Tutti gli articoli di Mattia Cravero

Via Gasometro (via Camerana)

Citato in
La ragazza ardita, CS, I: 1064-1065

Passo
Lei deve sapere che i caposervizio, quando hanno passato una certa età, ognuno ha la sua mania, almeno una: e il mio ne aveva diverse. […] I cuscinetti, per esempio; lui voleva solo quelli svedesi, e se veniva a sapere che su un lavoro qualcuno ne aveva montati degli altri veniva di tutti i colori e saltava alto così, che poi invece di regola era uno tranquillo: e sono solo storie, perché su lavori come quello che le sto raccontando, che era poi un nastro trasportatore, lungo ma lento e leggero, stia sicuro che tutti i cuscinetti vanno bene, anzi, andrebbero bene fino le boccole di bronzo che faceva il mio padrino, una per una, a forza di olio di gomito, per la Diatto e la Prinetti, nella boita di via Gasometro.

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Anche in un lavoro (quasi) completamente fittizio come La chiave a stella, Levi non manca di citare la sua amata Torino: il deuteragonista del libro, il finzionale Libertino Faussone che il chimico-scrittore crea mettendo insieme i tratti di più operai specializzati conosciuti durante le sue trasferte di lavoro, è infatti legato alla città per più di un motivo. Innanzitutto dal fatto che fa il mestiere che fa, ovverosia il capacissimo montatore di tralicci, proprio perché (come indica chiaramente il suo nome) non intende andare a lavorare alla Lancia, l’enorme fabbrica che inghiotte la personalità dei suoi operai e li getta in uno sconfinato esistenza pullulante di alienazione. Ma anche perché non intende lavorare nella bottega-officina (la storica boita) di suo padre, né aprirne una propria in futuro (andando dunque contro il naturale mestiere di famiglia). Nell’orchestrazione complessiva del vissuto di Faussone, Torino e la sua geografia diventano un pretesto tramite cui aumentare la verosimiglianza del personaggio: tramite la sua voce, Levi fa riferimenti inconfondibili alla sua città, dando spessore alle osservazioni e ai racconti del suo deuteragonista.

Lo possiamo vedere bene, ad esempio, quando fa citare a Faussone un punto del suo quartiere (la Crocetta) che conosceva molto bene e che aveva sicuramente visto molte volte, passeggiandovi vicino o attraversandone i pressi per recarsi alla stazione. Si tratta della centralissima via Camerana, sul fianco Via Sacchi di Porta Nuova, una volta comunemente nota come Via del Gasometro: alla fine dell’Ottocento, ospitò infatti la prima edificazione che forniva il gas a tutta la città (antenata dell’odierna Italgas), una gigantesca e articolatissima officina in cui lavoravano moltissime persone, una vera rarità all’epoca, prodromo che anticipa la grande evoluzione industriale che investirà il capoluogo nella seconda metà del Novecento, modernizzandola e cambiandone i connotati.

Lo zio di Faussone – proprio come avrebbe dovuto fare anche il nipote – lavorava in una boita, poiché era un artigiano che lavorava i metalli e le loro leghe, un magnìn: in diverse interviste Levi dichiarò infatti di aver preso in prestito questa centenaria e interessantissima tradizione per forgiare il passato familiare del proprio personaggio, per fargli assumere consistenza e verosimiglianza. Lo zio, nella finzione architettata dal chimico-scrittore, diventa un lavoratore torinese che, nella speranza di far fortuna cercando disperatamente di non morire di fame, ha dovuto lasciare le valli del canavese in cerca di fortuna, partendo alla volta della città. Ha scelto di impiegare lì il proprio talento, e quale miglior posto per farlo fruttare di un’officina specializzata?

