Tutti gli articoli di Valentina Monateri

Il mito ne «La morte a Venezia» di Thomas Mann.

Tra classico e primitivo

di Filippo Medeot

Nel giugno 1930, sul sesto numero di quell’anno della rivista letteraria «Die neue Rundschau» compare uno scritto di Thomas Mann dal titolo Lebensabriß, un saggio autobiografico in cui lo scrittore, recentemente insignito del premio Nobel, ripercorre la propria carriera. Durante un ritiro di tre settimane a Davos, in Svizzera – terapeutico per la moglie che soffriva di una infiammazione polmonare – nel 1912, Mann abbozza un breve racconto, poi evolutosi ne La montagna incantata. Questo, racconta, avrebbe dovuto essere un interludio alle Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull e avrebbe dovuto prendere le forme di un «dramma satiresco» rispetto alla «tragedia dell’avvilimento» [1] appena conclusa. La «tragedia» in questione è La morte a Venezia, scritta a partire da un soggiorno al Lido di Venezia nel maggio 1911. Il termine scelto, «tragedia», assume implicazioni di maggior rilievo se riferito non solo al contenuto dell’opera, che si apre con la descrizione dei successi di un uomo illustre e rispettato e si conclude con la morte di questo, ma all’intero impianto di essa.
La critica ha avanzato più volte l’ipotesi di una stesura su modello de Le Baccanti di Euripide [2]. Sia Penteo che Aschenbach, rappresentanti dell’ordine e del decoro, entrambi campioni della morale, si abbandonano, dopo una strenua quanto inutile resistenza, all’esperienza estatica che li porterà all’annichilimento [3]. In questo senso, non sarebbe casuale la divisione in cinque capitoli, corrispondenti ai cinque atti della tragedia classica [4]. Un riferimento diretto all’opera euripidea si riscontra certamente nel sogno che von Aschenbach fa verso la fine del racconto, quando ormai il corpo e la mente sono debilitati dalla malattia e dall’infatuazione. Una turma di invasati – donne vestite di pelli, con serpi tra i seni e tamburi a sonagli e fiaccole tra le mani, uomini ricoperti di pellicce e con corna sul capo, piatti bronzei e timpani, giovinetti che imbracciano bastoni inghirlandati, seguiti da arieti al fianco – discende le cime boscose, materializzazione del “dio straniero”. Il corteo bacchico si trasforma in una falloforia e si conclude con il dilaniamento degli ovini e un’orgia. Gustav Aschenbach, come Penteo, inizialmente assiste terrorizzato, per poi cedere allo sregolamento dei sensi e unirsi agli ossessi:


E il dormiente era ormai con essi, in essi, asservito nel sogno al dio straniero. Anzi essi erano lui, quando si gettarono sulle bestie dilaniando e uccidendo, e ingoiarono lembi fumanti di carne, quando sul terreno sconvolto incominciarono orribili congiungimenti in onore del dio. E la sua anima conobbe il gusto della lussuria e la follia della perdizione. [5]


