culla di tutte le entità culturali lì presenti, con il saldo presupposto  di creare una biblioteca delle histoires vraies che rispecchiasse la storica frammentarietà dei tanti popoli di queste zone.

Reclamando il diritto alla parola di ogni essere umano, Beaune ha ripercorso questi territori intervistando diverse persone e proponendo loro uno scambio singolare: la loro sincerità nel raccontare per la verità nel riportare; ed è così che è arrivato alla scelta metodologica e narratologica di eclissarsi, unico modo per lasciar emergere agli occhi del lettore la storia di ognuno. Intento a trovare, come ha spiegato, la persona che racconta la storia attraverso la musica delle proprie parole, con il testimone da una parte e la verità dall’altra egli ha dovuto muoversi attentamente, come un equilibrista, per tentare di conservare l’emozione ascoltata e riprodurla così per come si era presentata a lui stesso.

Dunque, il suo libro è interattivo, viaggia in due direzioni: al lettore non viene proposto soltanto la lettura, ma, allo stesso tempo e con un procedimento parallelo, la riscoperta di se stesso: solo specchiandosi nel diverso potrà capire meglio se stesso, interrogarsi sulla propria coscienza di sé e ridefinirsi in funzione degli altri. Insomma, se da un lato l’uomo ha il diritto di parlare, dall’altro ha anche il dovere di ascoltare e conoscere le esistenze degli altri, senza fermarsi soltanto a se stesso e chiudersi nell’individualismo. E questo è anche il messaggio del titolo, che allude ad una citazione di Leonardo Sciascia: “La vérité est au fond du puits. Vous regardez dans un puits: vous y voyez le soleil ou la lune, mais si vous vous jetez dans le puits il n’y a plus ni soleil ni lune; il y a la vérité”. Secondo il siciliano, perciò, soltanto al fondo del pozzo c’è la verità; Beaune, invece, non è interessato direttamente ad essa, quanto più – come spiega restando nella metafora sciasciana – al sole e alla luna che si riflettono sull’acqua del pozzo, cioè al racconto della storia così per come viene narrata dai suoi testimoni. Pertanto ognuno può riscoprirsi e, come la luna, riflettersi sulla superficie dell’acqua, non dimenticando mai, come diceva già Primo Levi, che “parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta” (Se questo è un uomo, 1947).

Il messaggio più evidente di La lune dans le puits è proprio quello che riguarda chi e cosa è ‘altro’ da noi, quello che concerne il sentimento del diverso, quello che al giorno d’oggi è sempre più improntato verso la diffidenza, l’odio e il male. L’augurio con cui l’autore conclude l’incontro riassume alla perfezione il suo spirito: Beaune vorrebbe che il progetto da lui iniziato, sulla scia del suo esempio, diventasse sempre più importante e guadagnasse sempre più sostenitori, fino a farsi mondiale. Soltanto se si avesse a che fare con tutto il mondo, infatti, ci si potrebbe avvicinare notevolmente all’ideale da cui il progetto ha mosso i primi passi. Un ideale che, al giorno d’oggi, sembra venire sempre meno, ma che non per questo merita di passare in secondo piano.

Topos e tema: una distinzione teorica. Incontro con Guido Paduano

Giovedì 15 febbraio si è tenuto nella Sala Lauree della Scuola di Scienze Umanistiche un incontro con Guido Paduano, Professore Emerito di filologia classica e di letterature comparate all’Università di Pisa. Paduano si è distinto nel corso della sua lunga carriera accademica per varie traduzioni e commenti ad opere della classicità greca e latina, oltre che studi in ambito musicale e di teoria della letteratura (due suoi libri a riguardo sono: La nascita dell’eroe. Achille, Odisseo, Enea: le origini della cultura occidentale (2008) e Il testo e il mondo. Elementi di teoria della letteratura (2013) ). Il discorso di Paduano, per la sua tematica, si intreccia, sin dall’introduzione del professor R. Gilodi, alla fondamentale opera di E. R. Curtius, Letteratura europea e Medioevo latino (1948), pubblicata in traduzione italiana soltanto nel 1992, in cui l’autore aveva dimostrato la continuità della letteratura europea dall’antichità greca e romana al ‘700 attraverso la persistenza di alcuni topoi fondamentali.

La tesi di Paduano viene immediatamente esplicitata: la distinzione, o meglio, opposizione tra topos e tema è “teorica” in quanto appartenente più al linguaggio metacritico che ad una realtà effettiva. Essi sarebbero, infatti, più vicini di quanto si sia soliti pensare. Entrambi sono legati al fenomeno dell’intertestualità e caratterizzati dalla ricorsività di un’unità fondamentale all’interno di macrotesti appartenenti ad una sola cultura oppure a culture ed epoche totalmente diversi. Il tema (parola nata in ambito musicale attorno al 1830 e legata da un rapporto definitorio a “variazione”) però viene generalmente visto come un’unità mobile e metamorfica; invece il topos, termine preso in prestito alla retorica classica, è in genere associato ad un’idea di staticità, di forte stereotipizzazione, di fissità. L’opposizione così posta si riflette perfettamente nelle recensioni all’opera di Curtius, che subì alcune critiche, pagando, secondo Paduano, la “cattiva fama” del topos, ovvero la sua supposta rigidità. Le critiche sorsero principalmente proprio dall’aver scelto il topos come concetto portante del libro, ad esempio sostenendo che gran parte dell’erudizione dell’opera mostra semplicemente che “a commonplace remained a commonplace”, oltre al fatto di essersi concentrato più sui fenomeni di persistenza piuttosto che su quelli di mutamento, di innovazione. In verità, nota Paduano, già Roberto Antonelli, nella prefazione all’edizione italiana del volume, contraddice questa visione attribuendo al metodo topologico di Curtius la capacità di entrare nella dialettica “testo-sistema”, indirizzando quindi la fruizione di Letteratura europea verso la critica tematica.

