Tutti gli articoli di Valentina Monateri

❧ SEGNALE 4 “Nel delirio – Letteratura e malattie della mente” Valentino Baldi

“Non reale, non mentale. Come tutte le negazioni, non c’è soltanto un’affermazione sprofondata che reclama il diritto di esistere, ma una condizione di reciprocità e interdipendenza degli opposti, per cui affermato e negato hanno l’uno bisogno dell’altro. Solo questo vuoto può dire qualcosa a proposito del mondo della letteratura, come gli spazi vuoti della malattia significano e parlano di un mondo altro. La familiarità apparente del mondo da cui proviene e a cui tende la letteratura è mostruosa e perturbante quando vista da vicino. I limiti della realtà empirica e del reale psichico non bastano, da soli, per parlare del mondo della letteratura, come non basta l’iconicità autoreferenziale né la ininterrotta referenza. La letteratura costringe sempre a parlare negando, o a guardare di sbieco”.

Valentino Baldi è professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università per Stranieri di Siena. Si è occupato di modernismo letterario, letteratura distopica e in particolare del rapporto tra letteratura e psicanalisi, di cui questo suo ultimo saggio costituisce una vera e propria sintesi. Attraverso un viaggio tra Freud, Lacan, letteratura fantastica e classici inesauribili come Shakespeare e Dante, Baldi propone una nuova prospettiva critica ed interpretativa basata sulle “logiche del delirio”, per spiegare perché gli elementi perturbanti della letteratura ci risultino, ad un tempo, estranei e familiari.

Da Nel delirio. Letteratura e malattie della mente di Valentino Baldi, Quodlibet, Macerata, 2024.

Passeggiata letteraria

Una recensione di Sofia Todisco della Passeggiata letteraria di ‘Portici di carta – 2024’ a Torino

“Palermino, Palermino, sei più bella di Torino” dice Natalia Ginzburg alla sua famiglia, cullandosi in una finzione di malinconia, in quel calore che solo l’idea della mancanza di casa è capace di dare. Natalia cresce proprio a Torino e, vivendola, se ne innamora; ama la città, le sue vie, la sua gente, le piazze e i caotici mercati. È proprio in questa città che trascorre quasi tutta la sua esistenza; è qui che concepisce le sue opere e diventa la scrittrice che tutti noi conosciamo.

Tuttavia, Natalia nasce a Palermo, in Sicilia, luogo che, insieme alla famiglia, lascia per migrare a nord, in Piemonte, a Torino.

I fenomeni migratori accompagnano l’umanità sin dai suoi albori. L’uomo è per sua natura portato a ricercare condizioni migliori per sé stesso e per i propri figli e, per fare ciò, spesso sceglie di spostarsi, di raccogliere tutto ciò che possiede e migrare dove pensa di poter vivere la vita che desidera. Torino, grazie al suo sviluppo economico e alla possibilità di impiego nelle fabbriche, prima tra tutte la Fiat, diventa la meta di migrazioni sia dal sud dell’Italia sia dal “sud del mondo”.

Viene quindi spontaneo chiedersi: come vedono gli stranieri Torino?

Durante una passeggiata letteraria (progetto coordinato dalla professoressa Alba Andreini e ispirato al libro Una mole di parole), organizzata in occasione della manifestazione “Portici di Carta”, ho avuto l’opportunità di immergermi per qualche ora in una nuova prospettiva sulla città: quella di chi ci ha vissuto senza esserci nato, di chi ha dovuto lottare per sentirsi parte di questo luogo, e di chi, venendo da fuori, è rimasto così affascinato da renderla lo scenario di storie e opere ambientate proprio qui, a Torino.

L’itinerario della passeggiata prevedeva una decina di tappe, raccontate e guidate da Emanuela Ranucci, in San Salvario, quartiere multietnico che in sé racchiude culture, lingue e tradizioni diverse e variegate.

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Mario Merz: forma e sostanza

In questo continuo moto di compressione e decompressione del mondo, che si articola come un respiro e regola l’incessante farsi e disfarsi, prende posto anche l’uomo: non come elemento alieno ed estrinseco, bensì come parte integrante del tessuto. I lunghi tavoloni ricoperti di cera d’api (Quattro tavole in forma di foglie di magnolia, 1985) esemplificano l’interesse tanto per le relazioni umane quanto per i fenomeni naturali; nella forza evocativa del tavolo come oggetto attorno al quale si riunisce una comunanza di persone, nell’integrazione tra materiale organico e inorganico (cera d’api, carta, acciaio, barre di ferro, oggetti rinvenuti) risiede già il rapporto tra micro e macrocosmo rimarcato dal profilo fogliforme delle tavole.