Pochi giorni dopo l’incubo Aschenbach perirà riverso sul lettino dal quale, come tutte le mattine, ammirava Tadzio aggirarsi per la spiaggia. La resa alle blandizie dei sensi, al “dio straniero”, Dioniso, equivale, per il protagonista del racconto di Mann come per Penteo, alla morte. L’utilizzo diretto de Le Baccanti come ispirazione per l’impostazione dell’opera è argomento dibattuto, non avendo Mann lasciato traccia negli appunti di una lettura di prima mano della tragedia – diversamente da quanto aveva fatto, per esempio, con l’Odissea – e molti critici hanno imputato la presenza dell’elemento dionisiaco alla generale conoscenza classica che imperniava il retroterra culturale dell’autore e alla lettura di testi quali de La nascita della tragedia di Nietzsche, La storia della civiltà greca di Burckhardt e Psiche. Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci di Rohde [6]. Gli elementi dionisiaci, infatti, rimandano con ogni probabilità al saggio di Rohde, mentre il transito dall’apollineo al dionisiaco in quanto soggetto del racconto si deve all’influenza nietzschiana.
Il sogno di Aschenbach, comunque sia, rappresenta l’apice del carattere dionisiaco della novella, e viene anticipato già all’inizio dalla visione della tigre acquattata tra i bambù nella giunga primitiva e paludosa, che fa scaturire nello scrittore la smania di viaggiare a sud. Se la giungla umida e acquitrinosa prefigura Venezia e il colera che lì imperverserà, venuto «dalle caldi paludi del delta del Gange», «dove solo la tigre s’appiatta in mezzo alle macchie di bambù» [7], la tigre è tradizionalmente uno degli animali legati a Dioniso [8]. Allo stesso modo, nella morte del protagonista colera e sregolamento dei sensi si sovrappongono e si confondono quali cause del decesso. Questa traccia dionisiaca risulta di grande interesse se posta nel contesto culturale dell’Europa del primo Novecento. Come illustrato da Fabio Dei in James G. Frazer e la cultura del Novecento. Antropologia, psicoanalisi, letteratura, il saggio di Frazer Il ramo d’oro aveva aperto una frattura irreparabile nella visione classica dell’uomo, del mito e dell’antichità, suggestionando profondamente i giovani autori di inizio secolo. Il mondo aveva scoperto che la civiltà e la morale non sono altro che una sottile superficie sotto alla quale ribolle il magma caotico delle origini; esso non solo sopravvive ma continua a manifestarsi attraverso le intercapedini della società moderna, attraverso le credenze, i riti, le mitologie, e, poi con Freud, lettore ed estimatore di Frazer (Totem e tabù è esplicitamente ispirato a Totemism and Exogamy), i sogni, le psicopatologie, i motti di spirito. Infine, con Jung queste sopravvivenze primitive e ctonie emerse si strutturano non più solo individualmente, nell’inconscio, ma anche collettivamente, in un “inconscio collettivo” costituito da archetipi, «veri e propri serbatoi di contenuti simbolici» [9] che puntellano l’immaginario umano. Lo studio frazeriano eserciterà grande influsso, specialmente sugli scrittori di area anglosassone, quali Joseph Conrad, Yeats, e in particolar modo sui modernisti – T.S. Eliot e Joyce su tutti -, la cui esperienza del primo conflitto mondiale aveva dimostrato quanto sottile e fragile fosse la crosta della civiltà e quanto profondo e oscuro l’abisso sottostante. Nel 1922 escono sia La terra desolata e Ulisse, sia l’edizione abbreviata del Ramo d’oro, quella che sancirà la definitiva fama del lavoro dell’antropologo inglese. Ma come dimostra il caso di Cuore di tenebra, pubblicato nel 1899, già la prima edizione del 1890 era penetrata nella cultura letteraria dell’epoca. La morte a Venezia viene concepito nel 1911 ed edito nel 1913, mentre l’editio maior in dodici volumi del Ramo d’oro stava venendo pubblicata e la Grande Guerra era ancora un paio di anni di là a venire. È difficile sostenere un’influenza diretta di Frazer su Mann, dato che non ci sono testimonianze di una conoscenza diretta e approfondita, seppure sia improbabile che lo scrittore tedesco non avesse conoscenza di Frazer e dei suoi studi. Sappiamo che Mann tenne un lungo epistolario con Kàrol Kerényi, ma a partire dal 1934 [10]; allo stesso modo conobbe e apprezzò l’opera di Freud solo a partire dal periodo di Giuseppe e i suoi fratelli, mentre riteneva Jung un «rinnegato» [11].
Nonostante ciò, Eleazar Meletinskij, mettendo a confronto Mann e Joyce, afferma che questi «si servono senza dubbio dei lavori di Frazer e della sua interpretazione magico-rituale della cultura antica» [12]. D’altro canto rimarca le profonde differenze che dividono il tedesco dai modernisti, a partire dalle tradizioni culturali attraverso le quali rileggono il mito. Mann attinge a piene mani, come è facile intuire, dalla cultura tedesca, in particolare dalla triade Schopenhauer-Wagner-Nietzsche [13]. Alla luce di ciò, a differenza dei modernisti, per Mann, così come per gli scrittori latino-americani e africani della seconda metà del Novecento, «le tradizioni mitologiche costituiscono anche oggi l’humus della coscienza nazionale». Per essi il mito ha ancora un ruolo affermativo «della forza della vita e delle tradizioni nazionali» e sebbene comporti un allontanamento dal piano storico-sociale, esso «continua a vivere accanto a quello mitologico in particolari condizioni di “complementarità”». Per questo, continua Meletinskij, il romanzo in Mann non si sarebbe del tutto distaccato dalla forma classica del romanzo realista, come in Joyce, ma l’avrebbe solo modificata, preservando un piano storico-oggettivo nella narrazione, che sopravvive agli «slittamenti temporali e alle immersioni nelle profondità extra storiche dell’inconscio» [15]. Mann, contrariamente ai modernisti, limita il passaggio dal piano storico a quello simbolico e contiene i sogni e le visioni nei confini della coscienza soggettiva dei personaggi. Le alterazioni del romanzo realista attuate da Mann sono figlie degli sconvolgimenti del romanticismo tedesco, il quale, a differenza delle tradizioni più classiciste, supera l’utilizzo delle figure mitologiche come pure convenzioni del linguaggio poetico, valorizzando il fantastico e creando «un’atmosfera misteriosa, bizzarra, prodigiosa e trascendente che viene contrapposta alla realtà» [16]. Queste fantasie mitologiche servono inoltre a descrivere gli influssi demoniaci sui destini umani e la lotta tra le forze della luce e della tenebre che si celano dietro i contrasti terreni. Il mitologismo romantico raggiunge il suo apice nella mitologizzazione della stessa prosa borghese [17]. Così, in Hoffmann l’aspetto mitico non rappresenta la poesia e l’ideale, ma «la forza del caos, demoniaca, ctonia, notturna e distruttiva» [18] e dal contrasto tra natura e cultura «nasce la raffigurazione delle passioni oscure e irrazionali, del lato notturno dell’anima, delle azioni inconsulte» [19]. Alcuni di questi procedimenti si possono ritrovare in altri autori romantici, si pensi a Hölderlin, nella cui tragedia La morte di Empedocle, seppure percorsa da un forte classicismo, il filosofo greco è in grado di ritrovare l’anelata congiunzione con il tutto solo nella morte, inabissandosi nel cratere dell’Etna. Ecco dunque che si può ricostruire in Mann un filone mitologico di diversa genesi rispetto al “metodo mitico” dei modernisti, eppure sotto molti aspetti affine. Si può ipotizzare, per Mann, un ruolo svolto dall’imponente influsso che ebbero Goethe, Schiller e il classicismo di Weimar (e di Winkelmann attraverso essi) sull’autore in particolare e sulla cultura tedesca in generale nella permanenza di un certo impianto classico, che impedì la proliferazione nello scrittore di Lubecca degli sperimentalismi dei modernisti. Se Meletinskij nella sua disamina si concentra in particolar modo su La montagna incantata e su Giuseppe e i suoi fratelli, molti degli spunti sopra elencati valgono anche per La morte a Venezia, anzi in esso assumono aspetto precipuo.
Il racconto di Mann è, innanzitutto, l’opera più ricca di riferimenti mitologici dell’autore e presenta una chiara impostazione classica [20]. Ciò si nota già a partire dagli appunti preparatori alla stesura, in cui Mann annota le citazioni da cui prende riferimento, tratte per lo più dall’Odissea e da Platone, ma non solo. Di queste alcune sono esplicitate nel testo. Una mattina Aschenbach nota l’assenza di Tadzio al tavolo in cui le sorelle stanno facendo colazione, intuendo che il fanciullo rispetto alle ragazze ha il privilegio di poter dormire più a lungo, osservazione che porta Aschenbach a paragonare il giovane polacco a un piccolo Feace e a recitare un verso ispirato all’ottavo libro dell’Odissea: «Monili spesso mutati e tiepidi bagni e riposo…» [21]. L’episodio si riferisce alla descrizione che fa Alcinoo degli agi della vita dei Feaci – i quali alle gare sportive preferiscono i banchetti e i bagni caldi – dopo che Eurialo ha sarcasticamente commentato il rifiuto di Odisseo di prendere parte ai giochi atletici, irritando l’eroe greco [22]. Più avanti vengono evocati Fedro e Socrate, che, stesi su prato in declivio accanto al «vecchio platano poco lungi dalle mura di Atene» [23], discutono della bellezza eterna e dell’amore. Il dialogo riprende diversi passaggi del Fedro e del Simposio di Platone: dal primo il dibattito sul discorso sull’amore tenuto da Lisia e il secondo discorso di Socrate, dal secondo l’affermazione che l’amante è superiore all’amato poiché il dio risiede nel primo e non in quest’ultimo. Il Simposio è citato anche alla fine del racconto, quando Aschenbach ormai agonizzante si rivolge parlando tra sé e sé a Tadzio-Fedro, asserendo che l’artista non può giungere alla bellezza altrimenti che attraverso la via dei sensi e per questo è fatalmente vincolato alla passione e all’eros [4].