Il tutto è raccontato dall’inconfondibile estro di Faussone, che infarcisce il testo di espressioni dialettali e calchi dal piemontese, oltre a tecnicismi appartenenti al suo mestiere di montatore. Il realismo linguistico del libro, infatti, è una delle sue caratteristiche più spiccate e apprezzate dai suoi lettori, in particolare quelli che hanno familiarità con il dialetto piemontese: la lingua del personaggio e attribuisce uno spessore assolutamente verosimile che, a tutta prima, gli fa assumere una consistenza incredibilmente reale (che dimostra le grandi doti etnografiche di Levi nel cogliere le particolarità del linguaggio che caratterizza uno specifico gruppo di parlanti).

Accanto al realismo linguistico, in questo estratto possiamo osservare la bravura di Levi (anch’essa artigianale) nel creare un sostrato narrativo accurato, innervato di realismo: a partire dal punto di vista toponomastico, poiché è storicamente attendibile il vecchio nome di via Camerana qui riportato (proprio così figura sui libri, e così lo chiamavano i torinesi di quel tempo); ugualmente dal punto di vista storico, proprio perché viene riportata in vita una concezione appartenente ad un tempo ormai passato, quando molti artigiani lavoravano a mano i metalli per produrre i cuscinetti che sarebbero serviti alle oggigiorno scomparse Diatto (fabbrica metalmeccanica locale allora specializzata nella produzione di veicoli ferrotranviari) e Prinetti Stucchi & Co. (officina meccanica milanese che produceva macchine da cucito, bici e auto); e non da ultimo dal punto di vista geografico, poiché nel centro di Torino (e specialmente in quella via, come è possibile vedere ancora oggi) erano numerosissime le boite attive al piano terra di moltissimi edifici, spazi oggi devoluti all’impiego residenziale.

Francesco De Silva Editore

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P. Lucarini, Intervista a Primo Levi, 1983, III: 369

Passo
Cominciai a scrivere per liberarmi dell’angoscia che dentro di me aveva lasciato Auschwitz. Ero sfiduciato. Di notte rivedevo in sogno tutti gli incubi del Lager. Ero ossessionato dalla memoria dei tanti compagni morti, dalla scomparsa di una donna che mi era stata vicina. Istintivamente ho cominciato a scrivere e mi sono via via liberato. Poi ho scoperto che non avevo inventato nulla […] Franco Antonicelli, che allora dirigeva una piccola casa editrice, la De Silva, mi incoraggiò. Di Se questo è un uomo stampò millecinquecento copie. Se ne vendettero mille, le altre sono annegate a Firenze durante l’alluvione perché la Nuova Italia, che aveva preso i diritti, teneva i volumi in uno scantinato.

Fonte: https://www.facebook.com/photo/?fbid=2283406178366354&set=gm.666079163755735

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Nella formula chimica che lega Primo Levi alla letteratura, non bisogna dimenticare di inserire anche l’elemento metaforicamente rappresentato dall’editore: senza, Levi non sarebbe nemmeno riuscito a pubblicare il suo primo live, non avrebbe guadagnato alcuna visibilità con la riedizione del suo primo capolavoro e non sarebbe stato così noto nel dibattito pubblico del suo tempo. Nel centro di Torino si trovano tutte e tre le case editrici che furono importanti nella sua carriera di scrittore: luoghi in cui doveva recarsi per conoscere i suoi editor, confrontarsi con loro e discutere le linee d’azione da intraprendere. Nel suo pluriennale rapporto con il settore editoriale, infatti, Levi seppe ben sfruttare le proprie carte (letteralmente) e riuscì a pubblicare molti (se non l’insieme intero) dei suoi lavori.

Prima di ogni percorso editoriale che il chimico-scrittore intraprese, sta senza dubbio la ancestrale vicenda con l’editore Francesco De Silva, fondato da Franco Antonicelli, una personalità di spicco della cultura torinese e del nostrano pensiero antifascista. Fu proprio lui a gradire particolarmente il resoconto della vicenda concentrazionari a e il prigioniero 174517 aveva condensato in poche ma importanti pagine. Tanto importante che, penso Antonicelli, l’Italia e il mondo intero dovevano conoscerle: fu lui a credere in Levi proprio quando Einaudi (l’editore che avrebbe poi pubblicato la maggior parte dei lavori del chimico-scrittore, a partire dalla riedizione ampliata di Se questo è un uomo nel 1958) aveva invece deciso che di quel libro non ne avrebbe fatto un granché.