Dal 28 ottobre 2024 al 2 febbraio 2025, in occasione dei cento anni dalla nascita di Mario Merz, è in corso presso la Fondazione Merz di Torino (via Limone 24) la mostra Mario Merz. Qualcosa che toglie il peso che mantiene l’assurdità e la leggerezza della favola.
Il 17 aprile 1787 Goethe è a Palermo, dove era arrivato due settimane prima via mare partendo da Napoli:
«Stamane mi ero recato al giardino pubblico col fermo proposito di cullarmi tranquillamente nei miei sogni di poesia, quando, senza che me ne accorgessi, mi vidi assalito da un altro fantasma, che mi assediava già da alcuni giorni» (J.W. Goethe, Viaggio in Italia, trad. di E. Zaniboni, Firenze, Sansoni, 1980, p. 271).
Recatosi all’Orto botanico il proponimento era andato in fumo a causa di un rovello su cui si crucciava già da qualche tempo e che lo avrebbe funestato ancora a lungo: la vista del rigoglio di piante e arbusti che gli si dispiegava davanti l’aveva nuovamente persuaso che da quel molteplice si potesse risalire ad una Urpflanze, la “pianta originaria”.
La ricerca di una unitarietà nel multiforme (l’Urphänomen) è un principio epistemologico che sottende tutta l’attività scientifica di Goethe, dalla Metamorfosi delle piante alla Teoria dei colori. Sostenuta da un rigoroso processo induttivo e da un’acuta capacità di osservazione, la sua indagine si indirizza verso l’aspetto metamorfico del reale, emblema di un continuum irriducibile a qualsiasi schematismo. In Origine del saggio sulla metamorfosi delle piante Linneo viene additato come un legislatore, ovvero qualcuno che si era occupato «più di quel che dovrebbe essere, che non di ciò che è» (J.W. Goethe, La metamorfosi delle piante, a cura di S. Zecchi, Milano, Guanda, 1983, p. 53) : la grande griglia tassonomica che il naturalista svedese aveva imposto sulla realtà sarebbe, insomma, un atto arbitrario – per quanto magistrale e chiarificatore – che s’illude di dar ordine a una natura sempre cangiante e sempre in divenire.

Fig. 1. Johann Wolfgang Goethe (co-autore: Carl Friedrich Philipp von Martius): Zeichnungen zur Erläuterung der Spiraltendenz der Vegetation (1828), LA II 10B.1, 111 [24.2], da Bryan Kalusmeyer, Spirale (Spiral), Goethe-Lexicon of Philosphical Concepts.


Appena varcata la soglia che dall’anticamera immette al primo dei due ampi saloni della Fondazione Merz si ha la sensazione di entrare in un laboratorio in cui si conduce una inchiesta del mondo simile a quella goethiana. Il titolo della mostra è tratto da uno scritto di Merz, parte della raccolta Voglio fare subito un libro:
«Vorrei avere la firma di qualcuno che sia stato curato dalla proliferazione / Qualcosa che toglie il peso… / Penso ai numeri uno dopo l’altro in una dilatazione proliferante… / Sono un tappeto volante su cui vivere… / Che mantiene l’assurdità e la leggerezza della favola…» (M. Merz, Voglio fare subito un libro, a cura di B. Merz, Firenze, hopefulmonster, 1986, p. 204).
Se lo si pone in confronto con la sua produzione artistica, emerge un cosmo concepito come moltiplicazione inesauribile di forme, mutevoli e in costante replicazione:
«La natura non è forse CRESCITA delle cellule in sofisticate complicate antinomie, come disegni incredibilmente complicati? Allora dove può essere l’arte se già la natura coincide con la complicazione, complicazioni incredibilmente più provocatorie di qualsiasi complicazione organizzata dall’espressione artistica?» (M. Merz, Voglio fare subito un libro, p. 46).
Al termine del percorso espositivo un’installazione video raccoglie varie interviste fatte all’artista. In una di queste Merz racconta di come, subito dopo essere stato scarcerato nel 1945 in seguito a un volantinaggio antifascista, trascorresse ore a ritrarre prati per poter portare a casa un «segno» di essi. Se questa immagine di giovanile contemplazione della natura evoca un parallelo troppo facile, per quanto suggestivo, con l’epifania palermitana di Goethe, i rimandi tra le due – seppur diverse – attività di ricerca possono comunque avviarci per sentieri fecondi.

Fig. 2. Johann Wolfgang Goethe: Propagat. Gemmation. Zeichnung zur Spiraltendenz der Vegetation, LA II 10B.1, 116 [24.8], da Bryan Klausmeyer, Spirale (Spiral), Goethe-Lexicon of Philosphical Concepts.


Già all’esterno, non ancora entrati nei locali della ex centrale termica Officine Lancia, si è accolti da un neon vermiglio che si arrampica lungo la torre subito a lato dell’ingresso, e che raffigura la successione di Fibonacci, uno dei soggetti tanto indagati da Merz a partire dal 1970. Il matematico pisano aveva introdotto la celebre sequenza numerica nel suo Liber abaci del 1202 nel tentativo di descrivere in modo regolare la crescita di una popolazione di conigli. La spirale, trasposizione grafica di tale sequenza, sarà oggetto di interesse sia per Goethe, che la legherà ai suoi studi sulla metamorfosi e vi dedicherà – su influenza delle teorie di Carl Friedrich Philipp von Martius – un saggio (Über die Spiral-Tendenz der Vegetation, 1828), sia per Merz, il quale farà della spirale uno dei suoi elementi più caratteristici.

