Tutti gli articoli di Mattia Cravero

Ma tu che vai, ma tu rimani Vedrai la neve se ne andrà domani

Sofia D’Agostino, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva “ The winter’s tale”, nell’ottica dei corsi I drammi romanzeschi di Shakespeare I e II: Pericle, Cimbelino, Il racconto d’inverno e La tempesta, Letterature Comparate B, mod.1 e 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

La mia riscrittura propone una rivisitazione in chiave moderna del dramma The winter’s tale, incentrata in particolar modo sul personaggio di Laerte.

*

Tu ancora non conosci le infinite distese di questo mondo, io stesso ne ho visto solo una misera parte. In questa breve vita, tra le varie storie nelle quali mi son ritrovato, una in particolare provocò in me una sorta di cambiamento. Vedo nei tuoi occhi di lattante uno strano brillio che riconosco come mio. Ti racconterò questa storia che mi scosse nelle viscere, confidando nel tuo brillio.

Molti anni fa conobbi Laerte in uno dei miei viaggi. Mi feci invitare a corte, così da raggirare con le mie astuzie la gente e divertirmi con i loro vezzi. Al tempo Laerte, da buon re che era, prese un brutto raffreddore che gli gelò il cuore. Iniziò a vaneggiare, diceva cose che leggeva in un suo specchio capovolto. Così costrinse la bella Ermione, sua moglie, a lasciarsi morire, e sua figlia perduta fu, di fatto e di nome; chiamata così da un servitore della patria, che la lasciò in fasce sulle lande della Boemia che, impietosita, iniziò a lacrimare tanto da cintarsi di mura blu. Ecco cosa vidi quel giorno che così tanto mi slegò dall’effimero.

Erano ormai passati sedici anni, eppure alcune cose rimanevano intatte, così anch’ella rimaneva, viva dietro quella maschera di marmo. Nella notte era un faro per le anime che ancora non avevano trovato la pace. Illuminava la via con la sua aura pallida, era luna torva con una parvenza di grigio sulla schiena che faceva ombra ai viandanti che cercavano riparo dalle ingiustizie del mondo, rannicchiati sul suo dorso. Fiocchi di neve si scioglievano impietriti su di essa e il tempo finiva per piangere sotto i suoi begli occhi scolpiti. In un cimitero dove tutto era morto, essa piangeva per il dolore di tutte quelle anime che insieme a lei si univano in un coro di grida strazianti. Poi la neve si fece sangue, i sogni divennero folli desideri di morte; la morte che accoglie tutti nel suo grembo scuro.

Da lontano lo vidi; un vecchio che danzava col suo viso tra le mani, il viso di una statua che conservava nel suo silenzio la bellezza dell’umanità.

Laerte: “Oh mia cara Ermione, sogno d’argento fatto una notte di primavera. Lì sotto tu dormi da mille secoli in un’estate antica, sbiadita al sole ma impressa nello sguardo eterno del cuore. Ricordando insieme i nostri giorni più belli. Quando ancora il tempo non aveva scritto niente per noi. Ti vidi lì intenta a raccogliere asfodeli in quel campo che ora so non ti abbandonerà mai. Sfiorai il tuo viso e scoprii che avevi la stessa natura di quei petali. Troppo bella che anche la morte come sposa ti scelse vestendoti solo d’ un velo di nero dolore ornato di singhiozzi moribondi, te ne sei andata verso l’inferno sputandomi rose del colore del sangue. Giurerei che tu sia calda al tocco, mano, forse mi inganni?

Eppure non riesco a capire se lì dove sei il tuo essere attende, ti senti forse viva? Vorrei affondare le dita dentro di te e scuotere via quella luce, lavare via tutto quel colore, non per capire chi tu sia stata, ma chi tu fossi in principio, e che forse continui ad essere senza che tu lo sappia. Maleditemi dei! Maleditemi ora che tanto all’inferno ci sono già! Le lacrime misureranno il tempo, morendo annegato.”

 Sollevò il velo ed essa rimase nuda. Aveva il colore del bianco marcio di quel marmo addosso. Una tempesta dai lampi viola e verde sembravano fare a pugni per rimanere vividi sulla pelle nei lividi. Gemiti stanchi si udivano ogni volta che le versava le sue lacrime addosso, dai capelli gocciolava sangue rugginoso, tanto che l’acqua sembrava aver commesso un peccato.

Laerte:” Nei miei sogni, spesso, c’è una luce dietro l’occhio sinistro, vicino la tempia, quella luce mi ricorda te. Penso che tutto me stesso si racchiuda lì in quel piccolissimo punto, questo vuol dire che tu già mi eri dentro, ancor prima che t’incontrassi. Dimmi che è coincidenza, forse pazzia, sento solo un gran senso di appartenenza, ora che ti prendo tra le braccia sento di essere finalmente di nuovo intero, in un luogo immateriale, dove non c’è dolore né vecchiaia. Non  c’è niente, o quasi. Ci sei tu e ci sono io. Eppure ora non siamo che un piccolissimo punto dietro il mio occhio sinistro, vicino alla tempia. Si fa piano quando si muore, quando la vita ti sembra andare sempre più veloce e l’ultimo respiro è sempre il più bello. Non so quanto di questo sia reale, ma se così non fosse, non voglio saperlo, per me questo è l’addio al mondo, l’inganno più dolce.”

