Tutti gli articoli di Valentina Monateri

Lost long, forever found

Irene Filippetti, in questa composizione, riunisce Sigismondo, Riccardo III e Tamerlano il Grande, facendoli dialogare nell’ottica del corso di Letterature Comparate, Storia e potere nella prima età moderna (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“In questa riscrittura ho voluto riflettere sul ruolo del potere nella vita degli uomini. La vicenda, narrata in tono fiabesco, invita il lettore in un mondo fittizio dominato da regole semplici e categoriche, che vengono messe in discussione dall’inaspettata comparsa di un nuovo personaggio”.

*

C’era una volta un piccolo pezzo di terra, che per taluni non significava nulla, ma per altri significava il mondo intero. Sin dall’antichità, il pezzo di terra era diviso in tre e affidato a tre diversi regnanti. Di mattina, il sole sorgeva nel Regno di Riccardo, poi attraversava il Regno di Tamerlano, e infine calava nel Regno di Sigismondo. Nonostante vivessero tutti sotto lo stesso cielo e sullo stesso palcoscenico, le differenze che intercorrevano tra di loro erano come quelle tra un giglio e una rosa: appartenevano alla stessa specie, ma mai nessuno avrebbe potuto confondere l’uno con l’altro, neanche per sbaglio.
Riccardo era un regnante ossessivo e ombroso, Tamerlano era seducente ma brutale, infine Sigismondo trasognato e selvatico.
In vita loro, i tre re non si erano mai visti in faccia. Una regola soprassedeva ciascun governo: nessuna contaminazione tra i popoli era concessa. Il pezzo di terra era piccolo abbastanza da permettere che, se i cittadini dei tre regni si fossero messi in fila, il primo avrebbe potuto stringere la mano dell’ultimo senza doversi neppure allungare, e tutti insieme avrebbero potuto fare un bel girotondo. Nonostante ciò, qualsiasi fraternizzazione veniva punita, più o meno spietatamente in base alla giurisdizione di appartenenza.
Ogni giorno, degli ambasciatori tecnici andavano con squadre e righelli a misurare i confini tracciati sul suolo. La pace era minacciata da ogni ago di abete perché, se anche un solo ramo di un albero nemico cresceva al di là di un centimetro, ecco che si urlava all’invasione.
Un giorno arrivò una straniera. Aveva fattezze che, in quel pezzo di terra, non si erano mai viste prima. Non conosceva le usanze locali e travalicava i confini come fosse normale. La sua esistenza creava un grande scompiglio, se non altro perché non si capiva cosa di preciso fosse venuta lì a fare. Mangiava melograni a morsi e si lucidava le scarpe a suon di sputi; sembrava soltanto godersi i paesaggi e ascoltare le storie dei più vecchi abitanti. Questo non aveva il minimo senso, perché notoriamente i tre regni non possedevano bellezze paesaggistiche né culture affermate. Un simile bizzarro comportamento non poteva restare inosservato. La straniera non recava alcun danno o disagio, eppure tutti e tre i re, simultaneamente, la chiamarono a udienza.
Poiché nessuno voleva cederla di un minuto all’altro, avvenne un fatto epocale: i tre re si riunirono assieme per poter interrogare la straniera.
Appositamente per l’udienza, venne costruito in quattro e quattr’otto un palazzo ai piedi della montagna, ch’era punto nevralgico del territorio: il luogo preciso in cui tutti i regni convergevano. Il palazzo era sontuoso e splendente. Tappeti delle più pregiate fatture vennero srotolati per i nobili calzari di Riccardo, Tamerlano e Sigismondo, araldi vennero innalzati e cori annunciarono il grande evento.
La straniera si presentò nell’unico abito sgualcito che sembrava possedere.
I tre re cominciarono con la stessa identica, tuonante domanda: “Perché sei qui?”.
Lei si era resa conto della situazione ed ebbe voglia di trarne piacere. Inventò una bella storiella per metterli alla prova. “Vengo da un paese molto lontano”, disse, “E ho viaggiato fin qui perché ho saputo dell’immenso tesoro che custodite.”
“Che tesoro?”
“Come, che tesoro! Il chicco di riso.”
“Il chicco di riso?”
“Il chicco di riso.”
L’immensa sala si riempì di chiacchiericci.
Riccardo simulò un colpo di tosse, così tornò il silenzio.
La incalzò: “Di cosa parli, straniera?”.
La straniera rispose con tono ovvio, “Il chicco di riso che sta proprio sul cucuzzolo della montagna. So che, se ingoiato, dona forza e ricchezza infinite. Per questo mi sono messa in viaggio, non senza spavento.”