Appare oggi eclatante la misura in cui Einaudi e i critici che rifiutarono la proposta di Levi si sbagliavano: Antonicelli, dall’altro lato, aveva invece fiutato il talento di colui che non era soltanto un reduce, ma si accingeva – poco alla volta – a guadagnare la statura di un vero e proprio scrittore.

A causa della lenta e aspra ripresa nei primi anni del Dopoguerra, le copie della prima edizione di Se questo è un uomo apparirono in tiratura ristretta: questo era probabilmente sintomo del fatto che anche Antonicelli stesso sapeva bene che i tempi non erano ancora completamente maturi per ascoltare i racconti dei reduci dei campi di sterminio (per questo stesso motivo, vuole la vulgata, Einaudi rifiutò il manoscritto). Quando poi la De Silva, già dopo pochi anni di attività, dovette cessare la propria produzione e vendere tutto alla fiorentina Nuova Italia, le copie in esubero vennero trasferite a Firenze, dove andarono distrutte a causa di una rovinosa alluvione. La prima edizione di questo libro è infatti estremamente rara, e ha un valore molto alto sul mercato antiquario, reso ancora più significativo dalla sua travagliata vicenda commerciale.

Non risultano a questa ricerca, purtroppo, passi dell’opera di Levi in cui venga descritto l’edificio che ospitava la redazione della piccola casa editrice (mentre il nome ricorre più volte nelle interviste). Ciononostante, l’indirizzo della sede storica (nella centralissima via Bertola) è stato tramandato ed è arrivato su più di un articolo di giornale. Sebbene non ci sia alcuna parola ufficiale che dimostri un’effettiva visita di Levi a questo luogo, nulla ci vieta di immaginarcelo mentre, partito da casa sua in corso re Umberto con ben stretto sul cuore il malloppo bruciante delle sue memorie, si destreggia scansando le macerie che ingombrano i lati delle strade e spesso ostruiscono il passaggio, magari percorrendo in linea retta l’asse di Re Umberto che sbocca in centro su via Cernaia e, finalmente e senza alcuna ambizione letteraria, consegna il viluppo di ricordi autorevolmente filtrato e ordinato affinché le sue parole possano essere impresse sulla carta stampata una volta per sempre, affinché possano scolpire la gorgonea verità di Auschwitz in quanti più cuori possibile.

Giulio Einaudi Editore

Citato in
Con la chiave della scienza, 1985, PS, II: 1631

Passo
[…] a Italo devo molto. Quando era redattore presso la sede torinese di Einaudi, era per me naturale fare capo a lui. Lo sentivo come un fratello, anzi, come un fratello maggiore, benché avesse quattro anni meno di me. A differenza di me, era del mestiere: lo aveva nel sangue. Figlio spirituale di Pavese, ne aveva ereditato l’esperienza editoriale, la severità, il giudizio risentito e rapido. Le sue dritte, i suoi consigli, non erano mai generici né gratuiti.

Fonte: http://badigit.comune.bologna.it/mostre/einaudi/1.htm

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Nella formula chimica che lega Primo Levi alla letteratura, non bisogna dimenticare di inserire anche l’elemento metaforicamente rappresentato dall’editore: senza, Levi non sarebbe nemmeno riuscito a pubblicare il suo primo live, non avrebbe guadagnato alcuna visibilità con la riedizione del suo primo capolavoro e non sarebbe stato così noto nel dibattito pubblico del suo tempo. Nel centro di Torino si trovano tutte e tre le case editrici che furono importanti nella sua carriera di scrittore: luoghi in cui doveva recarsi per conoscere i suoi editor, confrontarsi con loro e discutere le linee d’azione da intraprendere. Nel suo pluriennale rapporto con il settore editoriale, infatti, Levi seppe ben sfruttare le proprie carte (letteralmente) e riuscì a pubblicare molti (se non l’insieme intero) dei suoi lavori.

