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Nel presente articolo, Sofia Ranca (Università degli Studi di Torino) analizza e indaga la scrittura del sé nell’opera del premio Nobel Jean-Marie Gustave Le Clézio

(Settembre 2023)

Davanti allo specchio tropo bianco della pagina vuota

Davanti allo specchio troppo bianco della pagina vuota, sotto il paralume che diffonde una luce segreta
(Jean-Marie Gustave Le Clézio)

Introduzione

Il Dio della Bibbia è un Dio che parla, un Dio che incarna la parola. L’incipit del vangelo di Giovanni lo sottolinea con forza quando afferma che «in principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio»[1]. La legge del Dio giudaico è infatti la Legge della Parola che illumina il caos originario dell’indifferenziato, e dona vita al creato:

Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu[2].

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«Un itinerario lunghissimo, imprevedibile e assurdo»: una lettura cosmogonica de La tregua di P. Levi

Lezione del dott. Mattia Cravero (Università degli Studi di Torino) nell’ottica del corso Scritture delle origini. II. Dal Rinascimento a Leopardi, Letterature Comparate B, mod. 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

La presentazione in .pdf è disponibile qui; per il video in differita è possibile utilizzare Webex o YouTube.

Corso di Laurea in Culture e Letterature del Mondo Moderno
Dipartimento di Studi Umanistici
Università degli Studi di Torino

Mattia Cravero (mattia.cravero@unito.it) è dottorando in Comparatistica (XXXIV° ciclo) presso l’Università degli Studi di Torino. Nel suo progetto di ricerca analizza i miti delle origini (letterari, biblici, scientifici e fantascientifici) presenti nell’opera di Primo Levi, a cui ha dedicato diversi saggi (tra cui «Acqua per cancellare / Acqua feroce sogno / Acqua impossibile per rifarsi mondo»: Primo Levi e tre casi di intertestualità, «Status Quaestionis», 2018; «Nel mondo delle cose che mutano»: racconto metaforico e mito metamorfico tra Ovidio e Primo Levi, in Innesti. Primo Levi e i libri altrui, a cura di R. Gordon e G. Cinelli, Peter Lang, Berna, 2020). Partecipa attivamente ai convegni universitari come organizzatore e come relatore; è membro della redazione e revisore in doppio cieco per «CoSMo». Oltre all’opera di Levi, si interessa di ricezione moderna e contemporanea del classico e di riscritture (Contro la guerra. L’Iliade riscritta da noi, con C. Lombardi, Mimesis-AlboVersorio, 2017).

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Amleto e Ofelia: due volti di una stessa follia

In questa sua composizione, Giulia Cearini intende rappresentare i personaggi di Amleto e Ofelia come un doppio l’uno dell’altro, specularmente, simili a due facce di una stessa medaglia. Si cercherà di avvalorare questa tesi compiendo un percorso, iniziando dall’analisi inerente l’impiego della follia in Shakespeare, analizzando il fool shakespeariano (spesso portatore di verità), passando poi per gli studi di Jaques Lacan relativi al concetto di desiderio, per giungere infine all’analisi della morte dei due personaggi, sinonimi e contrari fino alla fine, modelli della dualità uomo/donna al momento del loro abbandono della vita.

Giulia Amelia Cearini (giulia.cearini@edu.unito.it) studia Culture Moderne Comparate presso l’Università degli studi di Torino. Si è laureata in Discipline delle Arti della Musica e dello Spettacolo nell’a.a. 2016 con una tesi in Tecniche Audiovisive dal titolo “Oltre il muro: la metafora nelle animazioni di Gerald Scarfe per il film Pink Floyd The Wall”.

*

This nothing’s more than matter
Laertes
Amleto, Atto IV, Scena 5

1. Amleto e Ofelia: «Il pazzo finto e la vera pazza»[1]

Nelle opere di Shakespeare figura ricorrente è quella del pazzo, il fool scespiriano, sicuramente  attinta da epoche antiche. Lo statuto della follia è stato fonte di numerosi dibattiti ed il suo progredire nella storia ha seguito una serie di mutamenti, oscillando tra due estremi: «in parte corruzione dell’anima, in parte profonda esperienza dello spirito, poiché solo attraverso la follia si può giungere ad esplorare l’estremo confine della natura umana»[2].  Lungi dall’addentrarci, in questa sede, in uno studio sulle origini del concetto di follia, risulta sicuramente emblematico il fatto che nel corso della storia il pazzo avesse una sorta di corsia preferenziale nella definizione della verità, come detentore di uno sguardo che, esulando dalla realtà, potesse scorgere la vera natura delle cose. Numerosi e disparati sono i personaggi folli che si possono ritrovare in Shakespeare, motivo per cui diviene necessaria una breve digressione etimologica a tal merito. Nel saggio di Vanna Gentili Il fool in Shakespeare e nel teatro elisabettiano[3] l’autrice compie una distinzione tra il Natural Fool, passivo, ovvero l’idiota per natura (vedasi i due becchini dell’ultimo atto di Amleto, definiti clown, nell’inglese antico bifolco ma anche buffone[4]) e l’attivo Artificial Fool, ossia «colui che professionalmente si finge idiota per divertire, per intrattenere oppure per smascherare la realtà nascosta dietro l’apparenza o la vera follia insita nella saggezza»[5] (esempio emblematico è il Matto che diventa alter ego di Re Lear[6]). Si passa così da «chi agisce a chi è agito»[7]. Questa distinzione è fondamentale per inserire Amleto nella categoria di Artificial Fool. Per esacerbare il marcio che ormai risiede in Danimarca Amleto sfrutta la recita della follia, penetra la realtà con l’immaginazione[8], inganna, intrappola, si fa regista dei suoi piani attraverso il mezzo della follia, che è solo simulata. Più che un folle lo potremmo definire un abile attore.

HAMLET:
That I essentially am not in madness, but mad in craft[9]

In merito a queste affermazioni quindi, Amleto è un finto pazzo che attraverso l’uso della follia cerca di far emergere verità che sono a lui già rivelate. La capacità di scrutare nelle pieghe menzognere dell’anima, avvicinandosi al ruolo del folle  incarnato in epoca greca, potrebbe essere invece attribuito a Ofelia, la vera pazza. La perdita della sua ragione non si riconduce solo alla perdita del padre (unico motivo, secondo Claudio, della sofferenza della giovane[10]) bensì, come possiamo evincere dai significati delle canzoni da lei cantate, solo apparentemente prive di senso, anche alla perdita del suo oggetto d’amore,  Amleto stesso.

OPHELIA
How should I your true love know
From another one?
By his cockle hat and staff,
And his sandal shoon[11]

Colei che è così profondamente legata ad Amleto è la prima vittima della sua finzione. Nella sua follia, priva di infingimenti, Ofelia, pur non ricercando la verità, è colei che della verità diventa testimone. Come nella definizione di Foucault nel suo intervento La follia e la società, Ofelia diventa personaggio portatore di verità ingenuo, come il buffone della corte medievale, che non per questo fa venir meno la sua ragione d’essere. La sua parola è «parola marginale: una parola che era sufficientemente importante da essere ascoltata, ma che era sufficientemente svalutata e disarmata da non avere nessuno degli effetti abituali della parola ordinaria»[12]. Amleto e Ofelia così «si confrontano e definiscono a vicenda»[13].

