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Mario Merz: forma e sostanza

In questo continuo moto di compressione e decompressione del mondo, che si articola come un respiro e regola l’incessante farsi e disfarsi, prende posto anche l’uomo: non come elemento alieno ed estrinseco, bensì come parte integrante del tessuto. I lunghi tavoloni ricoperti di cera d’api (Quattro tavole in forma di foglie di magnolia, 1985) esemplificano l’interesse tanto per le relazioni umane quanto per i fenomeni naturali; nella forza evocativa del tavolo come oggetto attorno al quale si riunisce una comunanza di persone, nell’integrazione tra materiale organico e inorganico (cera d’api, carta, acciaio, barre di ferro, oggetti rinvenuti) risiede già il rapporto tra micro e macrocosmo rimarcato dal profilo fogliforme delle tavole.


Dal 28 ottobre 2024 al 2 febbraio 2025, in occasione dei cento anni dalla nascita di Mario Merz, è in corso presso la Fondazione Merz di Torino (via Limone 24) la mostra Mario Merz. Qualcosa che toglie il peso che mantiene l’assurdità e la leggerezza della favola.
Il 17 aprile 1787 Goethe è a Palermo, dove era arrivato due settimane prima via mare partendo da Napoli:
«Stamane mi ero recato al giardino pubblico col fermo proposito di cullarmi tranquillamente nei miei sogni di poesia, quando, senza che me ne accorgessi, mi vidi assalito da un altro fantasma, che mi assediava già da alcuni giorni» (J.W. Goethe, Viaggio in Italia, trad. di E. Zaniboni, Firenze, Sansoni, 1980, p. 271).
Recatosi all’Orto botanico il proponimento era andato in fumo a causa di un rovello su cui si crucciava già da qualche tempo e che lo avrebbe funestato ancora a lungo: la vista del rigoglio di piante e arbusti che gli si dispiegava davanti l’aveva nuovamente persuaso che da quel molteplice si potesse risalire ad una Urpflanze, la “pianta originaria”.
La ricerca di una unitarietà nel multiforme (l’Urphänomen) è un principio epistemologico che sottende tutta l’attività scientifica di Goethe, dalla Metamorfosi delle piante alla Teoria dei colori. Sostenuta da un rigoroso processo induttivo e da un’acuta capacità di osservazione, la sua indagine si indirizza verso l’aspetto metamorfico del reale, emblema di un continuum irriducibile a qualsiasi schematismo. In Origine del saggio sulla metamorfosi delle piante Linneo viene additato come un legislatore, ovvero qualcuno che si era occupato «più di quel che dovrebbe essere, che non di ciò che è» (J.W. Goethe, La metamorfosi delle piante, a cura di S. Zecchi, Milano, Guanda, 1983, p. 53) : la grande griglia tassonomica che il naturalista svedese aveva imposto sulla realtà sarebbe, insomma, un atto arbitrario – per quanto magistrale e chiarificatore – che s’illude di dar ordine a una natura sempre cangiante e sempre in divenire.

Fig. 1. Johann Wolfgang Goethe (co-autore: Carl Friedrich Philipp von Martius): Zeichnungen zur Erläuterung der Spiraltendenz der Vegetation (1828), LA II 10B.1, 111 [24.2], da Bryan Kalusmeyer, Spirale (Spiral), Goethe-Lexicon of Philosphical Concepts.