Altre volte i riferimenti sono impliciti ed è possibile identificarli solo grazie alle bozze preparatorie di Mann. Tornato in camera dopo una delle solite mattinate sulla spiaggia, Aschenbach indugia a rimirarsi i capelli grigi e il volto affaticato allo specchio. L’immagine riflessa indirizza i suoi pensieri verso la gloria da lui ottenuta nella vita: al fatto che per strada lo riconoscano e lo rispettino per via delle sue qualità retoriche e letterarie, grazie alla sua parola «coronata di grazia» [25]. La riflessione prende spunto dall’ottavo libro dell’Odissea, nuovamente dal passo in cui Eurialo recrimina a Odisseo le sue scarse doti atletiche, ingiuria alla quale il naufrago risponde constatando che anche un uomo di aspetto modesto può essere ammirato e trattato con rispetto, se gli dei gli hanno concesso la grazia della parola [26]. Nelle Arbeitsnotizen, infatti, Mann annota un verso del poema, in traduzione tedesca: «Denn wie erscheint in unansehnlicher Bildung… (Odyssee S. 127)» [27]. Parimenti, nel quarto capitolo, ad Aschenbach sembra di essere trasportato nei campi d’Eliso, dove gli uomini vivono beatamente e «dove non c’è neve né tempesta né piogge torrenziali» [28]. La descrizione delle terre mitiche riprende quella che fa Omero nel quarto libro, quando Menelao riporta a Telemaco e Pisistrato quanto dettogli da Poseidone: il suo destino è essere condotto dagli dei nei Campi Elisi [29]. Ancora, le osservazioni che fa Aschenbach del sole, capace di ammaliare l’uomo e distoglierlo dalle occupazioni intellettuali, provengono dall’Erotikos di Plutarco. Mann appunta: «Plutarch. Tempel des Amor zu Thespiä» [30]. Altre volte ancora, infine, si trova un riferimento esplicitato nel testo, pur senza che negli appunti personali vi sia traccia della fonte. È il caso di Critobulo, al quale è paragonato Yaschu, il giovane e robusto amico di Tadzio, dopo che si è avvicinato e ha baciato quest’ultimo: la vicenda di Critobulo, ammonito da Socrate e invitato a fuggire lontano da Atene per aver baciato il figlio di Alcibiade, è narrata nei Memorabili di Senofonte [31].
Nonostante, come abbiamo visto, la via più perseguita sia consultare direttamente i testi classici, il nome di Critobulo potrebbe giungere da uno dei saggi sulla storia e la cultura antica consultati da Mann. Scorrendo le annotazioni preparatorie a La morte a Venezia, difatti, ci si imbatte in numerosi nomi e concetti provenienti dal mondo classico (Ekstasis, Eos, Ganymed, Hyákinthos, Apollon, Dämon, Dionysus, Enthusiasmus,…)[32] accompagnati da una breve definizione. Le nozioni e le relative spiegazioni derivano dal Lehrbuch der griechischen und römischen Mythologie di Friederich Nösselt, un manuale scolastico la cui quarta edizione, pubblicata nel 1853, era in possesso della madre di Thomas Mann [33], oppure da Psyche di Rohde. Una parola, «Harpyien», è accompagnata da dei versi tratti dall’Eneide di Virgilio [34]. Riguardo le fonti classiche dirette, invece, sappiamo che per l’Odissea l’autore utilizzò la traduzione di Johann Heinrich Voß del 1781, mentre per il Simposio la versione visionata è la traduzione di Rudolf Kassner del 1903, del quale è probabile abbia utilizzato anche quella del Fedro del 1904. Si ipotizza che, per quanto riguarda Plutarco, Mann abbia invece attinto alla traduzione di Johann Friedrich Kaltwasser, pubblicata nel 1911. Altri propongono il saggio di Schopenhauer Über die Metaphysik der Geschlechtsliebe come fonte per i riferimenti a Plutarco, Platone e Senofonte; o, ancora, per quanto riguarda quest’ultimo, la Geschichte des Agathon di Christoph Martin Wieland, in cui vengono riportate le parole che rivolge Socrate a Critobulo [35].
Tolti gli esempi già su menzionati, le citazioni mitologiche e al mondo greco-romano sono ancora molte. Soprattutto nel capitolo IV, quello maggiormente intriso di vena classicista, e nella gran parte dei casi riferiti a Tadzio. Questi viene accostato, oltre a un piccolo Feace, ad Apollo che guida il carro del sole [36], a Ganimede rapito da Zeus nelle sembianze di un’aquila [37], a Giacinto conteso da Apollo e Zefiro [38], a Narciso che sorride al proprio riflesso [39]. E poi, precedentemente, nel III capitolo, allo Spinario capitolino [40] e a una testa di Eros [41]. Nel capitolo conclusivo, il quinto, precisamente nell’ultima pagina, Tadzio viene definito «psicagogo» [42], con probabile riferimento a Hermes, ed è legittimo pensare che, qualche pagina prima, venga identificato anche con il «dio straniero» [43] del sogno dionisiaco. Più in generale, la bellezza del giovane assume costantemente i tratti della bellezza classica efebica, tanto che si fa più volte riferimento alla statuaria greca. Già nella prima descrizione Tadzio ricorda «le sculture greche più nobili» [44], un’altra volta le ascelle sono «lisce come in una statua» e il fanciullo è una «divina opera d’arte» [45]. Questo profluvio di attributi classici e il tono quasi ecfrastico delle descrizioni di Tadzio si spiegano con il forte carattere estetico del racconto: non a caso von Aschenbach è un artista e l’esperienza erotica da lui vissuta è assimilata all’esperienza artistica, tanto che le due sono frequentemente giustapposte. L’anelito per Tadzio equivarrebbe all’anelito dell’artista per la bellezza platonicamente intesa – la bellezza assoluta – e in ogni creazione artistica, così come in ogni fruizione, si celerebbe una potente carica erotica. Ogni opera d’arte sarebbe il tentativo dell’uomo sensibile di estrapolare dal mondo fenomenico la bellezza ideale, opera che verrebbe recepita non solo tramite l’intelletto, ma anche, appunto, i sensi. In quest’ottica si pone anche la tematica omoerotica del racconto, filtrata attraverso l’interpretazione estetica e una lettura classica precristiana, che la slega dalla concezione religiosa di peccato e rimanda piuttosto ai dialoghi platonici.
Come abbiamo visto, La morte a Venezia è pervaso da un preponderante impianto platonico: nel Fedro l’eros e la poesia vengono descritti entrambi come forme di mania (erotica e poetica), accanto alla mania màntica, legata al culto di Apollo, e, curiosamente, alla mania telèstica, associata al culto misterico-iniziatico di Dioniso. Delle quattro quella erotica è la forma di follia più sana perché, se governata con equilibrio, conduce alle idee, dunque alla verità e al giusto (kalokagathìa). L’eros funge da tramite tra l’uomo e il divino e viene definito da Platone daímon; per questo, forse, Mann utilizza la parola «Dämon» in due occasioni, entrambe per indicare la smania da cui Aschenbach è posseduto: quando insegue febbrilmente Tadzio attraverso le calli di Venezia, ormai indifferente ai danni che la propria dignità potrebbe riportare [46], e quando si risveglia dal sogno dionisiaco [47]. Le passioni, quindi, non vengono biasimate da Platone, il quale le considera parte naturale e integrante dell’animo umano, e anzi sono benefiche, finché direzionate e controllate dalla ragione (mito della biga alata).
Il termine «Dämon» può tuttavia essere parimenti ricondotto al culto dionisiaco ed è significativo che la seconda ricorrenza del sostantivo avvenga dopo il sogno del corteo degli ossessi: nelle Baccanti Euripide chiama più volte Dioniso daímon [48]. Allo stesso modo, altre parole scelte da Mann possono essere ugualmente parte di un lessico platonico e di un lessico dionisiaco, per esempio «Betörten» [49], che Anita Rho traduce con «invasato» [50], anche se in questo caso si è più propensi a leggerlo nella prima accezione, dato che segue immediatamente una disquisizione di Aschenbach sulla nobiltà della passione amorosa nella vita del guerriero antico. Altre espressioni conducono inequivocabilmente al bacino dionisiaco, come l’affermazione che «chi è fuori di sé nulla teme quanto rientrare in sé» [51], che infatti precede di una sola pagina il sogno del “dio straniero”. Questa ambiguità riflette la continua tensione tra dionisiaco e apollineo che percorre l’opera. Anna Maria Belardinelli ha sottolineato come il personaggio di Gustav von Aschenbach, che assurge ad alter ego di Thomas Mann (tra i due intercorrono più coincidenze biografiche), sia egli stesso uno scrittore dal retaggio classico e classicheggiante, retaggio che lo induce a interpretare la realtà in chiave mitologica [52]. Per questo, prosegue Belardinelli, il capitolo IV si distacca dagli altri per il tono spiccatamente classico: il racconto transiterebbe in maniera impercettibile ma progressiva dal punto di vista dell’autore/narratore a quello di Aschenbach, culminando appunto nel quarto capitolo, che non a caso è quello in cui l’infatuazione per Tadzio cresce e si consolida. Qui la narrazione assume in toto la prospettiva del personaggio e la realtà storico-oggettiva cede il posto a quella interiore. Sarebbe così lo sguardo di Aschenbach, educato nel solco del canone greco-romano, il motore che esplicita le citazioni mitologiche, che prima invece erano solo allusive, e trasforma il paesaggio intorno a lui [53]. Venezia, che nel terzo capitolo rappresenta l’apice del paesaggio decadente [54], assume all’improvviso i tratti di un luogo ameno, in cui il Lido diviene i Campi Elisi e l’alba assume i tratti dell’avvento roseo e soave di Eos [55]. Perfino le condizioni atmosferiche cambiano: non più umidità soffocante, afa, un cielo perennemente plumbeo e un opprimente scirocco, ma giorni assolati, bianche nuvole «sparse nel cielo come greggi pascenti degli dèi» e un vento liberatorio, che ricorda i «cavalli di Poseidone» e i «tori del dio glaucoricciuto» [56]. Il giorno appare «stranamente sublimato e trasformato miticamente» e il mondo «stranamente stravolto, pieno di fervore panico» [57]. D’altro canto, l’origine di questa metamorfosi mitica del mondo potrebbe essere individuata anche nell’ossessione erotica che sboccia in Aschenbach: il capitolo, d’altronde, si chiude con la formula definitiva: «- Ti amo!» [58]. Concluso il quarto capitolo, nel quinto Venezia ridiviene sordida e pestilenziale, le citazioni classiche si rifanno allusive (eccezione fatta per il dialogo con Fedro) e si acuisce la corrente dionisiaca, fino al funesto epilogo. Al di fuori del quarto capitolo, inoltre, proliferano i rimandi mitologici correlati alla sfera del destino tragico e del castigo e a quella del mondo infero e ctonio. Nella parte conclusiva Aschenbach, uscito dal parrucchiere imbellettato e truccato, scambia i sibili del vento burrascoso per «i biechi uccelli del mare che rodono, scompigliano e insudiciano il pasto dei condannati» [59], ovvero le Arpie dell’Eneide. Poco oltre, nelle ultime righe, Tadzio è infine rapportato a uno psicagogo, il quale sorride e indica ad Aschenbach morente l’orizzonte immenso e lontano, facendogli cenno di seguirlo: sarà l’ultima immagine che il protagonista vedrà prima di spirare.