Il torinese Giulio Einaudi, che aveva fondato l’omonima casa editrice ancora oggi incredibilmente attiva, è sicuramente una delle personalità che possiamo avvicinare allievi secondo questo punto di vista: la storia del chimico-scrittore con questo editore è decisamente travagliata e già a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta, quando, appena tornato dal campo di sterminio è ancora versato giorno e notte dalla trappola dei ricordi, Levi stende il suo primo capolavoro, Se questo è un uomo. Nonostante i molti racconti fatti agli amici e alle persone per strada, o sui treni, sentendosi alla pari del Vecchio Marinaio di Coleridge, il reduce avrebbe un estremo piacere che la sua prova (testimoniale e, secondo le sue intenzioni, tutt’altro che letteraria) acquisisse una forma vera e propria, una forma-libro incanalata in un oggetto materialmente esistente, dunque non più un aleatorio racconto improvvisato sul momento. È proprio in virtù di questo desiderio che propone la sua creazione alla casa editrice Einaudi: dove, però, viene amaramente stroncato, e il suo sforzo non riconosciuto.

Appare oggi eclatante la misura in cui Einaudi e i critici che rifiutarono la proposta di Levi si sbagliavano: nel frattempo, Franco Antonicelli approfittò della circostanza favorevole e nel 1947 diede una vitale opportunità editoriale al reduce, stampandone il libro presso la sua casa editrice. Levi non era comunque intenzionato a demordere: tanto che, undici anni dopo (nel 1958), Einaudi ritornò sui propri passi e rivalutò la proposta di pubblicazione. Ne nacque un’edizione ampliata di Se questo è un uomo, la stessa che leggiamo ancora tutt’oggi.

Iniziò qui la fitta collaborazione tra Levi e l’Einaudi, che divenne il suo editore ufficiale: pressoché tutti i suoi lavori sono apparsi per i suoi tipi, oltre a diverse edizioni scolastiche dei suoi volumi più gettonati. Se per il primo volume Levi dovette subire il calvario dell’ascesa in salita, così non fu per le seguenti iniziative editoriali: divenne un autore di spicco già a partire dalla Tregua, nel 1963, che si poneva come naturale prosieguo del primo libro, per approdare poi alle raccolte di racconti, assumere sempre più rilevanza con il Sistema periodico e con tutti gli altri volumi successivi, fino a chiudere circolarmente la trattazione della vicenda concentrazionaria con la pubblicazione dei Sommersi e i salvati (uscito circa un anno prima della scomparsa di Levi).

Ma il chimico-scrittore non fu soltanto un autore per la casa editrice: più e più volte fece da editor esterno, valutò manoscritti, diede pareri editoriali, siglò prefazioni e produsse traduzioni (che gli valsero tanta ammirazione anche fuori dall’Italia). Fu questa una opportunità incredibile: gli permise di conoscere da vicino le pratiche editoriali e di partecipare in prima persona alle attività della casa, non solo conoscendo E stringendo forti rapporti con molte persone, ma anche modi di intendere la cultura legata al mondo dei libri. Non è infatti un caso che Einaudi volle tirarlo in ballo in diverse iniziative editoriali che caratterizzano la sua storia: ricordiamo, ad esempio, l’antologia personale La ricerca delle radici (1981) per la stesura della quale levi fu incaricato editor di se stesso; buona partecipazione alla collana Scrittori tradotti da scrittori, in cui dovette cimentarsi nella resa italiana del Processo di Kafka, che lo assorbì come un vortice.