Sulla tomba dell’amata, Laerte ballava al suono di una canzone che sembrava ortica per le orecchie di chi non era ancora pronto a sentirla. Veniva direttamente dai suoi polsi squarciati, i tendini vibravano come le corde di un violino e, in rivoli rossi, si riunì all’ amata Ermione in un ultimo bacio che si trascina fino alla fine del mondo, rubando ai posteri il mistero della mela proibita.

“Anime perdute” tuonarono gli dei. Sopra quella tomba sembravano fare l’amore, ricordando a chi vive ancora, che il prezzo è la vita, al male fattosi in un’ora. E senza perdono, continuavano ad amarsi all’ombra del tempo che è morte e che, seppur onnisciente, il sangue non comprende. Gli dei pensarono bene di punirli ma, provando a seppellirli, li confusero con la natura dei semi. Nel bosco stellato un dio commosso pianse facendo nascere dalla rugiada del mattino due boccioli d’asfodelo, li volle baciare e distratto poi finì per intrecciare i loro steli, incastrandoli in un abbraccio immortale.

Rimasi nascosto a guardare tutto questo, poi la strada mi trovò e mi portò a casa su di essa. In un viaggio mistico vidi le stagioni confondersi e sfumarsi in un marasma di colori, come in un quadro con il mare sullo sfondo. Come i sognatori cercavo di non ritornare a quella realtà che triste non si poteva cambiare. Quando tentavo di capire cosa fosse quel “tutto”, quello mi rispondeva con un fiocco di neve sul viso, un raggio di sole o una scarica di pioggia che chiedeva ai miei occhi di dimenticare quei posti onirici. Rumore bianco, e il tempo che prima era molle, inspiegabilmente sembrò accelerare. Quel “tutto” mi sputò fuori, abbandonandomi di nuovo nella vita con questi fiori intatti, che avevano il profumo di chi ancora sogna. Riscoprii un me che sotto le palpebre aspettava di ricominciare a vivere. Ritrovatomi un’altra volta nelle veci di spettatore dell’epilogo di quell’inverno rovinoso.

 La vidi mentre raccoglieva quei due asfodeli che avevano delle sfumature rosse, come se il sangue scorresse nelle venature di quei petali. Un uomo che, cingendola tra le braccia, danzava con essa stavolta in primavera. Mi parve di riconoscerli, avevano la tua età quando li conobbi, e anche se il tempo cambia in superficie, alcune cose non possono essere stravolte. L’uomo era il giovane principe di Boemia e lei, bella come la madre, era Perdita, figlia di Laerte ed Ermione. Li vidi mentre si raccontavano il loro amore.

Anime in festa mi passavano davanti in processione verso il castello. Vidi il matrimonio tra nuche dispotiche, tutto si svolse teneramente, e quando attraversarono la navata con un vestito sobrio, ornato solo di quei due asfodeli che lei stessa aveva colto, mi mancò il coraggio di dirle che forse, quei due fiori portati fermi al cuore, erano in realtà i suoi genitori. Mi dissi che non avrei pianto, eppure non potei sottrarmi. Vedere qualcuno che finalmente si univa senza più dolore o sangue mi dava speranza, speranza per le nuove generazioni. Giovane Ulisse, che questa storia ti sia d’esempio, portala nel cuore e ricordala, i ricordi sono potenti, ti permettono di agire con coscienza, non sprecare gli errori d’ altri e, quando arriverà il momento, tu non lo sperperare, tieni a mente l’amore e questo sarà capace di riportarti a sé.

Bibliografia:
William Shakespeare, The Winter’s Tale, in Id., Tutte le opere. IV – Tragicommedie, drammi romanzeschi, sonetti, poemi, poesie occasionali, a cura di F. Marenco, Milano, Bompiani, 2019.

Omero, Odissea, a cura di R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi.

Il sonno della ragione genera mostri

Floriana Vacchina, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva la Tempesta di Shakespeare, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare II: Il racconto d’inverno e la Tempesta. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

La mia riscrittura propone una rivisitazione in chiave moderna del dramma La Tempesta di Shakespeare, incentrata in particolar modo sul personaggio di Stefano.

*

Stefano è più in ritardo del solito, si infila le scarpe di fretta, prende le chiavi e lascia che la porta gli si chiuda alle spalle. Il centro degli alcolisti anonimi non è molto distante dal suo appartamento, l’ha scelto apposta, così in cinque minuti di camminata è lì e si evita il peso ulteriore di dover prendere un pullman. E’ la terza volta che ci va, e anche la terza che ci va controvoglia, gli hanno detto che la cosa potrebbe aiutarlo ma a lui sembra solo di sprecare il suo tempo. Si domanda in che modo stare seduto per un’ora alla settimana su delle scomode sedie pieghevoli a sentire degli sconosciuti piangersi addosso e parlare dei loro problemi possa aiutarlo a risolvere i suoi.

Da qualche tempo ha anche iniziato ad andare dalla psicologa, le sta provando tutte per risollevarsi dopo il disastro della nave Ermione. Il problema è che è convinto di non fare progressi, ma almeno la sua psicologa gli piace: è giovane, non particolarmente carina ma dall’aria sveglia; e soprattutto sembra capirlo. Solo che gli sembra strano aprirsi con una sconosciuta più di quanto abbia mai fatto con chiunque altro in vita sua.