2. Il desiderio e la sua interpretazione: i desideri di Amleto e Ofelia a confronto

Nel seminario di Jaques Lacan Il desiderio e la sua interpretazione, Lacan si sofferma sulla definizione freudiana del rapporto tra Edipo e Amleto. La correlazione di questi due personaggi ci è nota ad oggi con questa definizione:

Nello stesso terreno dell’Edipo Re, si radica un’altra grande creazione tragica, l’Amleto di Shakespeare. Ma nella mutata elaborazione della medesima materia si rivela tutta la differenza nella vita psichica di due periodi di civiltà tanto distanti tra loro, il secolare progredire della rimozione nella vita affettiva dell’umanità. Nell’Edipo, l’infantile fantasia di desiderio che lo sorregge viene tratta alla luce e realizzata come nel sogno; nell’Amleto permane rimossa e veniamo a sapere della sua esistenza – in modo simile a quel che si verifica in una nevrosi – soltanto attraverso gli effetti inibitori che ne derivano. [14]

Punto di partenza per questa analisi è il concetto di desiderio: desiderio compiuto per Edipo, desiderio rimosso per Amleto. Laddove la tragedia dell’Edipo Re viene concepita come una ‘tragedia del destino’, per Amleto si definisce una ‘tragedia del desiderio’. Lacan completa così «la triade del complesso edipico con un quarto personaggio che è l’incarnazione dell’oggetto del desiderio della madre»[15]. Non più, quindi, il desiderio ‘per’ la madre come avviene nell’Edipo Re, ma il desiderio ‘della’ madre. La differenza essenziale tra animale e uomo risiede nel fatto che il primo ha bisogni, il secondo ha desideri. Il desiderio è quindi l’effetto di un meccanismo che umanizza l’essere vivente quando nasce e che attraversa un circuito: il bisogno del neonato, che necessita della cura dell’altro per la sopravvivenza, tendenzialmente la madre, e una richiesta ovvero «cosa desidera mia madre da me?». Identificandosi con la madre, il bambino assume il desiderio della madre come proprio. In quanto tale, secondo Lacan, il nostro desiderio è sempre e solo desiderio del desiderio dell’Altro. Una volta messo in chiaro questo concetto bisogna capire il motivo di indugio nell’uccidere lo zio secondo l’interpretazione lacaniana. Lo psicanalista dà due motivazioni che interpretano questa abulia: la prima è che Amleto rimane legato al desiderio di sua madre, la seconda è che quest’ultimo dipende sempre dal tempo altrui.

Amleto non riesce a staccarsi dal desiderio della madre, per seguire il proprio desiderio e agire in accordo con esso, e fa dipendere il proprio atto dal tempo degli altri. Il suo momento di autenticità, dice Lacan, è durante il funerale di Ofelia. Inizialmente era l’oggetto su cui trovava sostegno, dopo di che la identifica come la genitrice e in tal modo come veicolo di tutti i peccati, come la madre di Amleto.

Lacan spiega questo aspetto come la distruzione dell’oggetto che viene recuperato nel quadro narcisistico del soggetto. La voracità pulsionale della madre fa di lei un soggetto che trae godimento dal soddisfacimento diretto di un bisogno. Questo fa sentire Amleto come un oggetto di desiderio trascurato, secondo il modo in cui Lacan presenta i fatti nel suo decimo seminario. Inizialmente per Amleto l’oggetto di desiderio è Ofelia, non la madre. La perdita di Ofelia è necessaria perché Amleto si risvegli. Nel momento stesso in cui Ofelia diventa un oggetto impossibile, torna ad essere per Amleto l’oggetto di passione che gli permette di riprendere il proprio desiderio. ‘Sono io, Amleto il danese’, dice davanti alla sua tomba. Eccolo dunque come soggetto diviso di fronte al proprio oggetto “a”. Solo in questo modo può portare il lutto per la morte del padre.[16]

L’indecisione continua di Amleto viene rappresentata nel famoso monologo  «Essere o non essere? ». La ‘questio’ che qui si pone è agire o non agire? Vivere o morire? Accettare stoicamente le pene dell’animo umano o scegliere una via all’apparenza più dolce e semplice? L’indecisione è così forte che per un momento l’abbandono della vita è una soluzione rispetto a compiere l’omicidio che gli viene chiesto. Alla fine di questo monologo giunge proprio Ofelia, e la furia di Amleto si scatena su di lei. Un approccio drasticamente differente da quello delle dichiarazioni di tenero corteggiatore, di cui lei si ricorda bene «parole composte da un respiro così dolce da renderli più ricchi»[17]. E’ in questo momento che Ofelia perde il suo statuto di oggetto di desiderio e diventa il transfer rappresentativo della madre, che la sostituisce nell’immaginario inconscio di Amleto.

Questo è ciò che è riscontrato nella lunga trattazione di Lacan sulle Sette lezioni su Amleto. Nella seguente analisi tenterò di ribaltare i ruoli tra il protagonista e Ofelia, da un Amleto soggetto ad Amleto oggetto del desiderio. E’ possibile che la reazione violenta di quest’ultimo, proprio in seguito al suo colloquio con Ofelia all’inizio del Terzo Atto, sia l’origine della spaccatura del senno di Ofelia? Già in quel momento, la coscienza di lei subisce un trauma che porterà alla sua morte? Che la morte del padre Polonio sia solo un’ultima spinta a cadere nel lago, ma non il motivo stesso per cui lei si è arrampicata? Se alla fine della prima scena del Terzo Atto Ofelia non eseguisse solo un giudizio sulla perdita della ragione di Amleto ma l’anticipazione del suo futuro.

OPHELIA:
And I, of ladies most deject and wretched,
That sucked the honey of his music vows,
Now see that noble and most sovereign reason
Like sweet bells jangled, out of tune and harsh;
That unmatched form and feature of blown youth
Blasted with ecstasy. Oh, woe is me,
T’ have seen what I have seen, see what I see![18]

Sicuramente, in confronto ad Amleto, Ofelia è una creatura più fragile. Ad Amleto, a partire da Freud, non si nega la sua tempra, non è «una natura troppo pura, nobile, estremamente virtuosa, ma senza la forza d’animo che caratterizzava l’eroe»[19], come lo definisce Goethe. Il Principe di Danimarca è in grado di agire, uccidere, gli manca la capacità di compiere la vendetta ordinatagli dal padre per i motivi appena citati, ma nonostante il momento di debolezza del suo «Essere o non essere», decide di vivere. Forse Ofelia, invece, decide di mettere fine alla sua vita per  quel che Lancan definisce la logica della manque-à- être[20]. L’impossibilità di colmare quella mancanza a cui tutti, secondo Lacan, tendiamo è ciò che porta Ofelia a recidere la sua vita, diventando un soggetto patologico qualora le venga a mancare l’oggetto del desiderio.

In quanto manque-à- être, il soggetto è anche desiderio di raggiungere ciò che gli permetterebbe di essere, è aspirazione dell’essere che gli manca. Ecco che il soggetto è una mancanza a essere e, al tempo stesso, è desiderio di raggiungere/ricercare ciò che gli garantirebbe consistenza, ciò che, appunto, gli darebbe essere. Il soggetto è nella sua dimensione strutturata quando assume il suo desiderio come la cosa più propria che possiede, come la verità della sua vita. Questa incessante ricerca del soggetto verso l’essere di cui manca è destinata a non compiersi. Essa è votata all’infinito in quanto non esiste, secondo Lacan un oggetto di desiderio in grado di colmare il desiderio stesso. Il desiderio non si fa possedere dal soggetto, è erratico, lo trascende.[21]

Forse è stata la rimozione stessa dei desideri infantili ad impedire ad Amleto di compiere, alla fine del suo monologo, lo stesso atto che avrebbe poi compiuto Ofelia alla fine dell’opera. Il suo gesto estremo potrà compiersi solo dopo la morte e il funerale di Ofelia,  poiché tali avvenimenti introducono e collocano in primo piano la mancanza del sapere riguardo alla vita stessa e alla possibilità di padroneggiarla. Una mancanza che solamente adesso Amleto può assumere su di sé, svincolandosi da ogni calcolo e dalla ricerca di una garanzia ultima riguardo a ciò che deve compiere.

3. Le due morti a confronto: morte virile e morte femminea

Uno specchio è ciò che rivela un’immagine simile a quella reale ma al contempo rovesciata e distorta: quale opposto è più radicato nel genere umano che non l’opposizione tra uomo e donna? Un tutto e un uno al contempo.

La fine di Amleto avviene durante un duello, un incontro di spade, antico richiamo di scontro di virilità. La spada in sé è simbolo fallico e di forza. Il personaggio di Amleto però si può definire anche: «un soggetto liminare, principe tragico e buffone impertinente, vendicatore imperioso e inerte perdigiorno, campione di virilità dalle profonde rifrazioni femminili»[22]. Se il personaggio di Amleto è così polimorfo, è giusto attendersi che riponga in sé attributi sia maschili che femminili, a maggior riprova di campione universale.

Diverso è il discorso di Ofelia, la cui essenza è profondamente femminile, senza lasciare adito ad altre componenti. La sua morte, secondo il filosofo Gustave Bachelard, è il simbolo della morte femminile.