Appena varcata la soglia che dall’anticamera immette al primo dei due ampi saloni della Fondazione Merz si ha la sensazione di entrare in un laboratorio in cui si conduce una inchiesta del mondo simile a quella goethiana. Il titolo della mostra è tratto da uno scritto di Merz, parte della raccolta Voglio fare subito un libro:
«Vorrei avere la firma di qualcuno che sia stato curato dalla proliferazione / Qualcosa che toglie il peso… / Penso ai numeri uno dopo l’altro in una dilatazione proliferante… / Sono un tappeto volante su cui vivere… / Che mantiene l’assurdità e la leggerezza della favola…» (M. Merz, Voglio fare subito un libro, a cura di B. Merz, Firenze, hopefulmonster, 1986, p. 204).
Se lo si pone in confronto con la sua produzione artistica, emerge un cosmo concepito come moltiplicazione inesauribile di forme, mutevoli e in costante replicazione:
«La natura non è forse CRESCITA delle cellule in sofisticate complicate antinomie, come disegni incredibilmente complicati? Allora dove può essere l’arte se già la natura coincide con la complicazione, complicazioni incredibilmente più provocatorie di qualsiasi complicazione organizzata dall’espressione artistica?» (M. Merz, Voglio fare subito un libro, p. 46).
Al termine del percorso espositivo un’installazione video raccoglie varie interviste fatte all’artista. In una di queste Merz racconta di come, subito dopo essere stato scarcerato nel 1945 in seguito a un volantinaggio antifascista, trascorresse ore a ritrarre prati per poter portare a casa un «segno» di essi. Se questa immagine di giovanile contemplazione della natura evoca un parallelo troppo facile, per quanto suggestivo, con l’epifania palermitana di Goethe, i rimandi tra le due – seppur diverse – attività di ricerca possono comunque avviarci per sentieri fecondi.

Fig. 2. Johann Wolfgang Goethe: Propagat. Gemmation. Zeichnung zur Spiraltendenz der Vegetation, LA II 10B.1, 116 [24.8], da Bryan Klausmeyer, Spirale (Spiral), Goethe-Lexicon of Philosphical Concepts.


Già all’esterno, non ancora entrati nei locali della ex centrale termica Officine Lancia, si è accolti da un neon vermiglio che si arrampica lungo la torre subito a lato dell’ingresso, e che raffigura la successione di Fibonacci, uno dei soggetti tanto indagati da Merz a partire dal 1970. Il matematico pisano aveva introdotto la celebre sequenza numerica nel suo Liber abaci del 1202 nel tentativo di descrivere in modo regolare la crescita di una popolazione di conigli. La spirale, trasposizione grafica di tale sequenza, sarà oggetto di interesse sia per Goethe, che la legherà ai suoi studi sulla metamorfosi e vi dedicherà – su influenza delle teorie di Carl Friedrich Philipp von Martius – un saggio (Über die Spiral-Tendenz der Vegetation, 1828), sia per Merz, il quale farà della spirale uno dei suoi elementi più caratteristici.

Fig. 3 Mario Merz, Lumaca, Identifications, Gerry Schum Television Gallery, 1970.


Se è vero che Merz recepì la lezione dell’Informale e fu vicino alle esperienze artistiche sue coeve che tentavano di demolire la forma, egli non rinnegò mai l’aspetto iconico dell’arte (Vettese, 2011). Di fronte alla molteplicità vertiginosa del reale, compito dell’artista è scavare in cerca di forme originarie, le stesse che la natura rinnova all’infinito. Questo pensiero morfologico traspare dai grandi enigmatici animali di carta nera su folex che si inerpicano lungo le pareti: cosa sono? Alci, cavalli, cani, dinosauri,…? Un quadrupede, con tre protuberanze a un capo e due cavità nel corpo (Senza titolo, 1997–2000), pare sia stato ispirato al Rinoceronte di Dürer, che Merz conosceva molto bene, quasi fosse una xilografia del possibile. Il plurimo è svestito fino all’indefinito, fino al punto in cui le definizioni si confondono e le tassonomie sfibrano, ma la forma sopravvive in quanto nucleo necessario alla proliferazione del complesso. Se la forma scompare la sua radice è eterna recita un’opera di Merz, ideata per l’importante retrospettiva al Solomon R. Guggenheim di New York del 1989, nell’esposizione torinese presente solo in foto.

Fig. 4 Mario Merz, Senza titolo, 1989, Mario Merz. Qualcosa che toglie il peso che mantiene l’assurdità e la leggerezza della favola, Fondazione Merz, Torino, 2024.