Gli incontri degli alcolisti sono alle tre di pomeriggio, Stefano pensa che sia un orario stupido, subito dopo pranzo gli viene l’abbiocco, e riuscire ad alzarsi dal divano per andare a quelle inutili riunioni risulta ancora più difficile. Scende le scale quasi di corsa e dal suo sesto piano si ritrova in strada, fa caldo, luglio si riflette sull’asfalto della periferia napoletana quasi deserta, le poche macchine passano veloci, Stefano si chiede dove vadano e perché tutti siano sempre così di fretta. Poi si ricorda di essere in ritardo e accelera il passo. Si infila meccanicamente le cuffie, fa partire una playlist e la voce di Pino d’Angiò lo accompagna lungo il tragitto; per arrivare all’associazione deve attraversare un ponte, si ricorda di quando da bambino stava lì sopra con i suoi amici a cercare di vedere dei pesci, ora non ha nemmeno il tempo di affacciarsi a guardare giù.

Dopo pochi minuti arriva al centro, è un vecchio edificio di colore verde scuro, piuttosto squallido e solo guardarlo mette tristezza, probabilmente risale agli anni Settanta ma già allora non dev’essere stato una gran bellezza. Quando Stefano entra sono già tutti ai loro posti, prende una sedia e la aggiunge al cerchio, sta parlando un certo Marcello, racconta di quella volta in cui si è dimenticato di andare a prendere la figlia a scuola perché era al bar a bere con gli amici. Stefano ascolta disinteressato, pensa agli affari suoi, decide che forse il prossimo a parlare sarà lui. I due incontri passati li aveva trascorsi semplicemente prestando orecchio a ciò che dicevano gli altri, ma si annoiava e già l’ultima volta aveva pensato che intervenire almeno sarebbe stato meno noioso. Così, non appena Marcello finisce il suo racconto, Stefano prende la parola e comincia.

 “Ciao, scusatemi ma vengo qui solo da due settimane e non so ancora bene come funzioni.

Mi chiamo Stefano e penso che a questo punto dovrei definirmi un alcolista, e si, probabilmente lo sono. Lo sono perché cercavo un modo per alleggerire la mia vita; ho  iniziato per divertimento, bevevo il venerdì sera con gli amici, o alle feste, mi serviva per svagarmi, per pensare un po’ meno; poi ho realizzato che quando bevevo ero una persona diversa, ero più spigliato, disinvolto, sicuro di me e ovviamente la cosa mi piaceva. Avrò avuto diciotto anni quando ho iniziato a bere, mi aiutava a provarci con le ragazze, ma si è inevitabilmente trasformato in un’abitudine e da abitudine è diventato un vizio. Ho iniziato ad esagerare, a bere anche quando ero da solo, a vent’anni ormai avevo sostituito la birra all’acqua, che non compravo nemmeno più. L’anno scorso ricevetti una proposta di lavoro come cameriere su una nave da crociera, ero disoccupato e quasi sempre solo, quindi decisi di accettare, del resto non avevo nulla da perdere. Inoltre viaggiare mi era sempre piaciuto e il mare mi affascinava, immaginavo la mia vita futura come quella dei personaggi de Il pianista sull’oceano. E’ più che prevedibile che non fu così: i turni erano davvero stancanti e troppo spesso le condizioni climatiche complicavano il tutto; inoltre quando finivo di lavorare, la sera, ero così stanco da volermi solo chiudere nella mia cabina a bere per poi addormentarmi ubriaco marcio.

Il mese scorso partii per una crociera di due settimane nel Mediterraneo, non era affatto un bel periodo per me, era appena mancata mia mamma. Non che avessi mai avuto questo gran bel rapporto con lei, non ci vedevamo da anni e me ne ero andato via di casa da ragazzo, ma era mia mamma, le volevo bene. Questa cosa, come si può prevedere, mi aveva portato a bere ancora più spesso, ma ero senza un soldo e decisi di partire ugualmente. Dovevo fare tutto il giorno avanti e indietro per servire quei ricconi che mi trattavano come uno zerbino, ero incazzato nero, odiavo tutto ciò che facevo e iniziai ad abusare dell’alcol anche mentre lavoravo. Ero perennemente sbronzo, il tempo era uno schifo, dormivo poco e male e il capo mi aveva già minacciato di licenziarmi, ma non mi interessava. Non mi interessava praticamente niente.

Un giorno verso l’una di pomeriggio ero in pausa pranzo, come sempre in compagnia di una bottiglia di gin. Non ricordo molto di quel momento, solo un frastuono assordante e uno scossone, caddi a terra e d’istinto, come un riflesso incondizionato, chiusi la bottiglia con il tappo perché non si rovesciasse. Sempre con la bottiglia in mano mi alzai e uscii dalla mia cabina per vedere cosa stesse succedendo: nel corridoio c’era un casino assurdo, gente che correva avanti e indietro urlando e chiedendo aiuto. Queste voci e queste immagine offuscate sono uno dei miei ultimi ricordi.