Curiosa è anche la figura del gondoliere che nel II capitolo trasporta lo scrittore, appena sbarcato a Venezia, da San Marco al Lido. È un uomo dai tratti satireschi, bruti, silente e misterioso, che non ascolta le indicazioni di Aschenbach e scompare prima di essere ricompensato, nonostante durante la traversata avesse assicurato, con aria minacciosa, che si sarebbe fatto pagare. Il traghettatore ha tutte le sembianze di un Caronte, anche se né nel testo né negli Arbetisnotizen vi si allude, tranne che per la possibilità paventata dal passeggero intimorito di essere spedito con un colpo di remo sul capo alla Casa di Ade. La gondola, nera e imbottita, viene però raffrontata a un feretro e l’andatura è carezzevole e placida, tanto da indurre il rigido Aschenbach ad «abbandonarsi mollemente al riposo» e a sperare che non termini mai. Il viaggio a Venezia acquisisce dunque i contorni di un viaggio verso l’oltretomba, di una catabasi. L’elemento mortifero è presente sin dall’apertura della storia, quando lo scrittore incontra la prima delle figure perturbanti che preannunciano la sua perdizione. L’incontro avviene nei pressi di un cimitero di Monaco di Baviera e l’uomo, dall’aspetto forestiero ed esotico, si staglia nel portico dell’obitorio, circondato da formule di preghiera per i defunti. Il piccolo naso schiacciato e i denti scoperti fino alle gengive in un ghigno straniante, quasi deforme, gli danno l’apparenza di un teschio. Sarà successivamente a questa apparizione che ad Aschenbach sorgerà l’irrefrenabile desiderio di viaggiare, sostanziatosi nella visione della giungla. Questo primo sconosciuto ha tratti in comune con il gondoliere (naso schiacciato, denti bianchi e ben in mostra), mentre l’aspetto ferino – di satiro verrebbe da dire – di quest’ultimo coincide con la barbetta caprina del «marinaio gobbo e poco pulito» [60] che vende al protagonista il biglietto del battello da Pola per Venezia. Infine vi è il falso giovane, ubriaco e lascivo, che prefigura la perdita di controllo e la fine che attendono Aschenbach.
È quello della discesa agli inferi indubbiamente un topos letterario di lunga frequentazione: il mito di Orfeo ed Euridice, l’Eneide, il resoconto di Er nel X libro de La Repubblica di Platone, il Tractatus de Purgatorio Sancti Patricii, ovviamente la Divina Commedia, giusto per citare alcuni esempi. Anche nell’Odissea l’eroe fa esperienza dell’aldilà, seppure non vi si avventuri, bensì giunto sulla soglia dell’Ade evoca le anime dei defunti. Verso la fine del XIX secolo, però, il modello della visita ai luoghi inferi aveva ricevuto una nuova spinta nell’immaginario europeo grazie al Ramo d’oro di Frazer e all’Interpretazione dei sogni di Freud. Come analizzato da Fabio Dei, entrambi i saggi impostano il proprio percorso come una rivelazione del mondo ultraterreno, oscuro e sotterraneo, oltre la soglia della civiltà, della morale e della coscienza [61]. Sulla scorta di Frazer e di Freud i modernisti esploreranno i meandri rivelati, in cui abita un’umanità selvaggia e pre-morale. Come già affrontato, non è possibile affermare un’influenza diretta dell’antropologo scozzese e del medico austriaco su Mann, così come le divergenze tra il tedesco e gli esponenti modernisti sono rilevanti. Nondimeno, il connubio tra ambientazione infera e Unheimlich – Venezia ha le fattezze di un girone infernale, i suoi abitanti quelle di entità mefistofeliche -, motivo dionisiaco ed emergere del primitivo dimostra una convergenza di tematiche preponderanti nel panorama europeo di quegli anni, alle quali fanno capo i lavori di Frazer e Freud. E così l’avvento del dionisiaco si palesa attraverso l’onirico, il colera fa il suo capolino a Venezia giungendo da un «mondo primitivo di isole e di foreste schivato dagli uomini, lussureggiante e inutile» [62], lo stesso della visione che dà l’avvio al viaggio: «una palude tropicale sotto un cielo greve di vapori, umida lussureggiante e mostruosa, una specie di giungla del mondo primitivo» [63]. Un paesaggio assimilabile a quello che lambisce le rive del fiume Congo in Cuore di tenebra di Conrad. Come sottolineato da Meletinskij, a differenza dei modernisti, permane in Mann l’essenza del romanzo realista e la dimensione storico-sociale non scompare in favore di quella soggettiva e mitologica. Ne La morte a Venezia il mito ha la funzione di porre in tensione due spinte contrapposte: quella della tradizione classicheggiante, apollinea possiamo dire, narrativamente incentrata sul piano sociale, e quella innovativa, dionisiaca, dedita all’esplorazione dell’inconscio e delle forze plutonie che si agitano sotto la superficie. Il mito viene declinato in entrambi i sensi, nel tentativo di «conciliare il mito con la storia» [64]. Sembra tuttavia esserci un ribaltamento nella novella di Mann: nel momento in cui la realtà oggettiva lascia il posto a quella intima ed extra-storica del protagonista, nel IV capitolo, prevale l’accezione più puramente classica su quella ctonia, sebbene poi la seconda avrà il colmo nel sogno. Forse perché von Aschenbach è un esponente della vecchia tradizione, la cui visione classica «fortemente idealizzata ed estetizzante, come deposito di perenni valori civili, morali ed estetici ed i imperituri monumenti artistici e letterari» [65] viene insidiata e dilaniata dalle forze oscure di recente scoperta che agitano l’inizio del nuovo secolo. Chissà se anche a questo si riferisce la «faccia tanto bieca» mostrata al continente da quell’anno interrotto con un’ellissi – «19…» [66]- in cui hanno luogo le strane peripezie di Gustav von Aschenbach. Il cambio di paradigma nel modo di approcciarsi al mondo greco-romano sembra lo stesso attuato dall’antropologia di fine XIX secolo nei confronti degli studi classici, quando con Frazer si passa da una visione “apollinea” a un “dionisiaca” e successivamente, negli stessi anni della composizione de La morte a Venezia, un gruppo di studiosi di Cambridge, detti “ritualisti”, attua un programma di “primitivizzazione” dell’antichità [67].
Appare più consono, in ogni caso, ipotizzare per Mann una via tedesca al dionisiaco, come già detto mediata dai Schopenhauer, Wagner, Nietzsche e dai romantici. Uno dei temi recuperati dal mito ed esplorati dai romantici, in particolare da Hoffmann, è quello del doppio o del sosia, categoria poi approfondita da Freud nel suo saggio Il perturbante, non a caso ispirato all’Uomo di sabbia di Hoffmann. Ne Il mito Eleazar Meletinskij riconduce al motivo romantico del doppio uno sdoppiamento della personalità, «l’esistenza di due mondi paralleli, la partecipazione a una misteriosa sostanza superiore, buona o demoniaca, che guida il mondo e il destino» [68]. L’incappare di von Aschenbach nei suoi doppi – il falso giovane, ma anche il forestiero scheletrico che presagisce la sua morte – determina l’alterazione nell’intreccio del tempo oggettivo: questi, anticipando il destino finale del protagonista e l’epilogo del racconto, distorcono la progressione della fabula e la chiudono in una linea circolare, circolarità che è prerogativa del tempo mitico, appunto. Ciò fa sì che la narrazione sembri sospesa in un’atmosfera altra, sognante, aspetto che allontana La morte a Venezia dal romanzo classico e lo avvicina alla temperie modernista. Anche l’identificazione tra amore e morte è una traccia ampiamente presente e sviluppata nella produzione tedesca del XIX secolo, specialmente da Arthur Schopenhauer e poi ripresa da Wagner nei suoi drammi musicali [69]. Di nuovo, la relazione tra eros e thanatos sarà poi fatta propria e studiata in chiave psicoanalitica da Sigmund Freud nel suo saggio del 1920 Al di là del principio di piacere. Comunque sia, La morte a Venezia potrebbe risultare un buon sismografo delle forze conservatrici e innovative che scuotevano il terreno culturale dei primi decenni del Novecento. Forze che avrebbero interagito ancora a lungo, se si pensa al caso, molto più tardo, in Italia di Cesare Pavese, il cui classicismo (nel senso di rapporto con il mondo classico) formatosi attraverso Frazer e le letture dei modernisti di area anglosassone, ma anche della scuola etnologica di ambito tedesco nata a cavallo delle due guerre sulla scia de Gli dèi della Grecia di Walter F. Otto (Paula Philippson, Károly Kerényi, Leo Frobenius, eccetera), faceva i conti con la concezione idealizzata, culturalmente ancora molto salda in Italia, del mondo greco e romano [70].

