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Podcast: La peste di Camus e il Coronavirus. Riflessioni letterarie sulle reazioni umane

Veronica Pinti è una studentessa della laurea magistrale in Letteratura, Filologia e Linguistica italiana presso l’Università degli Studi di Torino. Si è laureata in Lettere nell’ a.a 2018, con una tesi in Geografia Linguistica dal titolo Tassonomia popolare di alcuni ittionimi di area abruzzese e molisana. Nel 2016 ha partecipato a Contro la guerra: l’Iliade riscritta da noi, a cura di C. Lombardi e M. Cravero.  Attualmente sta svolgendo un periodo di mobilità erasmus in Croazia, presso l’Università degli studi di Zara.

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In questo podcast, riflette sul tema della peste nel romanzo di Camus e lo compara con il nostro tempo, dipanando alcune riflessioni letterarie sulle relazioni umane. [qui la Lettura originale]

La peste di Camus e il Coronavirus. Riflessioni letterarie sulle reazioni umane.

Veronica Pinti è una studentessa della laurea magistrale in Letteratura, Filologia e Linguistica italiana presso l’Università degli Studi di Torino. Si è laureata in Lettere nell’ a.a 2018, con una tesi in Geografia Linguistica dal titolo Tassonomia popolare di alcuni ittionimi di area abruzzese e molisana. Nel 2016 ha partecipato a Contro la guerra: l’Iliade riscritta da noi (Mimesis), a cura di C. Lombardi e M. Cravero.  Attualmente sta svolgendo un periodo di mobilità erasmus in Croazia, presso l’Università degli studi di Zara.

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Benché un flagello sia infatti un accadimento frequente,
tutti stentiamo a credere ai flagelli quando ci piombano addosso.[1]

Introduzione

Secondo Giambattista Vico, la storia è fatta di corsi e ricorsi, ovvero grandi e piccoli avvenimenti si ripresentano ciclicamente nel mondo, quasi come delle lancette di un orologio che percorrono i quadranti. Tuttavia è proprio dell’essere umano pensare all’hic et nunc, al qui ed ora, come centro o apice dell’evoluzione umana, mettendo se stesso e la sua epoca al centro della storia del mondo. D’altronde guai se così non fosse: se l’uomo perdesse il senso di potenza, probabilmente si arrenderebbe allo scorrere del tempo e la natura lo avrebbe già inghiottito. Dall’altro lato però, così pensando, l’uomo ritiene un unicum, un qualcosa di irripetibile vista la sua portata, tutto ciò che gli accade o che riguarda la società a lui contemporanea; è più facile avvertire il peso degli eventi vissuti sulla propria pelle rispetto a quello degli eventi passati in rassegna in un libro di storia.

E così nella primavera del 2020, l’umanità intera si trova a fronteggiare una pandemia che va sotto il nome di COVID-19. Ogni giorno che passa, ogni contagio comunicato, ogni paziente deceduto genera l’impressione che sia stato compiuto un ulteriore passo verso la fine del mondo. A cosa serve tutta questa sofferenza allora? Leopardi ci aveva avvertito: la Natura è matrigna, indifferente alla vita dell’uomo e delle sue creature, capace di spazzare via tutto, anche se stessa, con la lava di un vulcano. Noi non possiamo fare altro che chinare il capo come una piccola ginestra indifesa e accettare la nostra sorte comune. E quindi, nella serie di catastrofi naturali, ovvero quegli avvenimenti distruttivi che noi non possiamo prevedere o controllare, bisogna annoverare anche le epidemie. Perché ora? Perché noi? Una risposta non c’è: chiniamo il capo al caso. Arrendiamoci alla nostra “sfortuna” di essere qui sulla Terra in questo momento, come hanno fatto gli sfortunati di passaggio sulla Terra tra il 1347 e il 1353 con la Peste Nera, o tra il 1918 e il 1920, anni dell’influenza Spagnola; moltissimi sono stati i morti, ma la grande comunità umana è riuscita nel suo intento, non resistendo, ma adattandosi. È ciò che in fondo viene chiesto anche a noi oggi, ovvero mutare i nostri ritmi vitali e l’approccio nei confronti dell’altro. Il mondo va avanti con un senso che sfugge alla logica umana. Quindi perché essere così terrorizzati? Che sia il doversi adattare, il vedere la propria vita mutata d’improvviso a farci tremare maggiormente? Cosa ne sarà di noi dopo? Lo sappiamo, rinasceremo di nuovo ginestre.

La paura è conseguenza e fondamento di un’epidemia. Ma prima di tutto la paura è il primo programma mentale dell’essere umano, che gli permette di restare, scappare; lo scopo ultimo è sopravvivere. Noi ora non dobbiamo scappare, dobbiamo fisicamente restare, fermarci e adattarci per sopravvivere: adattare lo stile di vita a nuove esigenze, come già detto prima; adattare la ricerca scientifica a nuove cure e vaccini; adattare in sostanza la nostra mentalità, regredendo paradossalmente a quella più ancestrale e ferina. Avere paura significa adattarsi che significa sopravvivere.

I

Lo sapeva bene Albert Camus quando scriveva La peste, romanzo pubblicato nel 1947 in Francia e arrivato in Italia l’anno seguente. È una peste fittizia, che colpisce Orano, città nordoccidentale dell’Algeria, negli anni ’40 del Novecento. Una peste che tuttavia ricomprende le vicende di tutte le epidemie precedenti: cambia il virus, ma non la reazione umana. Dapprima avviene una moria di topi nella città: unico pensiero è il disgusto che provocano all’interno delle strade e dei palazzi dei residenti altolocati. Poi inspiegabilmente la morte di un paio di persone arrecanti gli stessi sintomi noti, seppur con qualche variante. Qualche giorno di delirio; poi la morte. Impossibile che fosse peste: era stata ormai debellata da tempo. Impossibile che fosse qualsiasi evento straordinario: le persone muoiono tutti i giorni e finché non è il turno dei nostri cari, ci appaiono quasi come tributi da consegnare per placare l’ira di un di un tiranno che ci governa.

I nostri concittadini non erano più colpevoli di altri, dimenticavano soltanto di essere umili e pensavano che tutto per loro fosse ancora possibile, il che presumeva che i flagelli fossero impossibili. Continuavano a fare affari, programmavano viaggi e avevano opinioni. Come avrebbero potuto pensare alla peste che sopprime il futuro, gli spostamenti e le discussioni? Si credevano liberi e nessuno sarà mai libero finché ci saranno dei flagelli.[2] […]

Finché ciascun medico non era venuto a conoscenza di più di due o tre casi, a nessuno era giunto in mente di muoversi. Ma in fondo bastava che qualcuno facesse la somma. E la somma era impressionante. In pochi giorni i casi mortali si moltiplicarono e coloro che si occupavano di questa malattia singolare si resero conto che si trattava di una vera e propria epidemia.[3]

I primi ad accorgersi della portata di una malattia sono i medici: c’è chi piange il proprio marito, la propria figlia, la propria vicina di casa; c’è chi non piange nessuno e avverte il tutto come lontano da sé.

In un certo senso all’opinione pubblica mancavano i termini di paragone.[4]

I medici sono dinamici, si muovono nella città o nei paesi, ricevono telefonate di mamme preoccupate per i loro figli, anche solo per un minimo colpo di tosse. Nella loro mente si sommano i sintomi, appare evidente la loro ricorsività, il loro combinarsi, la loro frequenza. I medici hanno prima di tutto sangue freddo. Nonostante le statistiche, preferiscono aspettare l’evolversi della situazione cercando intanto di arginarla. Ma non c’è dubbio: se ritengono tali statistiche e il loro evolversi allarmante, lo comunicano alle autorità. Senza un decreto da parte di queste ultime, è difficile suscitare uno stato di allerta nei cittadini. E sembra proprio che le autorità di tutti i tempi abbiano come scopo primario la quiete pubblica, a vantaggio o svantaggio della società stessa, consigliandole di prestare attenzione.

Era difficile trarre da quei comunicati la prova che le autorità guardassero la situazione in faccia. Non era stata presa alcuna misura drastica e sembrava che lo scrupolo principale fosse quello di non destare allarme nell’opinione pubblica. L’ordinanza esordiva infatti annunciando che nel comune di Orano si erano verificati alcuni casi di una febbre perniciosa di cui non si poteva ancora dire se presentasse il rischio di contagio. Quei casi non eran per ora sufficientemente conclamati per essere davvero allarmanti e la popolazione avrebbe senz’altro preso alcune misure di prevenzione. Opportunamente recepite e applicate, tali misure erano in grado di debellare qualsivoglia rischio di epidemia. Di conseguenza il prefetto confidava che la cittadinanza avrebbe assicurato la più attiva collaborazione al suo sforzo personale.[5]

Come si può consigliare ad un’intera comunità di prestare attenzione senza destare allarmismo? L’uno esclude l’altro. Sono due atteggiamenti opposti e pertanto veicolano reazioni differenti. A Orano questa “forte febbre” c’è, miete qualche vittima, ma non è neanche certo che sia contagiosa.

Tuttavia, per evitare un possibile contagio, si suggerisce alla cittadinanza di prestare attenzione alle norme di pulizia; allo stesso tempo però si suggerisce di non cadere nel panico. L’uomo innalza così una barriera auto protettiva che lo porterà a focalizzarsi sull’aspetto positivo del messaggio: il contagio non è certo, in fondo pulisco già, non cadrò nel panico. Chi lo fa è debole.