 Senza nemmeno il tempo di rendermi conto di cosa fosse successo e di averne paura mi risveglio nel pomeriggio su una spiaggia, i vestiti umidi appiccicati alla pelle, l’acqua del mare che mi accarezza ancora i piedi, la sabbia mi sfrega il viso e il sale mi avvolge il corpo; la prima sensazione è di calore, il sole mi colpisce dritto in faccia e appena dischiudo gli occhi mi sento già accecato. La luce non fa altro che appannare il mio cervello, non capisco

niente, non so dove sono e oltre che stordito sono ancora ubriaco.

Dopo alcuni minuti riesco ad alzarmi in piedi, cammino lentamente, trascinandomi, le immagini e i suoni nella mia testa non sono nitidi, intravedo solo delle sagome indistinguibili: alberi, sabbia, acqua, tutto è confuso e mescolato. Mi rendo conto che a terra c’è una forma che riconosco: è la mia bottiglia di gin, miracolosamente siamo naufragati insieme (che ironia raccontarlo ora). Sono disperato e faccio l’unica cosa che sono buono a fare: comincio a bere, del resto avevo anche sete e la bocca piena di sale, sicuramente non sarei stato in grado di trovare dell’acqua.

Sempre con la bottiglia di gin, come fosse un prolungamento della mia mano, faccio pochi passi e inizio a mettere a fuoco, distinguo una sagoma in lontananza, non capisco se sia un uomo o un pesce, se sia vivo o morto; questo strano essere risveglia anche un altro dei miei sensi: l’olfatto. Sento una puzza incredibile, mi entra nel naso e mi arriva alla testa, è un odore pungente che mi rincoglionisce ancora di più. La prima cosa che penso è di essere morto, sono sicuramente morto e questo è il diavolo, sta venendo verso di me per iniziare a torturarmi. Oppure mi chiedo se sono finito su una strana isola in cui il governo nasconde gli scarti della società, i prototipi di dio. Allora mi dico che potrei stare lì per sempre, che forse tra il cascame ho trovato il mio posto, che potrei essere più a mio agio su quell’isola che dove stavo prima. Anzi mi convinco che potrei addirittura diventare il re di quell’ipotetica succursale marcia del nostro mondo già abbastanza marcio. Devo solo trovare un modo per addomesticare questo uomo-mostro e farmi spiegare i segreti dell’isola così da sottometterli tutti, mi accorgo che l’unica arma che ho (l’unica che ho sempre avuto) è l’alcol, penso che lo farò ubriacare così da trasformarlo nel mio servo.

In questo mio delirio di onnipotenza vedo quell’essere avvicinarsi a me, vi sembrerà strano ma non avevo paura, non ero abbastanza cosciente per averne e mi sentivo invincibile: ero appena sopravvissuto ad un naufragio, un aborto della natura come quello sicuramente non mi avrebbe spaventato. Mi si avvicina e subito lo faccio bere, mi stupisco che parli la nostra lingua, gli chiedo dell’isola e conferma la mia ipotesi; al primo sorso di gin mi sembrava perplesso ma poi me ne chiede altro, inizia a dire di non aver mai bevuto niente di così buono e lo inneggia come fosse il nettare degli dei. Infatti in pochissimo tempo inizia a venerare me come fossi un dio e mi supplica di diventare il mio schiavo, dice che mi svelerà tutti i segreti del posto in cambio di anche solo una goccia del mio sacro gin. Dopo un po’ che parliamo il sole in faccia e l’effetto dell’alcool mi fanno sdraiare sulla sabbia calda, una sensazione di tepore mi avvolge e mi addormento.

 Mi sono risvegliato in un letto di ospedale, con accanto un’infermiera, scombussolato e senza aver capito niente di cos’è successo. La donna mi parla con un tono di voce pacato, per rassicurarmi, mi dice che la crociera Ermione, quella su cui lavoravo, è naufragata.

Il comandante ha urtato uno scoglio per errore e si è aperta una falla su un lato della nave, mi spiega che i soccorsi stanno ancora lavorando per salvare le persone bloccate a bordo o cadute in mare, non si capisce ancora bene il numero di morti e dispersi. 

Io sono caduto in mare e poi sono stato trasportato dalle onde sull’isola più vicina dove dei turisti mi hanno trovato delirante e hanno chiamato i soccorsi, mi dice che con la quantità di alcool che avevo in corpo è un miracolo che io sia vivo. Le spiego ciò che avevo visto e mi risponde che sicuramente è stata solo un’allucinazione dovuta all’alcool e al trauma subìto. Insomma volevo essere il re dell’isola, ma sarei stato un re un po’ malconcio.

Sono rimasto in ospedale per tre giorni, dovevano farmi alcuni controlli; da quando sono tornato a casa la gente che mi conosce e sa cosa mi è successo non fa che ripetermi che sono stato fortunato, e hanno ragione. La mia psicologa mi dice di non sprecare questa seconda possibilità che mi è stata data ed è quello che voglio fare; ma in realtà non vi nasconderò che le cose continuano ad andare di merda e smettere di bere è una lotta continua contro una parte di me, sono terribilmente scoraggiato e l’alcool è un pensiero fisso, ma almeno ci sto provando.”

Non appena Stefano finisce di parlare tutti si rendono conto che l’ora è finita ed iniziano ad alzarsi, c’è sempre un piccolo rinfresco alla fine delle riunioni, del caffè e alcuni biscotti, per  chi si vuole fermare a fare due chiacchere. Stefano le altre volte sgattaiolava via subito, ma decide di restare ancora una decina di minuti, immagina che avendo raccontato la sua storia qualcuno andrà a parlargli, e all’ego non si comanda.