I re erano attoniti, ma non potevano di certo svelare che non ne sapevano nulla. Finsero di conoscere perfettamente il chicco prodigioso. E poiché i re fingevano, anche il popolo finse, per non esser da meno. L’udienza terminò poco dopo.
Quella notte stessa, tutti e tre i re cominciarono ad arrampicarsi per la montagna in gran segreto.
Nonostante la penombra gettata dal cielo, si riconobbero nell’oscurità.
Com’era prevedibile, pur continuando a scalare, presero a insultarsi e ad aizzarsi nell’orgoglio.
“Ah! Che ci fa qui il potente Tamerlano? Si reputa forse carente in forza e ricchezza?”
“Voglio solo assicurarmi che forza e ricchezza non finiscano nella bocca di chi non saprebbe masticarle.”
“La tua bocca serve soltanto alla tua arroganza; mai ne uscì qualcosa di saggio.”
“Almeno non ne abuso per dire sempre qualcosa di sciocco, Sigismondo; e in quanto a Riccardo, può soltanto ringraziare che almeno la bocca non gli sia nata storta.”
Mentre procedevano a mani nude sulle rocce, calò il silenzio. I tre re erano nemici, certo, e provavano una sadica gioia nel potersi finalmente insultare in pieno viso. Tuttavia, non lo si poteva negare, sui loro animi gravava l’udienza di quel giorno e tutto lo scompiglio che la straniera aveva versato sui regni, viscoso come pece ma brillante come miele. Com’era possibile che non fossero a conoscenza del chicco di riso? Chissà perché, a nessuno venne in mente che potesse trattarsi di un inganno. Forse perché ci troviamo dietro il sipario delle fiabe.
“Il fatto che siate qui con me stanotte”, disse d’un tratto Riccardo, “svela il mio stesso svantaggio. Anche voi avete scoperto oggi del chicco di riso.”
Sigismondo digrignò i denti, ma dovette ammettere, “È così. A cosa serve aver deciso anch’io di studiare le stelle, se non mi accorgo di ciò che sta sulla terra?”.
“Non ti crucciare a tal modo”, chi avrebbe mai indovinato che la voce di Tamerlano potesse rivelarsi quasi gentile? “Neppure io, col mio ingegno, me ne sono accorto. E nessuno dei miei sudditi ha mai pensato di dirmelo! Domani dovrò tagliar loro la testa, uno a uno.”
Ora succedeva qualcosa di straordinario: provavano pena l’uno per l’altro, perché soltanto loro in tutto il mondo potevano capirsi a vicenda. In questa distorta empatia nacque il germoglio della comprensione. Forse non erano così diversi come credevano di essere. Tutti loro conoscevano gli affanni della corona tanto quanto i godimenti della stessa. Quella notte gli scettri pesavano più che mai, e che altra soluzione avevano se non di sorreggersi a vicenda?
Faticarono per ore e ore. Alla fine, però, raggiunsero la cima della montagna. Vi misero piede all’unisono.
Dove poteva essere il chicco di riso, in mezzo a tutta quell’erba incolta? Ma prima di mettersi in cerca— qualcosa di magnifico fermò i loro passi e mutò i loro cuori. Era l’alba.
Il sole sorgeva dalle colline circostanti, indorando il mondo di colori che non avevano mai visto prima. Com’era vasto il loro piccolo pezzo di terra, da lassù! Com’era vasto e com’era bello! La brina sembrava cipria sparsa sui volti dei sassi, le pianure brillavano di piante e frutti dai sapori indimenticabili, le strade deserte parevano un disegno fatto a matita da Dio. E quelle vaghe, poche sagome di pescatori o fornai che già si accingevano al lavoro, com’erano amabili! I re pensarono a loro, a tutti gli abitanti che ancora dormivano sotto le coperte, a chi stava facendo colazione, a chi andava a mungere mucche. Sentirono i propri cuori intiepidirsi, e per un attimo capirono la straniera: capirono perché non faceva altro che guardare il paesaggio e interrogare gli anziani. Da lassù, era impossibile distinguere dove cominciasse un regno e dove finisse l’altro.
Si sorrisero, forse si abbracciarono, sedettero a lungo. Si scambiarono parole buone e sincere. Si vollero bene.
Nonostante questo, quando il cielo imbrunì e sui loro cuori tornò la tenebra, sguainarono le spade e finirono comunque per uccidersi a vicenda – per un chicco di riso che neppure esisteva. Perché tale è la natura dell’uomo.
I loro corpi vennero recuperati e sepolti con grande prestigio. Ciascuno dei loro figli venne eletto nuovo re, e i figli continuarono a odiarsi come fecero i padri, senza sapere che per un momento erano stati fratelli.