L’8 marzo 2020 nel corso di una conferenza Walter Ricciardi, componente del Comitato esecutivo dell’Oms, affermava: “Dobbiamo ridimensionare questo grande allarme, che è giusto, da non sottovalutare, ma la malattia va posta nei giusti termini: su 100 persone malate, 80 guariscono praticamente spontaneamente, 15 hanno problemi seri ma gestibili in ambiente sanitario, il 5% è gravissimo, di cui il 3% muore. Per altro sapete che tutte le persone decedute avevano già delle condizioni gravi di salute”.[6]

II

Continuavano così a girare per le strade e a sedersi ai tavolini da caffè. Nel complesso non erano spaventati, si scambiavano più battute che lamentele e sembravano accettare d buon grado certi inconvenienti evidentemente passeggeri. Le apparenze erano salve.[7]

Autorità e cittadini per la prima volta, in un breve momento, appaiono uniti contro la presunta minaccia comune: l’allarmismo. I primi cercano di allontanare o rimandare la possibilità di chiudere un’intera città, paese o regione, i secondi di non apparire deboli e spaventati di fronte a una cosa da poco, evitando di essere oggetti di burla o di essere additati come allarmisti. In questa prima fase è importante salvare la facciata di una comunità serena, anzi frenetica, con cose serie a cui pensare. Nulla si può fermare, l’economia va avanti, le spese quotidiane delle famiglie si susseguono, gli esami universitari si avvicinano, i giovani hanno bisogno di svagare. Se i medici accorti consigliano, anche solo per deformazione professionale, di mantenere le distanze in vista di accertamenti riguardo la possibilità di contagio, in quel momento le necessità individuali sono ancora al di sopra di quelle della comunità.

“Sì, ecco,” fece Rambert, “e adesso parlerà del bene comune. Ma il bene comune è fatto della felicità di ognuno”.[8]

Sono le parole del giovane reporter nel romanzo di Camus, rimasto bloccato a Orano senza la possibilità di tornare a casa dalla sua amata. Rambert chiede al medico protagonista Rieux un certificato per attraversare i confini bloccati. Le priorità sono ancora deviate: sono le proprietà di una società moderna e capitalista, frenetica nel lavoro e nei rapporti, una società che non permette a nulla di arrestare le proprie abitudini, perché se rallenti ti superano. E in questa prima e breve fase, si ritiene di dimostrare l’amore per l’altro proprio aggirando le leggi: si esce un po’ di soppiatto pur di salutare la propria fidanzata, di fare la spesa per un genitore anziano che vive da solo, di prendere un caffè con un’amica. Questo però è ancora un amore che si riflette su di sé, sul proprio valore personale, incanalato in un bisogno di fare del bene per dimostrare agli altri che quell’amore è così forte da non vacillare di fronte a un supposto rischio.

Il male presente nel mondo viene quasi sempre dall’ignoranza e la buona volontà, se non è illuminata, può può fare altrettanti danni della malvagità.[9]

Solo nelle fasi successive si apprenderà che la legge punta al benessere universale e solo rispettandola si dimostra di amare la sicurezza dell’altro. Oltre al fatto di restare chiusi in casa, di dover rinunciare a un concerto, a una passeggiata in riva al mare o a una giornata lavorativa, si inizia ad accennare al vero cambiamento instillato da un’epidemia: il modo di manifestare i propri sentimenti.

In quattro giorni, però, la febbre registrò quattro impennate clamorose: sedici morti, poi ventiquattro, ventotto e trentadue. Il quarto giorno fu annunciata l’apertura dell’ospedale ausiliario in una scuola materna. Per strada i nostri concittadini, che fino a quel momento avevano continuato a mascherare la preoccupazione dietro le battute, sembravano più silenziosi e tristi. Rieux decise di telefonare al prefetto.[10]

Il prefetto finalmente pare rispondere e con lui l’amministrazione. Così in Italia il presidente del consiglio dei Ministri promulgava il decreto dell’8 marzo 2020, riguardante le regioni italiane maggiormente colpite dal Coronavirus: “evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo”[11]; “ ai soggetti con sintomatologia da infezione respiratoria e febbre (maggiore di 37, 5° C) è fortemente raccomandato di rimanere presso il proprio domicilio e limitare al massimo i contatti sociali, contattando il proprio medico curante; “si raccomanda ai datori di lavoro pubblici e privati di promuovere, durante il periodo di efficacia del presente decreto, la fruizione da parte dei lavoratori dipendenti dei periodi di congedo ordinario e di ferie.” Ancora, gli impianti nei comprensori sciistici vengono chiusi, così come vengono sospese manifestazioni sportive, religiose, culturali, e le attività dei servizi educativi per l’infanzia. Vengono chiusi i musei e le attività commerciali, ad esclusione di quelle che vendono beni di prima necessità; i bar e servizi di ristorazione possono essere aperti al pubblico dalle 6.00 alle 18.00; si attuava la sospensione dei congedi del personale sanitario; si impone la chiusura di palestre e centri sportivi. Tuttavia nel resto del territorio nazionale venivano soltanto sospese la attività di gruppo non obbligatorie, come meeting, incontri di tipo sociale, religioso, sportivo; sale bingo, discoteche e musei venivano chiusi. Anche i servizi educativi venivano sospesi, ma si lasciava la possibilità di incontrarsi per strada o in un pub, purché si rispettasse al distanza di sicurezza.[12]

Quel giorno si contarono una quarantina di morti. Il prefetto si assume la responsabilità, come diceva lui, di imporre sin dall’indomani misure più severe. Furono mantenuti la dichiarazione obbligatoria e l’isolamento. Le abitazioni dei malati dovevano essere chiuse e disinfettate, i familiari sottoposti a quarantena, i funerali organizzati dall’amministrazione cittadina nelle condizioni che vedremo. Il giorno dopo arrivarono i sieri. Erano sufficienti per i casi attualmente in cura. Insufficienti se l’epidemia si fosse estesa.[13]

Certo, il decreto era chiaro; leggendolo si può percepire lo stato di allerta che sale non solo per le regioni “rosse”, ma per l’intera nazione. Ciò che è stato percepito dalla popolazione però, specie delle regioni non incriminate, era ancora qualcosa di lontano da sé: al di fuori di queste regioni nel nord Italia, il virus non era una grave minaccia. Non si considerava però il fatto che le persone dal nord Italia si mossero per tutto il territorio statale e non, chi per paura di essere contagiato, chi semplicemente di restare bloccato nella propria casa. Il movimento del singolo, l’istinto di scappare innescato dal nostro più ancestrale programma mentale, poteva sembrare in quel momento una risposta valida alla propria sopravvivenza; arricchito con un po’ di sano buon senso e di lungimiranza, avremmo capito che invece si sarebbe rivelato il contrario.

Quasi tutti erano in primo luogo sensibili a ciò che interferiva con le loro abitudini o toccava i loro interessi. Ne provavano fastidio o irritazione, e non sono questi sentimenti che è possibile contrapporre alla peste. La loro prima reazione, per esempio, fu di prendersela con la pubblica amministrazione. La risposta del prefetto alle critiche riprese dalla stampa (“Non si potrebbe prevedere un alleggerimento delle misure adottate?”) fu alquanto inattesa.[14]

La risposta italiana ai provvedimenti presi contro l’espandersi del Coronavirus, lo sappiamo, fu più o meno la stessa. “Quante storie per un’influenza”; “e se anch’essa fosse così rischiosa, dovrei rinunciare a giornate intere della mia vita stando in casa?” Passando di qui, notiamo quasi con un sorrisetto come l’atteggiamento umano sia, di base, lo stesso a prescindere dalle epoche storiche.

 Il peggio doveva ancora venire e sarebbe arrivato proprio con l’isolamento obbligatorio di tutta la popolazione nazionale, senza differenziazione tra chi era malato, chi era stato esposto al virus o chi (apparentemente) era fuori rischio. Infatti il 9 marzo 2020 il Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte, amplia anche al resto della nazione italianale misure prese per le 14 province del nord maggiormente colpite dall’epidemia. Il provvedimento entrava in vigore il 10 marzo 2020 con scadenza il 3 aprile. Tuttavia era ormai chiaro che il decreto sarebbe rimasto in vigore ancora dopo quella data.

Le misure prese erano insufficienti, questo era chiaro. Quanto alle corsie “appositamente attrezzate”, le conosce: due padiglioni frettolosamente liberati dagli altri malati, con le finestre sigillate, circondati da un cordone sanitario. Se l’epidemia non si ferma da sé, non sarebbero state certo le misure prese dall’amministrazione a sconfiggerla. [15]

I medici e le autorità non possono più aiutare, ma hanno bisogno della collaborazione di tutti. Il piccolo sforzo che si richiede è quello, ancora, di fare attenzione; solo, più attenzione. Si chiede di restare nelle proprie case. Un piccolo sforzo sorretto dalla consapevolezza di non potersi più rimettere del tutto ai medici, di non poter più solo ascoltare le notizie di decessi o dei discorsi dei politici per poi discuterne concitatamente con i propri vicini; bisognava mettere in pratica delle norme per dare un aiuto valido. Quanto può pesare questa consapevolezza nella mente delle persone?