A storm inside

Jasmine Gianfreda, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Ariel, Prospero, un’imminente partenza e una violenta tempesta.

   *

Prospero aveva iniziato a studiare la sua Arte quando aveva a malapena vent’anni, quand’era ancora un giovane futuro Duca di Milano taciturno e molto più interessato alle lettere, alla filosofia e alla scienza che non alla vita mondana e agli intrighi di corte; l’esatto opposto di Antonio, il suo sanguigno, impetuoso e ambizioso fratello. Non era altro che un giovane assetato di conoscenza, il cui animo non aveva potuto far altro che cedere d’innanzi al fascino del sovrannaturale e dell’esoterismo, dedicandosi animo e corpo allo studio della magia naturale e di tutte le pratiche rituali ad essa collegate, andando a scavare e frugare fra gli insegnamenti più svariati alla ricerca del vero sapere. Era dunque dell’opinione che ora avesse perfettamente senso concludere quella lunga fase della sua vita in modo repentino.

Il silenzio in cui era avvolta la sua piccola stanza aveva qualcosa di sacrale e ineluttabile, infranto solo dal suono delle pagine che venivano strappate dalle sue mani. Era ormai arrivato a metà del secondo libro, quando uno spiffero improvviso lo colse alle spalle, solleticandogli i capelli, sparpagliando parte delle pagine che gli si trovavano di fronte e interrompendo il suo rituale. Prospero lasciò andare la pagina, attaccata ancora per metà al dorso del libro, per poi passarsi velocemente una mano sugli occhi stanchi e sulla fronte tesa.

“Ariel”, disse, “so che sei tu”.

Un fruscio distinto risuonò alla sua destra per qualche istante, per poi espandersi fino ad uno degli angoli della cella e dissiparsi con la velocità con cui era comparso, lasciando posto alla figura di Ariel, appollaiato sullo schienale dell’unica sedia in possesso di Prospero.

“Salute a te”, gli disse lo spirito, piantando i suoi grandi occhi madreperlacei sui libri sparsi davanti a quello che, per ancora un giorno, era il suo padrone. ”Perché tanto accanimento? Credevo amassi i tuoi libri”.

Prospero sospirò, sfiorando la pagina, che aveva strappato solo a metà, con la punta delle dita. “E’ così. Indubbiamente”, commentò infine, afferrandola e finendo di separarla dal resto del libro, “Ed è proprio per questo che sto facendo ciò. In questo modo la separazione sarà più facile, quando dovrò rinunciare ai miei studi una volta per tutte”.

Ariel lo guardò in silenzio mentre strappava alcune altre pagine con una lentezza estenuante e quasi dolorosa. Fu solo quando la mano dell’uomo si allungò verso un altro libro che lo spirito fece udire di nuovo quella sua voce inumana, che sembrava sciogliersi nell’aria ad ogni parola. “Che cosa hai intenzione di fare, ora che hai riavuto il tuo ducato?”, domandò in un soffio, ancora intento a fissare lo sguardo su quel mare di carte che si allargava fra di loro.

Prospero sembrò soppesare la domanda per qualche secondo, prendendo in mano il libro, rigirandolo, aprendolo e richiudendolo; poi, con un gesto di studiata naturalezza, alzò le spalle e picchiettò un dito sulle pagine ingiallite e macchiate. “Ancora non lo so. Non che la cosa sia di così grande importanza, dopotutto: ciò che conta davvero è che Miranda ora potrà essere felice al fianco del suo principe, senza contare che avrà finalmente l’opportunità di vivere come si addice ad una fanciulla del suo rango. Per quanto riguarda me, mi basta che giustizia sia stata fatta”, il legittimo Duca di Milano piegò la bocca in un mezzo sorriso che, in verità, assomigliava di più ad una smorfia, “Dopotutto, ormai ho quasi cinquantacinque anni. Non penso mi rimanga molto da vivere”.

Lo sguardo di Ariel saettò per un secondo nella sua direzione, le labbra si strinsero in una linea sottile e arruffando le piume che gli ricoprivano le spalle in un gesto inconscio, tornò a guardare le carte strappate a terra. Prospero credette di sentire l’aria farsi più fredda all’interno della stanza mentre un silenzio quasi palpabile calava su di loro, interrotto occasionalmente solo dallo sciabordio delle onde in lontananza e dalle grida degli ultimi gabbiani che ancora inseguivano il sole, in un vano tentativo di non vederlo tramontare.

“Quando avremo finito?”, domandò Ariel all’improvviso, cambiando repentinamente argomento e puntando gli occhi verso l’entrata, da cui era visibile un lembo di cielo rossastro. “Avevamo stabilito che per le sei di oggi sarei stato libero, eppure mi è stato dato ancora un altro compito”.

Prospero rimase interdetto per alcuni lunghi istanti, bloccandosi con una mano a mezz’aria in procinto di afferrare l’ennesima pagina. I suoi occhi si posarono, indagatori, sulla figura esile di Ariel, che era intanto sceso dalla sedia e si era fatto più vicino all’entrata, apparentemente rapito dallo spettacolo di quel tramonto che aveva già visto migliaia di volte; i suoi piedi, come spesso accadeva, sfioravano appena il terreno, ma la sua mano era aggrappata alla pietra levigata che faceva da ingresso, come se si stesse impedendo di scappare. C’era qualcosa di profondamente strano e incomprensibile in quella situazione, tanto che Prospero percorso da un leggero tremito, lasciò ricadere la mano, ancora bloccata in aria, lungo il fianco.