Oltre ancora a ciò, il lavoro e l’assidua presenza alla casa editrice Einaudi diede a Levi l’opportunità di entrare in contatto con gli esponenti di spicco del circolo culturale ad essa legato: per fare due nomi tra i più importanti, Cesare Pavese e Italo Calvino (di cui l’estratto succitato è una parte dell’elogio funebre), entrambi molto importanti per l’opera di Levi. Se il primo era un modello stilistico e concettuale tramite cui comprendere meglio la letteratura, il secondo era invece il gemello asimmetrico con cui esplorare i misteri del mondo e dell’universo divertendosi grazie al potere delle parole.

Non risultano a questa ricerca, purtroppo, passi dell’opera di Levi in cui venga descritto gli edifici che ospitarono la redazione della piccola casa editrice durante i periodi di permanenza a Torino (mentre il nome ricorre più volte nelle interviste, ma soltanto in relazione alla riedizione di Se questo è un uomo). Ciononostante, l’indirizzo della sede storica (nella centralissima via Bertola) è stato tramandato ed è arrivato su più di un articolo di giornale. Ci sono diverse testimonianze ufficiali che dimostrano l’effettiva frequentazione di questo luogo da parte di Levi (specie nelle interviste, alcune delle quali si svolsero proprio nella sala conferenze einaudiana), e possiamo essere più che certi che si ritrovò a frequentare quei locali in ben più di un’occasione: sembra quasi di vederlo, mentre tira dritto e percorre verso nord quasi tutta la linearità di corso Re Umberto, assecondando le linee che scandiscono l’ossessiva geometria torinese, fino ad arrivare direttamente nella traversa di via Biancamano, dove dopo la guerra Giulio Einaudi vuole piazzare la sua casa editrice (trasferendola dai locali di via dell’Arcivescovado, dov’era invece sorta).

Redazione «La Stampa»

Citato in
A. Rudolf, Primo Levi a Londra: un’intervista, 1986, III: 630

Passo
n/d

Fonte: https://www.lastampa.it/torino/2012/09/10/fotogalleria/la-costruzione-della-sede-in-via-marenco-1.36376372

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Nella formula chimica che lega Primo Levi alla letteratura, non bisogna dimenticare di inserire anche l’elemento metaforicamente rappresentato dall’editore: senza, Levi non sarebbe nemmeno riuscito a pubblicare il suo primo live, non avrebbe guadagnato alcuna visibilità con la riedizione del suo primo capolavoro e non sarebbe stato così noto nel dibattito pubblico del suo tempo. Nel centro di Torino si trovano tutte e tre le case editrici che furono importanti nella sua carriera di scrittore: luoghi in cui doveva recarsi per conoscere i suoi editor, confrontarsi con loro e discutere le linee d’azione da intraprendere. Nel suo pluriennale rapporto con il settore editoriale, infatti, Levi seppe ben sfruttare le proprie carte (letteralmente) e riuscì a pubblicare molti (se non l’insieme intero) dei suoi lavori.

«La Stampa» è, a buon diritto, una di quelle realtà. Punto di riferimento per la cultura, la politica, l’informazione e la vita cittadina del capoluogo piemontese, è tra i più longevi quotidiani nazionali ed è stata senza dubbio una delle testate più vendute ai tempi di Primo Levi. Ha senza dubbio contribuito a ingrandire enormemente la sua fama, avvicinandolo ad un bacino di utenti sempre più grande, non da ultimo permettendo a tanti nuovi lettori di seguire le sue frequenti collaborazioni.