Mentre i nostri concittadini cercavano di abituarsi a quel subitaneo esilio, la peste metteva guardie alle porte e deviava le navi che facevano rotta su Orano. Dopo la chiusura, nessun veicolo era più entrato in città. Si aveva l’impressione, da quel giorno, che le auto girassero in tondo. Anche il porto, per coloro che lo guardavano dall’alto dei boulevard, presentava un aspetto singolare. La consueta animazione che ne faceva uno dei porti più importanti della costa si era bruscamente interrotta. Si vedeva ancora qualche nave tenuta in quarantena. Ma sui moli, alte gru in disarmo, i vagoncini rovesciati sul fianco, pile solitarie di fusti o di sacchi testimoniavano che anche il commercio era morto di peste.[16]

Non ci vuole la lungimiranza (quella che avremmo dovuto avere da subito quando ci è stato chiesto di restare in casa) per capire quanto sia grande l’impatto psicologico di tutto questo. Nel giro di un mese l’uomo è passato dal doversi muoversi nel mondo e nei propri impegni quotidiani al non poterlo più fare, dapprima con noia, poi con inquietudine e infine con terrore. Nel giro dello stesso mese l’uomo ha stravolto l’approccio interpersonale che deriva dal proprio bagaglio culturale: cambia la percezione della distanza, del modo di salutare, del prestare un oggetto, del preparare e regalare un dolce; cambia il modo in cui consideriamo l’immancabile sportivo che non riesce a rinunciare alla corsa nel parco, del premuroso padrone che fa lunghe passeggiate con il cane, della donna sempre ben vestita che non rinuncia alla cura delle proprie unghie e della propria pettinatura. Se qualcuno starnutisce non si esclama più “salute!”, ci si allontana minacciati. Non c’è nulla di più istintivo, di più “modalità sopravvivenza” di questo; eppure la cultura, la sensibilità umana ne avevano coperto le tracce. Nascerà un’intera letteratura sul mutare delle strutture mentali umane, sul ritorno della civiltà alla natura, sebbene con una consapevolezza lunga secoli. Involuzione? Evoluzione? Per ora possiamo solo notare gli effetti a breve termine della solitudine dell’isolamento.

Così, per esempio, un sentimento privato quale la separazione da una persona amata divenne improvvisamente, si dalle prime settimane, quello di un’intera popolazione e, insieme con la paura, il principale motivo di sofferenza di quel lungo periodo di esilio.

Una delle conseguenze più vistose della chiusura delle porte fu infatti l’improvvisa separazione in cui si ritrovarono persone che a questo non erano preparate. Madri e figli, coniugi, amanti che qualche giorno prima avevano creduto di dover affrontare una separazione temporanea che si erano salutati ai binari della nostra stazione con due o tre raccomandazioni, sicuri di rivedersi dopo qualche giorno o qualche settimana, cullati dall’assurda fiducia umana, a malapena distratti con quella partenza dalle preoccupazioni abituali, si videro d’un tratto inesorabilmente lontani, impossibilitati a ricongiungersi o a comunicare.[17]

Le famiglie che hanno salutato dopo le vacanze di Natale i figli in partenza per le proprie lontane città di residenza per motivi di studio o di lavoro, mai avrebbero pensato a questo scenario che si sarebbe verificato dopo poco più di un mese. Il momento di commozione è preceduto e subito seguito dal pensiero di quel servizio da fare, di quel cliente da richiamare, delle pagine da studiare. Credo che rientri anche questo tra i “meccanismi” di sopravvivenza umana, una sopravvivenza emotiva: il dolore viene sostituito da un altro pensiero più rassicurante, o semplicemente diverso. Cerchiamo distrazioni e forse proprio l’altro è una distrazione: uscire per un caffè, per salutare un amico, per incontrare la ragazza a cui si fa il filo o magari per pranzare con la propria nonna sono caramelle che l’uomo si concede per dolcificare l’amarezza della vita. La vita non è amara di per sé: la percepiamo come tale perché, nella nostra solitudine, dobbiamo svolgere il nostro lavoro e adempiere alle nostre responsabilità. Certe cose dobbiamo farle noi, non c’è spazio neanche per l’aiuto di qualcun altro. L’altro è svago. Anzi, l’altro è il vero svago, anche al di sopra delle azioni che svogliamo con lui, come un giro in bicicletta o una passeggiata in un prato. Sono sicuramente azioni ristoratrici di per sé, ma condivise hanno un’altra valenza, un altro sapore e lasciano un diverso ricordo. Ne abbiamo bisogno. E ce lo dimostra anche questo passo de La peste:

In realtà soffrivamo due volte- della nostra sofferenza e poi di quella che immaginavamo negli assenti, figli, moglie o amante.
In circostanze diverse forse i nostri concittadini avrebbero trovato una via di fuga in una vita più esteriore o più attiva. Ma la peste frattanto li imprigionava, e si riducevano a girare a vuoto nella loro città smorta, giorno dopo giorno in balia di scherzi illusori del ricordo. Giacché nelle loro passeggiate senza meta erano indotti a percorrere sempre gli stessi tragitti e, il più delle volte, in una città tanto piccola, questi tragitti erano proprio quelli che in un’altra epoca avevano percorso con l’assente.[18]

A Orano nel 1940 circa, come in Italia e nel resto del mondo nel 2020, l’uomo è bloccato in casa, non può uscire “neanche per fare una semplice passeggiata”. Camus ci fa riflettere: e se pur potessimo farla? Ci basterebbe? Ripercorrere le vie della nostra città natale o di quella in cui viviamo attualmente ci porterebbe inevitabilmente al ricordo dei giorni passati, in cui eravamo in quel posto con una persona a noi cara. E si sa che il bel ricordo impiega poco a trasformarsi in nostalgia. Detto in altre parole, la voglia che abbiamo di fare una passeggiata aiuterebbe di sicuro i nostri muscoli intorpiditi, ma quanto graverebbe sulla nostra mente? E quanto graverebbe poi dover rientrare nelle quattro mura della nostra casa, in cui ci sentiremmo ancora più soli? Mi riferisco a questo quando parlo del forte mutamento psicologico che sta affrontando l’umanità. Forse ci abitueremo di nuovo all’assenza.

III

Capisco questo benevolo ardore. Al principio di un flagello, e alla fine, si fa sempre un po’ di retorica. Nel primo caso non si è ancora persa l’abitudine e nel secondo la si è già ritrovata. Solo nel momento delle tragedie ci si abitua alla verità, cioè al silenzio. Aspettiamo.[19]

Aspettiamo nelle nostre case in una vita fatta di ciclicità, ora più che mai. La routine è scandita da pochi gesti elementari, come la preparazione dei pasti. La mattina, dopo la colazione, si pensa a cosa cucinare per pranzo; una veloce spesa al supermercato nel pomeriggio, la sera si sfornano pane

e pizze. Il ripiano su cui viene sistemato lievito di birra nei supermercati è costantemente vuoto: pare che cucinare prodotti da forno sia diventato uno degli hobby preferiti anche dai più giovani, anche dagli studenti universitari che, fino a qualche istante prima, preferivano ordinare un pasto veloce a domicilio e concentrare le loro energie in altre attività. La routine è scandita da questo, dalla riscoperta di attività che avevamo abbandonato o che tenevamo relegate ai ricordi d’infanzia: impastavamo con la nonna, leggevamo un buon libro con la mamma, disegnavamo, sistemavamo le vecchie foto. Qualche volta, immersi in queste lente ma intense attività, succede anche di riprendere coscienza per un attimo: “sto perdendo tempo”, questa frase tutta moderna (e postmoderna) ci torna in mente. L’epidemia costringe anche all’adattamento dei ritmi vitali, ormai scanditi da un’orologio sociale sempre troppo veloce, estenuante.

Questo disco è deprimente,” disse Rambert. “E poi oggi è la decima volta che lo ascolto.” “Le piace così tanto?”
“No, ma è l’unico che ho.”
E dopo un momento:
“Ve l’ho detto, la peste è un continuo ricominciare.”[20]

La quarantena ci dà l’opportunità di fare proprio questo, ricominciare. Di non lasciare mille cose in sospeso perché costretti ad intraprenderne di nuove, di mettere attenzione, cura, dedizione in ogni singola azione. Riprendiamo il contatto consapevole con ciò che davamo per scontato, che facevamo in maniera meccanica. Questo non vuol dire che sia facile o che sia sempre piacevole. Siamo costretti a fare un reset delle costruzioni mentali che abbiamo acquisito, altrettanto faticosamente, per star dietro al mondo di oggi, o meglio, al mondo di ieri.

Il sole della peste spegneva i colori e fugava ogni gioia.
Era questa una delle grandi rivoluzioni della malattia. Tutti i nostri concittadini accoglievano abitualmente l’estate con esultanza. La città si spalancava allora sul mare e riversava i giovani sulle spiagge. Quell’estate, invece il mare pur vicino era inaccessibile e il corpo non aveva più diritto alle sue gioie.[21]

Noi oggi siamo ancora in primavera, ma avvertiamo l’estate avvicinarsi perché il corpo e le nostre sensazioni si risvegliano. Non possiamo fare a meno di chiederci come la trascorreremo. Saremo ancora bloccati in casa? La risposta non può essere prevista: il fatto di non avere una scadenza fa parte della costrizione all’adattamento a cui siamo soggetti e non è facile non poter vedere una luce

in fondo al tunnel. C’è chi si rifugia nelle azioni quotidiane, c’è chi si rifugia nei ricordi, chi nella speranza del futuro. Chi si rimette a Dio. Sono note le toccanti immagini del Papa che prega da solo di fronte ad una platea vuota nella maestosa piazza del Vaticano. Chiede la fine della malattia, la serenità, pietà a Dio. È la stessa solitudine dell’anziano nella sua stanza da letto che, ogni sera, sgrana un rosario pregando per la sua famiglia. Messi in rapporto, ognuno nel suo contesto, portano sulle spalle una responsabilità spirituale di ugual peso.