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Banchetto

Luisa Carolina Stella, in questo testo a metà tra narrativa e monologo teatrale, riscrive Romeo e Giulietta reinterpretando i ruoli dei personaggi, sopra tutti quello di Giulietta, che viene eletta a rappresentante della tragedia beckettiana, nell’ottica del corso di Letterature comparate, Shakespeare e il paesaggio culturale italiano (Prof.ssa Chiara Lombardi).

 “Romeo, oggi sopravviviamo in un altro tempo, in un luogo che poco somiglia alla nostra Verona. E non si è più soltanto noi perché si gioca un’altra partita. Ohnon chiedere “cosa?” , abbi un po’ di pazienza. Siamo simboli al cospetto di un altro dio, un dio che invecchia, ma che, ancora, non muore.”

*

We’re not beginning to… to … mean something?

S. Beckett, Endgame, Faber&Faber, 2012, p. 54

L’erba cresciuta tra le fessure delle piastrelle del peristilio accarezzò i suoi teneri piedi scalzi. Il suo vestito immacolato danzava con i frammenti sconnessi del selciato.
La struttura trasandava sotto il peso dei secoli, ma protetta com’era dal debole sole del tramonto, sperava di nascondere alla bene e meglio lo squallore a cui il padrone di casa l’aveva ridotta. Crepe profonde nelle pareti circostanti, tegole in frantumi tra l’erbaccia e le travi, di quel che un tempo era stato il tetto, ora ronfavano, implose su se stesse, tra i calcinacci.
Ma gli occhi di Giulietta brillavano. Percorreva in punta di piedi il perimetro del cortile, attenta a non guastare il precarissimo equilibrio delle cose. Era una danza la sua, piuttosto traballante, a ritmo di una musica che sembrava raggiungerla da un altro tempo, ridotta a un’eco di dolci note di cetra. Con la leggerezza che tutta l’umanità invidia alle ragazzine, ballava con le colonne: le braccia protese, prima una e poi l’altra, stringevano i marmi eterni, come se mai più avessero dovuto lasciarli; poi, di lì a un secondo, li abbandonavano, per liberarsi e proseguire, di marmo in marmo, il colonnato. Lo sguardo di Giulietta, intanto, si posava su ogni cosa, frugava dappertutto, forse alla ricerca del luogo da cui provenisse quella musica.
A metà del colonnato, la sua attenzione venne catturata da un baluginio al centro del cortile. Interruppe la sua danza, s’arrestò con le braccia avvinghiate ai marmi. Rimase così, per qualche istante, quasi a ponderare l’idea d’avvicinarsi o di rimanere cautamente dove già si trovava, o addirittura, d’andarsene.
Ma non aveva scelta. Oltrepassò le sue colonne d’Ercole e s’avviò verso la luce.

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Prodigio è tutto il mondo

Stefano Pellegrin, in questa sua composizione, riscrive l’opera teatrale La vida es sueño di Calderón de la Barca in una dimensione più intimista, onirica e psicologica, traendo ispirazione dagli spunti pre-esistenzialisti che già emergono nel testo, nell’ottica del corso di Letterature comparate, Storia e potere nella prima età moderna (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“In questa mia riscrittura, ho voluto attingere, da una parte, alla riflessione filosofica sulle dicotomie ‘destino/libero arbitrio’ e ‘realtà/sogno’, già sviluppata da Calderón de la Barca; dall’altra, agli aspetti del testo che sono stati individuati come precursori dell’esistenzialismo novecentesco, legando il concetto di ‘libertà’ a quello di ‘scelta’ e di ‘angoscia’. Ho cercato di creare una sorta di allegoria, in cui l’uomo moderno è diviso tra libertà, da un lato, e, dall’altro, immobilità e solitudine, che vede come unico esito, sia in quanto consolazione, sia in quanto constatazione negativa, l’equazione tra la realtà e il sogno”.