NOTE

[1]T. Mann, Saggio autobiografico, in T. Mann, Nobiltà dello spirito e altri saggi, a cura di A. Landolfi, Milano, Mondadori, 1997, p. 1475.
[2]Cfr. A.M. Belardinelli, Dioniso e il dionisismo: Le Baccanti di Euripide e La Morte a Venezia di Thomas Mann, «Dyonisus ex machina», 2012, III, pp. 202-225.
[3]Ivi, p. 205.
[4]Ivi, p. 215.
[5]T. Mann, La morte a Venezia, trad. di A. Rho, Torino, Einaudi, 1978, p. 95.
[6]A.M. Belardinelli, art. cit., p. 206.
[7]T. Mann, La morte a Venezia, cit., p. 89.
[8]A.M. Belardinelli, art. cit., p. 216.
[9]F. Dei, James G. Frazer e la cultura del Novecento. Antropologia, psicoanalisi, letteratura, Roma, Carocci, 2021, p. 173.
[10]E. Meletinskij, Il mito. Poetica folclore ripresa novecentesca, a cura di G. Lanoue, Roma, Editori Riuniti, 1993, p. 326.
[11]Cfr. anche T. Mann, K. Kerényi, Dialogo. Lettere 1934-1955, Roma, Editori Riuniti, 2013.
[12]E. Meletinskij, op. cit., p. 326.
[13]Ivi, p. 339.
[14]Ivi, p. 325.
[15]Ivi, pp. 323-324.
[16]Ibid.
[17]Ivi, p. 311.
[18]Ibid.
[19]Ivi, p. 314.
[20]Ivi. p. 315.
[21]A.M. Belardinelli, art. cit., p. 207.
[22]T. Mann, La morte a Venezia, cit., p. 43.
[23]A.M. Belardinelli, art. cit., p. 208.
[24]T. Mann, La morte a Venezia, cit., p. 64.
[25]A.M. Belardinelli, art. cit., p. 211.
[26]T. Mann, La morte a Venezia, cit., p. 49.
[27]A.M. Belardinelli, art. cit., p. 209.
[28]T.J. Reed, Thomas Mann “Der Tod in Venedig” Text, Materialen, Kommentar, Monaco di Baviera, Carl Hanser Verlag, 1985, p. 114.
[29]T. Mann, La morte a Venezia, cit., p. 60.
[30]A.M. Belardinelli, art. cit., p. 209.
[31]T.J. Reed, op. cit., p. 96.
[32]A.M. Belardinelli, art. cit., p. 208.
[33]Cfr. T.J. Reed, op. cit., pp. 93-94.
[34]A.M. Belardinelli, art. cit., p. 206.
[35]T.J. Reed, op. cit., pp. 90-91.
[36]A.M. Belardinelli, art. cit., pp. 211-212.
[37]. Mann, La morte a Venezia, cit., p. 59.
[38]Ivi, p. 66.
[39]Ivi, p.70.
[40]Ivi, p. 73.
[41]Ivi, p. 39.
[42]Ivi, p. 43.
[43]Ivi, p. 104.
[44]Ivi, p. 94.
[45]Ivi, p. 38.
[46]Ivi, p. 63.
[47]T.J. Reed, op. cit., p. 61.
[48]Ivi, p. 75.
[49]A.M. Belardinelli, art. cit., pp. 218-219.
[50]T.J. Reed, op. cit., p. 63.
[51]T. Mann, La morte a Venezia, cit., p. 80.
[52]Ivi, p. 92.
[53]A.M. Belardinelli, art. cit., p. 207.
[54]Ivi, pp. 216-217.
«Sui vicoli stagnava una calura afosa e ripugnante; l’aria era così spessa che gli odori provenienti da abitazioni, botteghe, cucine – vapori oleosi, nuvole di profumo e molti altri -, restavano sospesi senza dissolversi. Il fumo delle sigarette fluttuava dov’era e si disperdeva solo con estrema lentezza. La folla che si pigiava nello spazio ristretto infastidiva il passeggiatore invece di divertirlo. Più andava, e più sentiva il tormento dell’orribile stato in cui l’aria di mare unita allo scirocco solevan farlo cadere, uno stato di prostrazione e di eccitazione insieme. Il suo corpo stillava di molesto sudore». T. Mann, La morte a Venezia, cit., pp. 50-51.
[56]Ivi, p. 69.
[57]Ivi, p. 70.
[58]Ibid.
[59]Ivi, p. 73.
[60]Ivi, p. 98.
[61]Ivi, p. 26.
[62]F. Dei, op. cit., pp. 177-183.
[63]T. Mann, La morte a Venezia, cit., 1978, p. 89.
[64]Ivi, p. 12.
[65]E. Meletinskij, op. cit., p. 324.
[66]F. Dei, op. cit., pp. 247-248.
[67]T. Mann, La morte a Venezia, cit., p. 9.
[68]F. Dei, op. cit., p. 250.
[69]E. Meletinskij, op. cit., p. 316.
[70]Ivi, p. 320.
[71]Cfr. E. Corsini, Orfeo senza Euridice: «I dialoghi con Leucò» e il classicismo di Pavese, in «Sigma», dicembre 1964, III/IV, pp. 121-146 e M. Lanzillotta, Cesare Pavese. Una vita tra Dioniso e Edipo, Roma, Carocci, 2022.

BIBLIOGRAFIA
ANNA MARIA BELARDINELLI, Dioniso e il dionisismo: Le Baccanti di Euripide e La Morte a Venezia di Thomas Mann, «Dyonisus ex machina», 2012, III, pp. 202-225.
FABIO DEI, James G. Frazer e la cultura del Novecento. Antropologia, psicanalisi, letteratura, Roma, Carocci, 2021.
THOMAS MANN, La morte a Venezia, traduzione di ANITA RHO, Torino, Einaudi, 1978.
THOMAS MANN, Saggio autobiografico, in THOMAS MANN, Nobiltà dello spirito e altri saggi, a cura di ANDREA LANDOLFI, Milano, Mondadori, 1997.
ELEAZAR MELETINSKIJ, Il mito. Poetica folclore ripresa novecentesca, a cura di GUY LANOUE, Roma, Editori Riuniti, 1993.
TERENCE JAMES REED, Thomas Mann “Der Tod in Venedig” Text, Materialen, Kommentar, Monaco di Baviera, Carl Hanser Verlag, 1985.

Lost long, forever found

Irene Filippetti, in questa composizione, riunisce Sigismondo, Riccardo III e Tamerlano il Grande, facendoli dialogare nell’ottica del corso di Letterature Comparate, Storia e potere nella prima età moderna (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“In questa riscrittura ho voluto riflettere sul ruolo del potere nella vita degli uomini. La vicenda, narrata in tono fiabesco, invita il lettore in un mondo fittizio dominato da regole semplici e categoriche, che vengono messe in discussione dall’inaspettata comparsa di un nuovo personaggio”.