[…] è una cosa che un uomo come lei capirà senz’altro, ma poiché l’ordine del mondo è regolato dalla morte, forse è meglio per Dio se non crediamo in lui e lottiamo con ogni forza contro la morte, senza alzare gli occhi verso il cielo dove lui tace.[22]

La preghiera di cui abbiamo bisogno non è una preghiera di richiesta. La preghiera non è mai una richiesta, o almeno non dovrebbe esserlo. È energia che mandiamo nell’universo, è uno sforzo attivo e sottile, che non sempre si manifesta come vorremmo, come ci aspetteremmo. Fa parte del gioco, di imparare a farlo. La preghiera è responsabilità, è il credere in qualcosa di superiore che abita dentro di noi. Non c’è niente di più esplicativo quando intendiamo descrivere la perfetta armonia uomo-cosmo. Come riporta anche Camus nel suo romanzo, troppo spesso si sente dire comunque sia, non può fare male; pregare così è comodo e la comodità non è quasi mai utile o proficua. Tantomeno basta solo agire su un piano e una volontà spirituale. Nel romanzo di Camus il medico protagonista, Rieux, e il prete Paneloux si trovano per la prima volta ad assistere alla straziante morte di un bambino, descritta accuratamente sia perché era il figlio di uno dei personaggi attivi del racconto, il giudice Castel, sia perché sperimentavano un nuovo farmaco. Dopo la descrizione quasi felliniana della scena, in cui vengono dettagliatamente descritti gli stadi grotteschi e vividi del corso della malattia, i due dialogano:

“Ah dottore,” fece con tristezza, “adesso capisco cos’è la grazia.” […]
“È quel che io non ho, lo so. Ma non voglio discutere di questo con lei. Noi lavoriamo insieme per qualcosa che ci accomuna l’al di là delle bestemmie e delle preghiere. Solo questo conta.”[23]

IV

Questa è la fase dove non c’è tempo per fare retorica. Lo sanno bene i medici e gli infermieri italiani, lo sanno bene quei 7000 e più civili che si sono offerti come medici volontari e con loro le intere nazioni che arrivano a portare aiuto, Cina, Cuba e Russia.

Tarrou, che guardava il rentier con sguardo benevolo, disse che conosceva i dati, che la situazione era grave, ma questo cosa dimostrava? Dimostrava solo che ci volevano misure ancora più eccezionali.

“Be’, le avete già prese.”
“Sì, ma ciascuno deve anche fare la sua parte.”[24]

Il Coronavirus è una guerra. C’è chi fa di questa affermazione un motto con cui iniziare o concludere una qualsiasi riflessione un po’ buttata lì durante la giornata, c’è chi ripudia questa idea. Certo, se intendiamo la guerra come uno stato di emergenza, in cui la battaglia contro il nemico riduce all’osso la popolazione e le sue risorse (fisiche e psichiche), allora questa in cui ci troviamo è di fatto una guerra. E il nemico non si vede, ci sfugge, ci sorprende.

Abbiamo carenza di materiale,” disse. “In qualunque esercito del mondo, la carenza di materiale si compensa con gli uomini. Ma noi siamo carenti anche di uomini.”
“Sono venuti medici da fuori, e anche personale sanitario.”
“Sì,” disse Rieux. “Dieci medici e un centinaio di uomini. Sembrano tanti. Ma per lo stato attuale della malattia sono appena sufficienti. E saranno insufficienti se l’epidemia si estenderà”.[25]

L’esercito di questa guerra è composto da schiere di medici dai turni estenuanti: la popolazione, per quanto “inattiva”, sperimenta le corse per accaparrarsi le ultime mascherine o l’ultima bottiglia di latte. E la loro assenza sugli scaffali della farmacia o del supermercato sono incassati come l’ennesima conferma del baratro in cui stiamo cadendo. Ma quante volte ci è capitato di andare al supermercato e di non trovare ciò che cercavamo? Una noia senza dubbio, ma tornavamo a casa senza alcun senso di emergenza in più. Il Coronavirus è una guerra dell’emergenza: la lotta è convivere con la percezione che qualsiasi mancanza o presenza, non necessariamente distante da quelle che potevano esserci qualche mese fa, siano causati dalla pandemia. E si cade, proprio come avviene in guerra, nell’isteria.

Volontari spinti da un sentimento di solidarietà, empatia, dalla consapevolezza che questa volta la situazione di crisi è toccata all’Europa, ma è un puro caso. L’aiuto deve arrivare su tutti i fronti come frutto di una collaborazione, di energie.

In questo stava il vero pericolo, poiché era proprio la lotta contro la peste a renderli più vulnerabili alla peste. Scommettevano sul caso e il caso non appartiene a nessuno.[26]

Se stare in casa può apparire come il modo migliore per impazzire, cercare di evadere può essere peggio.

Con il caldo e la peste, infatti, alcuni nostri concittadini avevano perso la testa e cedendo alla violenza avevano cercato di eludere la sorveglianza dei posti di guardia per scappare fuori dalla città.[27]
[…]

Così non c’erano più destini individuali, ma una storia comune costituita dalla peste e sentimenti condivisi da tutti. Il più forte era quello della separazione e dell’esilio, con tutto ciò che comportava in termini di paura e rivolta.[28]

L’unico modo per assicurarsi il rispetto delle leggi da parte della popolazione, a quanto pare, è farne un discorso monetario. Come potrebbe sorprenderci, visto che tutto il nostro mondo capitalista si basa su di esso? Nessuno mai suggerirebbe a qualcuno di agire in base all’etica, in base alla propria coscienza, al buon senso o al rispetto degli altri; in fondo, si agisce per i soldi, per guadagnarne e per non perderne. Si studia per i soldi, si lavora per i soldi; persino i rapporti sociali sono stabiliti in base al “partito” o se l’altro possa essere un potenziale cliente o possa investire nella nostra società. Si compra risparmiando, si mette da parte il denaro non si sa più neanche per cosa. Il Consiglio dei ministri, dal 24 marzo 2020, inasprisce le sanzioni: chi lascia la propria abitazione senza un valido motivo e senza nulla per certificarlo dovrà pagare dai 400 ai 3000 euro di multa. Il denaro controlla tutto, anche quello che ritenevamo essere fuori dalla sua portata: la volontà e libertà di uscire di casa.[29]

A cosa porterà questa nostra guerra? Bisognerà rimboccarsi le mani sul lato economico: le poche aziende e società rimaste in piedi faranno fatica a trainare loro stesse e la nazione che portano sulle spalle. I prezzi di alcuni prodotti comuni saliranno alle stelle, modificando lo scenario gerarchico di merci e servizi.

Non mancavano però altri motivi di preoccupazione, a seguito delle difficoltà crescenti di approvvigionamento. Queste avevano favorito la speculazione e alcuni prodotti di prima necessità che scarseggiavano nel mercato legale si offrivano ora a prezzi astronomici. Le famiglie povere si trovavano così in grandi ristrettezze, mentre le famiglie ricche non mancavano pressoché di nulla. Mentre la peste, con la sua efficace imparzialità, avrebbe dovuto rafforzare l’uguaglianza fra i nostri cittadini, per il normale effetto degli egoismi rendeva invece più acuto nel cuore degli uomini il sentimento d’ingiustizia. Rimaneva, certo, l’ineccepibile uguaglianza della morte, ma questa nessuno la voleva.[30]

La politica nazionale dovrà ricreare ex novo un assetto legislativo e amministrativo atto a tornare alla situazione precedente, tenendo però conto dei forti mutamenti che questa crisi generale ha creato. E le persone? Sfogheranno le energie accumulate ballando per le strade, salutando amorevolmente cittadini e in un rinnovato ed evoluto spirito di fratellanza? Questa sarebbe la conclusione più ovvia: stando in casa si ha tempo di riflettere sulla condizione di segregazione e di emarginazione, di paura e di voglia di evadere; ci si immedesima così in tutte quelle categorie di persone che fino a poco fa denigravamo, dall’immigrato dal continente africano alla vicina sola e petulante del palazzo di fronte.

L’abitudine alla disperazione è peggiore della disperazione stessa.[31]

Oppure saremo ingrigiti dal tempo trascorso tra le mura di casa, un tempo che sembra non appartenerci più, sospeso e trascorso troppo velocemente allo stesso tempo, senza di noi? Ci sentiremo più o meno parte di questo mondo?

Quanto agli altri, assorbiti giorno e notte dal lavoro, non leggevano i giornali né ascoltavano la radio. E se qualcuno annunciava loro un risultato, facevano mostra di interessarsi, ma in realtà lo accoglievano con l’indifferenza distratta che immaginiamo nei combattenti delle grandi guerre, stremati dalla fatica, concentrati soltanto sul dovete quotidiano e ormai privi di qualunque speranza tanto nell’operazione decisiva quanto nel giorno dell’armistizio.[32]

Ma poco dopo l’autore ci presenta una scena importante, quella in cui Rambert, già incontrato prima come difensore del bene individuale, decide di restare a Orano e di continuare a servire la cittadina come medico volontario.