Fig. 3 Mario Merz, Lumaca, Identifications, Gerry Schum Television Gallery, 1970.


Se è vero che Merz recepì la lezione dell’Informale e fu vicino alle esperienze artistiche sue coeve che tentavano di demolire la forma, egli non rinnegò mai l’aspetto iconico dell’arte (Vettese, 2011). Di fronte alla molteplicità vertiginosa del reale, compito dell’artista è scavare in cerca di forme originarie, le stesse che la natura rinnova all’infinito. Questo pensiero morfologico traspare dai grandi enigmatici animali di carta nera su folex che si inerpicano lungo le pareti: cosa sono? Alci, cavalli, cani, dinosauri,…? Un quadrupede, con tre protuberanze a un capo e due cavità nel corpo (Senza titolo, 1997–2000), pare sia stato ispirato al Rinoceronte di Dürer, che Merz conosceva molto bene, quasi fosse una xilografia del possibile. Il plurimo è svestito fino all’indefinito, fino al punto in cui le definizioni si confondono e le tassonomie sfibrano, ma la forma sopravvive in quanto nucleo necessario alla proliferazione del complesso. Se la forma scompare la sua radice è eterna recita un’opera di Merz, ideata per l’importante retrospettiva al Solomon R. Guggenheim di New York del 1989, nell’esposizione torinese presente solo in foto.

Fig. 4 Mario Merz, Senza titolo, 1989, Mario Merz. Qualcosa che toglie il peso che mantiene l’assurdità e la leggerezza della favola, Fondazione Merz, Torino, 2024.


Dall’evento newyorkese è però ripreso l’igloo di pane (Senza titolo, 1989), riprodotto per l’occasione in collaborazione con un panificio poco lontano dalla Fondazione. L’installazione gioca con l’esercizio metamorfico del tempo e delle interazioni, lasciando che i pani si frantumino, si imbarchino, si sbriciolino, si conformino all’intelaiatura sottostante. Nella perduranza del gesto creativo, tale da rendersi autonomo addirittura dall’artista stesso, si manifesta una prassi artistica estemporanea e senza soluzione di continuità: non di rado capitava che Merz modificasse le proprie opere in fase di allestimento. In questo modo anche la messa in posa partecipava alla loro creazione. Altri due igloo, uno di pietra (Senza titolo, 2002) e uno di nylon e foglie d’oro (Senza titolo (Foglie d’oro,1997), occupano lo spazio centrale dello stanzone precedente. Queste case primordiali, di perfetta efficienza geometrica, interrogano la relazione tra lo spazio e l’energia da esso veicolata, seguendo la massima del generale rivoluzionario vietnamita Võ Nguyên Giáp, secondo cui «se il nemico si concentra perde terreno, se si disperde perde forza». L’igloo, con la sua curvatura digradante e il suo movimento espansivo, accoglie e tramuta in ventre, in volta celeste, così come il cono, che si concentra repentinamente in un unico punto, diventa una lancia capace di trapassare la superficie.

Fig. 5 Mario Merz, Senza titolo, 2002 e Senza titolo, 1997 – 2000, Mario Merz. Qualcosa che toglie il peso che mantiene l’assurdità e la leggerezza della favola, Fondazione Merz, Torino, 2024.


In questo continuo moto di compressione e decompressione del mondo, che si articola come un respiro e regola l’incessante farsi e disfarsi, prende posto anche l’uomo: non come elemento alieno ed estrinseco, bensì come parte integrante del tessuto. I lunghi tavoloni ricoperti di cera d’api (Quattro tavole in forma di foglie di magnolia, 1985) esemplificano l’interesse tanto per le relazioni umane quanto per i fenomeni naturali; nella forza evocativa del tavolo come oggetto attorno al quale si riunisce una comunanza di persone, nell’integrazione tra materiale organico e inorganico (cera d’api, carta, acciaio, barre di ferro, oggetti rinvenuti) risiede già il rapporto tra micro e macrocosmo rimarcato dal profilo fogliforme delle tavole.

Fig. 6 Mario Merz, Quattro tavole in forma di foglia di magnolia [dettaglio], 1985, Mario Merz. Qualcosa che toglie il peso che mantiene l’assurdità e la leggerezza della favola, Fondazione Merz, Torino, 2024.