*

C’era una volta un piccolo pezzo di terra, che per taluni non significava nulla, ma per altri significava il mondo intero. Sin dall’antichità, il pezzo di terra era diviso in tre e affidato a tre diversi regnanti. Di mattina, il sole sorgeva nel Regno di Riccardo, poi attraversava il Regno di Tamerlano, e infine calava nel Regno di Sigismondo. Nonostante vivessero tutti sotto lo stesso cielo e sullo stesso palcoscenico, le differenze che intercorrevano tra di loro erano come quelle tra un giglio e una rosa: appartenevano alla stessa specie, ma mai nessuno avrebbe potuto confondere l’uno con l’altro, neanche per sbaglio.
Riccardo era un regnante ossessivo e ombroso, Tamerlano era seducente ma brutale, infine Sigismondo trasognato e selvatico.
In vita loro, i tre re non si erano mai visti in faccia. Una regola soprassedeva ciascun governo: nessuna contaminazione tra i popoli era concessa. Il pezzo di terra era piccolo abbastanza da permettere che, se i cittadini dei tre regni si fossero messi in fila, il primo avrebbe potuto stringere la mano dell’ultimo senza doversi neppure allungare, e tutti insieme avrebbero potuto fare un bel girotondo. Nonostante ciò, qualsiasi fraternizzazione veniva punita, più o meno spietatamente in base alla giurisdizione di appartenenza.
Ogni giorno, degli ambasciatori tecnici andavano con squadre e righelli a misurare i confini tracciati sul suolo. La pace era minacciata da ogni ago di abete perché, se anche un solo ramo di un albero nemico cresceva al di là di un centimetro, ecco che si urlava all’invasione.
Un giorno arrivò una straniera. Aveva fattezze che, in quel pezzo di terra, non si erano mai viste prima. Non conosceva le usanze locali e travalicava i confini come fosse normale. La sua esistenza creava un grande scompiglio, se non altro perché non si capiva cosa di preciso fosse venuta lì a fare. Mangiava melograni a morsi e si lucidava le scarpe a suon di sputi; sembrava soltanto godersi i paesaggi e ascoltare le storie dei più vecchi abitanti. Questo non aveva il minimo senso, perché notoriamente i tre regni non possedevano bellezze paesaggistiche né culture affermate. Un simile bizzarro comportamento non poteva restare inosservato. La straniera non recava alcun danno o disagio, eppure tutti e tre i re, simultaneamente, la chiamarono a udienza.
Poiché nessuno voleva cederla di un minuto all’altro, avvenne un fatto epocale: i tre re si riunirono assieme per poter interrogare la straniera.
Appositamente per l’udienza, venne costruito in quattro e quattr’otto un palazzo ai piedi della montagna, ch’era punto nevralgico del territorio: il luogo preciso in cui tutti i regni convergevano. Il palazzo era sontuoso e splendente. Tappeti delle più pregiate fatture vennero srotolati per i nobili calzari di Riccardo, Tamerlano e Sigismondo, araldi vennero innalzati e cori annunciarono il grande evento.
La straniera si presentò nell’unico abito sgualcito che sembrava possedere.
I tre re cominciarono con la stessa identica, tuonante domanda: “Perché sei qui?”.
Lei si era resa conto della situazione ed ebbe voglia di trarne piacere. Inventò una bella storiella per metterli alla prova. “Vengo da un paese molto lontano”, disse, “E ho viaggiato fin qui perché ho saputo dell’immenso tesoro che custodite.”
“Che tesoro?”
“Come, che tesoro! Il chicco di riso.”
“Il chicco di riso?”
“Il chicco di riso.”
L’immensa sala si riempì di chiacchiericci.
Riccardo simulò un colpo di tosse, così tornò il silenzio.
La incalzò: “Di cosa parli, straniera?”.
La straniera rispose con tono ovvio, “Il chicco di riso che sta proprio sul cucuzzolo della montagna. So che, se ingoiato, dona forza e ricchezza infinite. Per questo mi sono messa in viaggio, non senza spavento.”
I re erano attoniti, ma non potevano di certo svelare che non ne sapevano nulla. Finsero di conoscere perfettamente il chicco prodigioso. E poiché i re fingevano, anche il popolo finse, per non esser da meno. L’udienza terminò poco dopo.
Quella notte stessa, tutti e tre i re cominciarono ad arrampicarsi per la montagna in gran segreto.
Nonostante la penombra gettata dal cielo, si riconobbero nell’oscurità.
Com’era prevedibile, pur continuando a scalare, presero a insultarsi e ad aizzarsi nell’orgoglio.
“Ah! Che ci fa qui il potente Tamerlano? Si reputa forse carente in forza e ricchezza?”
“Voglio solo assicurarmi che forza e ricchezza non finiscano nella bocca di chi non saprebbe masticarle.”
“La tua bocca serve soltanto alla tua arroganza; mai ne uscì qualcosa di saggio.”
“Almeno non ne abuso per dire sempre qualcosa di sciocco, Sigismondo; e in quanto a Riccardo, può soltanto ringraziare che almeno la bocca non gli sia nata storta.”
Mentre procedevano a mani nude sulle rocce, calò il silenzio. I tre re erano nemici, certo, e provavano una sadica gioia nel potersi finalmente insultare in pieno viso. Tuttavia, non lo si poteva negare, sui loro animi gravava l’udienza di quel giorno e tutto lo scompiglio che la straniera aveva versato sui regni, viscoso come pece ma brillante come miele. Com’era possibile che non fossero a conoscenza del chicco di riso? Chissà perché, a nessuno venne in mente che potesse trattarsi di un inganno. Forse perché ci troviamo dietro il sipario delle fiabe.
“Il fatto che siate qui con me stanotte”, disse d’un tratto Riccardo, “svela il mio stesso svantaggio. Anche voi avete scoperto oggi del chicco di riso.”
Sigismondo digrignò i denti, ma dovette ammettere, “È così. A cosa serve aver deciso anch’io di studiare le stelle, se non mi accorgo di ciò che sta sulla terra?”.
“Non ti crucciare a tal modo”, chi avrebbe mai indovinato che la voce di Tamerlano potesse rivelarsi quasi gentile? “Neppure io, col mio ingegno, me ne sono accorto. E nessuno dei miei sudditi ha mai pensato di dirmelo! Domani dovrò tagliar loro la testa, uno a uno.”
Ora succedeva qualcosa di straordinario: provavano pena l’uno per l’altro, perché soltanto loro in tutto il mondo potevano capirsi a vicenda. In questa distorta empatia nacque il germoglio della comprensione. Forse non erano così diversi come credevano di essere. Tutti loro conoscevano gli affanni della corona tanto quanto i godimenti della stessa. Quella notte gli scettri pesavano più che mai, e che altra soluzione avevano se non di sorreggersi a vicenda?
Faticarono per ore e ore. Alla fine, però, raggiunsero la cima della montagna. Vi misero piede all’unisono.
Dove poteva essere il chicco di riso, in mezzo a tutta quell’erba incolta? Ma prima di mettersi in cerca— qualcosa di magnifico fermò i loro passi e mutò i loro cuori. Era l’alba.
Il sole sorgeva dalle colline circostanti, indorando il mondo di colori che non avevano mai visto prima. Com’era vasto il loro piccolo pezzo di terra, da lassù! Com’era vasto e com’era bello! La brina sembrava cipria sparsa sui volti dei sassi, le pianure brillavano di piante e frutti dai sapori indimenticabili, le strade deserte parevano un disegno fatto a matita da Dio. E quelle vaghe, poche sagome di pescatori o fornai che già si accingevano al lavoro, com’erano amabili! I re pensarono a loro, a tutti gli abitanti che ancora dormivano sotto le coperte, a chi stava facendo colazione, a chi andava a mungere mucche. Sentirono i propri cuori intiepidirsi, e per un attimo capirono la straniera: capirono perché non faceva altro che guardare il paesaggio e interrogare gli anziani. Da lassù, era impossibile distinguere dove cominciasse un regno e dove finisse l’altro.
Si sorrisero, forse si abbracciarono, sedettero a lungo. Si scambiarono parole buone e sincere. Si vollero bene.
Nonostante questo, quando il cielo imbrunì e sui loro cuori tornò la tenebra, sguainarono le spade e finirono comunque per uccidersi a vicenda – per un chicco di riso che neppure esisteva. Perché tale è la natura dell’uomo.
I loro corpi vennero recuperati e sepolti con grande prestigio. Ciascuno dei loro figli venne eletto nuovo re, e i figli continuarono a odiarsi come fecero i padri, senza sapere che per un momento erano stati fratelli.