“Non è questo,” disse Rambert. “Ho sempre pensato di essere uno straniero in questa città, e di non avere niente a che fare con voi. Ma adesso che ho visto quel che ho visto, so che appartengo a questo posto, che lo voglia o no. È una vicenda che ci riguarda tutti.”[33]

Rambert è il giornalista che fa di tutto per tornare a casa dalla propria amata; si unisce addirittura ad un gruppo che si occupa di contrabbando pur di attraversare le frontiere. Ma si sa, le azioni illecite richiedono cautela e tempo per essere organizzate. Così il viaggio viene rimandato più e più volte e Rambert, ormai legato al medico Rieux, decide che nel frattempo potrebbe offrire il suo aiuto in campo sanitario. Impegnarsi in una situazione tanto difficile, ma che tuttavia prevedeva uno scopo comune, permette a Rambert di trovare un piccolo posto in quella società. Da reporter straniero, occhio critico e superiore, a medico volontario e forza motrice della società. Dall’alto al basso, scendendo nel magma di quel vulcano, viene avvolto da quel calore bruciante da cui non riesce più a staccarsi. Ormai ne è avvolto, ormai è coinvolto in una sentimentalità che non può più ignorare, neanche quando si tratta di mettere se stesso al secondo posto. Cambiano le priorità. Forse ci attende la stessa sorte.

Al grande slancio indomito delle prime settimane era seguito un abbattimento che sarebbe sbagliato scambiare per rassegnazione, ma che era comunque una specie di temporaneo consenso. I nostri concittadini si erano messi al passo, si erano adattati, come si suol dire, perché non c’era modo di fare altrimenti.[34]

V

“Tutti dicono: È la peste, abbiamo avuto la peste. Poco ci manca che vogliano una medaglia. Ma cosa vuol dire la peste? È la vita, punto e basta.”[35]

Perché siamo così spenti in questi giorni? Nel 2020 non dovrebbe turbarci più di tanto stare in casa, rinunciare a una passeggiata per guardare un film dal nostro portatile o scrollare la bacheca di un social network. È evidente che non siamo più quei bambini che passavano i pomeriggi con la bici dietro casa, o quei ragazzi che si citofonavano per uscire senza darsi appuntamento. Certo, la ripetizione è noiosa, soprattutto per noi che siamo la generazione dello switching continuo, dello zapping e di tutti questi altri concetti dell’iperattività. Tarrou, il coprotagonista de La peste, afferma che tutti quanti abbiamo un po’ di peste, di flagello, dentro di noi: tutti siamo duplici, flagelli e vittime allo stesso tempo. E sta a noi mediare le due posizioni, preferibilmente verso quella delle vittime, sebbene il mondo di oggi adotti la mentalità dello squalo che mangia il pesce più piccolo. Siamo tutti spinti verso la forza, a costo di far del male all’altro per scavalcarlo. Che strada bisogna prendere per giungere alla pace? Tarrou ci dice quella della compassione.

“[…] In fondo, è stupido vivere soltanto nella peste. Un uomo deve battersi per le vittime, certo. Se però poi smette di amare tutto, a che serve che si batta?”[36]

Toccato il fondo, si risale. Esplorata la più bassa condizione fisica dell’essere umano, straziato nel letto dalla peste o attaccato ad un respiratore in ospedale; esplorato il fondo sfaccettato, complesso, smerigliato del cuore e del pensiero, l’uomo catarticamente nuota verso la superficie. Non avverrà dall’oggi al domani, servirà tempo affinché la malattia venga debellata del tutto, affinché non rappresenti più un rischio neanche per i più deboli; e servirà tempo per metabolizzare ciò che abbiamo attraversato.

Se i mesi appena trascorsi avevano accresciuto il loro desiderio di liberazione, avevano anche insegnato la prudenza e li avevano abituati a far sempre meno assegnamento su una fine imminente.[37]

Ci godremo il recupero; ci concederemo tempo, dopo anni di corse e affanni tipiche della nostra epoca, di assaporare la lentezza della risalita, come quando nuotiamo e facciamo i conti con la forza di gravità. Ci daremo il permesso di stupirci di fronte alle navi che solcano il mare e che sbarcano di nuovo nei porti. Non ci vergogneremo di abbracciare qualcuno all’aperto. Cercheremo, anzi, ci dovremo sforzare di incentrare un discorso su qualcosa di diverso dall’epidemia. Saliremo sul treno per tornare nelle nostre città, da chi amiamo, oppure ne visiteremo una sconosciuta per ritrovare l’amore. Non ci sarà bisogno di colpevolizzarsi se dovremo ripartire da capo, se avremo subito una battuta d’arresto, se saremo indietro su una presunta tabella di marcia. Sarebbe un’ottima cosa ripartire da zero, dice Cottard.

Sì, la peste era finita e con essa il terrore, e quelle braccia che si allacciavano dicevano che era stata esilio e separazione, nel suo significato più profondo.[38]

Tutto questo ricominciare è possibile solo perché c’è stato un “prima”. Non possiamo dimenticare ciò che abbiamo passato, questo è ovvio, è giusto. Bisogna anzi farne tesoro: prendiamo la vita come la conoscevamo fino a pochi mesi fa e facciamone una tesi; prendiamo la vita durante il Coronavirus e rendiamola un’antitesi. Con un po’ di quella magia che chiamano matematica, facciamo una somma, anzi, una media ponderata del tutto e traiamo la nostra sintesi.

La specie che sopravvive è quella che si adatta, quella che cambia, ma anche quella che impara dalla storia. Leggere il romanzo di Camus è rileggere la storia dei giorni che si snodano nelle nostre vite attuali. Apprendiamo in anticipo, prima che la pandemia sia finita, sepolta, prima di poterla elaborare, cosa accadrà fuori e dentro di noi. Dal divano del nostro salotto, abbiamo in mano una sintesi già confezionata, pronta all’uso. Facciamola nostra e ripartiamo da lì.


[…] piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto Con forsennato orgoglio inver le stelle, Nè sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti; Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.

(Leopardi, La ginestra)

Bibliografia
CAMUS, A., La peste, s. l.,  Bompiani, 2017, 336 p. Edizione kindle.

Sitografia
Ministero della Salute, http://www.salute.gov.it/portale/home.html

«La Repubblica», https://www.repubblica.it

«La Stampa», https://www.lastampa.it


[1] CAMUS, A., La peste, s. l., Bompiani, 2017, 336 p. Edizione kindle. pos. 477

[2] ivi, pos. 484

[3] ivi, pos. 457

[4] ivi, pos. 971

[5] ivi, pos 662

[6] La stampa, https://video.lastampa.it/cronaca/coronavirus-ricciardi-oms-dobbiamo-ridimensionareallarme-95-per-

cento-malati-guarisce/110423/110429, ultima apertura 10/04/2020

[7] CAMUS, A., La peste, s. l., Bompiani, 2017, 336 p. Edizione kindle. pos. 971

[8] ivi, pos. 1091

[9] ivi, pos. 16045

[10] ivi, pos. 792

[11] regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso, Venezia.

[12] Ministero della Salute, http://www.trovanorme.salute.gov.it/norme/dettaglioAtto?id=73594, ultima apertura

10/04/2020

[13] CAMUS, A., La peste, s. l., Bompiani, 2017, 336 p. Edizione kindle. pos 801

[14] ivi, pos. 962

[15] ivi, pos. 782

[16] ivi, pos. 955

[17] ivi, pos. 824

[18] ivi, pos. 875

[19] ivi, pos. 1146

[20] ivi, 2062

[21]  ivi, pos.1062

[22] ivi, pos. 1605

[23] ivi, pos. 2739

[24] ivi, pos. 2001

[25] ivi, pos. 1892

[26] ivi, pos. 2404

[27] ivi, pos. 1313

[28] ivi, pos. 2101

[29] «La Repubblica», https://www.repubblica.it/politica/2020/03/24/news/coronavirus_multe_fino_a_4mila_euro_per_chi_non_rispetta_i_divieti_ecco_la_bozza_all_esame_del_cdm-252168876/, ultima apertura in data 11/04/2020

[30] ivi, pos. 2969

[31] ivi, pos. 2287

[32] ivi,pos. 2350

[33] ivi, pos. 2606

[34] ivi, pos. 2287

[35] ivi, pos. 3832

[36] ivi, pos. 3211

[37] ivi, pos. 3339

[38] ivi, pos. 3726

Italiano: la libertà di una lingua classica

Venerdì 18 ottobre 2019
Incontro al Circolo dei lettori con Gian Luigi Beccaria

La lingua italiana è nata e si è sviluppata fortemente ancorata al suo retroterra greco-latino, ma non necessariamente questo modello illustre ha costituito una costrizione o un ostacolo al suo evolversi; l’intervento di Gian Luigi Beccaria al Circolo dei lettori sviscera in una prospettiva storica la ricchezza, la fecondità e la libertà di quella che può essere definita, in tutti i sensi, una lingua classica. 

*

La lingua dei classici non ha costituito per l’italiano un impaccio, ma ha collaborato a mettere a disposizione una più libera e ricca varietà di registri, agendo anche come spinta al rinnovamento neologico sia nella forma che nel significato.

Rispetto alle altre lingue europee l’italiano contiene una straordinaria quantità di tratti greco-latini, che non hanno costituito una verniciatura di stantio, bensì un segno distintivo di nobiltà. Se le altre lingue sorelle hanno in molti casi adottato parole dal sapore più quotidiano e dimesso, l’italiano ha invece amato coloriture dotte e anticheggianti. Le opposizioni tra parole italiane dall’origine dotta e parole francesi più umili sono innumerevoli: basti pensare alla nostra cipria, che prende il nome dall’isola di Cipro mentre l’equivalente francese poudre può vantare un’origine molto meno nobile, oppure al piroscafo, chiamato più semplicemente dai francesi bateaux, o al nostro solenne fiammifero paragonato al più dimesso alumette.

Molte rivalità lessicali hanno rivolto il conflitto a favore della soluzione anticheggiante: il telescopio venne preferito al cannocchiale di Galileo, e il dotto Pietro Giordani, che nell’Ottocento suggeriva di utilizzare radici italiane per modellare nuovi termini scientifici, sostituendo grecismi come termometro e anemometro con coniazioni italianeggianti come segnacaldo, misuravento, non vide realizzato il suo desiderio.