L’acqua è la patria sia delle ninfe viventi che delle ninfe morte. L’acqua è il vero elemento della morte femminile. Nella prima scena tra Amleto e Ofelia, Amleto – seguendo in ciò la regola della preparazione letteraria del suicidio – come se egli fosse un indovino che predice il destino, esce dalla sua profonda fantasticheria mormorando: «Ecco la bella Ofelia! Ninfa, nelle tue preghiere, ricordati di tutti i miei peccati» (Amleto, atto III, sc. 1). Da allora, Ofelia è destinata a morire per i peccati altrui, ella deve morire nel fiume, dolcemente, senza clamore[23]

L’acqua è elemento femminile perché riconduce alle acque del grembo materno, alle lacrime a cui l’emotività della donna ha più facile accesso. Sicuramente il tragico episodio del 1579, dove Katherine Hamlett, una giovane donna di Stratford (città natale di William Shakspeare) annega accidentalmente nel fiume Avon può avere ispirato la morte di Ofelia nel dramma, postulando il suo annegare nel lago come riconducibile a simbolo della maternità, vale a dire la chiave stessa del conflitto psicanalitico di cui abbiamo appena trattato. Amleto e Ofelia sono dunque i due opposti vertici di vita e morte di cui è costellato l’intero dramma. Si rispecchiano eternamente nelle comuni acque di una follia che è «Un nulla, che dice tutto»[24].


[1]Marenco. F, William Shakespeare – Tutte le Opere- Le Tragedie,  Bompiani, Firenze, 2018, p. 727

[2]Guidorizzi. G, Ai confini dell’anima – I greci e la follia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010, p. 11

[3] Gentili. V, Il fool in Shakespeare e nel teatro elisabettiano, in Shakespeare e Jonson: il teatro elisabettiano oggi, Officina, Roma, 1979

[4] Marenco. F, op.cit, p. 2878

[5] Fagioli.A, Storia del fool, http://alessandrafagioli.com/storia-del-fool/

[6] Marenco. F, op.cit, p. 2878

[7] Fagioli.A, Storia del fool, http://alessandrafagioli.com/storia-del-fool/

[8] Marenco. F, op.cit, p.726

[9] “AMLETO: Che io non sono pazzo veramente, ma pazzo ad arte”,  Ivi. p. 918, Amleto, Atto III-Scena 4

[10] Ivi. p.2876

[11] “OFELIA:Come farei a riconoscere fra i tanti il mio vero amore?Dalla conchiglia sul cappello, dai sandali e bordone”, Ivi. p.936, Amleto, Atto IV, Scena 5

[12] Foucault. M, La follia e la società. 1978, in “Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. 1978 –1985. Etica dell’esistenza, etica, politica”, a cura di Pandolfi A., Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 74

[13] Marenco. F, op.cit, pp. 727

[14] FREUD. S, L’interpretazione dei sogni, in Opere, vol. 3, Boringhieri, Torino 1966, p. 271

[15] Lacan.J, A cura di Di Ciacca. A Il seminario – Libro VI Il desiderio e la sua interpretazione, Einaudi Editore, Torino, 2016

[16] Focchi.M, Psicoterapia,società, https://www.marcofocchi.com/di-cosa-si-parla/cosa-impedisce-lazione, 17 Giugno 2014

[17] Marenco. F, op.cit, Amleto Atto III, Scena I, p.860

[18] “OFELIA: E io, delle donne la più mesta e sventurata, che succhiavo il miele delle sue armoniose promesse, ora vedo quella nobile ragione sovrana dissonare come tante campane che rintoccano stonate, quella incomparabile forma e figura di fiorente giovinezza consumata dalla demenza. Misera me, aver visto ciò che ho visto, vedere ciò che vedo”, F.Marenco, op.cit,  p. 865, Atto III, Scena 1

[19] Goethe. J.W, Wilhelm Meisters Lehrjahre, 1795, vol.IV, cap.XIII

[20] “Le désire est un rapport d’ être à manque. Ce manque est manque d’ être. Ce n’est pas manque de ceci ou de cela, mais manque d’ être par quoi l’ être existe. L’ être vient à exister en fonction même de ce manque”, Lacan.J, Le Séminaire, Livre II, Le moi dans la théorie de Freud et dans la technique de la psychanalyse, Seuil, Parigi, 1978, p.261

[21] Squeo. F, L’altrove della mancanza nelle relazioni di esistenza, Bibliotheka Edizioni, Roma, 2017, p.22

[22] Marenco. F, op.cit, p. 727

[23] Bachelard. G, L’eau et les rêves. Essai sur l’imagination de la matière, Libraire José Corti,Parigi, 1942, p.100

[24] Marenco. F, op.cit, Atto IV, Scena 5, p. 949

Bibliografia

Bachelard. G, (1942), L’eau et les rêves. Essai sur l’imagination de la matière. Parigi, Libraire José Corti.

Fagioli.A, Storia del fool, http://alessandrafagioli.com/storia-del-fool/

Focchi.M, (2014) Psicoterapia,società, https://www.marcofocchi.com/di-cosa-si-parla/cosa-impedisce-lazione

Foucault. M, La follia e la società. (1978), in “Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. Etica dell’esistenza, etica, politica”, a cura di Pandolfi A., Milano, Feltrinelli, 1998.

FREUD. S, (1966), L’interpretazione dei sogni, in Opere, vol. 3, Torino, Boringhieri.

Gentili. V, (1979), Il fool in Shakespeare e nel teatro elisabettiano, in Shakespeare e Jonson: il teatro elisabettiano oggi, Roma, Officina.

Goethe. J.W, (1795), Wilhelm Meisters Lehrjahre, vol. IV.

Guidorizzi. G, (2010),  Ai confini dell’anima – I greci e la follia, Milano, Raffaello Cortina Editore.

Lacan.J, (1978), Le Séminaire, Livre II, Le moi dans la théorie de Freud et dans la technique de la psychanalyse, Seuil, Parigi.

Lacan.J ,a cura di Di Ciacca.A,(2016),  Il seminario – Libro VI Il desiderio e la sua interpretazione, Torino, Einaudi Editore.

Shakespeare.W, a cura di Marenco. F, (2018), William Shakespeare – Tutte le Opere- Le Tragedie, Firenze, Bompiani.

Squeo. F, (2017), L’altrove della mancanza nelle relazioni di esistenza, Roma, Bibliotheka Edizioni.

Don Leo e il bivio impossibile

Claudio Saleri, laureato in Scienze e Tecnologie delle Arti e dello Spettacolo alla Cattolica di Brescia, ha frequentato il corso di Giornalismo a Stampa, Radiotelevisivo e Multimediale. È iscritto all’Albo dei Giornalisti Pubblicisti della Lombardia e collabora con il Giornale di Brescia. Frequenta il corso di Culture Moderne Comparate presso l’Università degli Studi di Torino.

In questo suo articolo si concentra sul topos di Ercole al bivio nella contemporaneità, passando per la figura amletica di Don Leo, protagonista di “Bruciare tutto” di Walter Siti.

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La storia della letteratura è costellata da storie di amori impossibili. Le hanno raccontate Omero e Shakespeare, poi ancora Flaubert e Tolstoj; la lista è troppo lunga per essere riportata qui. Esiste poi un altro tipo di rapporti erotici che va oltre a quello dell’amore impossibile, ne supera l’immanenza; è quello in cui Eros e dannazione si intersecano fino a diventare un binomio inscindibile: come non pensare ad Inferno V, ad un amore che trascende le candide parvenze stilnovistiche e si configura come desiderio travolgente e divoratore, che non può che condurre i due inseparabili amanti all’eterna sofferenza. Nel celeberrimo trittico di terzine legato dall’anafora “amore” (Inferno V, vv. 100-108) questa connotazione della passione erotica è evidente, l’amore “al cor gentil ratto s’apprende”, non nasce da una scelta consapevole, “a nullo amato amar perdona”, si impossessa con violenza del “lago del cor” (Inferno I, v. 20),(1) della parte più profonda dell’essere umano, e non l’abbandona più.