Dall’evento newyorkese è però ripreso l’igloo di pane (Senza titolo, 1989), riprodotto per l’occasione in collaborazione con un panificio poco lontano dalla Fondazione. L’installazione gioca con l’esercizio metamorfico del tempo e delle interazioni, lasciando che i pani si frantumino, si imbarchino, si sbriciolino, si conformino all’intelaiatura sottostante. Nella perduranza del gesto creativo, tale da rendersi autonomo addirittura dall’artista stesso, si manifesta una prassi artistica estemporanea e senza soluzione di continuità: non di rado capitava che Merz modificasse le proprie opere in fase di allestimento. In questo modo anche la messa in posa partecipava alla loro creazione. Altri due igloo, uno di pietra (Senza titolo, 2002) e uno di nylon e foglie d’oro (Senza titolo (Foglie d’oro,1997), occupano lo spazio centrale dello stanzone precedente. Queste case primordiali, di perfetta efficienza geometrica, interrogano la relazione tra lo spazio e l’energia da esso veicolata, seguendo la massima del generale rivoluzionario vietnamita Võ Nguyên Giáp, secondo cui «se il nemico si concentra perde terreno, se si disperde perde forza». L’igloo, con la sua curvatura digradante e il suo movimento espansivo, accoglie e tramuta in ventre, in volta celeste, così come il cono, che si concentra repentinamente in un unico punto, diventa una lancia capace di trapassare la superficie.

Fig. 5 Mario Merz, Senza titolo, 2002 e Senza titolo, 1997 – 2000, Mario Merz. Qualcosa che toglie il peso che mantiene l’assurdità e la leggerezza della favola, Fondazione Merz, Torino, 2024.


In questo continuo moto di compressione e decompressione del mondo, che si articola come un respiro e regola l’incessante farsi e disfarsi, prende posto anche l’uomo: non come elemento alieno ed estrinseco, bensì come parte integrante del tessuto. I lunghi tavoloni ricoperti di cera d’api (Quattro tavole in forma di foglie di magnolia, 1985) esemplificano l’interesse tanto per le relazioni umane quanto per i fenomeni naturali; nella forza evocativa del tavolo come oggetto attorno al quale si riunisce una comunanza di persone, nell’integrazione tra materiale organico e inorganico (cera d’api, carta, acciaio, barre di ferro, oggetti rinvenuti) risiede già il rapporto tra micro e macrocosmo rimarcato dal profilo fogliforme delle tavole.

Fig. 6 Mario Merz, Quattro tavole in forma di foglia di magnolia [dettaglio], 1985, Mario Merz. Qualcosa che toglie il peso che mantiene l’assurdità e la leggerezza della favola, Fondazione Merz, Torino, 2024.

I continui rimandi di forma e struttura tra le diverse opere e coloro che abitano, seppure momentaneamente, gli spazi espositivi danno vita a un ambiente laboratoriale anche nella misura in cui gli artefatti preservano la propria vitalità in fieri. Ogni monumentalizzazione viene dunque scongiurata e lo spirito con cui Mario e Marisa Merz avevano concepito il sito – mettere al centro l’arte come pratica – viene preservato. La selezione delle opere, tutte risalenti al periodo più tardo, dagli anni Ottanta in poi, non pone tanto la mostra – che riprende parzialmente quella di Nîmes del 2000 – in un’ottica di retrospettiva (sebbene non manchino, fortunatamente, momenti divulgativi), quanto traccia una traiettoria in cui il segno è costantemente invitato a farsi dialogo e viceversa, sotto l’ascendente degli studi antropologici di Claude Lévi-Strauss. Il regime del metamorfico, che riverbera anche in tinte favolistiche (Le chat qui traverse le jardin est mon docteur, 2000, che occupa un intero angolo di salone) e alchemiche/votive (L’Horizont du lumière traverse notre vertical du jour, 1995: due lambicchi, uno colmo di vino l’altro di miele, attraversati da un neon), si struttura in un percorso organico superando i semplici rapporti di causalità meccanica. Lo stesso fa, per Goethe, una pianta nel suo sviluppo: un’entelechia che si disvela in reciproche dinamiche di concentrazione (seme, calice, stami/pistillo) e distensione (foglia, corolla, frutto).