Paduano definisce dunque il topos “un tema di cui si parla male” e la sua opposizione con il tema come frutto di un’analisi viziata dal “pregiudizio” di valore, cioè da un giudizio che precede l’analisi contestuale. Al contrario Paduano propone una definizione che lega le due categorie secondo rapporti differenti: definisce il topos come “un tema in un certo senso abortito”, cioè che non ha trovato una creatività capace di rigenerarlo (un non-evento, una creatività non intervenuta) e il tema invece come un topos che “si afferma attraverso le sue mutazioni”, un terremoto di valori che spesso porta allo stravolgimento, alla vera e propria “esplosione di un senso nuovo”. Ed illustra questa seconda idea attraverso tre esempi letterari di altissimo livello, tre topoi che, a partire dalla loro origine antica, subiscono nel corso della storia stimolanti e imprevedibili trasformazioni, e che dimostrano una vitalità che contraddice la comune visione immobilistica e sterile di questa categoria. Il primo di questi esempi è il topos dell’insufficienza del tempo amoroso che troviamo per la prima volta nell’Odissea (la notte, prolungata da Atena, in cui Odisseo e Penelope, ricongiunti, si raccontano a vicenda gli anni trascorsi) e che viene ricreato e rielaborato finemente nel Romeo and Juliet shakespeariano, nel contesto della separazione degli amanti al sorgere del sole. Nell’opera esso si manifesta attraverso un interessante scambio delle parti: Giulietta nega l’evidenza dell’alba che sopraggiunge (affermando che il canto dell’allodola è invece il canto notturno dell’usignolo), Romeo l’asseconda, ed infine Giulietta ribalta quanto detto in precedenza, comprendendo la pericolosità della loro situazione, e lo congeda. In Romeo e Giulietta questo topos dell’alba demonizzata “si scontra”, inoltre, con un altro topos, anch’esso molto antico e di valenza quasi antropologica: quello dell’opposizione luce-buio, secondo cui la luce (e il giorno) è associata al polo della positività, della vita, mentre il buio (e la notte) a quello della negatività, della morte e del disvalore. Lo scambio che avviene nella scena della separazione degli amanti viene infatti anticipato e contraddetto da un passo in cui Romeo definisce Giulietta come “un sole”, che lui invita a sorgere scacciando la luna invidiosa.

Il secondo topos trattato è quello, invece, del “dialogo con se stessi” nel racconto Lenz di Georg Büchner, un topos antico quanto l’Iliade, che però nella sua formulazione originaria presupponeva la fondamentale unitarietà del soggetto in cui avviene il monologo interiore. Al contrario, nel personaggio di Lenz, poeta folle, viene sancita l’impossibilità di questa unità proprio dall’incapacità stessa di avviare questa comunicazione con se stesso e dalla conseguente affermazione del soggetto come entità frammentaria e scissa.

Infine, Paduano ha trattato l’antico topos della “natura che ride”, ovvero della natura che riflette lo stato d’animo dell’uomo, la sua letizia, e la sua profonda trasformazione nel III atto del Parsifal di Wagner. Nel Parsifal il riso assume più di una connotazione: è risata denigratoria quella di Kundry, la donna che ride di Gesù sulla Croce, e che per questo verrà punita con una maledizione secolare, quella di non poter piangere. Solo dopo un lungo percorso di redenzione Kundry riuscirà di nuovo a erompere nel pianto, in contemporanea alla rinascita della natura nell’incantesimo del Venerdì Santo. Le parole di Parsifal saranno: “Tu piangi, vedi! il prato ride”. In questo caso, a differenza dell’originaria declinazione del topos, la natura e l’uomo hanno due manifestazioni opposte, eppure coincidenti ad un livello più profondo.

Gli spunti di riflessione suscitati dalle considerazioni di Paduano sono molti. Le operazioni della comparatistica, così come lo studio dei topoi attraverso i secoli e le letterature, non devono limitarsi esclusivamente ai rapporti di discendenza genetica tra i testi, all’automatismo dell’imitatio. E allo stesso tempo non si può ritenere come frutto di coincidenza o caso tutto ciò che non può essere ricondotto alla filiera genetica, come non si può ricondurlo al modello degli archetipi junghiani, strutture che, secondo Paduano, non possono servire alla critica letteraria, in quanto distruttive di ogni differenziazione e significato. Ciò che invece dev’essere indagato è, analizzando singolo testo per singolo testo, come in diverse circostanze storiche siano state stimolate risposte simili, dando vita a interessanti parallelismi, e privilegiando nello studio i fenomeni di ricreazione autonoma rispetto alla semplice meccanicità dell’imitatio o aemulatio. Ciò che rende un testo un capolavoro non è, infatti, la sterile ripetizione di pattern letterari precedenti, di topoi, bensì l’elemento di novità, di scarto, di originalità, così come emerge dagli esempi letterari citati. Una delle linee di accesso più interessanti a questo aspetto, come suggerito dal professor Gilodi in commento alle tesi di Paduano, è stato forse proprio quel “senso dell’individuale” in relazione all’opera letteraria, in cui per “individuale” si intende “unico nella sua irrepetibilità”, assunto dal circolo protoromantico di Jena come cifra del loro pensiero nonché come essenza della poesia moderna rispetto a quella antica.