Don Leo convive con il desiderio, cerca di resistervi per tutta la vita aggrappandosi alla fede in un Dio che ad un certo punto smetterà di rispondergli, e alla fine anche lui non potrà che rimanere consumato dall’amore per Andrea. Mentalmente, spiritualmente, e corporalmente; nell’ardore delle fiamme distruttrici (e purificatrici?). Walter Siti ha scelto di andare oltre gli amori impossibili per concentrarsi su un tabù, sposo della dannazione per eccellenza, specialmente oggi.(2) Ha scelto di parlare di pedofilia, ha voluto mettere il dito in una piaga ancora sanguinolenta per la Chiesa, che l’ha coperta di una macchia difficile da tergere. Una macchia che ha cominciato a prendere forma all’inizio del ventunesimo secolo, con un’inchiesta avviata dal Boston Globe.Quest’ultima ha segnato soltanto il primo passo di una presa di conoscenza da parte dell’opinione pubblica di un lato oscuro (e ben celato, per la verità) della Chiesa Cattolica, poi dimostratosi un fenomeno diffuso a livello mondiale, insinuatosi nelle molteplici diramazioni dell’istituzione ecclesiastica. Un cancro metastatico al punto da diventare uno dei cavalli di battaglia della propaganda anticlericale, oltre che oggetto di numerosi studi in ambito psicanalitico e non. C’è chi, come il filosofo e sociologo Slavoj Žižek, sostiene che la pedofilia sia iscritta nell’identità stessa della Santa Madre Chiesa. Secondo lui il fenomeno è impresso nel suo funzionamento come istituzione socio-simbolica, il che non riguarderebbe quindi l’inconscio privato degli individui, bensì quello dell’istituzione stessa, nella forma di un ritorno del rimosso sotto forma di perversione, causato dalla transvalutazione valoriale della negazione di ogni pratica sessuale nel corpo dei sacerdoti. Žižek attua un parallelismo con i riti sessualizzati del nonnismo nell’esercito, che proprio come la Chiesa si pronuncia pubblicamente contro i rapporti omoerotici, ma nei fatti ne garantisce la perpetuazione in nome di un accordo sociale non scritto.(3) Un’effettiva condanna di queste pratiche dovrebbe smuovere attivamente la regione sotterranea che le cela, invece vengono brutalmente attaccate e bollate come oscenità esterne all’istituzione.(4) Secondo Žižek è proprio l’atteggiamento difensivo adottato dalla Chiesa che conferma l’appartenenza dei crimini alla sua identità istituzionale: la tendenza a minimizzare e isolare i casi, a liquidare le accuse come scandalismo e propaganda anticattolica, le ritrattazioni condizionali.(5) Le posizioni adottate dai due attuali pontefici, ovvero il papa emerito Benedetto XVI e il successore Francesco, seppur differiscano per qualche sfumatura, sono accomunate da questa tendenza di fondo. Bergoglio scende dal podio e si unisce ai contestatori, invocando l’ira divina sui colpevoli;(6) Ratzinger invece sostiene apertamente la natura alloctona di questo male diffusosi nella Chiesa, stigmatizzandolo come figlio dell’esaltazione della libertà sessuale del Sessantotto, che avrebbe visto la nascita di lobby omosessuali nelle diocesi e nei seminari.(7)

Pierre Dalla Vigna si sofferma sull’interessante tematica dell’iconografia cattolica e della sessualizzazione delle opere d’arte, che ritroviamo a più riprese anche nel romanzo di Siti: don Leo ha una fobia per le immagini sacre che lo ha sempre portato a disprezzare la storia dell’arte, ha paura che i piccoli e paffuti corpi dipinti possano risvegliare i suoi appetiti sessuali:

[…] la sua ignoranza in storia dell’arte dipende dal fatto che temeva di incontrarne il corpo perfino dipinto. (Runge, magnifico ruffiano; Spierincks e il suo sileno nudo tra piccini anch’essi nudi che lo legano con tralci d’edera.)(8)

E ancora:

Leo non aveva anticorpi, per questo le lumeggiature dei putti dagli affreschi della cattedrale, e i residui di cromia sui pomelli delle guance negli altorilievi, furono liberi di germinare indisturbati. La storia dell’arte cominciò a fargli paura: la Camera degli sposi a Mantova da sotto in su, gli amorini con le frecce intorno a Venere Pandemia, una lotta di angioletti nelle pagine del Seicento bolognese. Li rivedeva la notte, a occhi e libri chiusi: i san Giovanni elastici che dimostravano dai tre ai dodici anni, come se il corpo non li avesse ancorati a questa terra.(9)

Dalla Vigna sottolinea il contrasto tra la severa condanna della sessualità al di fuori dall’ambito matrimoniale da parte della Chiesa e l’estrema libertà d’azione concessa agli artisti occidentali nelle rappresentazioni sacre, forse dovuta all’impossibilità di una rappresentazione autentica del divino. L’esempio paradigmatico ce lo offre tutta l’iconografia su san Sebastiano: nonostante sia divenuto martire in età matura, sin dal Quattrocento siamo abituati a vederlo rappresentato come un giovane seminudo legato a un palo, che sprigiona un erotismo inconfessabile.(10) Dopo Botticelli sarà Giovanni Antonio Bazzi ad accentuarne l’aspetto efebico, in Saraceni il santo è semisdraiato in evidente orgasmo, con una freccia all’inguine che arrossa il tessuto che copre la pudenda; ma l’elenco potrebbe continuare: da Perugino a Raffaello, da Rubens a Guido Reni e via dicendo.(11)

Don Leo conosce solo un modo per resistere al desiderio e (quindi) al peccato, ovvero avere fede in Dio, affidarsi a lui e invocarne la pietà e il perdono. Spesso nei suoi pensieri torna alla sua debolezza, alla sua inettitudine: senza un aiuto dall’alto si sente incapace di far fronte alle difficoltà della vita, alle insidie grottesche che spesso questa gli pone dinnanzi. Per ciò, quando Dio smette di rispondergli dall’alto dei cieli, l’unico atto di libertà che può compiere per resistere alla tentazione erotica è quello di sparire definitivamente, annientando la sua volontà, perché il desiderio fa parte di lui e non può reprimerlo, non con le sue forze almeno. Nonostante la suggestiva simbologia connessa all’immagine del fuoco, la morte di Leo ha poco di estetico, è soltanto l’unica alternativa che sente di avere quando capisce di non avere la forza interiore di vivere, quella forza che ha sempre cercato all’esterno e che poi gli viene improvvisamente a mancare. Non ha scelta, è come un treno che non può fermarsi e finisce inevitabilmente col deragliare. È il bandolo della matassa dopo Nietzsche, dopo che “Dio è morto”. Coloro che hanno sempre cercato Dio al di fuori di sé sono rimasti soli, in un universo stupido (e quindi anche crudele). È il buco nel cielo di carta pirandelliano, di cui parla Anselmo Paleari ne “Il fu Mattia Pascal”:

Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.»

«Non saprei» risposi, stringendomi ne le spalle.

«Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.»

«E perché?»

«Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.»(12)

Al netto della caduta dei “lanternoni”, della secolarizzazione, la sfida dell’Homo postmoderno è quella di trovare dei valori in cui credere in un orizzonte nichilista. Non volgendosi all’indietro, riutilizzando impropriamente i vecchi ideali ormai decostruiti, cercando di rimettere insieme i cocci, le macerie lasciate dalla storia; ma costruendone di “nuovi”, che pur nella loro relatività in quanto figli di un mondo in cui tutto è frammentato, abbiano un che di universale, non quello in cui tutti devono credere, ma quello in cui l’io deve credere.