BIBLIOGRAFIA
G. CELANT, Arte povera. Storia e storie, Milano, Electa, 2011.
J.W. GOETHE, La metamorfosi delle piante, a cura di S. ZECCHI, Milano, Guanda, 1983.
J.W. GOETHE, Viaggio in Italia, trad. di E. ZANIBONI, Firenze, Sansoni, 1980.
B. KLAUSMEYER, Spirale (Spiral), Goethe-Lexicon of Philosphical Concepts, https://goethe-lexicon.pitt.edu/GL/article/view/22, ultimo accesso: 29 novembre 2024.
S. MEIXNER, Urphänomen (Original/Primordial Phenomenon), Goethe-Lexicon of Philosphical Concepts, https://goethe-lexicon.pitt.edu/GL/article/view/46, ultimo accesso: 29 novembre 2024.
M. MERZ, Voglio fare subito un libro, a cura di B. MERZ, Firenze, hopefulmonster, 1986.
Metamorphosis. The alchemists of matter. A point of view on Arte Povera, a cura di B. CORÀ e P. REPETTO, Arezzo, Magonza, 2016.
A. VETTESE, Mario Merz. Qualche questione aperta, in Arte Povera 2011, a cura di G. CELANT, Milano, Electa, 2011.

Miti di fondazione – le riscritture dei classici

Cosa sono i miti di fondazione e perché ancora oggi è importante analizzarli e riscriverli? Un mito di fondazione riguarda la genesi di un sistema sociopolitico, è la prima forma di narrazione di un’entità organizzata che celebra con il mito l’aggregazione di persone in comunità. Un tema attuale da sempre e che per sempre resterà attuale. Celebrare questi sistemi significa celebrale la nostra umanità, il nostro bisogno di relazionarci con il prossimo per il raggiungimento dei nostri obiettivi, per la necessità di uno scambio culturale ed economico. Ricordare la fondazione della città di Torino o la leggendaria Atlantide, attualizzare ciò che per secoli ha destato meraviglia nei lettori, è un passo importante per legare nuovamente i singoli individui a quel senso di comunità spesso dimenticato; significa ricordare come ricordarono gli antichi che la fondazione di questi agglomerati sociali, di queste pseudo-città, e la loro possibile caduta, sia un evento degno di diventare mito e di essere ricordato e celebrato al pari degli dei. Dobbiamo nuovamente trovare questo senso di importanza nella comunità di cui tutti facciamo parte.

a cura di Matteo Bonino e della Redazione del Blog

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“True, I Talk of Dreams”

Una fantasia shakespeariana

di

Amelio, Alessandro; Anzelini, Simone; Bertolino, Valeria; Bova, Beatrice; Bruzzese, Sara; Camosso, Cinzia; Canale, Emanuela; Cetrangolo, Anna; Cosentino, Riccardo; Costarelli, Gianluca; Cozzolino, Valentina; D’Agostino, Martina; Dalmoro, Maria Sole; Filippetti, Irene; Giraudo, Giovanni; Longo, Flavia; Penalba, Célia; Petrelli, Alberto; Portis, Monica; Raimondi, Roberto; Rizzolo, Francesca; Rossi, Lucia; Ruci, Elisabeta; Sbicego Salzotti, Nora; Settesoldi, Erica Morgana; Todisco, Sofia

(2024)