I continui rimandi di forma e struttura tra le diverse opere e coloro che abitano, seppure momentaneamente, gli spazi espositivi danno vita a un ambiente laboratoriale anche nella misura in cui gli artefatti preservano la propria vitalità in fieri. Ogni monumentalizzazione viene dunque scongiurata e lo spirito con cui Mario e Marisa Merz avevano concepito il sito – mettere al centro l’arte come pratica – viene preservato. La selezione delle opere, tutte risalenti al periodo più tardo, dagli anni Ottanta in poi, non pone tanto la mostra – che riprende parzialmente quella di Nîmes del 2000 – in un’ottica di retrospettiva (sebbene non manchino, fortunatamente, momenti divulgativi), quanto traccia una traiettoria in cui il segno è costantemente invitato a farsi dialogo e viceversa, sotto l’ascendente degli studi antropologici di Claude Lévi-Strauss. Il regime del metamorfico, che riverbera anche in tinte favolistiche (Le chat qui traverse le jardin est mon docteur, 2000, che occupa un intero angolo di salone) e alchemiche/votive (L’Horizont du lumière traverse notre vertical du jour, 1995: due lambicchi, uno colmo di vino l’altro di miele, attraversati da un neon), si struttura in un percorso organico superando i semplici rapporti di causalità meccanica. Lo stesso fa, per Goethe, una pianta nel suo sviluppo: un’entelechia che si disvela in reciproche dinamiche di concentrazione (seme, calice, stami/pistillo) e distensione (foglia, corolla, frutto).

BIBLIOGRAFIA
G. CELANT, Arte povera. Storia e storie, Milano, Electa, 2011.
J.W. GOETHE, La metamorfosi delle piante, a cura di S. ZECCHI, Milano, Guanda, 1983.
J.W. GOETHE, Viaggio in Italia, trad. di E. ZANIBONI, Firenze, Sansoni, 1980.
B. KLAUSMEYER, Spirale (Spiral), Goethe-Lexicon of Philosphical Concepts, https://goethe-lexicon.pitt.edu/GL/article/view/22, ultimo accesso: 29 novembre 2024.
S. MEIXNER, Urphänomen (Original/Primordial Phenomenon), Goethe-Lexicon of Philosphical Concepts, https://goethe-lexicon.pitt.edu/GL/article/view/46, ultimo accesso: 29 novembre 2024.
M. MERZ, Voglio fare subito un libro, a cura di B. MERZ, Firenze, hopefulmonster, 1986.
Metamorphosis. The alchemists of matter. A point of view on Arte Povera, a cura di B. CORÀ e P. REPETTO, Arezzo, Magonza, 2016.
A. VETTESE, Mario Merz. Qualche questione aperta, in Arte Povera 2011, a cura di G. CELANT, Milano, Electa, 2011.

Miti di fondazione – le riscritture dei classici

Cosa sono i miti di fondazione e perché ancora oggi è importante analizzarli e riscriverli? Un mito di fondazione riguarda la genesi di un sistema sociopolitico, è la prima forma di narrazione di un’entità organizzata che celebra con il mito l’aggregazione di persone in comunità. Un tema attuale da sempre e che per sempre resterà attuale. Celebrare questi sistemi significa celebrale la nostra umanità, il nostro bisogno di relazionarci con il prossimo per il raggiungimento dei nostri obiettivi, per la necessità di uno scambio culturale ed economico. Ricordare la fondazione della città di Torino o la leggendaria Atlantide, attualizzare ciò che per secoli ha destato meraviglia nei lettori, è un passo importante per legare nuovamente i singoli individui a quel senso di comunità spesso dimenticato; significa ricordare come ricordarono gli antichi che la fondazione di questi agglomerati sociali, di queste pseudo-città, e la loro possibile caduta, sia un evento degno di diventare mito e di essere ricordato e celebrato al pari degli dei. Dobbiamo nuovamente trovare questo senso di importanza nella comunità di cui tutti facciamo parte.

a cura di Matteo Bonino e della Redazione del Blog

Flash Call #1: Fetonte o non Fetonte?

Triptychum

di Emanuele Mendozzi

*

Giunge Fetonte alla reggia solare,
Ch’alta s’ergeva su colonne d’oro
Fulgido, e strale
Di sole lo trafigge, e un coro
Diafano, librato nell’aria,
Incanta l’orecchie e il padrone loro,
Ch’egli si ferma e mira
E mirando, intontito, grida:
«O lux immensi publica mundi!
Phoebe pater!
 io vengo
A chiedere del sangue, del mio sangue,
Una prova di linea sangue!»
Ed egli, velato in porpora veste,
Posando la sua corona di raggi:
«Clymene veros» ait «edidit ortus,
Tu sei figlio della mia carne
E io sono il padre tuo.
Chiedi ciò che vuoi
E ciò che vuoi
Dalle mani paterne,
Tenere d’amore paterno,
Ti sarà dato»
E parlando giura sulla palude
Stigia, nei pressi della terra
Dei Cimmeri, coperta
Da fitto tessuto di nebbia,
Che non raggio di sole la trafigge
E di cui il fato affligge
Uomini e dei –
Eguali in Morte, e silenzio
Di Morte.
«Lasciate padre mio
Che io conduca il sole…

*

Eridanus qui et Pheton Solis Egyptii filius,
In sinum, quem Lygustinum dicimus, venit.