*

Questa mattina la feritoia della porta è scivolata di qualche centimetro a sinistra, e dalla fessura una lettera è caduta a terra. Poi, con uno scatto, la feritoia si è richiusa. Mi sono chinato per raccogliere il foglio, ho spezzato il sigillo in ceralacca. La frattura lo ha diviso in due metà esatte: da una parte il rilievo possente della spada, dall’altra l’aquila in volo che la regge nel becco.
Più volte mi sono chiesto perché si ostini ad apporre il proprio sigillo sulle lettere che mi invia; il cui viaggio, lo sa bene, non dura che qualche metro. Abitiamo ad appena due celle di distanza. Ma forse, ripensandoci, crede che la regalità sia cosa troppo seria per soprassedere alle piccole accortezze che pure possono sembrare futili, nella nostra condizione. La sua regalità è diventata, credo, più matura, più radicata: ha acquisito nuovi connotati. La regalità è diventata realtà.
Ho aperto il foglio di pergamena; la calligrafia era ben riconoscibile: corsiva e arcuata, ma lineare. La sua è una scrittura maestosa e regolare come, penso, le onde che travolgono la riva. Come sempre, v’erano tracciate strane linee, ellissi e forme geometriche, ai cui vertici, ricalcati con la penna, erano assegnati i nomi dei pianeti e delle stelle: in alto Venere, appena sopra Saturno, poi Sirio. Una buona prima metà della lettera era occupata da simili disegni astrali, con figure sovrapposte una sull’altra, minuscoli caratteri resi illeggibili dall’accumulo di segni. Continuava sotto:


Sigismondo caro,
figliolo prediletto, principe lodevole, porto alla tua attenzione le recenti informazioni di cui la più minuziosa interrogazione degli astri ha voluto rendermi edotto. Come sai, nulla, nemmeno la potenza terrena di un Re, per quanto grande e soverchiante, può opporsi alle leggi del cielo. La mia interpretazione è doppia: si divide tra la gaiezza e la preoccupazione. Necessito del tuo aiuto per dirimerla.
La congiunzione di Saturno e Giove, che ho cercato qui di raffigurarti, non altro può significare che una crescente rettitudine, unita a una prosperità gioiosa. Saturno è l’architetto celeste: gli ostacoli che costruisce possono mutarsi in eterni edifici del potere. I cieli sembrano annunciare un periodo di maturazione: per me, in qualità di monarca; per te, Sigismondo, in qualità di uomo. Il regno, quel regno che un giorno sarà tuo, è destinato a crescere, e tu, figlio mio, farai esperienza di qualcosa di meraviglioso, di qualche cosa che mai hai avuto occasione di conoscere: tanto più chiara diventa tale previsione quanto più osservi l’abbraccio che avvicina Venere e Mercurio.
Eppure, Marte pare essersi risvegliato. Aiutami, Sigismondo, a comprendere cosa gli altri stiano cercando di dirmi: forse che, dopo l’abbondanza, siamo chiamati a lottare per salvaguardarla? Pensi che si profili una guerra all’orizzonte? Come sai, gli astri si esprimono soltanto in linguaggi sibillini. Quel che è certo, a questo punto, è che alla gioia si sostituirà, prima o poi, un periodo di conflitto, un’aspra battaglia da combattere, un odio prima ignorato, forse, ma, in ogni caso, un’avversità che diverrà schiacciante.
Una simile lettura, non ti mentirò, mi ha alquanto messo all’erta. Anche Urano prominente, osservalo, porta aria di rivoluzione. Dobbiamo forse aspettarci una guerra civile, una rivolta? Temo di aver commesso qualche errore nella mia lettura. Come possono insieme manifestarsi la gioia ridente e la mortifera rivoluzione?
E sono genuinamente confuso sulle cause di tali rivolgimenti: i sudditi mi acclamano, mi venerano, quasi quanto io venero i sudditi. L’amore reciproco è la prima regola del regno, come ho sempre tentato di insegnarti. Sono curioso di sapere la tua interpretazione di queste ambiguità. Ho già richiamato a corte una manciata di battaglioni che avevo spedito ai confini. Un vago istinto, che mi trattengo dal contraddire, mi suggerisce che, se succederà qualcosa, non procederà dall’esterno, ma che piuttosto, come una piaga virulenta, nascerà nel cuore.
Caro Sigismondo, aspetto tue. Tuo padre, Basilio.