La personalità di don Leo è un fragile castello di carte tenuto insieme dalla fede. Dopo che il cielo di carta si è bucato, dopo la morte di Dio, non può che arrivare il momento del to be or not to be. L’uomo creato dal Dio cristiano porta con sé l’immagine del suo creatore, sente in sé stesso l’ispirazione al comportamento orientato alla carità. Dio ha deciso di conferirgli la libertà di scegliere se compiersi come sua creatura o meno, allontanando la voce del male.(13) Il dovere permanente della Chiesa è quello di scrutare i segni dei tempi e dei luoghi nella storia che indicano la volontà di Dio. Tutto ha origine nel principio, nella Genesi: Dio sa ciò che è bene e ciò che è male, l’uomo no e gli è proibito di cibarsi del frutto dell’albero della conoscenza. Lo Spirito Santo, terza persona della Trinità e dono tra i doni di Dio, è prima di tutto pneuma heghemonikón, ovvero “spirito che guida”. Il discernimento è la prima operazione dello Spirito nell’essere umano, è un dono che viene dall’alto e che si unisce all’anima del cristiano: come tale va quindi desiderato e invocato. Non è una virtù posseduta dall’uomo, ma un’elargizione dell’amore di Dio, l’uomo deve far sì che lo Spirito possa agire in lui, lasciandosi guidare.(14)

Dopo la morte di Dio allora? Come discernere tra il bene il male, tra la virtù e il vizio? Don Leo è il protagonista di una tragedia contemporanea, nell’eterna attesa di un Deus ex machina che non arriverà mai, come in Beckett. Nell’epoca postmoderna si è giunti all’aporia del topos di Ercole al bivio, ovvero di quel momento decisivo in cui l’eroe si trova a dover scegliere tra l’invitante strada del Vizio e quella impervia della Virtù, narrazione che da una favola moralistica del sofista Prodico è diventata un tema ricorrente nelle arti (si pensi alla tela di Annibale Carracci, o alle opere di Raffaello e Tiziano)(15). Don Leo sembra alle soglie di un bivio in cui è possibile distinguere tra il bene e il male. È il dramma del contemporaneo: Ercole, seppur tentato dai piaceri del vizio, sa distinguerlo dalla virtù ed è libero di scegliere quale strada intraprendere. Il protagonista di Siti invece, seppur cerchi di agire rettamente soffocando il desiderio, “provoca” la morte di Andrea, che non accetta il suo rifiuto e si uccide. Michela Marzano nella sua recensione per “Repubblica” critica aspramente l’autore per questa scelta:

Che cosa suggerisce allora Siti in Bruciare tutto? Che è meglio dannarsi l’anima facendo sesso con un bambino che istigare a un suicidio?(16)

Il punto forse non è questo. Il punto è che in un mondo dove Dio non c’è i confini tra il giusto e lo sbagliato sfumano nella “zona grigia”(17) di cui parlava Primo Levi; e a volte, i risvolti possono essere tragici.

Bauman fa un discorso simile, seppur restando sul piano dell’immanenza, e in “Modernità liquida”cita una versione apocrifa di Lion Feuchtwanger dell’episodio dell’Odissea in cui Ulisse restituisce le sembianze umane ai marinai trasformati in porci dalla maga Circe. Elpenore, il primo a tornare umano, inveisce così contro il suo salvatore:

Vuoi tornare ad affliggerci e tormentarci, desideri ancora esporre i nostri corpi ai pericoli e costringere i nostri cuori a prendere sempre nuove decisioni? Com’ero felice; potevo sguazzare nel fango e crogiolarmi al sole; potevo trangugiare e ingozzarmi, grugnire e stridere, ed ero libero da pensieri e dubbi.(18)

L’età moderna ha invocato a gran voce la libertà, ma ben presto ci si è accorti che la coercizione sociale è la forza emancipatrice e la sola speranza di libertà che risparmi una “perpetua agonia di indecisione correlata a uno stato di incertezza”(19). I modelli imposti dalle pressioni sociali risparmiano la fatica di assumersi responsabilità e sostenere pressioni. Non solo non c’è contraddizione tra dipendenza e liberazione, ma la seconda, nella visione di Bauman, non esiste senza la prima. “Le regole possono dare o sottrarre autorità; l’anomia ha un effetto esclusivamente esautorante”.(20)

Quando però ogni speranza di totalità svanisce, con la modernità liquida, l’essere umano non è più caratterizzato (come in passato) dalla società, l’agenda dell’emancipazione è stata estinta e i grandi valori veicolati dalle istituzioni hanno perso il loro potere.

Note


(1) D. Alighieri, La Divina Commedia, a cura di G. Petrocchi, Bur, Milano 1989.

(2) W. Siti, Bruciare tutto, Bur, Milano 2017.

(3) S. Žižek, Pedofilia. Il segreto sessuale della Chiesa, Mimesis, Milano 2019, p.69.

(4) Ibidem, p. 75.

(5) Ibidem, p. 52.

(6) Francesco, benedetto XVI, Non fate male a uno solo di questi piccoli. La voce di Pietro contro la pedofilia, Cantagalli, Siena 2019, p. 102.

(7) Ibidem, pp. 33-58.

(8) Siti, Bruciare tutto, p. 172.

(9) Ibidem, p. 175.

(10) Žižek, Pedofilia, p. 29.

(11) Ibidem, pp. 31-32.

(12) L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, a cura di Campailla Sergio, Newton Compton Editori, Roma 2015, p. 132.

(13) E. Bianchi, L’arte di scegliere, San Paolo, Milano 2018, pp. 15-16.

(14) Ibidem, pp. 45-48.

(15) E. Panofsky, Ercole al bivio e altri materiali iconografici dell’Antichità tornati in vita nell’età moderna, a cura di Ferrando Monica, Quaderni Quodlibet, Quodlibet, 2010.

(16) https://www.repubblica.it/cultura/2017/04/13/news/pedofilia_walter_siti-162874167/

(17) P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2007, p. 24.

(18) Z. Bauman, Modernità liquida, Editori Laterza, Roma 2011, p. 6.

(19) Ibidem, p. 9.

(20) Ivi.

Bibliografia

Alighieri Dante, La Divina Commedia, a cura di Petrocchi Giorgio, Bur, Milano 1989.

Bauman zygmunt, Modernità liquida, Editori Laterza, Roma 2011.

Bianchi Enzo, L’arte di scegliere, San Paolo, Milano 2018.

Francesco, benedetto XVI, Non fate male a uno solo di questi piccoli. La voce di Pietro contro la pedofilia, Cantagalli, Siena 2019.

Levi Primo, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2007.

Panofsky Erwin, Ercole al bivio e altri materiali iconografici dell’Antichità tornati in vita nell’età moderna, a cura di Ferrando Monica, Quaderni Quodlibet, Quodlibet, 2010.

Pirandello Luigi, Il fu mattia Pascal, a cura di Campailla Sergio, Newton Compton Editori, Roma 2015.

Siti Walter, Bruciare Tutto, Bur, Milano 2017.

Slavoj Zizek, Pedofilia. Il segreto sessuale della Chiesa, Mimesis, Milano 2019.

Sitografia

https://www.repubblica.it/cultura/2017/04/13/news/pedofilia_walter_siti-162874167/

Un mondo a rischio incendio. Gli incendiati di Antonio Moresco come una nuova forma di mitologia moderna

Luca Piscioneri studia Culture Moderne Comparate presso l’Università degli Studi di Torino. Si è laureato in Culture e Letterature del Mondo Moderno nell’a.a 2018-2019 con una tesi in Letteratura Italiana, legata all’ambito della critica letteraria, dal titolo Le letture politiche della Mandragola di Machiavelli: storia di un’interpretazione.

Il presente lavoro contiene una lettura critica del romanzo Gli incendiati di Antonio Moresco coerente con le linee di ricerca emerse durante il corso di Letterature Comparate (a.a. 2019-2020) della professoressa Chiara Lombardi. Passando in rassegna i temi del fuoco, del bruciare, del viaggio e della fuga dalla schiavitù, fortemente presenti nel romanzo, la lettura che Piscioneri propone de Gli incendiati di Moresco argomenta attraverso alcuni contributi critici, sulla semiotica della città e sulla funzione del mito secondo Wu Ming, come sia possibile individuare il messaggio complessivo dell’opera e le sue forti implicazioni nella società attuale, arrivando a suggerire che si possa interpretare il testo come una sorta di nuova forma di mito moderno.

*

È difficile proporre un’interpretazione de Gli incendiati di Antonio Moresco senza analizzare il tema del fuoco e senza chiedersi quale sia il suo significato all’interno del romanzo. Quella del fuoco, infatti, è una presenza praticamente costante nell’immaginario di Moresco e il romanzo in questione non è un’eccezione[1]. Consapevoli di ciò, volendo tentare di descrivere il mondo rappresentato all’interno dell’opera, non si potrebbe fare a meno di aprire il discorso con alcune riflessioni in merito al tema dell’incendio introdotto sin dal titolo.

Se il titolo Gli incendiati implica un’azione compiuta, il mondo descritto nel romanzo è, al contrario, un mondo in compimento o, per meglio dire, che ancora deve compiersi. Perciò, per descriverlo, si potrebbero ragionevolmente usare gli stessi aggettivi che definiscono i possibili stati di vita del fuoco: spento e domato. Seguendo questo parallelo, per via della differenza dall’immagine in atto offerta dal titolo, in cui è evocata l’idea del fuoco acceso, il mondo descritto nel romanzo appare invece spento perché non è ancora incendiato oppure domato perché non è più incendiato.