Giunto nei pressi della costa rocciosa,
Laddove il Bisagno s’imbianca
D’un sole quasi miracoloso,
Con suis longa fatigatus navigatione,

Attraccò e discese dalla nave.
Qui lasciò il compagno Genuino,
In preda alla nausea, cum parte suorum navium
Custodem liquit in litore;
E mentre il mare divo
Schiumava
Diviso dalla nave nera, prese
Fiato, e ripartì.
E col sangue ed il sale, e il ferro bruciato, che ha odore di sangue
E di sale, Genuino sterminò i popoli autoctoni;
Et Genuam de suo nomine nuncupavit.
Superate l’Alpi liguri, giunse
Euridano d’Egitto,
In amplissimam atque fertilem planiciem,
E mentre l’Alpi diafane,
Raccoglievano il fiume turchese
E i prati gonfi d’acqua,
Gli sghimbesci del sole,
O la sera veniva,
Sulla terra, sui tronchi dei pioppi,
(non è importante);
I soldati di Euridano facevano grandi pile di cadaveri
E gli davano fuoco.
…secus Padum consedit, et, ut idem refert Paulus, videtur
Eustachium velle Taurinum oppidum suum fuisse opus, sed
Eridanum Nuncupatum.

E sul sangue,
Lungo le rive del fiume
Verde turchese
Eresse una città.
E lì regnò fino alla morte, che avvenne
D’inverno o d’estate.
Scivolando nel fiume,
All’ombra di tre pioppi,
In Pado periit.
Così il Po porta il suo nome,
E gli Egizi, in memoriam compatriote,
Affissero la sua immagine
Nella volta celeste.1

*

Ζεύς
La folgore, l’acquila,
Il fallo del padre celeste.
XX le jugement.

Il carro,
Φαέθων-Michelangelo,
I quattro cavalli solari (FW: uno dal pene eretto),
La Potenza sessuale,
L’orgasmo e la castrazione.
XVI La Maison-Dieu.

Ἠριδανός/Po Ἡλιάδες (divenire pianta) Kýknos (divenire animale)

La macchina seno attaccata
Al petto maschile, il fiume,
Il divenire altro, l’oggetto parziale.
XIII.

«Tommaso, se questo schizzo non vi piace, ditelo a Urbino, acciò che io abbi tempo
d’averne facto un altro doman da.ssera, come vi promessi».2


«Inconsideratamente, messer Tomao signor mio carissimo fui mosso a scrivere a
Vostra signoria…. come se creduto m’avesse passare con le piante asciucte un piccolo
fiume, o vero per poca aqqua un manifesto guado. Ma poi che partito sono dalla
spiaggia, non che piccol fiume abbi trovato, ma l’oceano con soprastante onde m’è
apparito inanzi, tanto che se potessi, per non esser in tucto da quelle sommerso, alla
spiaggia ond’io prima parti’ volentieri mi ritornerei. Ma poi che son qui.. andremo
inanzi… per l’onde del mare … perché chi è solo in ogni cosa, in cosa alcuna non può
aver compagni. Però Vostra signoria, luce del secol nostro unica al mondo…
E se pure delle cose mia, che io spero e promecto di fare, alcuna ne piacerà, la
chiamerò molto più avventurata che buona… a Vostra signoria, il tempo presente, con
tucto quello che per me ha a venire, donerò a quella… che sarà poco, perché son tropo
vechio.
…Leggiate il cuore e non la lettera… quanto è da meravigliarsi che Dio facci miracoli,
tant’è che a Roma produca uomini divini. E di questo l’universo ne può far fede».3

«Vivo della mia morte e se, ben guardo,
Felice vivo d’infelice sorte;
E chi viver non sa d’angoscia e morte,
Nel foco venga, ov’io mi struggo e ardo»4

Ecco due figure da conciliare:
Il più frivolo e il più serio;
L’uno: affare divo, l’istituzione,
O il problema moderno della città.
L’altro: l’uomo chino, disegna,
Produce la produzione – un sistema
Forsennato di segni.
Un mondo
Alla rovescia: dove
Si vive della morte, e gli dei (morendo)
Fanno della filosofia politica-
«Homme, jouet de dieu, et dieu, Jouet de lui-même»5

Un empirismo radicale:
Che l’uomo si liberi di Dio,
E Dio di sé stesso.
Che non ci siano più
Ragione o Fondazione,
Famiglia o Figliazione.
Ovunque non è che la Crudeltà.
Le città, L’amore… Io stesso
non sono…
Corpo inceppato della mia poesia!
L’incompiuto, il fallimento,
Il fiume turchese, il cazzo solare,
La Morte, la città, l’amare.
Ovunque non è che la Crudeltà.
Ho già scritto troppo, e troppo
sconsideratamente,
Ora sono stanco, perciò smetto.
Va bene?

NOTE:
1. In parte dal Boccaccio,
Genealogia deorum gentilum,
Scritta alla mattina o alla sera,
In data vicina o lontana dal 1375.
2. Caduta di Fetonte
M. per il Cavalieri,
Prodotto d’un soggetto forsennato.
Carboncino su carta,
Circa 1533
3. M. al Cavalieri
Fine Dicembre 1532.
4. Dietro una lettera, Da Sebastiano del Piombo a M.,
Probabilmente per il Cavalieri,
8 Giugno 1532
5. Artaud, Le Supplice de Tantale

Se il sole Risorge

di Filippo Pittavino

Perché cadon sempre i figli ribelli
Primo dei quali Lucifero fu,
Giovane angelo a capo di quelli
Che ora dimorano al buio laggiù?