Materia del dramma: “True, I talk of dreams” è una fantasia shakespeariana in abiti moderni.
Una giovane coppia di sceneggiatori inglesi si trova in Italia, tra Padova e Verona, per scrivere un nuovo film. Mentre Wife sogna di perdersi per le stradine medievali, Husband cerca l’ispirazione rifugiandosi nella sua fantasia: il risultato è un battibecco continuo. Dalle loro fervide immaginazioni prendono vita due vicende tra loro molto simili, ma con sostanziali differenze, attraversate dai personaggi e dai versi shakespeariani.
Husband immagina un burbero regista, Guglielmo Scuotipera, impegnato nella realizzazione del dramma conclusivo della sua gloriosa carriera di regie d’avanguardia. Nel corso di questa impresa, Scuotipera è accompagnato da Kate, sua moglie e fiore all’occhiello dei suoi drammi. Kate è un’attrice sul viale del tramonto che sfugge al carattere terribile del marito rifugiandosi in una relazione clandestina con Petruccio, il primo attore.
Anche se tutti gli elementi della commedia sono al loro posto, una triste tragedia attende gli spettatori. Gelosie, rimorsi, vendette sono all’ordine del giorno in questa compagnia d’attori impegnata a mettere in scena la più epica storia d’amore mai scritta.
Wife ha, invece, una visione differente. Ascoltando la storia di Husband, la giovane autrice realizza che l’infelicità di Romeo e Giulietta non si consuma tanto sulla scena, quanto nei cuori e nelle menti dei personaggi. In questa seconda fantasia, l’imposizione sociale che confina i generi nei ruoli imposti dall’ordine costituito si riflette nel dissidio dell’interprete che deve recitare una parte. Nel film di Wife, una sola è la vittima delle circostanze: ciò che è intimo, interiore e profondo diventa talmente nemico del personaggio da spingerlo al terribile gesto.
Ancora una volta, il teatro è uno spazio della scoperta delle identità e apre le porte a quel mondo insondabile che sta tra l’essere e il non essere.

Dramatis personae
Cornice

Husband
Wife

Dramatis personae
La Sfortunata Storia di Guglielmo Scuotipera e della sua Kate

Guglielmo Scuotipera, il regista
Petruccio, attore interprete di Romeo
Kate, attrice interprete di Giulietta
Due conduttori televisivi
Nello Scandalo, inviato speciale
Quattro attori, interpreti di Benvolio, Paride e Mercuzio e La Nutrice
Francesco Pretis, attore interprete di Frate Lorenzo
Due spettatori/soccorritori
Un attore che interpreta la guardia

Dramatis personae
A Star-crossed Play

Un regista
Nik, attor* che interpreta Romeo
Leo, attore interprete di Mercuzio
Giulietta, attore interprete di Giulietta
Due spettatori
Un attore, interprete di Madonna Capuleti
Un attore, interprete di Paride
Un attore, interprete di Tebaldo
Un attore, interprete del Principe

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The Witches’ Hat. Ultima notte a Glasgow

Linda Demichelis, in questa sua riscrittura, racconta le paure di una giovane protagonista nella sua ultima notte d’Erasmus in Scozia, terra del Macbeth. Realizzato nell’ottica del corso Letterature Comparate b, Verità e coscienza. Narrativa, poesia, teatro (Prof.ssa Chiara Lombardi)

“In questo racconto, l’ultima notte d’Erasmus in Scozia di una giovane studentessa si trasforma in una piccola odissea urbana al confine fra incubo e realtà. La città di Glasgow trascina Viola in un viaggio introspettivo guidato dall’enigmatica narrazione in versi di due Weird Sisters shakespeariane alla ricerca di una nuova sorella. Poesia narrativa, prosa e teatro si fondono per dare voce alle paure più profonde di una giovane adulta divisa fra il desiderio di fermare il tempo e l’inevitabile spinta verso il futuro, in una riflessione onirica su scelte, crescita e identità”.