In questo modo, il mondo descritto all’interno dell’opera risulta dunque connotato da un aspetto disforico, mentre il fuoco appare come una forza misteriosa che non possiede soltanto proprietà negative, bensì anche aspetti euforici. Infatti, al contrario di quanto vorrebbe l’immaginario comune, il particolare fuoco in questione non destabilizza soltanto nell’accezione negativa legata alla sua pericolosità, ma, essendo connotato positivamente e data l’aura vagamente vivificante con cui è descritto, destabilizza anche in un modo positivo. Cioè, oltre ad essere in grado di distruggere, è anche una forza in grado di generare.

Alla luce di quanto introdotto, si può dunque sostenere che, per questa sua natura ambigua, il fuoco descritto da Moresco appaia come il motore della storia raccontata nel suo romanzo. Data la sua centralità, il presente lavoro propone di analizzare l’immagine del “bruciare” al fine di tentare così l’individuazione del significato complessivo dell’opera e, per far ciò, verrà proposto di considerare l’immagine dell’incendio, specialmente per via della sua capacità di generare cambiamento e di essere così motore della storia, in relazione all’idea di mondo spento o domato descritta nel romanzo.

1. Il fuoco e l’avventura

Data la loro ambigua natura, le fiamme descritte da Moresco, proprio per via della sensazione di totale incertezza che pongono in essere nel romanzo, sono in grado di creare un stato di eccezione capace di innescare il processo che arriva a sovvertire l’ordine vigente, o per meglio dire, data la rappresentazione fortemente disforica dello scenario, il disordinevigente. Questo particolare stato d’eccezione che permette il realizzarsi delle condizioni da cui scaturiscono gli eventi nella trama lo si potrebbe chiamare avventura; così, si potrebbe dire che nel romanzo di Moresco l’avventura è generata dall’incendio.

Infatti, è proprio l’incendio a far sì che si realizzi il primo vero incontro del protagonista con la donna dai denti d’oro e, ad avvalorare l’idea di incendio come mezzo in grado di mettere in movimento la narrazione, si scopre leggendo che è proprio la stessa donna dai denti d’oro ad averlo appiccato volontariamente per conoscere il protagonista[2]. In generale, si può vedere che il fuoco è presente sotto forma di incendio dilagante in tutti i momenti di svolta della narrazione, ossia in quei momenti dove la trama segue un percorso e ne abbandona irreversibilmente un altro.

Per esempio, lo si può vedere anche in occasione del sogno in cui si realizza l’onirica prima notte di passione carnale fra i due protagonisti, dove l’incendio circonda i due amanti e fa da sfondo alla descrizione del loro pornografico amplesso; a seguito di quel sogno, l’ossessiva ricerca della donna dai denti d’oro da parte del protagonista maschile sembra suggerire l’irreversibilità del ritorno alla vita com’era prima dell’incendio che li ha fatti incontrare.

Tuttavia, il punto cruciale in cui il manifestarsi dell’incendio rappresenta maggiormente l’impossibilità di ritorno allo stato di cose precedente è quanto accade a seguito dell’esplosione della villa del Cacciatore di schiavi. In questa scena, il fuoco dell’esplosione creata dai due protagonisti, proprio perché innesca la loro immediata fuga in auto dalle labirintiche strade della città di notte e fa da preludio alla loro uccisione da parte dei mercenari del Cacciatore, può essere visto come emblema del processo inarrestabile e irreversibile della loro storia.

Alla luce di quanto detto sin ora, si è tentati di dire che in Moresco tutte le idee legate all’immagine del fuoco, quali l’idea di luce, di calore, di caos e persino di distruzione, siano indistintamente disegnate con tinte positive; tuttavia è necessaria una precisazione. La positività in questione non è riconducibile ai risultati che l’incendio ha posto in essere una volta terminato, bensì è una caratteristica intrinseca dell’incendio stesso inteso come processo in divenire. In sostanza, il positivo del fuoco di Moresco non è legato a ciò che resta dopo l’incendio, bensì  al bruciare dell’incendio in atto: allo stato di incertezza che sblocca la stasi e innesca l’avventura. Avventura che perciò sarà da intendere col significato di “ciò che accadrà” derivante dal latinismo adventura[3].

2. Il fuoco, la materia umana e la Storia

Per tutta la parte in cui i protagonisti sono in vita, nel romanzo non compare l’idea di nessun avvenire; la massa di esseri umani che viene descritta dalla voce narrante dell’eroe appare bloccata in uno stallo, una sorta di veglia incosciente che la fa apparire al lettore semplicemente come materia organica ambulante: materia sì vivente, ma di una vita vuota, una vita che si potrebbe definire non-vita. Gli individui descritti sono materia senza forma, la loro esistenza si trascina dunque senza un senso in un infinito presente senza passato e senza prospettiva futura. All’idea di materia senza forma e di condizione di vita senza finalità è collegato il tema schiavitù, prepotentemente presente nel romanzo.

Presentato al lettore attraverso l’ambigua figura della protagonista femminile, la donna circassa dai denti d’oro, il tema della schiavitù porta all’estremo l’idea di una  condizione umana intesa come vita-non-vita che caratterizza la società descritta nel romanzo. Sembra di poter dire che per Moresco, gli schiavi — uomini o donne che siano; caratterizzati dalla trasgressione estrema come quelli descritti nella villa del Cacciatore o dalla nullità più quieta come quelli “addormentati” della città o della località di mare —   rappresentino l’assenza di forma per antonomasia: sono dunque solo materia informe e praticamente inanimata, per di più neanche libera. Tuttavia, nel romanzo di Moresco, un modo di dare forma alla materia esiste ed è proprio su questo punto che sembra vertere tutto il peso del messaggio comunicato dal romanzo. La forma ha origine quasi casualmente, ma necessariamente, dal contatto fra due materie umane informi compatibili fra loro: dall’incontro del protagonista maschile e della protagonista femminile.

I due eroi, come due reagenti chimici compatibili, come il combustibile e l’aria comburente, reagiscono esattamente come in una reazione chimica. Proprio come nasce il fuoco, da due materie senza forma scaturisce una forma compiuta che è viva. La loro unione nel finale del libro, mistica unione di due anime vive contenute nella materia dei loro corpi uccisi, innesca un vero e proprio nuovo Big Bang che fa nascere una  nuova stella.

In sintesi, per via della sua essenza descritta all’inizio, ossia per il suo essere motore di storie, generatore di avventura e per le idee di processo e di divenire che evoca, il fuoco appare con le stesse caratteristiche di una reazione chimica. Del resto, il fuoco è una reazione chimica e, in quanto tale, innesca un processo che è in grado di generare qualcosa (fiamma, luce, calore, anidride carbonica, una stella!) partendo da qualcos’altro: la materia.

Il fuoco di Moresco, secondo la visione proposta, sembra dunque in grado di donare forma e vera vita alla materia umana informe che vita autentica non ha. È dunque un fuoco simbolico che accende ciò che è spento o che è stato domato e che, se distrugge, rimescola l’ordine — o il disordine­— del mondo. Le persone schiave e “addormentate” non si avvedono del suo incedere inesorabile, o, nel raro caso in cui se ne avvedano, non sono in grado di coglierne il senso e si limitano ad osservarlo incedere senza fare nulla e senza capire.

Sembra proprio questo il punto centrale del rapporto tra fuoco, uomini-schiavi e storia, in cui emerge la metafora de Gli incendiati di Moresco.

Se il fuoco rappresenta la storia, il suo bruciare è così lento da sembrare un rogo immobile e circoscritto. A prima vista, appare quasi come se fosse inesistente — “è solo un fuoco” sembra dire chi lo vede — ma, in realtà, il suo espandersi è costante e inarrestabile, talmente dilagante che arriva inevitabilmente a raggiungere le dimensioni dell’incendio. Per via della sua luce che quasi trasforma la notte in giorno e del suo tangibile calore, solo allora risulta evidente ed enorme. Solo a quel punto gli schiavi e la gente “addormentata” se ne avvedono e non possono fare altro che svegliarsi di colpo in preda al panico. Così, inevitabilmente, la folla reagirà come se il fuoco, che ormai è incendio, fosse apparso solo in quel momento. Cioè reagirà in maniera convulsa e incontrollata, totalmente in balia di quello stato di eccezione dato dalla consapevolezza di essere completamente impotenti di fronte alla forza distruttiva dell’incendio, che spezza così tutte le certezze, la routine e l’ordine — o il disordine — costituiti. Tuttavia, come si è detto, oltre a questa capacità distruttiva, il fuoco manifesta anche delle possibilità.