Fetonte, racconta di come cadesti
Col carro del padre divino che un giorno
Ti diede, ascoltando e accettando funesti
Desii di evitar da un rivale lo scorno.
Nessuno credeva che fossi la prole,
il figlio capace del carro guidare.
Le redini, allora, prendesti del sole,
che sempre sorge e tramonta nel mare.

Mi piace pensare che in cielo quel dì
Ci fosse anche un altro figlio superbo,
Icaro alato passava da lì
Col padre maturo, lui ancora acerbo.
Dedalo disse “Vola più in basso!
Non vedi che il sole ti brucia le ali?”
Ma Icaro il sole, da vero gradasso,
Voleva raggiunger volando in spirali.

Fetonte, un puntino vedesti lontano,
forse un uccello, pensasti, senz’altro.
Sgomento ti prese, scoprendolo umano.
Sterzare o frenare, sii svelto, sii scaltro!
Icaro vide una luce accecante

Incontro sfrecciargli senza fermarsi
Fin quando distinse un carro volante
E giovani occhi in cui rispecchiarsi.

Giovani vite in cerca del cielo
Lacrime d’ambra, ali di cera
S’intreccian nella sfera
Di fuoco, uno sfacelo.
Nel vortice confuso,
Doppia voce dirà:
“T’ho deluso,
Papà”
.

Ma mi piace pensare un finale diverso
Da quello che narra il tragico schianto.
Un nuovo finale sarà controverso,
ma almen sarà privo di lacrime e pianto.
Mi piace pensar che si siano rialzati
Nel luogo in cui il sole quel giorno cascò.
Non dai padri, ma da un fiume salvati,
seconda occasione donata dal Po!

Sanno cambiare i figli ribelli
Di un padre mortale o un padre divino
E i miti fondanti sono più belli
Se il sole risorge su questa Torino.

Flash Call #2: Atlantidei Platonici

Fort’una

di Gloria Policaro

«Forte
una donna si
lascia stringere:
fortuna.
Divino
un uomo si
lascia amare:
destino.
Madre e monito:
fort’una donna amata,
estratta ama
se stessa
benedicendo
ricchezza
accarezza il mare, forzando
le mura,
alte
a sè
le cinge strette:
amore e
potere,
carnale in dieci
unioni:
nodi. Fili amari
legano il loro tempo
barbaro,
stretto:
figli. Decidono
sete e vita,
morte e fame,
sacrificio e oro,

eterna e suprema
a loro
fedeltà,
onore e
giustizia.
Barbaro uccide
il tempo. Lusso sospira
alle ore. Amaro punisce
chi non rispetta
destino e saggezza.
Dolce accarezza
dolcezza
della sua punizione,
abbracciando
il mare
come forte e
amata
sua maledizione,
più crudele
la sua stessa e
sola e medesima
sua contraddizione.
Fort’una terra,
fort’uno mare
lascia che sia
io
ad accogliere chi
punire e
amare, stringere o
eternare.
Donna forte,
uomo amato
non esiste fardello al mondo che
non possa
essere
dall’uomo
portato.
Grazia e prodezza,
O maledetta sregolatezza,
fatali le sue ore.
Sofferenza e prudenza ,
O vera saggezza,

fai del tuo genio il tuo modo
di soffrire. Aduna chi
decide. Punisci chi
fort’uno
fu
divino
amò
ma questo mortale segno
con sè
portò,
ora e sempre
saltuariamente,
mai.»

NOTA AL TESTO:

Titolo. Fort’una: la contraddizione e la punizione di una stirpe divina e mortale.
Fortunata è la terra di Atlantide, assegnata al governo del dio Poseidone, come fortunata è la bella
fanciulla Clito, amata e adorata dallo stesso corpo e dalla stessa anima divina e potente. Bella,
mortale e terrena viene baciata dal suo amore. Bagnata dalle onde del Mare viene estratta dal
mondo alla fortuna per essere resa ricca e divina. Come terra, come donna, come moglie e come
madre.
La storia di un amore sigillato tra le mura preziose di un’isola ricca e innamorata. Clito e Atlantide,
legate dal filo dorato della fort’una(ta) poesia, vengono accolte dalla dolcezza e dall’amore del
divino.
Forte e prosperosa è l’isola come forte e saldo è l’amore dei due: il palazzo ne è il simbolo, la luce.
Barbara e lontana non guarda negli occhi della perfezione di Atene: godere dell’ordine e della
salvezza è un atto politico a cui non tutti possono accedere. Atlantide è troppo lontana per essere
bagnata dalle onde di quel mare.
Divini e fortunati sono i dieci figli nati dal matrimonium della bella fanciulla e del potente dio.
Un’unione sancita, etimologicamente e moralmente, da un monito fedele e materno, destinato alle
carezze e alle carenze eterne del mare e delle mura lontane. Barbari e amari furono i fili del loro
potere che, correndo veloce e lontano in attimi infiniti nel tempo, smarrirono le orme di un amore
nato sotto il segno di un bacio divino. Estratto e gettato, perso tra il succedere degli attimi e il lusso
della sregolatezza, il segno divino si trasformò da Fortuna concessa a Punizione costretta, ma
necessaria per il ripristino della saggezza.
Zeus, voce della poesia, osservatore e giudice delle orme e delle ore umane continua le sue parole
in un canto in cui il suo genio si prostra alla sua stessa saggezza nel segno sofferto di rime amare.
Sceglie una lectionem sancita, etimologicamente e moralmente, come lezione e lettura, punizione
ma adorazione.