“Manca solo un giorno, Ariel. Non mi sembra di chiedere poi molto”, commentò, lapidario.

Ariel non si voltò verso di lui. “Questo non è altro che un continuo posticipare”, ribatté.

“Si può sapere cosa ti prende oggi?”, sbottò Prospero, chiudendo il libro, che aveva ancora in grembo, con un gesto secco e permettendo ad alcune scintille di irritazione di accendersi dentro di lui. “Mi pare proprio che tu sia ancora più volubile del solito. Hai atteso dodici anni per la tua libertà. Non credo proprio che sarà quest’unico giorno a fare la differenza. O la pensi forse diversamente?”.

Finalmente lo spirito si girò verso il suo interlocutore con uno scatto che fece volare alcuni dei pezzi di carta più vicini. “Come se oggi io fossi l’unico a comportarmi in modo volubile o contraddittorio”, Ariel guardò in basso per un paio di secondi con le labbra tese in una linea sottile, “Ho atteso per dodici anni, hai ragione. Dodici anni in cui tu, a quanto pare, non hai fatto altro che sfruttarmi”.

Prospero sbatté per terra il libro, facendo sobbalzare Ariel, ma non fece alcun gesto d’alzarsi, né si mosse di un millimetro, rimanendosene semplicemente seduto per terra con i pugni stretti e la mascella contratta. Quando li alzò per piantarli in viso allo spirito, i suoi occhi erano accecati dalla rabbia. Ariel era riuscito a sconvolgere la sua calma con un’unica parola.

“Molto bene, allora”, replicò seccamente, continuando a fissare Ariel dritto negli occhi, “Capisco le tue ragioni, ma non temere: nel giro di poche ore, dopo che avrai garantito a mia figlia, alla sua nuova famiglia e a me un viaggio veloce e sicuro verso Napoli, ogni legame fra di noi sarà reciso per sempre. Quindi ora puoi anche sparire dalla mia vista, per quanto mi riguarda”.

Ariel rimase interdetto. Non era certo la reazione che si aspettava.

Prospero poteva chiaramente vedere il movimento frenetico delle iridi incolori dello spirito che rimbalzavano da un angolo all’altro del suo viso, passando dalla piega dura e inflessibile della bocca sino alla fronte corrugata e tesa, per poi fermarsi nei suoi occhi e congelarvisi. L’incantatore osservò con una certa sorpresa le labbra di Ariel schiudersi ed essere attraversate da un breve tremito di parole incapaci di farsi udire.

All’improvviso, l’aria si fece stranamente fredda e il rombo di un tuono risuonò ed echeggiò all’esterno della stanza, seguito dal picchiettare umido di gocce d’acqua sempre più abbondanti e rapide nella loro caduta. Il suono della pioggia echeggiava dentro al torace di Prospero, che stava ritrovando la calma perduta poco prima, stordendolo ed assordandolo mentre fissava le labbra di Ariel che continuavano a tremolare.

Prima ancora che Prospero potesse aprir bocca, Ariel si dissolse nell’aria umida e gelida, scomparendo.

*

Grosse nuvole cariche di pioggia oscuravano la luna da ore, ormai, riversando le gocce di pioggia fitte e pesanti sull’isola, affondando nel mare scuro; di tanto in tanto, un lampo saettava nel cielo, seguito dal brontolio di un tuono, che andava a interrompere il fragore della pioggia e si diffondeva per l’aria umida in un crescendo che arrivava a colpire le orecchie di tutti gli ospiti dell’isola, o quasi. Ferdinando era già addormentato, vinto da una stanchezza tale da donargli un sonno profondo e immune al fragore dei tuoni, ma gli occhi di Miranda rimanevano spalancati nel buio, la mente della ragazza troppo febbrilmente agitata per poterle concedere il riposo che ricercava.

Suo padre era ancora sveglio, lo poteva capire dalla luce che filtrava da sotto la rudimentale porta che separava la camera da letto dallo studio di Prospero. Era tutta la sera che non lo vedeva, si trovò a riflettere Miranda, lanciando uno sguardo preoccupato verso la porta; sapeva bene quanto suo padre fosse abituato a seppellirsi nei propri studi e nelle proprie mansioni, ma qualcosa le diceva che quella notte era diverso, che c’era qualcosa di sbagliato. Forse era il silenzio tombale che proveniva da quella stanza, forse quel temporale improvviso, forse la somma di tutto questo e degli avvenimenti della giornata appena trascorsa, non avrebbe saputo dirlo con esattezza.

La fanciulla si alzò lentamente in piedi, scavalcando gli uomini dormienti con agilità silenziosa e aprendo delicatamente la ruvida porta di legno, intenzionata a chiedere a suo padre di abbandonare qualsiasi cosa stesse facendo almeno per quella notte, o, per lo meno, di raccontarle cosa gli passasse per la testa, così da poter stare in compagnia, se proprio dovevano stare svegli, in quella strana notte di pioggia. Tutti i propositi di Miranda, tuttavia, vennero meno nel vedere suo padre, serio come non mai e interamente avvolto nel proprio mantello, che si apprestava ad uscire.