Per via della sua natura ancipite, che danneggia ma allo stesso tempo offre possibilità, sembra che l’immagine del fuoco di Moresco possa essere interpretabile come metafora della Storia. Infatti, la Storia, come la il fuoco, nel suo manifestarsi sotto forma di evento traumatico, risveglia i sensi dei corpi che in precedenza apparivano solo involucri vuoti e li pone di fronte ad un imprecisato avvenire. Per questo, in quanto stato di incertezza tra i più evidenti, l’incendio, nell’opera di Moresco, è osservabile in senso lato come l’emblema di ogni evento storico sovversivo dell’ordine vigente, ma, proprio per questo, appare anche foriero di possibilità in precedenza irrealizzabili.

È proprio qui, a mio parere, che si trova l’elemento positivo del romanzo; viene paradossalmente proposta in contrapposizione alla distruzione simboleggiata dall’incendio, la forza dell’incendio stesso, ma vista da un’altra prospettiva, ossia come forza purificatrice e vivificante.

Ne Gli incendiati, l’incendio-Storia appare così caratterizzato da una doppia connotazione, una disforica e una, molto meno evidente, ma non meno presente e importante, assolutamente euforica. Se si considera il fuoco di Moresco come metafora della Storia, si potrebbe dunque dire, riprendendo l’idea nietzschiana, che la Storia possa influire nelle alterne vicende degli uomini e del mondo sia in quanto danno e sia in quanto utile.

Alla luce di quanto osservato sin qui e procedendo verso la conclusione della trattazione, si può  finalmente riflettere su come interpretare questo potere distruttivo e allo stesso tempo generativo del fuoco-Storia all’interno della vicenda narrata da Moresco.

3. Il viaggio di nozze e l’apologia del nomadismo

Una letteratura che vuole essere specchio del suo tempo non può non tenere conto della polverizzazione del contesto che cerca di riflettere, non può astenersi dal rispettare la natura confusamente mosaicata dell’immagine che tenta di riproporre. È pertanto necessario che la letteratura sfidi apertamente il paradosso di […] affrontare la compiuta rappresentazione di una società incompiuta.[4]

Con queste parole di Pasquale La Forgia sembra essere descritto proprio l’obiettivo della scrittura di Moresco: “la compiuta rappresentazione di una società incompiuta”[5]. Ne Gli incendiati,infatti, si viene a contatto con un mondo illeggibile, un mondo estremamente organizzato, addirittura ordinato si potrebbe dire, ma retto da un ordine invisibile di cui non si riesce a cogliere il senso. Il mondo descritto da Moresco appare costituito da uno spazio prevalentemente cittadino, in cui le strade, gli incroci, gli edifici, danno un senso di reclusione in un labirinto senza uscita o, date le dimensioni annichilenti dello spazio urbano, dall’uscita lontanissima. Risulta particolarmente significativo il fatto che la coppia di eroi riesca ad uscire da questo labirintico mondo cittadino soltanto dopo aver trovato la morte nella sparatoria contro i soldati del Cacciatore di schiavi. Così, dopo la loro morte, una volta entrati nella loro nuova forma di vita — che nel testo appare provocatoriamente più viva rispetto alla precedente vita-non-vita — i due personaggi iniziano il loro simbolico viaggio di nozze.

La descrizione del mondo labirintico in cui viaggiano appare definibile secondo l’interpretazione semiotica dell’idea di città proposto da Guido Ferraro, secondo cui

“città” è un territorio strappato al dato naturale, proiezione di un volere progettuale, punto di arrivo di un percorso di generazione culturale, sicché “città” sarebbe il punto di arrivo di un progetto continuamente in corso e continuamente ridefinito. Perché in definitiva l’obiettivo di questo progetto è il mantenimento — magari anche finzionale, illusorio, ingannevole se vogliamo — di una bengodi della virtualità: lo spazio del possibile, dell’incrocio tra tutte le identità e tutti i linguaggi, fra tutte le prospettive e tutti i programmi di vita.[6]

La trama de Gli incendiati sembra essere stata costruita da Moresco al fine di evidenziare proprio l’aspetto “finzionale, illusorio, ingannevole” che, come ha spiegato Ferraro, è legato all’idea di vedere nel mondo “lo spazio del possibile” o “una bengodi della virtualità”. Con la loro epopea, i due eroi moreschiani, in lotta contro il mondo dei “vivi”, sembrano voler dire che la modernità, simboleggiata dallo spazio urbanizzato, ossia “lo spazio del possibile”, sia al contrario lo spazio dell’impossibile dove l’uomo è privato della sua singola identità, del linguaggio, delle prospettive e dei programmi di vita. Nella visione di Moresco, l’uomo moderno è dunque ridotto in schiavitù e secondo l’interpretazione proposta all’inizio del presente lavoro, è spento o domato. Alla luce di questa lettura dell’opera, si può proporre di vedere Gli incendiati di Morescocome una sorta di epopea o cosmogonia moderna.

Come sostiene Massimo Leone, “se si concepisce la città come un testo, passibile di continue scritture e riscritture, allora è lecito chiedersi se questo testo possa essere cancellato, e in che modo”[7]. Le modalità con cui nelle narrazioni viene descritta la cancellazione di una realtà urbana proposte da Leone sono: la profezia catastrofica, che “enuncia in un tempo futuro la cancellazione di una città presente, configurandosi, dunque, come racconto immaginario” e il resoconto del sopravvissuto, che “enuncia in un tempo passato, o in un presente storico, la cancellazione di una città passata o, per meglio dire, il tentativo di questa cancellazione”[8]. Ma non solo, Leone prosegue la sua trattazione sostenendo che ci sono altre due modalità; modalità che alla luce di quanto proposto nel presente lavoro sembrano essere più adatte ad identificare il tipo di narrazione de Gli incendiati.

L’annientamento del senso di un testo urbano può essere anche osservato e rappresentato secondo una prospettiva diametralmente opposta, che in un certo senso parteggi a favore dell’attante distruttore contro la città distrutta. Al pari della prima macro–categoria — quella che comprendeva profezie catastrofiche e resoconti del sopravvissuto — anche questa seconda può essere articolata in diversi tipi di testi; due sembrano meritare una particolare attenzione; li si potrebbe denominare “epopea di annichilimento” e “apologo del nomade”.[9]

Secondo questa proposta, si potrebbe rubricare Gli incendiati nel novero di queste particolari narrazioni identificate con le etichette di “epopea di annichilimento” e di “apologo del nomade”. In particolare, interpretando il viaggio di nozze dei due protagonisti come reazione contro il mondo labirintico e contro la condizione di vita-non-vita descritti nel romanzo di Moresco, l’etichetta più opportuna per identificare Gli incendiati appare  proprio quella di apologo del nomade, o meglio, apologo dei due nomadi. In sintesi, “l’annientamento del senso di un testo urbano è osservato e rappresentato dall’esterno non solo nelle epopee di conquista ma anche, […], in testi e racconti che, pur posizionando il proprio punto di vista al di là dei confini della semiosfera urbana, non esprimono una logica di conquista bensì un diverso atteggiamento culturale verso la città, qui denominato “apologo del nomade”“[10].

Sembra quindi di poter affermare che il viaggio di nozze dei due eroi moreschiani — viaggio che, come si è detto, può avere inizio soltanto nel momento in cui i due protagonisti vengono paradossalmente risvegliati dalla vita attraverso la loro morte — esemplifica proprio questa idea di “diverso atteggiamento culturale verso la città” e, si potrebbe anche aggiungere, verso l’obnubilante società in generale che caratterizza la modernità. In particolare, l’apologia del nomadismo evocata dal loro viaggio di nozze, specialmente nell’ultima parte del romanzo, diventa un atto sovversivo contro l’idea di città e di società descritte da Moresco e culminerà nel finale con la metafora del fuoco scaturito dall’incontro delle due materie umane dei due eroi. Nell’ultima pagina, infatti, si creano le condizioni ideali per il compimento della reazione chimica descritta in precedenza e può così avvenire l’estrema combustione da cui nasce la stella, simbolo positivo di un nuovo corso.