Ho letto queste righe seduto allo scrittoio, con la fronte corrucciata, indeciso se vergare una risposta. Poi ho abbandonato il foglio sul piano di quercia, e ho deciso che no, oggi non avrei dato risposta alcuna. Le divagazioni astrali iniziano a stufarmi. Eppure, attraverso le centinaia di lettere che mi sono giunte negli ultimi mesi, in me è emersa una grezza consapevolezza, una lettura che non è delle stelle, ma dell’anima. Dolorosa scoperta è stato intendere che il Re, Basilio, mio padre, chiunque quest’uomo sia, sia un malato. La mania l’ha divorato, la pazzia ne ha colonizzato le vene, la mente è offuscata da gloriosi sogni fantastici. Mio padre è in preda al delirio, è schiavo di un’allucinazione progressiva. E dove siamo? Forse siamo in un ospedale? Mai ho conosciuto il mondo al di fuori della mia cella, mai ho saputo se un mondo ci fosse. Ospedale, prigione, mondo intero, poco cambia: siamo confinati. Gli astri possono forse sorreggere l’anima, l’anelito alla regalità si profila all’orizzonte come l’uscita da un tunnel oscuro e incomprensibile, scavato all’interno di una vita che rimane immota. E mi domando spesso quale sia la fine del mio tunnel, se una fine esiste.


La notte, quando non mi riesce d’assopirmi, batto sull’acciaio della porta, nella speranza che qualcun m’oda, venga a discorrere con me. L’unica voce che abbia sentito è quella del mio carceriere. Solamente un’occasione ho avuto per udirla, lontana nel tempo, sepolta nei ricordi d’una vita che non è stata altro che ricordi. La mia cella è grande, circolare; la torre è molto alta. Le pareti sono ruvide, di pietra, abbastanza spesse. Oltre allo scrittoio, c’è un letto, un paio di mobili, poco altro. Non ci sono specchi, ma c’è una finestra, che, posta parecchi metri sopra il baldacchino, filtra quel poco di luce del giorno che riesco a vedere. Nel centro del pavimento la porta di una botola, sigillata da un lucchetto massiccio, conduce in qualche luogo che mi è ignoto. Quel luogo proibito mi ha, negli anni, suscitato molte riflessioni, e domande innumerevoli. L’ipotesi che più convince è che apriranno la botola solamente quando avrò lasciato questo mondo, mi interreranno per lasciare spazio a qualcun altro; se mi butteranno lì una volta morto, non sarà poi tanto diverso da quando, in vita, mi costrinsero qui dentro.
Non ho ricordi al di fuori di questa stanza; anima morta o cadavere vivente, quel che volete, questo sono. Abito il silenzio dei giorni e l’ombra delle notti. Quella notte fatale in cui battevo contro la porta, in cui le mie mani divenivano strumenti di dolore, s’abbattevano come la scure sulla nuca del condannato; qualcuno mi rispose. Il carceriere, il mio carceriere. Lo supplicai di parlare con qualcuno, che mi fosse permesso almeno di scambiare una parola. Anche quella volta, con uno stridio la feritoia era scattata; e nelle tenebre lui mi accontentò:
– La parola è attributo dell’uomo libero. La parola è privilegio che né a te, né ad alcuno può essere concesso.
– Chi sei, mio carceriere? Qual è il tuo nome? Eccomi, sono qui. Guardami. Liberami. Sono pronto per la vita.
In quel momento avanzava sulla finestrella della porta un raggio candido di luna. Gli occhi neri e il naso diritto apparvero e scomparvero come un fulmine sinistro. Prima che con un nuovo scatto si sigillasse l’apertura, la voce dura come il marmo concludeva:
– Quale vita? Questa è la tua vita.
Ed io, sulle note solitarie della luna, intonavo il mio lamento prigioniero, graffiando il muro con le unghie:

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Ri-scrivere il mito per l’infanzia

All’interno del Progetto di Terza Missione dell’Università degli Studi di Torino ‘Miti di Fondazione’ sono stati organizzati alcuni laboratori per le scuole di ogni ordine e grado. Nonostante la solo apparente “oscurità” dei racconti, i miti sono entrati anche nelle scuole dell’infanzia grazie a una serie di attività didattiche promosse dal Progetto.
Miti di fondazione

In collaborazione con il Progetto, il Blog ha lanciato una flash call for Short Narrative & Poetry dedicata a riscritture per l’infanzia del mito di Piramo e Tisbe nella sua versione ovidiana e del più oscuro mito di Erittonio, mito fondativo della città di Atene.

Di seguito i testi selezionati dalla Redazione.
Complimenti a tutte e tutti coloro che hanno partecipato!