Nel suo complesso, questa attività fu per il chimico-scrittore una sorta di palestra: sin dal 1959 «La Stampa» gli concesse spazi relativamente ampi sulle sue pagine, i quali aumentarono esponenzialmente nel corso degli anni. Se in un primo periodo la produzione giornalistica di Levi contava poco più di qualche articolo in un intero anno, negli anni Settanta-Ottanta la sua collaborazione con il quotidiano aumenta a dismisura, toccando picchi di più di cinque articoli al mese. Questi testi hanno, coerentemente ai versatili interessi di Levi, nature disparate: spaziano dagli scritti di riflessione, concentrati sull’attualità oppure ancora sul ricordo del Lager, a quelli di approfondimento, e contano anche racconti (buona parte del Sistema periodico e di Lilít, ad esempio, furono anticipati in queste uscite) e recensioni di libri, mostre ed eventi culturali. E non si tratta soltanto di articoli: i rotocalchi de «La Stampa» impressero negli anni anche diverse poesie di Levi, il cui cosiddetto “primo grappolo” (per usare la definizione di Levi stesso) conta diversi esemplari pubblicati qui e poi conversi nelle raccolte (esattamente come succede con gli articoli).

Il risvolto giornalistico non è però l’unica sede di apparizione dei lavori di Levi: nel 1986, un anno prima della sua scomparsa, il chimico-scrittore suggella l’ormai quarantennale rapporto con il giornale pubblicando presso l’omonima casa editrice la raccolta Racconti e saggi, che riunisce molti dei testi già pubblicati sulle pagine del quotidiano nella prima metà degli anni Ottanta.

Non risultano a questa ricerca, purtroppo, passi dell’opera di Levi in cui venga descritto l’edificio che ospitava la redazione del giornale (mentre il nome ricorre più volte nelle interviste). Ciononostante, l’indirizzo della sede storica (in via Marenco, seppur fosse prima in via Roma, presso la Galleria San Federico, come mostrato nell’immagine qui sotto) è ormai di dominio pubblico.

Fonte: https://www.lastampa.it/cultura/2016/11/14/fotogalleria/la-redazione-di-via-roma-1.36738553

Sebbene non ci sia alcuna parola ufficiale che dimostri un’effettiva visita di Levi a questo luogo, nulla ci vieta di immaginarcelo mentre, partito da casa sua in corso re Umberto, ripercorre verso sud il centro della città, direzione periferia, passa lo squarcio dei binari ferroviari e fa rotta verso l’ansa del Po, portando con sé un plico di fogli da sottoporre all’attenzione di un interessato editor, mentre acquisisce sempre più sicurezza della propria statura di scrittore, pubblicazione dopo pubblicazione.

Corso San Martino

Citato in
Schiera bruna, 1980, AOI, II: 718

Passo
Si potrebbe scegliere un percorso più assurdo?
In corso San Martino c’è un formicaio
A mezzo metro dai binari del tram,
E proprio sulla battuta della rotaia
Si dipana una lunga schiera bruna,
S’ammusa l’una con l’altra formica
Forse a spiar lor via e lor fortuna.
Insomma, queste stupide sorelle
Ostinate lunatiche operose
Hanno scavato la loro città nella nostra,
Tracciato il loro binario sul nostro,
E vi corrono senza sospetto
Infaticabili dietro i loro tenui commerci
Senza curarsi di
Non lo voglio scrivere,
Non voglio scrivere di questa schiera,
Non voglio scrivere di nessuna schiera bruna.

Fonte: https://www.museotorino.it/view/s/a72232425545401c85700825707f151a

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Questa poesia, tra le più note di Levi, è uno splendido esempio dell’attenzione alla vita di città che il chimico-scrittore-poeta, interessato alle specie animali e vegetali, non può fare a meno di notare: anche in questa lirica impera la sua attenzione microscopica a quanto solitamente sfugge all’occhio umano, specie in contesti tanto trafficati quanto quelli dei corsi nel centro di Torino. Non è infatti detto che è in una città in cui regnano sovrani cemento e asfalto sia dato soltanto di vedere presenze umane: questa poesia giustifica che gli abitanti della città non sono soltanto uomini, donne e bambini, ma anche altri animali.