4. Conclusioni: una nuova forma di mito

Alla luce di queste proposte critiche, il fatto che Moresco non ancori le vicende che descrive al realismo, preferendo una costruzione della trama che volutamente non offre richiami chiari al mondo reale, ma che tuttavia, nonostante ciò, riesce efficacemente ad evocare, sembra permettere di sostenere che il romanzo Gli incendiati abbia un ché del mito. In particolare, per via del loro particolare stile, “quello che sembrano suggerire le opere di Moresco […] è che, al di là della contrapposizione fra una solidità romanzesca orientata al puro artificio finzionale e una comoda frammentazione narrativa che sa di scorciatoia, si estende un ampio e squassato territorio di scritture impure e ibridate, ma non per questo friabili o impersonali, che potrebbero rappresentare una stimolante alternativa, per chi oggi volesse tornare a misurare la propria scrittura con le imprevedibili mutazioni di un’Italia (e di un mondo) ancora in gran parte da raccontare”[11].

Con la sua scrittura Moresco offre un’idea di letteratura che sembra avvicinarsi molto a quella del collettivo bolognese Wu Ming.

Come riassume Stefano Giovannuzzi, nella posizione teorica del collettivo,

L’appello ai fatti e alla realtà non è infatti sufficiente, non garantisce nulla. Oltre che fuori della portata dei più, i fatti e i documenti in quanto tali sono inerti: non parlano, e dunque non esistono, se non vengono collocati in un racconto che dia loro senso. Ed è questo il passaggio critico: se le narrazioni sistemano i dati in una prospettiva, l’uso più o meno legittimo, a volte del tutto fraudolento, che di esse si può fare riguarda molti, produce a getto continuo un immaginario che si sostituisce alla realtà e ne orienta la percezione[12].

Sembra che a questo “immaginario che si sostituisce alla realtà e ne orienta la percezione” si possa associare tutta l’ideologia del potere e del possesso rappresentati dal Cacciatore di schiavi e dal tema della schiavitù trattati nel romanzo.

E se il discorso del potere (qualunque forma assuma) usa le narrazioni per alimentare l’immaginario bloccandolo entro paradigmi conformisti e totalitari, la finzione letteraria può rientrare in gioco per sbloccare l’orizzonte dell’immaginario, producendo narrazioni che disarticolano il processo di monumentalizzazione della storia e aprono il varco alla possibilità di una storia critica. Ciò non cambia la storia, ma ne modifica l’unilateralità della lettura e il conformismo in costruzioni aperte e continuamente modificabili dalla comunità dei lettori.[13]

Gli incendiati di Moresco, in ultima battuta, sembra costituire una grande allegoria proprio di come “la finzione letteraria può rientrare in gioco per sbloccare l’orizzonte dell’immaginario” e di come il narrare la Storia o le storie — elaborate partendo da fatti reali o costituite da elementi fantastici — possa modificare “l’unilateralità della lettura e il conformismo”[14], del mondo spento o domato, “in costruzioni aperte e continuamente modificabili dalla comunità dei lettori”[15].

L’operazione che Moresco ha voluto proporre con Gli incendiati sembra dunque molto simile, specialmente a livello di intenti, a quella di Wu Ming; Moresco infatti, come Wu Ming, “non presume di rappresentare la verità, ma di offrire una prospettiva che mette in crisi l’omologazione, i luoghi comuni, le narrazioni e le mitologie che si sono solidificate nel tempo”[16]. Viene realizzata così, “un’operazione che coinvolge il lettore, che gli impone un ruolo attivo nel ripensare la storia e, come in un cortocircuito, quello che siamo oggi”[17].

Alla luce dell’idea di fuoco, di storia, di narrazione e di mondo trattate nel presente lavoro, se si accetta la funzione che Wu Ming attribuisce al mito, ossia “permettere al singolo e all’umanità di attraversare la perdita del senso, verso la catarsi che darà inizio a un nuovo ciclo”[18], appare possibile sostenere che Moresco abbia reso i suoi eroi protagonisti di una sorta di nuovo mito moderno. Un mito moderno che, diversamente dal mito classico proiettato verso un passato remoto, appare invece proiettato verso una dimensione postuma in un imprecisato avvenire.

Bibliografia

Guido Ferraro, Oltre l’idea di città, in La città come testo: Scritture e riscritture urbane, a cura di Massimo Leone, Aracne, Roma, 2008, pp. 215-223.

Stefano Giovannuzzi, Realismo e letteratura: dalla parte di Wu Ming, in “Comparative Studies in Modernism”, n. 9, 2016, pp. 45-53.

Pasquale La Forgia, Apocalissi nostrane: la critica italiana e la tentazione della fine, in “Studi Novecenteschi”, Vol. 30, No. 66, pp. 305-355.

Massimo Leone, Signatim: Profili di semiotica della cultura, Aracne, Roma, 2015

Wu Ming 1, Breckenridge e il continuum, in Wu Ming, Giap!, a cura di Tommaso De Lorenzis, Einaudi, Torino, 2003, pp. 16-18.

Antonio Moresco, Gli incendiati, Mondadori, Milano, 2010.


[1] “Carla Benedetti – a tutt’oggi il critico letterario che ha dedicato a questo autore maggiore attenzione e che più di ogni altro ha contributo a far conoscere la sua opera, fornendone inoltre delle indispensabili chiavi di lettura – insiste dunque sul carattere “incendiario” dei Canti del caos e il discorso si può senz’altro estendere all’intero immaginario moreschiano. Non a caso, il volume che contiene i due pamphlet anticalviniani s’intitola Il vulcano e Gli incendiati è il titolo di un suo recente romanzo (Moresco 2010); va sottolineata, inoltre, la forte presenza dell’immagine del fuoco, sia nella sua narrativa che nella sua saggistica (nei casi in cui sia possibile distinguere un genere dall’altro); e termini afferenti allo stesso campo semantico popolano il suo linguaggio: in particolare, il verbo “esplodere” e l’aggettivo “esploso” vantano un altissimo numero di occorrenze” (Beniamino Mirisola, Lezioni di caos: Forme della leggerezza tra Calvino, Nietzsche e Moresco, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia, 2015, p. 73).

[2] “Perché hai incendiato la costa?” ho provato a dirle, perché avevo sempre in mente l’immagine del suo volto come l’avevo visto la prima volta nel buio, illuminato dal bagliore del fuoco.

“Perché volevo bruciare con te!” (Antonio Moresco, Gli incendiati, Mondadori, Milano, 2010, p. 58).

[3] Cfr. http://www.treccani.it/vocabolario/avventura/

[4] Pasquale La Forgia, Apocalissi nostrane: la critica italiana e la tentazione della fine, in “Studi Novecenteschi”, Vol. 30, N. 66, p. 310.

[5] Ibid.

[6] Guido Ferraro, Oltre l’idea di città, in La città come testo: Scritture e riscritture urbane, a cura di Massimo Leone, Aracne, Roma, 2008, p.216. (Corsivo mio).

[7] Massimo Leone, Signatim: Profili di semiotica della cultura, Aracne, Roma, 2015, p. 375.

[8] Ivi, p. 379.

[9] Ivi, p. 384. (Corsivo mio)

[10] Ivi, p. 390 (Corsivo mio)

[11] La forgia, Apocalissi nostrane, cit., p. 337.

[12] Stefano Giovannuzzi, Realismo e letteratura: dalla parte di Wu Ming, in “Comparative Studies in Modernism”, n. 9, 2016, p. 48.

[13] Ibid.: “ In questi termini, molto sinteticamente, ho riassunto la posizione teorica di Wu Ming in New Italian Epic, ripresa poi di recente anche in Utile per iscopo?, di Wu Ming 2 (2014)”.

[14] Ibid.

[15] Ibid.

[16] Ivi, p. 51.

[17] Ibid.

[18] Wu Ming 1, Breckenridge e il continuum, in Wu Ming, Giap!, a cura di Tommaso De Lorenzis, Einaudi, Torino, 2003, p. 17. (Articolo pubblicato per la prima volta su l’Unità, sabato 14 settembre 2002, sezione Orizzonti).