Continua la lettura di Lost long, forever found

Banchetto

Luisa Carolina Stella, in questo testo a metà tra narrativa e monologo teatrale, riscrive Romeo e Giulietta reinterpretando i ruoli dei personaggi, sopra tutti quello di Giulietta, che viene eletta a rappresentante della tragedia beckettiana, nell’ottica del corso di Letterature comparate, Shakespeare e il paesaggio culturale italiano (Prof.ssa Chiara Lombardi).

 “Romeo, oggi sopravviviamo in un altro tempo, in un luogo che poco somiglia alla nostra Verona. E non si è più soltanto noi perché si gioca un’altra partita. Ohnon chiedere “cosa?” , abbi un po’ di pazienza. Siamo simboli al cospetto di un altro dio, un dio che invecchia, ma che, ancora, non muore.”

*

We’re not beginning to… to … mean something?

S. Beckett, Endgame, Faber&Faber, 2012, p. 54

L’erba cresciuta tra le fessure delle piastrelle del peristilio accarezzò i suoi teneri piedi scalzi. Il suo vestito immacolato danzava con i frammenti sconnessi del selciato.
La struttura trasandava sotto il peso dei secoli, ma protetta com’era dal debole sole del tramonto, sperava di nascondere alla bene e meglio lo squallore a cui il padrone di casa l’aveva ridotta. Crepe profonde nelle pareti circostanti, tegole in frantumi tra l’erbaccia e le travi, di quel che un tempo era stato il tetto, ora ronfavano, implose su se stesse, tra i calcinacci.
Ma gli occhi di Giulietta brillavano. Percorreva in punta di piedi il perimetro del cortile, attenta a non guastare il precarissimo equilibrio delle cose. Era una danza la sua, piuttosto traballante, a ritmo di una musica che sembrava raggiungerla da un altro tempo, ridotta a un’eco di dolci note di cetra. Con la leggerezza che tutta l’umanità invidia alle ragazzine, ballava con le colonne: le braccia protese, prima una e poi l’altra, stringevano i marmi eterni, come se mai più avessero dovuto lasciarli; poi, di lì a un secondo, li abbandonavano, per liberarsi e proseguire, di marmo in marmo, il colonnato. Lo sguardo di Giulietta, intanto, si posava su ogni cosa, frugava dappertutto, forse alla ricerca del luogo da cui provenisse quella musica.
A metà del colonnato, la sua attenzione venne catturata da un baluginio al centro del cortile. Interruppe la sua danza, s’arrestò con le braccia avvinghiate ai marmi. Rimase così, per qualche istante, quasi a ponderare l’idea d’avvicinarsi o di rimanere cautamente dove già si trovava, o addirittura, d’andarsene.
Ma non aveva scelta. Oltrepassò le sue colonne d’Ercole e s’avviò verso la luce.

Continua la lettura di Banchetto

Prodigio è tutto il mondo

Stefano Pellegrin, in questa sua composizione, riscrive l’opera teatrale La vida es sueño di Calderón de la Barca in una dimensione più intimista, onirica e psicologica, traendo ispirazione dagli spunti pre-esistenzialisti che già emergono nel testo, nell’ottica del corso di Letterature comparate, Storia e potere nella prima età moderna (Prof.ssa Chiara Lombardi).

“In questa mia riscrittura, ho voluto attingere, da una parte, alla riflessione filosofica sulle dicotomie ‘destino/libero arbitrio’ e ‘realtà/sogno’, già sviluppata da Calderón de la Barca; dall’altra, agli aspetti del testo che sono stati individuati come precursori dell’esistenzialismo novecentesco, legando il concetto di ‘libertà’ a quello di ‘scelta’ e di ‘angoscia’. Ho cercato di creare una sorta di allegoria, in cui l’uomo moderno è diviso tra libertà, da un lato, e, dall’altro, immobilità e solitudine, che vede come unico esito, sia in quanto consolazione, sia in quanto constatazione negativa, l’equazione tra la realtà e il sogno”.

*

Questa mattina la feritoia della porta è scivolata di qualche centimetro a sinistra, e dalla fessura una lettera è caduta a terra. Poi, con uno scatto, la feritoia si è richiusa. Mi sono chinato per raccogliere il foglio, ho spezzato il sigillo in ceralacca. La frattura lo ha diviso in due metà esatte: da una parte il rilievo possente della spada, dall’altra l’aquila in volo che la regge nel becco.
Più volte mi sono chiesto perché si ostini ad apporre il proprio sigillo sulle lettere che mi invia; il cui viaggio, lo sa bene, non dura che qualche metro. Abitiamo ad appena due celle di distanza. Ma forse, ripensandoci, crede che la regalità sia cosa troppo seria per soprassedere alle piccole accortezze che pure possono sembrare futili, nella nostra condizione. La sua regalità è diventata, credo, più matura, più radicata: ha acquisito nuovi connotati. La regalità è diventata realtà.
Ho aperto il foglio di pergamena; la calligrafia era ben riconoscibile: corsiva e arcuata, ma lineare. La sua è una scrittura maestosa e regolare come, penso, le onde che travolgono la riva. Come sempre, v’erano tracciate strane linee, ellissi e forme geometriche, ai cui vertici, ricalcati con la penna, erano assegnati i nomi dei pianeti e delle stelle: in alto Venere, appena sopra Saturno, poi Sirio. Una buona prima metà della lettera era occupata da simili disegni astrali, con figure sovrapposte una sull’altra, minuscoli caratteri resi illeggibili dall’accumulo di segni. Continuava sotto:


Sigismondo caro,
figliolo prediletto, principe lodevole, porto alla tua attenzione le recenti informazioni di cui la più minuziosa interrogazione degli astri ha voluto rendermi edotto. Come sai, nulla, nemmeno la potenza terrena di un Re, per quanto grande e soverchiante, può opporsi alle leggi del cielo. La mia interpretazione è doppia: si divide tra la gaiezza e la preoccupazione. Necessito del tuo aiuto per dirimerla.
La congiunzione di Saturno e Giove, che ho cercato qui di raffigurarti, non altro può significare che una crescente rettitudine, unita a una prosperità gioiosa. Saturno è l’architetto celeste: gli ostacoli che costruisce possono mutarsi in eterni edifici del potere. I cieli sembrano annunciare un periodo di maturazione: per me, in qualità di monarca; per te, Sigismondo, in qualità di uomo. Il regno, quel regno che un giorno sarà tuo, è destinato a crescere, e tu, figlio mio, farai esperienza di qualcosa di meraviglioso, di qualche cosa che mai hai avuto occasione di conoscere: tanto più chiara diventa tale previsione quanto più osservi l’abbraccio che avvicina Venere e Mercurio.
Eppure, Marte pare essersi risvegliato. Aiutami, Sigismondo, a comprendere cosa gli altri stiano cercando di dirmi: forse che, dopo l’abbondanza, siamo chiamati a lottare per salvaguardarla? Pensi che si profili una guerra all’orizzonte? Come sai, gli astri si esprimono soltanto in linguaggi sibillini. Quel che è certo, a questo punto, è che alla gioia si sostituirà, prima o poi, un periodo di conflitto, un’aspra battaglia da combattere, un odio prima ignorato, forse, ma, in ogni caso, un’avversità che diverrà schiacciante.
Una simile lettura, non ti mentirò, mi ha alquanto messo all’erta. Anche Urano prominente, osservalo, porta aria di rivoluzione. Dobbiamo forse aspettarci una guerra civile, una rivolta? Temo di aver commesso qualche errore nella mia lettura. Come possono insieme manifestarsi la gioia ridente e la mortifera rivoluzione?
E sono genuinamente confuso sulle cause di tali rivolgimenti: i sudditi mi acclamano, mi venerano, quasi quanto io venero i sudditi. L’amore reciproco è la prima regola del regno, come ho sempre tentato di insegnarti. Sono curioso di sapere la tua interpretazione di queste ambiguità. Ho già richiamato a corte una manciata di battaglioni che avevo spedito ai confini. Un vago istinto, che mi trattengo dal contraddire, mi suggerisce che, se succederà qualcosa, non procederà dall’esterno, ma che piuttosto, come una piaga virulenta, nascerà nel cuore.
Caro Sigismondo, aspetto tue. Tuo padre, Basilio.