PLIC PLIC PLIC o Atlant(id)e nella stanza

di Filippo Pittavino

Plic plic plic.
Insopportabile. Atlante si mise le mani sulle orecchie.
“È pronto!” La voce squillante della nonna sembrava arrivare da molto lontano, eppure la
cucina era giusto lì dietro. Plic plic. Atlante si alzò bruscamente e si spostò col piatto
dall’altro lato del tavolone apparecchiato per due. Plic. Tutto inutile. Si ricoprì le orecchie.
“Ecco qua, lasagne a volontà, come piacciono a te!” La nonna era elegante e ben truccata.
Era sempre così, che non si sa mai che possano venire ospiti. Ma Atlante sapeva che non
sarebbe venuto nessuno.
Nessuno a parte l’elefante, s’intende. Il pachiderma stava seduto mollemente sulla sedia
di fronte e guardava vorace la grande teglia appena poggiata dalla nonna.
“Atlante, che fai? Stai un po’ dritto, via i gomiti dal tavolo! La testa sta su da sola.”
“Le teste pesano, signora! Guardi la mia quanto è grossa!” le rispose l’elefante,
addentando la prima fetta.
La nonna si sedette al solito posto e accese meccanicamente la tivù. Non si perdeva mai
un telegiornale. Atlante non aveva mai capito questa abitudine. A lui sarebbero piaciuti
pranzi domenicali senza ascoltare disgrazie. Però quel giorno non era domenica e,
stranamente, la nonna spense subito. Si rigirò verso il nipotino.
“Come farai a mangiare così? Via le mani dalle orecchie!”
Vedendo che Atlante non accennava a cambiare posizione (plic plic plic), la nonna decise
di cambiare tattica e gli chiese con dolcezza: “Perché hai cambiato posto, tesoro? Ti sei
sempre…”
“Comode queste sedie, ma a che ve ne servono così tante, se siete solo in due?” la
interruppe l’elefante, masticando rumorosamente. Munch munch. Plic plic.
“… seduto vicino alla finestra.” continuò la nonna, imperterrita.
Vero, ogni domenica Atlante si sedeva là, principalmente per non guardare il telegiornale.
Ai grandi che gliene importava? Erano cose brutte o noiose che succedevano agli altri.
Ogni domenica quindi si sedeva lontano dalla tivù, ma quel giorno non era domenica.
Strano andare da nonna il giovedì.
L’elefante, intanto, si era mangiato tutte le lasagne. La nonna sembrava nervosa.
“Non ti vanno? Tu adori le lasagne! Ti ricordi, a Natale…” Abbozzò una risata, ma ad
Atlante non faceva ridere.
Plic plic plic. Ma cos’era quel rumore insopportabile? Premette ancora di più i palmi sulle
orecchie, quasi al punto di farsi male.
La nonna si alzò e tornò in cucina.
“Tua nonna non è molto sveglia, eh?” chiese allora l’elefante, intento a divorare anche
tutto il pane. Plic plic plic.

“Manco si è accorta che in casa c’è una perdita.” La sua sedia scricchiolò sinistramente.
“Sì, una perdita, ti dico. Non pretendo che tu ci capisca qualcosa di idraulica. Quanti anni
avrai? Nove? Dieci?”
La nonna tornò in sala, schivò le sedie vuote (e l’elefante) ed esclamò: “Fuori è una bella
giornata, non trovi? Finalmente è tornato il sole.” Aveva in mano un fazzoletto blu, sporco
di mascara. Non stava male abbinato al vestito, ma si sa, il nero sta bene con tutto.
Plic plic plic plic.
L’elefante: “Una perdita bella grossa, secondo la mia esperienza. Signora, non crede che
sia meglio controllare?”
La nonna: “Dopo potremmo andare al parco, come ti piaceva da piccolo. Ricordi?”
L’elefante: “Munch. Sa, spesso le perdite sono difficili da arginare. Io vengo da un’isola e
di acqua me ne intendo.” Stava ora addentando la prima delle sedie vuote ai suoi lati.
Plic plic plic.
La nonna: “Spero l’abbiano già ripulito, dopo…” Plic plic. “Oppure possiamo andare a
prendere un gelato, ti va? Ti va un gelato, Atlante? Come ogni domenica.”
Plic plic plic.
L’elefante: “Sa, signora, è brutto vivere su un’isola. Non importa quanto sia bella, ricca,
quanto ci sia da mangiare! Non puoi toglierti la sensazione di essere… isolato.”
Plic plic plic.
“Che c’è, tesoro?” La nonna si chinò verso Atlante.
“E poi,” proseguì l’elefante “c’è sempre il rischio che affondi.”
PLUFF.
“Atlante, stai piangendo! Ma c’è qui nonna, sei a casa!”
Atlante non riuscì più a reggere la testa e con essa gli crollò tutto il cielo addosso. “Questa
non è la mia casa! La mia casa era vicino al fiume e ora è nel TG! Non fingere che tutto
sia normale! Oggi non è domenica!” gridò. Il plic plic plic era ormai un’alluvione.
“Gli argini si sono rotti.” commentò l’elefante bagnato fradicio, ingoiando la seconda sedia
vuota.
La nonna, allora, sollevò con delicatezza il volto del bambino e gli asciugò le lacrime (plic
plic).
“Hai ragione, tesoro. Forse dobbiamo parlare di quel che è successo.”
E nella stanza rimasero solo la nonna, Atlante e un vuoto grande quanto un elefante.