Innumerevoli cultismi e latinismi sono entrati nell’uso medio-alto della nostra lingua, tanto incombenti da portare a un’esibizione del latino foneticamente non adattato (aurea medietas, est modus in rebus), che nel pomposo italiano avvocatesco conobbe il suo terreno più fertile. Negli scrittori la classicità ha poi ricoperto svariate funzioni: non solo ha steso una patina anticheggiante sul lessico e sulla sintassi, ma è diventata un ingrediente essenziale del ribollio espressionistico di tanti autori che hanno voluto intenzionalmente accostare l’alto e il basso, il sublime e l’antico con il dialettale, da Dante a Gadda a Michele Mari.

L’antico ha insomma costituito un elemento fondamentale della nostra tradizione letteraria e le ha fornito una gravità segreta che pescava dal passato, una scelta anticheggiante che sembra minore nella tradizione di altri paesi: l’italiano ha conservato più a lungo il senso robusto del periodo, l’onda lunga latineggiante e compatta che ricerca la simmetria, gli effetti retorici delle clausole medievali, il parallelismo delle rispondenze di concetti e di ritmi. Il latino ha arricchito sin dalle origini le risorse del volgare, e la prosa medievale nasce già ricca dell’ornatus ciceroniano, il cui impianto durerà fino ai prosatori dell’Ottocento.

In particolare è nell’ambito della poesia che in Italia si è guardato alla tradizione classica: Alfieri amava in maniera appassionata i costrutti con sapore latino e greco, si estasiava di fronte alle inversioni, alla posizione innaturale dell’aggettivo prima del nome. Eloquente è la sua annotazione autografa sul sonetto 162, “Ad alte cose io nato me sentiva”, e ancora di più lo è il modo in cui definisce l’ordine non marcato della frase: “fiacchissimo verso”.

Dovremmo parlare di un modello o piuttosto di una costrizione? Che tipo di libertà può avere una lingua che guarda costantemente all’indietro?

La realtà è che i modelli antichi non hanno mai stretto in ceppi la nostra lingua, ma al contrario le hanno dato vigorose spinte verso un progressivo miglioramento. La frequenza dei latinismi lessicali e sintattici non è causata dalla debolezza di una prosa neonata che si va formando e che ha bisogno di stampelle, ma dalla ricerca consapevole e libera di una guida forte. Non a caso i grecismi e i latinismi apportano una fortissima spinta alla neologia, non solo di forma ma anche di significato: il latino captivus passa dal significato di “prigioniero” a quello di “malvagio”, sotto l’influsso del cristianesimo; sul significato di tradire il cristianesimo opera poi un passaggio semantico notevole, da “consegnare” a “consegnare qualcosa al nemico con l’inganno” – ai tempi delle persecuzioni infatti i vescovi traditores consegnavano i libri sacri alle autorità.

L’impronta latina sul significato delle parole nei primi secoli della letteratura italiana è particolarmente evidente in quanto conferisce ai singoli termini una potenza etimologica che col tempo è andata lentamente svanendo: nella Commedia gli aggettivi molesto e mesto compaiono in situazioni di particolare drammaticità e il loro valore è notevolmente più connotato in senso gravoso rispetto a quello odierno, è più forte in quanto desunto direttamente dal latino. Il latinismo quindi non fornisce solo una patina di vetusto e arcaico, ma riporta la parola ad un significato potente originario, per forza di etimo, che viene sfruttato sapientemente dagli scrittori per conferire sfumature ai loro testi.

La ripresa neoclassica ottocentesca e il conseguente incremento dell’uso del latino costituiscono una spinta di ardimento innovativa, che sarà intensificata con i contributi di D’Annunzio e Carducci – quest’ultimo in particolare esprime la sua preferenza nei confronti dei latinismi anche nello schema accentuale dei termini da lui scelti, tendenzialmente proparossitoni (colubro, adamantino, cuculo).

Gli agganci alla classicità continuano ancora nella seconda metà del Novecento; proprio quando tutte le vie per segnare la distanza dal passato sono state attraversate gli echi del passato continuano ad affiorare, anche quando si dà l’addio al tono liricamente aulico non ci si riesce a staccare dall’ancoraggio all’antico. Un esempio lampante di questa persistenza è l’iperbato, figura nobile e anticheggiante che viene ripresa spesso nel secondo Novecento, proprio quando la poesia simula maggiormente il parlato e l’oralità. Gli autori del secolo scorso quando scendono verso il parlato non vogliono mostrare nessun sintomo di depressione stilistica, e corrono a mettersi al riparo di coperture anticheggianti: Sereni e Caproni preferiscono spesso una sintassi antilineare, che però non assume il significato di esposizione di antiquariato, bensì viene applicata all’interno dei loro andamenti più colloquiali, per innalzare il tenore di una sintassi che tende all’oralità.

Se il Novecento è caratterizzato da versi moderni che scrivono a tratti all’antica in una voluta ed esibita innaturalità, possiamo ravvisare in Leopardi l’ultimo ad aver scritto per arcaismi nel modo più naturale, ad aver saputo coniugare l’attualità e la spontaneità con il cultismo, ad aver espresso messaggi di contenuto nuovo tramite strumenti antichi. La libertà e l’antico in lui collimano, nella sua poesia si condensano tutta la tradizione antica e quella moderna e i classici si fanno davvero carne, non solamente sterili citazioni: i fuochi di Troia e le luci di Recanati diventano la stessa cosa, la sua luna domestica coincide con quella di Virgilio e di Omero.

Volgendo il capo ai predecessori Leopardi ha saputo raccogliere i frutti migliori, i cosiddetti “frutti freschi fuori di stagione”, come lui definiva gli arcaismi, pensando la letteratura italiana come una corrente dal suono familiare e insieme antico. In lui più di ogni altro la lingua dei classici non ha rappresentato una prigione o un freno, ma ha suscitato una continua libertà espressiva.

Linda Dellacroce

Intervista a Patrick Kingsley

Federica Bassignana, per la sua tesi di laurea magistrale (Oltre i confini. Il reportage narrativo tra letteratura e giornalismo, relatrice: prof.ssa Chiara Lombardi. discussa il 26/11/2019, 110/110L), intervista il giornalista Patrick Kingsley, autore di The New Odyssey: The Story of Europe’s Refugee Crisis (Guardian Books, 2016). L’intervista ha ricevuto l’approvazione ai fini della ricerca dal New York Times Management Departement.

* * *

Patrick Kingsley (Londra, 1989) è attualmente giornalista del «New York Times» come corrispondente per gli affari internazionali ed è stato precedentemente giornalista per il «Guardian», che lo ha nominato nel 2015 il primo corrispondente di migrazione. Per conto del celebre quotidiano britannico è stato corrispondente da Il Cairo, Istanbul, ha seguito il traffico di esseri umani dalla Libia all’Egitto, dalla Turchia al Niger e insieme al collega David Hearst ha condotto l’ultima intervista a Mohamed Morsi come presidente d’Egitto prima della sua destituzione nel 2013.  Per lo spessore delle sue inchieste e la meticolosità dei suoi reportage, nel 2015 Kingsley è stato nominato giornalista dell’anno per gli affari esteri in occasione dei British Journalism Awards; tra i numerosi premi, gli è stato conferito il Frontline Club Award nel 2013 per il suo reportage Killing in Cairo – the full story of the Republican Guards’ club shootings[1]. Nel 2012 viene pubblicato il suo primo libro How to be Danish[2], un viaggio di esplorazione nel cuore della cultura danese e nel 2016, in seguito alla sua esperienza di corrispondente di migrazione per il «Guardian», racconta la storia della contemporanea crisi dei rifugiati in Europa in The New Odyssey[3], su cui verte la seguente intervista. 

The title of your book is The New Odyssey. The Story of Europe’s refugee crisis. What’s the reason that led you to compare the classic epic to the contemporary European migration crisis?      
There are two main reasons: the first reason is that the journey that Odysseus goes on from a war, torn apart Asia minor, trough dangerous adventures in the east of the Mediterranean towards Greece. It is obviously very similar to the journey that lot of refugees are making in 2015 and indeed continue to make today. Refugees are leaving from Turkey not too far actually from where Troy was supposed to have been built a thousand of years ago. They are attempting to get to a Greek island not unlike Odysseus was trying to reach the Greek Island Ithaca. And the second reason is an editorial reason: by framing migrants as Greek heroes I hope someone shift the narrative about who these people are or why they are moving. In certain sections of public opinion migrants are often considered bad and problematic, but I wanted to show how in another light what they are doing is heroic.

Aeneas, as well as Odysseus, has fled the war but he is fulfilling his destiny of setting up a new dynasty, finding a new home, rather than going back home as Odysseus. Why did you decide to change the first chosen title The New Aeneid to The New Odyssey?

I would have called The New Aeneid if more people in the English-speaking world had heard of the Aeneid. As I said in the book and as you repeat in your question, Aeneas is more a refugee than Odysseus because Aeneas is fleeing his home in search of a new one whereas Odysseus is fleeing a warzone in order to go back home. Instead of that, the reason why I didn’t call The New Aeneid but The New Odyssey is that not many people have heard of The Aeneid but they have heard of The Odyssey because it is more famous in the English speaking world.

To what extent Aeneas and Odysseus represent the refugee experience and how? You said that central narrative in The Aeneid is about a refugee called Aeneas. Is Odysseus then, in your opinion, a different symbol of the migration experience?