“Padre?”, lo chiamò in un sussurro, strizzando gli occhi in risposta alla luce delle candele ancora accese, “Dove pensate di andare con questo tempaccio? Rischiate un malanno, questo è sicuro”.

Prospero si girò con lentezza verso la figlia e le sorrise di un sorriso stanco e affezionato. “Ci sono molti errori per cui non ho ancora fatto ammenda, mia dolce figlia. Alcuni mi premono sulla coscienza e sul cuore più di altri. Ma ora torna a dormire, non badare a questo vecchio sciocco che credeva di poter trovare ogni verità nei suoi studi e che ha sempre preferito i dettami della ragione a ciò di cui aveva davvero bisogno e a ciò che la sua anima desiderava, rimanendo con nient’altro che polvere fra le dita”.

Miranda corrugò la fronte. “Temo di non capire”, disse.

“Te l’ho detto: non badare a me, ma torna a dormire”, ribadì Prospero, per poi alzarsi il cappuccio scuro sulla testa e uscire all’aperto, scomparendo in mezzo alla pioggia battente.

*

La notte era buia come non mai, con fredde gocce di pioggia che, riuscendo ad attraversare le fitte fronde degli alberi, arrivavano a colpire la figura incappucciata di Prospero, attraversandogli il mantello e penetrandogli fin dentro la pelle. Eppure, l’uomo andava avanti nella sua ricerca come se nulla di tutto questo lo toccasse, tendendo le orecchie, insieme ad ogni nervo del corpo per captare anche il più debole stormire di vento o la più fioca traccia di magia nell’aria.

Fu in vicinanza di un grosso albero che, finalmente, un sottile frusciare di foglie, riuscendo a superare il rumore della pioggia, attirò l’attenzione di Prospero e lo spinse fino alla fonte del suono. La mano intorpidita dal freddo del mago si appoggiò contro il tronco, tastandone la consistenza ruvida e bagnata mentre il suo sguardo si spostava verso una fronda particolarmente folta.

“Ariel, so che sei lì”, chiamò Prospero, aspettando una risposta che non giunse. “E so anche che ora che sai che sono qui non te andrai da quel ramo”.

Per alcuni secondi non si udì nulla al di fuori del temporale, poi una voce bassa e recalcitrante decise di farsi sentire. “E anche se fosse?”. “Ariel, scendi giù di lì”, gli disse Prospero con un tono cauto e fermo. “O almeno renditi visibile”.

Nel giro di pochi istanti un guizzo di blu apparve fra le foglie e la testa di Ariel si sollevò quel tanto che bastava per poter osservare Prospero da sopra la fronda, esponendo i grandi occhi madreperlacei dello spirito allo sguardo di Prospero, il quale se ne stava ancora immobile sotto alla pioggia. L’uomo allungò una mano, piegando le dita in un gesto che invitava il suo servitore a scendere a terra.

“No”, scosse la testa Ariel, stringendosi di più fra le foglie che attraversavano il suo corpo etereo e tornando a nascondere la testa, “Resto qui”.

“Ariel”, ripeté, allungando nuovamente una mano nella sua direzione, “Scendi, te ne prego”.

Ariel lo fissò per alcuni secondi, per poi scivolare giù per il tronco dell’albero in una corrente d’aria e rendendosi di nuovo visibile agli occhi di Prospero. L’uomo afferrò la mano nuovamente tangibile dello spirito prima che potesse allontanarsi un’altra volta, attirando su di sé lo sguardo confuso di Ariel, che, tuttavia, non cercò di ritrarsi dal contatto.

“Questa pioggia è colpa mia, Ariel?” domandò l’uomo in un soffio, stringendo inconsciamente la mano fresca e sottile che si trovava nella sua.

Lo spirito abbassò lo sguardo, mentre un fulmine attraversava il cielo, illuminando le due figure ritte sotto la pioggia. “Sì e no. Non lo so”, rispose Ariel con una nota tremante nella voce. “Non riesco a capire”.

“Cosa non riesci a capire, mio delicato Ariel?”

Il tuono risuonò.

“Questo. Tutto!”, esclamò Ariel, muovendo la mano libera verso di sé con gesti nervosi e abbozzati, per poi acquietarsi nuovamente. “Per me tutto era molto più semplice ventiquattro anni fa. Conoscevo la gioia, la tristezza, persino la rabbia e la paura, ma nulla di più. Noi spiriti degli elementi siamo così: troppo legati alla Natura e alla sua essenza per provare nulla di più complesso e porci domande su di esso. Anche io ero così, prima di Sycorax, che mi ha costretto a conoscere il disprezzo, l’odio, il desiderio di libertà. Ma quelle erano cose piuttosto facili da comprendere, dopotutto, mentre ora…”.

“Mentre ora…?”, lo incitò a continuare Prospero, sfiorandogli il mento e facendogli alzare la testa, permettendogli di stringergli la mano in una presa che assomigliava di più ad uno spasmo.