Proprio come in un meccanismo a matrioska, quasi frattalico, sotto al tram su cui i torinesi viaggiano tutti i giorni per spostarsi da una parte all’altra della città e raggiungere i luoghi delle loro occupazioni dalle proprie case, vive un’intera popolazione di formiche che, incurante dei pericoli della modernità, ha costruito un formicaio proprio nel corso che dà il titolo a questa poesia, «a mezzo metro dai binari del tram / […] proprio sulla battuta della rotaia». Al poeta viene da chiedersi: «Si potrebbe scegliere un percorso più assurdo?», perché sembra quasi insensato, un atto di resilienza estremo tanto quanto gratuito, gravemente rischioso. Ma non si cura di questo la «lunga schiera bruna».

È proprio questo nome, con l’aggettivo che lo accompagna, che si richiama alla Commedia dantesca: il rimando al canto XXVI del Purgatorio che leggiamo in calce alla poesia, secondo la pratica di allusione intertestuale che spesso è tipica di diverse liriche primoleviane, non lascia dubbi e riporta il lettore alle terzine del Sommo. I suoi versi vengono ripresi alla lettera e, riportando sulla scena le stesse parole che descrivevano il manipolo di lussuriosi che sulle pendici del monte sfila davanti a Dante e Virgilio, descrive le azioni degli insetti: intenti a proseguire nel loro caotico allineamento, scontano la loro pena camminando in gruppo e scontrandosi l’uno contro l’altro, confusamente. Alla stessa maniera, così fanno anche gli insetti protagonisti della lirica: sembra che si parlino per capire come muoversi, dove andare (questo intende il fatto di «spiar lor via e lor fortuna»), creando uno confusionario frastuono che l’intelletto umano può solo immaginare, o percepire soltanto tramite la vista.

Le formiche sono descritte come «stupide sorelle / Ostinate lunatiche operose»: non si fermano davanti a nessun ostacolo e nessun posto è troppo ostico per ospitare i loro «tenui commerci»; sono perennemente intente a marciare e a portare avanti i lavori che gioveranno all’intero formicaio, e non si scollano mai dal luogo prescelto pure se la presenza umana minaccia la loro collettività in ogni momento. «Hanno scavato la loro città nella nostra» incuranti del pericolo (ecco perché sono «ostinate»), hanno «Tracciato il loro binario sul nostro, / E vi corrono senza sospetto»: come se fossero troppo indaffarate dalle loro attività, non si curano del fatto che un mondo esponenzialmente più grande di loro è all’opera, e rischia di distruggere il loro piccolo regno.

Ma improvvisamente la poesia si interrompe: la schiera di formiche richiama alla mente di Levi una lugubre associazione spontanea, che affonda le proprie radici negli oscuri giorni di Auschwitz. Molti critici, studiando l’opera del chimico scrittore, hanno infatti puntualizzato che gli insetti sono il genere biologico più spesso paragonato ai prigionieri del campo di concentramento: nelle pagine di Se questo è un uomo, molto spesso gli Häftlinge sono paragonati a miseri vermi striscianti, depauperati della loro natura umana e costretti a mendicare la benché minima briciola per restare in vita nelle loro meschine condizioni.

Per questo nella poesia si manifesta un trauma: sia a livello sintattico sia a livello tipografico. Gli ultimi tre versi iniziano infatti con un notevole rientro, e la frase precedente addirittura mozzata, priva di fine, lasciata monca dopo una brusca (e brutale) interruzione. La schiera di formiche che viaggia sulle rotaie del tram ricorda infatti al chimico-scrittore-poeta il tempo della prigionia, quando era lui il dannato costretto a marciare spalla a spalla con gli sventurati compagni. Per questo la lirica si chiude con una nota amara, forzata dalla negazione anaforica rimpolpata verso dopo verso, che non fa preludere nulla di buono e si configura come un vero e proprio rifiuto dell’arte poetica: il ricordo, pur se a quarant’anni di distanza, è ancora estremamente forte e velenoso, tanto insidioso da bloccare completamente un fenomeno spontaneo quanto quello di comporre versi.