Aeneas and Odysseus are both on the move and they shared the travel experiences –  tough experiences –  but one of them, Odysseus, is going home, and the other, Aeneas, is leaving home and trying to find a new one, and that is much more comparable to the contemporary migrants experience. I don’t think Odysseus journey has a particularly close contemporary comparison, maybe you might compare Odysseus’ journey home to a migrant in Libya who decides, instead of going to Italy, to go back home but going back through the Sahara desert is just as dangerous as trying to go through the Sahara in the first place, and trying to get to Libya. So maybe one might compare their experience: an African migrant experience trying to get back to Nigeria or Senegal to Odysseus and his journey back to Ithaca, but I don’t think it is a particularly close resembles.

Your reporting is based on a thematic focus, rather than one geographical location. What are the pros and cons of this specific focus?

I think it does look at themes that make me to go to specific geographic locations like Libya, Egypt, Niger, Greece, Italy, Turkey and I would hope that by exploring themes you do actually get a good sense about placing and about the environment in which people are coming from and do some moving through.

Your text is a narrative report about travel and emigration, offering its readers a clear and detailed full experience of nowadays emigration. What’s the book genesis? 

I was the migration correspondent for “The Guardian” and I had the opportunity to see the refugee crisis of 2015/16 and I was able to travel through several countries: from Sahara to Niger, from Sweden, to Turkey, from Italy to Greece.  In the end for the book I choose 17 countries but in the course of my report I poorly went to 24/25 and during my reporting, I felt that I had the privilege to see the crisis in more detail than most other people. I wanted to be able to put all the things that I have learnt in a single narrative that hopefully might open some people’s eyes to a more new understanding of why people are on the move and how they move in the first place, and it was an attempt to use all the things that I have learnt to help enhance public discuss.

Your book moves from report to literature, using prose’s characteristics while fulfilling the facts and the reality though Hashem al-Soukis’s story. Is there any editorial aim behind this choice? Or does it specifically want to show a connection between one single life to a universal common destiny?

This decision to use a little more literally  form of writing for Hashem al-Soukis’ storywas just an attempt to make it more vivid and engrossing and to make you feel like you are there with him, and by writing not only in a factual way but in a way that was written like a novel. I hoped that a reader might be able to identify more with him slightly more because the journalistic prose might be more alienating to the reader than the more fluid and warm-hearted literary style.


[1] Patrick Kingsley, Killing in Cairo – the full story of the Republican Guards’ club shootings, The Guardian, 18 luglio 2013.

[2] Patrick Kingsley, How to be Danish, Marble Arch Press, New York, 2014.

[3] Patrick Kingsley, The New Odyssey. The story of Europe’s refugee crisis, Guardian Books and Faber & Faber, Londra, 2016.

Omnia mutantur, nihil interit. Le influenze ovidiane nella filosofia della natura di Leonardo da Vinci

di Andrea Pace

Scrivere di Leonardo da Vinci, e in particolare della Gioconda, può, con molta facilità, sfociare in luoghi comuni sedimentati da secoli nella mente e nell’immaginario di chiunque ne abbia sentito parlare: il genio dell’artista, il più importante ritratto – o addirittura il dipinto – mai fatto, lo sfumato di Leonardo e il sorriso enigmatico della Gioconda.

Un aspetto, a parer mio importante, spesso tralasciato o magari solo considerato marginale è quello della filosofia della natura di Leonardo, troppo importante per un uomo che ha votato l’intera sua esistenza allo studio ossessivo di tutti gli aspetti della grande Madre, dalle conchiglie fossili che trovava nel giardino di casa ai mari, dai fiumi alle montagne, senza mai tralasciare di raffigurare ogni cosa attraverso il suo sublime disegno e i suoi dipinti. Una filosofia della natura che, fra le tante influenze, deve tantissimo alle Metamorfosi di Ovidio, a partire dalla sua descrizione della genesi del cosmo e dell’uomo, fino al quindicesimo libro, da cui l’artista fiorentino ricava gran parte della sua concezione naturale.

Omo sanza lettere, come si autodefiniva nei suoi scritti, Leonardo non poté studiare, al pari dei suoi contemporanei umanisti, il latino e il greco; sentendosi in difetto andò alla ricerca continua di una nuova forma di conoscenza, sottovalutata e malconsiderata all’epoca, ovvero quella che lui definì la sperienza. Leonardo però non rifiutò mai di studiare i grandi scrittori del passato, da lui definiti altori, anzi tra i suoi innumerevoli manoscritti sono stati trovati diversi elenchi di libri in suo possesso o anche solo desiderati. Tra tutti i suoi testi, come spiega Carlo Vecce, le Metamorfosi ovidiane sono il grande libro della natura per il giovane Leonardo a Firenze negli anni Settanta[1] da cui trasse spunto per scritti, disegni e dipinti.

Le Metamorfosi

Il poema latino, che probabilmente costò l’esilio al suo scrittore, narra di forme mutate in corpi nuovi, di trasformazioni, violenze fatte e subite, fughe e inseguimenti, amori e tradimenti, ma soprattutto di una natura vitale, che nonostante le ire e i progetti di distruzione divini non muore mai, ma anzi si trasforma in altro, in qualcosa di migliore rispetto alla condizione precedente.

Nel Libro I Ovidio racconta che in principio era il Caos – descritto come il volto della natura (naturea vultus) al verso n.6 – ma una natura melior, una divinità – non importa quale – intervenne per mettere ordine e così separò il cielo dalla terra, quest’ultima dall’acqua e poi l’aria spessa dal cielo puro. Il passo successivo furono i quattro elementi per dare ulteriore ordine all’universo, poi avvenne la separazione delle acque, dei venti e delle aree climatiche, fino a giungere alle stelle scintillanti e palpitanti. In ultimo fu creato l’uomo, proprio per guardare la meraviglia del cielo stellato.

Questa descrizione della creazione del cosmo, in molti aspetti simile a quella biblica[2], deve molto alla filosofia antica, in particolare a quelle anassagorea e pitagorica. La prima non è mai citata esplicitamente, ma diversi termini del primo libro sembrano essere diretti rimandi al pensatore di Clazomene – o almeno a un contesto culturale influenzato dalle sue idee sul cosmo –: il Caos iniziale, descritto come rudis indigesteque moles… non bene iunctarum discordia semina rerum[3]e ordinato da una divinità – quisquis fuit[4] –, è troppo simile alle anassagoree omeomerie (termine dato da Aristotele ai semi originari di Anassagora) inizialmente mescolate caoticamente, ma poi ordinate da un non meglio determinato Nous, una ragione ordinatrice, una forza separatrice che porta il filosofo a comprendere che tutto è in tutto, che in natura ogni cosa è unita alle altre.

La filosofia pitagorica di Ovidio invece è esplicitamente mostrata nel Libro XV, in cui è proprio il filosofo di Samo a parlare dalla sua adottiva Crotone enunciando un discorso che mescola il pitagorismo con varie filosofie, come quelle Anassimandrea – di cui Pitagora fu allievo –, Empedoclea ed Eraclitea: la nuova filosofia deve portare i suoi acusmatici[5] discepoli a elevarsi a non temere più la morte, poiché i corpi si dissolvono e si decompongono, ma le anime sopravvivono e si reincarnano. Le forme cambiano, così come i fiumi, le acque, il colore del cielo, i quattro elementi, la Luna, le stagioni, gli uomini, i cadaveri, i popoli, le civiltà e i costumi, ma una sola è la verità che permane nel tempo: Omnia mutantur, nihil interit[6].

La filosofia della natura di Leonardo

A questo punto il passaggio alla filosofia della natura di Leonardo è fin troppo semplice: tutte le sue tensioni epistemologiche riguardo le ragioni seminali del cosmo vengono a galla (parafrasando l’introduzione di Carlo Vecce agli Scritti di Leonardo) e

trovano espressione in quei fogli del primo periodo milanese che in un discorso unitario, introdurranno il mito vinciano della caverna scrigno dei segreti naturali…collegato all’esposizione della dottrina di Pitagora nel XV libro delle Metamorfosi di Ovidio.[7]

In quegli scritti Leonardo inventò e raccontò alcuni miti, di cui sarà utile al presente discorso tenerne a mente tre: Il mostro marino (Ar. 156), L’accrescimento della terra (Atl.715) e La caverna (Ar. 155v). Nel primo si narra la storia di un oscuro e terribile mostro marino che distrugge e intimorisce ogni cosa gli si ponga di fronte; ma anche questo mostro è costretto a morire, come ogni elemento della natura, poiché il tempo, consumatore delle cose[8],in sé rivolgendole dà alle tratte vite nuove e varie abitazioni e ora il mostro disfatto dal tempo, paziente diace in questo chiuso loco. Colle ispogliate, spolpate e ignude ossa ha fatto armadura e sostegno al sopraposto monte[9].

Il mostro è morto e decomposto, ma la legge che domina l’universo vinciano è quella di Ovidio, quella dell’omnia mutantur, nihil interit, che in Leonardo diviene la legge di accrescimento della terra, che lo porta a chiedersi: Or non s’è veduto le sassose cime de’ monti, la viva pietra per lungo tempo col suo accrescimento aver inghiottito una appoggiata colonna, e… aver lasciato nel vivo sasso la sua accanalata forma?[10] La necessità naturale prevede dunque che nulla si distrugga, nemmeno le rocce, ma che ogni elemento si trasformi in un altro riassumendo in questo modo le principali influenze prima descritte: Anassagora – citato esplicitamente da Leonardo in Atl. 1067[11] – e Pitagora, riassunti nella figura di Ovidio scrittore delle Metamorfosi.