Ho letto queste righe seduto allo scrittoio, con la fronte corrucciata, indeciso se vergare una risposta. Poi ho abbandonato il foglio sul piano di quercia, e ho deciso che no, oggi non avrei dato risposta alcuna. Le divagazioni astrali iniziano a stufarmi. Eppure, attraverso le centinaia di lettere che mi sono giunte negli ultimi mesi, in me è emersa una grezza consapevolezza, una lettura che non è delle stelle, ma dell’anima. Dolorosa scoperta è stato intendere che il Re, Basilio, mio padre, chiunque quest’uomo sia, sia un malato. La mania l’ha divorato, la pazzia ne ha colonizzato le vene, la mente è offuscata da gloriosi sogni fantastici. Mio padre è in preda al delirio, è schiavo di un’allucinazione progressiva. E dove siamo? Forse siamo in un ospedale? Mai ho conosciuto il mondo al di fuori della mia cella, mai ho saputo se un mondo ci fosse. Ospedale, prigione, mondo intero, poco cambia: siamo confinati. Gli astri possono forse sorreggere l’anima, l’anelito alla regalità si profila all’orizzonte come l’uscita da un tunnel oscuro e incomprensibile, scavato all’interno di una vita che rimane immota. E mi domando spesso quale sia la fine del mio tunnel, se una fine esiste.


La notte, quando non mi riesce d’assopirmi, batto sull’acciaio della porta, nella speranza che qualcun m’oda, venga a discorrere con me. L’unica voce che abbia sentito è quella del mio carceriere. Solamente un’occasione ho avuto per udirla, lontana nel tempo, sepolta nei ricordi d’una vita che non è stata altro che ricordi. La mia cella è grande, circolare; la torre è molto alta. Le pareti sono ruvide, di pietra, abbastanza spesse. Oltre allo scrittoio, c’è un letto, un paio di mobili, poco altro. Non ci sono specchi, ma c’è una finestra, che, posta parecchi metri sopra il baldacchino, filtra quel poco di luce del giorno che riesco a vedere. Nel centro del pavimento la porta di una botola, sigillata da un lucchetto massiccio, conduce in qualche luogo che mi è ignoto. Quel luogo proibito mi ha, negli anni, suscitato molte riflessioni, e domande innumerevoli. L’ipotesi che più convince è che apriranno la botola solamente quando avrò lasciato questo mondo, mi interreranno per lasciare spazio a qualcun altro; se mi butteranno lì una volta morto, non sarà poi tanto diverso da quando, in vita, mi costrinsero qui dentro.
Non ho ricordi al di fuori di questa stanza; anima morta o cadavere vivente, quel che volete, questo sono. Abito il silenzio dei giorni e l’ombra delle notti. Quella notte fatale in cui battevo contro la porta, in cui le mie mani divenivano strumenti di dolore, s’abbattevano come la scure sulla nuca del condannato; qualcuno mi rispose. Il carceriere, il mio carceriere. Lo supplicai di parlare con qualcuno, che mi fosse permesso almeno di scambiare una parola. Anche quella volta, con uno stridio la feritoia era scattata; e nelle tenebre lui mi accontentò:
– La parola è attributo dell’uomo libero. La parola è privilegio che né a te, né ad alcuno può essere concesso.
– Chi sei, mio carceriere? Qual è il tuo nome? Eccomi, sono qui. Guardami. Liberami. Sono pronto per la vita.
In quel momento avanzava sulla finestrella della porta un raggio candido di luna. Gli occhi neri e il naso diritto apparvero e scomparvero come un fulmine sinistro. Prima che con un nuovo scatto si sigillasse l’apertura, la voce dura come il marmo concludeva:
– Quale vita? Questa è la tua vita.
Ed io, sulle note solitarie della luna, intonavo il mio lamento prigioniero, graffiando il muro con le unghie:

Continua la lettura di Prodigio è tutto il mondo

Ri-scrivere il mito per l’infanzia

All’interno del Progetto di Terza Missione dell’Università degli Studi di Torino ‘Miti di Fondazione’ sono stati organizzati alcuni laboratori per le scuole di ogni ordine e grado. Nonostante la solo apparente “oscurità” dei racconti, i miti sono entrati anche nelle scuole dell’infanzia grazie a una serie di attività didattiche promosse dal Progetto.
Miti di fondazione

In collaborazione con il Progetto, il Blog ha lanciato una flash call for Short Narrative & Poetry dedicata a riscritture per l’infanzia del mito di Piramo e Tisbe nella sua versione ovidiana e del più oscuro mito di Erittonio, mito fondativo della città di Atene.

Di seguito i testi selezionati dalla Redazione.
Complimenti a tutte e tutti coloro che hanno partecipato!

Ri-scrivere Piramo e Tisbe

Piramo e Tisbe son nomi un po’ strani,
ma questo è un mito di tempi lontani!
Questa è una storia di secoli fa
Successa molto lontano da qua.
C’era una coppia di innamorati
Dalle loro famiglie ostacolati.
Le loro due case eran proprio attaccate,
Ma le prove d’amore eran tutte vietate…

“Piramo, ascolta i tuoi genitori!
A quella Tisbe non puoi dare fiori!”
“Tisbe, ascolta mamma e papà!
Dimentica Piramo o non esci di qua!”
Ma i giovani, si sa, sanno essere cocciuti
E di fronte all’ingiustizia non stanno fermi e muti!
Facevano, infatti, chiacchiere segrete
Attraverso un buchetto in una parete!
Immaginavano insieme una vita futura
Parlando di nascosto da quella fessura.

Un giorno Tisbe disse: “Ti propongo una cosa.”
“Dimmi, mia cara, con la tua voce armoniosa!”
“Ascoltami bene, per fuggire ho un piano!”
“Che bello! Finalmente potremo tenerci per mano!”
“Prima esco io, poi esci tu.
Ci troviamo al gelso e non ci lasciamo più.”
Piramo accettò senza pensarci:
“Questa notte io e Tisbe potremo abbracciarci!”

Così, a notte fonda, la fanciulla se ne uscì
Per andare all’albero di gelso e poi incontrarsi lì.
Fuori era buio, del buio più nero.
“Ci sarà presto anche Piramo, o almeno lo spero!”
Ad ogni passetto sentiva “crick crack” di rami spezzati,
Sentiva “auuuuu”, lontani ululati,
Sentiva “squit squit”, dei topi la voce,
Sentiva “ROAR!”, una bestia feroce!

A Tisbe scomparve tutto il coraggio.
Di lei una leonessa voleva un assaggio!
“Aiuto aiuto! Una leonessa!”
Gridava Tisbe come un’ossessa.
“Roar roar! Una ragazza!”
Ruggiva la belva come una pazza.
Per lo spavento, così su due piedi,
Tisbe pensò a cento rimedi,
ma ciò che fece sul più bello
fu lanciarle sul muso il mantello!
La leonessa, con le fauci spalancate,
si trovò a masticare delle stoffe pregiate.
“Puah!” sputò il mantello roteando la coda,
“Non mangio vestiti ormai fuori moda!”
Intanto Tisbe era scappata lontano,
mentre Piramo, invece, seguiva il suo piano.

Fuori era buio, del buio più nero.
“Tisbe sarà arrivata, o almeno lo spero!”
Vide rami, lupi, topi, uccelli
E, all’improvviso, un mantello a brandelli!
“Aiuto aiuto!” gridò disperato
“che triste destino mi è capitato!
Tisbe, sotto questa luna piena
Sei diventata di una belva la cena!”
Ai piedi del gelso piangeva a dirotto
Bagnando il mantello che stava lì sotto.

Quand’ecco, all’improvviso,
Spuntò il tanto amato viso!
Tisbe disse: “Piramo, scusami il ritardo!
Sono dovuta scappare da una specie di ghepardo!”
I due si abbracciarono tutti contenti
E si raccontarono i recenti spaventi.
Piramo, allora, con gesto galante,
Volle dei fiori donarle all’istante
E i frutti del gelso, raccolti in un mazzo,
divennero rossi per l’imbarazzo.
Da quel giorno, per ricordare il loro amore
Le bacche del gelso son di questo colore.
Non so se sia andata davvero così,
ma per oggi è tutto, fermiamoci qui!

Filippo Pittavino

Continua la lettura di Ri-scrivere il mito per l’infanzia