Ri-scrivere Piramo e Tisbe

Piramo e Tisbe son nomi un po’ strani,
ma questo è un mito di tempi lontani!
Questa è una storia di secoli fa
Successa molto lontano da qua.
C’era una coppia di innamorati
Dalle loro famiglie ostacolati.
Le loro due case eran proprio attaccate,
Ma le prove d’amore eran tutte vietate…

“Piramo, ascolta i tuoi genitori!
A quella Tisbe non puoi dare fiori!”
“Tisbe, ascolta mamma e papà!
Dimentica Piramo o non esci di qua!”
Ma i giovani, si sa, sanno essere cocciuti
E di fronte all’ingiustizia non stanno fermi e muti!
Facevano, infatti, chiacchiere segrete
Attraverso un buchetto in una parete!
Immaginavano insieme una vita futura
Parlando di nascosto da quella fessura.

Un giorno Tisbe disse: “Ti propongo una cosa.”
“Dimmi, mia cara, con la tua voce armoniosa!”
“Ascoltami bene, per fuggire ho un piano!”
“Che bello! Finalmente potremo tenerci per mano!”
“Prima esco io, poi esci tu.
Ci troviamo al gelso e non ci lasciamo più.”
Piramo accettò senza pensarci:
“Questa notte io e Tisbe potremo abbracciarci!”

Così, a notte fonda, la fanciulla se ne uscì
Per andare all’albero di gelso e poi incontrarsi lì.
Fuori era buio, del buio più nero.
“Ci sarà presto anche Piramo, o almeno lo spero!”
Ad ogni passetto sentiva “crick crack” di rami spezzati,
Sentiva “auuuuu”, lontani ululati,
Sentiva “squit squit”, dei topi la voce,
Sentiva “ROAR!”, una bestia feroce!

A Tisbe scomparve tutto il coraggio.
Di lei una leonessa voleva un assaggio!
“Aiuto aiuto! Una leonessa!”
Gridava Tisbe come un’ossessa.
“Roar roar! Una ragazza!”
Ruggiva la belva come una pazza.
Per lo spavento, così su due piedi,
Tisbe pensò a cento rimedi,
ma ciò che fece sul più bello
fu lanciarle sul muso il mantello!
La leonessa, con le fauci spalancate,
si trovò a masticare delle stoffe pregiate.
“Puah!” sputò il mantello roteando la coda,
“Non mangio vestiti ormai fuori moda!”
Intanto Tisbe era scappata lontano,
mentre Piramo, invece, seguiva il suo piano.

Fuori era buio, del buio più nero.
“Tisbe sarà arrivata, o almeno lo spero!”
Vide rami, lupi, topi, uccelli
E, all’improvviso, un mantello a brandelli!
“Aiuto aiuto!” gridò disperato
“che triste destino mi è capitato!
Tisbe, sotto questa luna piena
Sei diventata di una belva la cena!”
Ai piedi del gelso piangeva a dirotto
Bagnando il mantello che stava lì sotto.

Quand’ecco, all’improvviso,
Spuntò il tanto amato viso!
Tisbe disse: “Piramo, scusami il ritardo!
Sono dovuta scappare da una specie di ghepardo!”
I due si abbracciarono tutti contenti
E si raccontarono i recenti spaventi.
Piramo, allora, con gesto galante,
Volle dei fiori donarle all’istante
E i frutti del gelso, raccolti in un mazzo,
divennero rossi per l’imbarazzo.
Da quel giorno, per ricordare il loro amore
Le bacche del gelso son di questo colore.
Non so se sia andata davvero così,
ma per oggi è tutto, fermiamoci qui!

Filippo Pittavino

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Classici vivi

Dialoghi sull’antico contemporaneo

Un incontro al mese da febbraio a marzo 2025 per sentir dialogare studiose e studiose, registi, attrici e attori sullo studio dei classici, la loro ricezione e la loro messa in scena!

Al Circolo dei lettori (Via Bogino 9 – Torino) alle ore 18:30

19/02 Riscrivere Virgilio – Antonio Ziosi e Simone Derai

14/03 Le tante vite di Tiresia – Emilia Di Rocco e Alessandro Fabrizi

11/04 Dioniso, le Baccanti e il teatro – Massimo Fusillo e Maria Luisa Abate

16/05 Omero tra le sbarre – Silvia Romani e Tommaso Spazzini Villa

a cura di Salvatore Renna, Fulvio Vallana, Federica Bessone e Chiara Lombardi