*

Era solo giovedì sera, ma al Doublet Bar c’era aria di festa.
Il Doublet era il pub che i tifosi del Patrick Thistle avevano adottato per la Scottish Cup di quell’anno. Non avevano alcuna possibilità di vittoria contro la capolista, ma la sala con il grande schermo esplodeva ai boati di rabbia per i rigori assegnati ingiustamente, e di sorpresa per le reti mancate, che spesso coprivano gli sforzi musicali del giovane chitarrista di turno nella sala accanto. Ma quella sera, contro ogni aspettativa, il Patrick Thistle aveva messo a segno un goal insperato, che contava tanto quanto una vittoria in piena regola.
Il Doublet era esploso in ruggiti di gioia che si erano uniti ai festeggiamenti del club universitario di teatro shakespeariano, che celebrava il successo dell’ultimo spettacolo della stagione accademica. I veterani brindavano a quello che sarebbe stato l’ultimo allestimento della loro carriera universitaria, i freshmen al primo di una lunga serie.
Viola, la sola studentessa internazionale del gruppo, festeggiava l’unico.
Solo qualche ora prima era stata una Weird Sister sul palcoscenico del Cottiers, uno dei teatri più frequentati della città. Poche ore più tardi avrebbe dovuto imbarcarsi sul volo per tornare a casa, poco meno di un anno dopo essere atterrata a Glasgow.
«Viola! Viola, come closer! I loved you on stage tonight, girl! How would you say in Italian tomorrow, and tomorrow, and tomorrow?» urlò Steph.
«I think it would be something like domani, e domani, e domani». Steph annuì ridendo, fingendo di aver sentito.

Domani.

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Oltre la follia

Anita Mercatili, in questo brano teatrale, riscrive l’ Amleto di Shakespeare ambientandolo in un contesto contemporaneo all’interno di una seduta di psicoanalisi, che si colloca nel momento in cui Amleto si trova in uno stato di immobilità d’azione, in bilico tra l’agire per vendicare il padre o meno; realizzato nell’ottica del corso di Letterature comparate, Le forme del sonetto: da Petrarca a Shakespeare (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“In questa mia riscrittura ho voluto far spiegare da Amleto stesso la sua follia e le ragioni che stanno alla sua base. Un Amleto moderno che si lascia analizzare in una seduta psicoanalitica, e che riporta i suoi monologhi sotto forma di flusso di pensiero e di racconto di un sogno rivelatore delle sue emozioni. 

*

Studio dell’analista.

Amleto suona il campanello. L’analista apre la porta invitandolo con un gesto ad entrare. Amleto entra nello studio con passo svelto, lo sguardo perso. Si siede di fronte alla scrivania.


AMLETO: Ho fatto un sogno questa notte dottore, un sogno strano, di quelli che la mattina fan rivoltare gli intestini, intendo.

PSICOANALISTA: Vuole raccontarmelo?

AMLETO: Certo, sì… Ero nella mia vecchia casa d’infanzia, non so se gliene ho mai parlato.
Era una bella casa, quella, non come questa di ora dove ogni oggetto sembra rovesciato, al posto sbagliato, quasi tradisca la posizione che gli era desinata.
Insomma, quella sì che era bella ecco, luminosa, profumata dai gigli in fiore in primavera e scaldata dal camino in inverno, candida nei colori, satura di voci.
Ero solo in salotto, mia madre mi chiamava dalla sua camera chiedendomi di aiutarla a rifare il letto.

PSICOANALISTA: Ha idea di quanti anni avesse lei nel sogno?

AMLETO: Non so, credo avessi l’età di ora. Sentivo quasi che quello in cui stavo vivendo fosse semplicemente un mondo possibile, un modo diverso in cui potevano stare le cose ecco.

PSICOANALISTA: (Prende nota su un quaderno) Prego, continui pure.

AMLETO: Insomma, salgo le scale per raggiungere mia madre, la aiuto a mettere il coprimaterasso, le lenzuola, la coperta estiva e le federe. Pieghiamo i pigiami da riporre sotto i cuscini, io quello di papà, lei il suo.
Accade, però, che io mi addormenti a terra una volta finito il lavoro e che mia madre mi lasci lì a riposare.

PSICOANALISTA: Mi perdoni la domanda, ma come mai a terra?

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