Il mostro deceduto e decomposto non si trasforma in un qualsiasi elemento naturale, ma in sostegno al sopraposto monte, che sembra essere la Caverna di cui Leonardo aveva già parlato nei suoi scritti con questi termini:

E tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, piegato le mie reni in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio e colla destra mi feci tenebre alle abbassate e chiuse ciglia e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era. E stato alquanto, subito salse in me due cose, paura e desidero: paura per la minacciante e scura spilonca, desidero per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa.[12]

Una caverna che è il simbolo della vita di Leonardo, della sua brama di conoscenza che, in quanto omo sanza lettere, deve partire dall’esperienza sensibile del mondo, ma in quanto genio deve essere accompagnata e stimolata dalla lettura di quegli altori tanto stimati, ma senza divenire uno dei trombetti e recitatori delle altrui opere, che vanno sconfiati e pomposi, vestiti e ornati non delle loro ma delle altrui fatiche[13].

La Gioconda

Per Leonardo dunque le forme non sono mai fisse o stabili, la natura non è mai sempre la stessa; riprendendo le antiche filosofie ricorda alla sua epoca che l’universo muta costantemente e senza riguardi per gli esseri che lo popolano, compresi gli uomini. Tutto si trasforma, nulla perisce è il suo insegnamento, che porta con sé tante questioni esistenziali che saranno care ad altri pensatori e scrittori del futuro[14]. Leonardo è ben cosciente che queste teorie possano spaventare gli uomini, che la necessità naturale con il suo ciclo fatto di nascita, vita, morte e rinascita in altra forma atterrisca ogni individuo che ignori le ragioni ultime, seminali, del cosmo, ma proprio per questo propone un dipinto come mai ne furono realizzati prima: la Gioconda.

L’esperienza – unita alla ragione e allo studio – deve portare alla ricerca delle suddette ragioni, alla comprensione delle leggi naturali e alla loro rappresentazione nei dipinti e negli infiniti disegni e abbozzi[15], che culminano nella Monna Lisa, che forse più che un ritratto può essere considerato un trattato di filosofia della natura[16]. Leonardo nel Trattato sulla pittura dimostra come ogni figura per essere perfettamente dipinta debba partecipare della luce e dell’ombra: le due non devono mai essere separate, anzi devono sfumare l’una nell’altra in una coincidentia oppositorum che ancora rimanda alle filosofie precedentemente menzionate e si rafforza con l’uso di colori opposti affiancati; questa teoria in Leonardo prende il nome di recto contrario ed elimina la concezione del simile conosce il simile, conducendo lo spettatore in un dipinto che si fa specchio, interpretazione e ricreazione della natura, cercando di unire opposti apparentemente inconciliabili (luce e ombra, bianco e nero, necessità e libertà, distruzione e rinascita, paura e ardente desiderio).

Nella Gioconda, tralasciando tutte le questioni riguardo l’identificazione storica, la donna ritratta viene mostrata dall’artista come altro rispetto al pensabile e al dicibile[17], come l’unione di tutti gli archetipi umani, delle figure di donne viste e immaginate: le linee sfumate e il colore perfettamente distribuito rendono quel volto inafferrabile e non commentabile. Il suo volto si fa specchio, si lascia guardare, ma prima di tutto guarda: ricambia lo sguardo dello spettatore, ma in realtà è lei stessa che lo sta aspettando da secoli. Questo sguardo che dura secoli trascina lo spettatore all’interno del dipinto e attraverso i contorni levigati e sfumati lo trasporta direttamente nel paesaggio retrostante, desolato, triste e dai colori uggiosi: montagne stanno per crollare, fiumi in piena stanno per inondare e distruggere ogni cosa, i ponti sono sul punto di essere abbattuti dalle acque e il mondo intero sembra dover cambiare totalmente. Lei però, divina figura, ammicca e sorride, quasi indifferente a tutto ciò; in questo rapporto di singolo a singolo, o meglio di singolo a incomprensibile divinità Leonardo mostra il suo più grande lascito: ha oramai fuso completamente uomo e natura, ha compreso l’indivisibile unione tra tutti gli opposti, tra chiaro e scuro, distruzione e rinascita, necessità e forza creatrice carica di bellezza e armonia; ma non è solo questo, anzi sta dicendo che il mondo fuori di noi è sì meraviglioso, ma è anche terrificante poiché c’è sempre quel mostro marino, scuro e gigantesco, simbolo della necessità naturale che è pronto a distruggerci con diluvi, tempeste, eruzioni vulcaniche e il debole uomo nulla può fare se non cogliere la divina armonia in tutto questo, o meglio trasformare quel mostro nel volto meraviglioso di una donna storica che forse non è mai esistita, che più che una donna forse è la personificazione di quel naturae vultus descritto da Ovidio.

Sulle orme del Pitagora ovidiano insegna a non temere la morte e la distruzione, poiché i corpi, una volta che li ha dissolti il rogo con la fiamma, o il tempo con la decomposizione, non soffrono più[18], idea che per Leonardo si traduce nel meraviglioso ed enigmatico volto di una dama, in un dipinto che non fa altro che riprendere e rendere più diretto e comprensibile il poema ovidiano e le sue teorie pitagoriche – ciò non deve stupire in Leonardo, che appena poteva spendeva parole per sottolineare la superiorità della pittura su tutte le forme artistiche e in particolare sulla poesia, troppo complessa e prolissa, che rischia costantemente di annoiare e rimanere ermetica, mentre il dipinto, con l’uso delle suddette conoscenze e tecniche, è immediato, diretto e facilmente comprensibile.

Insomma il terrificante mostro marino è morto, il suo scheletro simbolo della necessità naturale ha subito la metamorfosi in caverna e infine in dama rinascimentale, ma ora non spaventa più; ora l’uomo, seguendo Leonardo – che per primo si è avventurato in essa caverna –, ha le armi per comprendere che il sorriso della Gioconda è sì ambiguo, ma che solo lo studio e la conoscenza della natura possono renderlo rassicurante e non più qualcosa di beffardo e incomprensibile: qui sta per Leonardo la libertà umana, nell’inserirsi nel sistema della natura, nella necessità che la domina e ricercando le ragioni seminali delle innumerevoli metamorfosi che la contraddistinguono trovarne l’infinita bellezza.

Bibliografia

Ovidio (2015), Metamorfosi, trad. it. a cura di P.B. Marzolla, Torino, Einaudi.

L. da Vinci (1992), Scritti, a cura di C. Vecce, Milano, Mursia.

G. Cuozzo (2013), Dentro l’immagine. Natura arte e prospettiva in Leonardo da Vinci, Bologna, Il Mulino.

Carlo Vecce (2017), La biblioteca perduta. I libri di Leonardo, Roma, Salerno editrice.

Genesi, in La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, ed. Dehoniane.


[1] Carlo Vecce (2017), La biblioteca perduta. I libri di Leonardo, Roma, Salerno editrice, pag. 156.

[2] Si vedano, come più lampanti esempi, in Genesi 1-2 la cosmogonia derivante da un processo di separazione delle forze e di ordinamento da parte di Dio e la creazione di un uomo a Sua immagine e somiglianza per mezzo della polvere del suolo, mentre per Ovidio avviene attraverso la terra ancora recente, che ancora ha in sé parte del cielo divino.

[3] Ovidio, Metamorfosi, Libro I, vv. 8-9, pag. 4. Mole informe e confusa… ammasso di germi discordi di cose mal combinate.

[4] Ivi, v. 32, pag. 6. Chiunque egli fosse.

[5] Ivi, Libro XV, pag. 607. Schiere di discepoli muti e compresi d’ammirazione.

[6] Ivi, v. 165, pag. 612. Tutto si trasforma, nulla perisce.

[7] C. Vecce (1992), Introduzione, in Leonardo da Vinci. Scritti, Milano, Mursia, pag. 7.

[8] Traduzione letterale del Tempus edax rerum di Ovidio in Metamorfosi, Libro XV, v. 234.

[9] L. da Vinci, Il mostro marino, in Leonardo da Vinci. Scritti, pagg. 164-65.

[10] Ivi, L’accrescimento della terra, pagg. 163-64.

[11] Anassagora. Ogni cosa viene da ogni cosa, e d’ogni cosa si fa ogni cosa, e ogni cosa torna in ogni cosa, perché ciò ch’è nelli elementi è fatto da essi elementi.

[12] Ivi, La caverna, pag. 162.

[13] Ovvero coloro i quali non fanno altro che citare e allegare le tesi dei grandi uomini del passato senza però conoscerne le ragioni seminali, senza sperimentarne la verità.

[14] Si pensi anche solo a Leopardi e alla sua ripresa del tema leonardiano della natura madre e matrigna e della sua indifferenza verso l’uomo, ben rappresentata nel Dialogo della Natura e di un Islandese.

[15] Si può dire che con il disegno Leonardo mette in ordine la realtà, ne comprende le forme originarie, ma con la pittura fa ciò che Ovidio fece con la poesia: spiega ai comuni mortali ciò che ha scoperto della natura ricreandola con forme e colori. Come detto nel retro del ritratto di Ginevra de’ Benci: Virtutem Forma Decorat, ovvero la forma adorna la virtù, interpretabile anche come la bellezza adorna la conoscenza.

[16] Come sostiene G. Cuozzo (2013) in Dentro l’immagine. Natura, arte e prospettiva in Leonardo da Vinci, Bologna, Il Mulino.

[17] Ivi, pag. 121.

[18] Ovidio, Metamorfosi, Libro XV, vv. 156-57.