Archivi categoria: Letture

❧ SEGNALE 3 “Il corpo della lingua” Giorgio Agamben

“Che Rabelais tenga a nominare Merlin Cocai, alias Teofilo Folengo mantovano, non stupisce, se si considera l’influenza che ha esercitato su di lui il Macaronei opus quod inscribitur Baldus, pubblicato il 5 gennaio 1521 apud lacum benacense, cioè su quella riviera del Garda dove doveva approdare secoli dopo il defunto cacciatore Gracco. Da Folengo, monaco benedettino come lui era francescano, Rabelais ha appreso a esaltare un’altra corporeità oltre a quella fisiologica del gigante, una corporeità che concerne non la sregolatezza e l’eccesso della mole, ma la dismisura e la licenza della lingua. Innanzitutto nel senso letterale, come quando un personaggio si lagna che gli abbiano senza motivo morrambouzevezengouzequoquemorguatasacbacguevezinemaffressé l’occhio sinistro (Rabelais, p. 1264) e un altro che per via dei gran pugni ricevuti si ritrova esperruquancluzelubelouzerirelu al tallone. L’idioma di Pantagruel è immenso quanto il suo corpo”.

da Il corpo della lingua. esperruquancluzelubelouzerirelu di Giorgio Agamben, Einaudi, Torino, 2024, pp. 97, pp. 6-7.

Giorgio Agamben (1942) è un filosofo italiano, ha insegnato in diverse università italiane e straniere e negli anni si è occupato delle più disparate questioni, dall’estetica alla filosofia politica, dalla linguistica alla storia dei concetti. In questo saggio Agamben torna a riflettere sulla lingua, in particolare su quella corporea, plurima e sregolata di Rabelais e Teofilo Folengo, sul suo potere sovversivo, non tanto nell’ottica dei costumi morali, ma in quella più profonda dell’identità e dell’organizzazione del mondo che la lingua struttura.

Mediante un’analisi critica dello stile l’autore sonda il testo al di là della superficie narrativa, facendo così emergere le implicazioni più profonde dell’invenzione linguistica, specialmente in rapporto a questioni culturali e opere coeve o attigue e ai fondamentali lavori su Rabelais di studiosi precedenti, quali Bachtin e Leo Spitzer.

G. Agamben, Il corpo della lingua. esperruquancluzelubelouzerirelu, Einaudi, Torino, 2024.

❧ SEGNALE 2 “Il tempo della festa” Furio Jesi

7. È probabilmente leggenda la partecipazione di Rimbaud ai combattimenti della Comune. Di quella rivolta – piú rivolta che rivoluzione – egli fu tuttavia un singolare protagonista, in vesti di profeta. Egli poteva essere solo il profeta di una rivolta, non di una rivoluzione. L’insurrezione che si articola nella effettiva simultaneità dei tre strati di significati del Bateau ivre, in ordine apparente di percezione, è fondata tatticamente sul sacrificio (mercificazione, esibizione), riscattato e reso necessario dal miraggio dell’esistenza di sovrani veggenti e soccorritori, “valorizzatori”, adulti ma adulti solo quanto alla loro potenza, “bons poètes”. L’apertura ai luoghi comuni è solo formalmente adesione alla falsa oggettività degli adulti, di coloro che esercitano il potere: di fatto essa si propone di essere accumulo di forze per la rivolta. Su codeste forze grava la crosta di peccato d’essere forze convalidate dagli adulti; ma l’esistenza di adulti da miraggio, sovrani veggenti, soccorritori contro gli altri adulti, le riscatta e le rende desiderabili, da accumulare in vista della rivolta.

Furio Jesi (1941-1980) è stato un intellettuale e poligrafo torinese. La sua ricerca parte dall’egittologia e in generale dall’archeologia per poi spostarsi – sotto l’influenza di Kerenyi – verso lo studio della mitologia, prima in senso antropologico e poi ricercando l’applicazione delle mitologie all’interno delle opere letterarie a lui contemporanee o di poco precedenti, con un sempre maggiore impegno politico. Proprio in questa veste appare nella raccolta di saggi qui presentata, per la cura di Andrea Cavalletti, professore di Storia della filosofia medievale presso l’Università di Verona.

Uno studente di letterature comparate può trovare in questi saggi un approccio transdisciplinare e marcatamente internazionale, applicabile a testi e a pratiche lontane tra loro nel tempo e nello spazio.

F. Jesi, A. Cavalletti (a cura di), Il tempo della festa, Milano, Nottetempo, 2023

❧ Segnale 1 “Non ci sono demoni”

“Sarà chiaro, a questo punto che Levi ricorre al mito come risorsa retorica della sua narrazione: lo riporta, nei casi che abbiamo analizzato, come una citazione tramite similitudine o metafora resa pressoché ovvia o quasi agli occhi del lettore, ma tenuta comunque a latere del discorso. In Se questo è un uomo in particolare c’è un contesto citazionale del mito classico in cui vengono disposti richiami iconici e icastici, diretti ma allo stesso tempo silenti, che puntellano l’opera. Sono fugaci rimandi classici fittamente intessuti nella trama dell’opera e fondamentali per la sua comprensione; solo il lettore può coglierne il mistero e tentare di scioglierlo, attivando il dispositivo intertestuale che fa luce sul vero significato di ciò che le parole di Levi vogliono dire”.

da Non ci sono demoni. Primo Levi, il Doktor Pannwitz e due figure mitiche di Mattia Cravero, Mimesis, Milano, 2021, pp. 85, p. 51.

«Mal si tra’ per cerbottana torta»

Deformazione del corpo e formazione del pensiero nella rappresentazione del lavoro pesante, a partire da un sonetto di Michelangelo

di Francesco Scibetta

I’ ho già fatto un gozzo in questo stento,
coma fa l’acqua a’ gatti in Lombardia
o ver d’altro paese che si sia,
c’a forza ’l ventre appicca sotto ’l mento.

  La barba al cielo, e la memoria sento
in sullo scrigno, e ’l petto fo d’arpia,
e ’l pennel sopra ’l viso tuttavia
mel fa, gocciando, un ricco pavimento.

  E’ lombi entrati mi son nella peccia,
e fo del cul per contrapeso groppa,
e’ passi senza gli occhi muovo invano.

  Dinanzi mi s’allunga la corteccia,
e per piegarsi adietro si ragroppa,
e tendomi com’arco sorïano.

            Però fallace e strano
surge il iudizio che la mente porta,
ché mal si tra’ per cerbottana torta.

            La mia pittura morta
difendi orma’, Giovanni, e ’l mio onore,
non sendo in loco bon, né io pittore.

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«Distruggersi / perché è il solo modo di sopravvivere»

Negazione del mito e suo rinnovamento in due riscritture postmoderne dell’Amleto di Shakespeare

di Francesco Scibetta

Noi siamo immagini non bene realizzate.
Crediamo soltanto nei fenomeni soprannaturali,
cioè nel teatro, che è un’esistenza più vera
della vita quotidiana. Al presente crediamo tanto poco
da viverlo anni e anni in una continua impazienza

E. Flaiano, Lettera a un drammaturgo, in La compagnia delle Indie

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