*

Un ringraziamento a tutti i partecipanti e alla prossima CALL!

“True, I Talk of Dreams”

Una fantasia shakespeariana

di

Amelio, Alessandro; Anzelini, Simone; Bertolino, Valeria; Bova, Beatrice; Bruzzese, Sara; Camosso, Cinzia; Canale, Emanuela; Cetrangolo, Anna; Cosentino, Riccardo; Costarelli, Gianluca; Cozzolino, Valentina; D’Agostino, Martina; Dalmoro, Maria Sole; Filippetti, Irene; Giraudo, Giovanni; Longo, Flavia; Penalba, Célia; Petrelli, Alberto; Portis, Monica; Raimondi, Roberto; Rizzolo, Francesca; Rossi, Lucia; Ruci, Elisabeta; Sbicego Salzotti, Nora; Settesoldi, Erica Morgana; Todisco, Sofia

(2024)

Materia del dramma: “True, I talk of dreams” è una fantasia shakespeariana in abiti moderni.
Una giovane coppia di sceneggiatori inglesi si trova in Italia, tra Padova e Verona, per scrivere un nuovo film. Mentre Wife sogna di perdersi per le stradine medievali, Husband cerca l’ispirazione rifugiandosi nella sua fantasia: il risultato è un battibecco continuo. Dalle loro fervide immaginazioni prendono vita due vicende tra loro molto simili, ma con sostanziali differenze, attraversate dai personaggi e dai versi shakespeariani.
Husband immagina un burbero regista, Guglielmo Scuotipera, impegnato nella realizzazione del dramma conclusivo della sua gloriosa carriera di regie d’avanguardia. Nel corso di questa impresa, Scuotipera è accompagnato da Kate, sua moglie e fiore all’occhiello dei suoi drammi. Kate è un’attrice sul viale del tramonto che sfugge al carattere terribile del marito rifugiandosi in una relazione clandestina con Petruccio, il primo attore.
Anche se tutti gli elementi della commedia sono al loro posto, una triste tragedia attende gli spettatori. Gelosie, rimorsi, vendette sono all’ordine del giorno in questa compagnia d’attori impegnata a mettere in scena la più epica storia d’amore mai scritta.
Wife ha, invece, una visione differente. Ascoltando la storia di Husband, la giovane autrice realizza che l’infelicità di Romeo e Giulietta non si consuma tanto sulla scena, quanto nei cuori e nelle menti dei personaggi. In questa seconda fantasia, l’imposizione sociale che confina i generi nei ruoli imposti dall’ordine costituito si riflette nel dissidio dell’interprete che deve recitare una parte. Nel film di Wife, una sola è la vittima delle circostanze: ciò che è intimo, interiore e profondo diventa talmente nemico del personaggio da spingerlo al terribile gesto.
Ancora una volta, il teatro è uno spazio della scoperta delle identità e apre le porte a quel mondo insondabile che sta tra l’essere e il non essere.

Dramatis personae
Cornice

Husband
Wife

Dramatis personae
La Sfortunata Storia di Guglielmo Scuotipera e della sua Kate

Guglielmo Scuotipera, il regista
Petruccio, attore interprete di Romeo
Kate, attrice interprete di Giulietta
Due conduttori televisivi
Nello Scandalo, inviato speciale
Quattro attori, interpreti di Benvolio, Paride e Mercuzio e La Nutrice
Francesco Pretis, attore interprete di Frate Lorenzo
Due spettatori/soccorritori
Un attore che interpreta la guardia

Dramatis personae
A Star-crossed Play

Un regista
Nik, attor* che interpreta Romeo
Leo, attore interprete di Mercuzio
Giulietta, attore interprete di Giulietta
Due spettatori
Un attore, interprete di Madonna Capuleti
Un attore, interprete di Paride
Un attore, interprete di Tebaldo
Un attore, interprete del Principe

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