“Ora semplicemente non capisco, perché quello che mi si agita dentro non ha senso e sono confuso, e spaventato, e…”, Ariel si interruppe nuovamente, fissando Prospero con quei suoi occhi grandi e, come solo ora l’incantatore riusciva a notare con chiarezza, lucidi. “Io voglio essere libero. Lo voglio con ogni fibra del mio essere, con ogni soffio di vento e goccia di rugiada con cui la magia e la Natura mi hanno plasmato. La libertà è ciò per cui noi spiriti viviamo, ma, allo stesso tempo, ho paura, moltissima paura”.

“E di cosa?”

Ariel ci pensò su per alcuni istanti che a Prospero sembrarono eterni. “Del futuro. Di quello che può succedere, di quello che succederà ora. Di tutte le cose che provo e che non capisco, tutte quelle cose che prima del tuo arrivo sull’isola non pensavo neanche fosse possibile provare”. Il suo sguardo si fece vagamente vacuo, come se fosse alla ricerca di qualcosa che non poteva vedere, toccare, percepire. “Provo una sensazione così strana, di ansia, di gioia, di paura, di tristezza e di dolore. Perché non importa cosa io provi in questo momento: tu ora te ne tornerai fra gli altri uomini senza potermi più spiegare cos’è questo nodo nel mio petto, sparirai dalla mia vita come io dalla tua perché è quello che vuoi e che immagino sia giusto, ma…”

A Prospero si strinse la gola e, senza che potesse far nulla per fermarsi, la sua mano libera andò a posarsi sul viso di Ariel, accomodando la guancia di lui nel proprio palmo e lasciandogli scivolare i polpastrelli intorpiditi fra i capelli mentre cercava le parole. Ariel chiuse gli occhi e si rilassò quasi completamente, abbandonando il peso della propria testa nella mano dell’uomo di fronte a lui.

“Tu credi che io non ti voglia”, mormorò Prospero, facendosi più vicino, lasciando che Ariel gli poggiasse la fronte sulla spalla, “Credi che in questi anni ti abbia usato solo come uno strumento per raggiungere i mei fini e che liberarti libererà anche me”.

Ariel annuì contro la sua clavicola. “Mi sbaglio?”, chiese in un soffio che si diffuse intorno a loro e andò a smuovere i corti capelli sulla nuca di Prospero.

“Sì. Non sei mai stato più lontano dalla verità come in questo momento”, rispose questi, “Sei come un figlio per me, Ariel. E anche se mi si spezza il cuore, io ti concedo la libertà. Non perché liberando te, libererò me di un peso, ma perché è la cosa giusta da fare e perché ti meriti di vivere quella sensazione di gioia che dici di conoscere, ma che in realtà, per ora, conosci solo in parte”, disse Prospero con le lacrime agli occhi e stringendo forte a sé il corpo dello spirito scosso dai singhiozzi. Guardandosi intorno si domandò poi, distrattamente, da quanto la pioggia avesse smesso di cadere.

Bibliografia
William Shakespeare, La Tempesta, tr. it. di Agostino Lombardo, Feltrinelli, 2018

Italiano: la libertà di una lingua classica

Venerdì 18 ottobre 2019
Incontro al Circolo dei lettori con Gian Luigi Beccaria

La lingua italiana è nata e si è sviluppata fortemente ancorata al suo retroterra greco-latino, ma non necessariamente questo modello illustre ha costituito una costrizione o un ostacolo al suo evolversi; l’intervento di Gian Luigi Beccaria al Circolo dei lettori sviscera in una prospettiva storica la ricchezza, la fecondità e la libertà di quella che può essere definita, in tutti i sensi, una lingua classica. 

*

La lingua dei classici non ha costituito per l’italiano un impaccio, ma ha collaborato a mettere a disposizione una più libera e ricca varietà di registri, agendo anche come spinta al rinnovamento neologico sia nella forma che nel significato.

Rispetto alle altre lingue europee l’italiano contiene una straordinaria quantità di tratti greco-latini, che non hanno costituito una verniciatura di stantio, bensì un segno distintivo di nobiltà. Se le altre lingue sorelle hanno in molti casi adottato parole dal sapore più quotidiano e dimesso, l’italiano ha invece amato coloriture dotte e anticheggianti. Le opposizioni tra parole italiane dall’origine dotta e parole francesi più umili sono innumerevoli: basti pensare alla nostra cipria, che prende il nome dall’isola di Cipro mentre l’equivalente francese poudre può vantare un’origine molto meno nobile, oppure al piroscafo, chiamato più semplicemente dai francesi bateaux, o al nostro solenne fiammifero paragonato al più dimesso alumette.

Molte rivalità lessicali hanno rivolto il conflitto a favore della soluzione anticheggiante: il telescopio venne preferito al cannocchiale di Galileo, e il dotto Pietro Giordani, che nell’Ottocento suggeriva di utilizzare radici italiane per modellare nuovi termini scientifici, sostituendo grecismi come termometro e anemometro con coniazioni italianeggianti come segnacaldo, misuravento, non vide realizzato il suo desiderio.

Innumerevoli cultismi e latinismi sono entrati nell’uso medio-alto della nostra lingua, tanto incombenti da portare a un’esibizione del latino foneticamente non adattato (aurea medietas, est modus in rebus), che nel pomposo italiano avvocatesco conobbe il suo terreno più fertile. Negli scrittori la classicità ha poi ricoperto svariate funzioni: non solo ha steso una patina anticheggiante sul lessico e sulla sintassi, ma è diventata un ingrediente essenziale del ribollio espressionistico di tanti autori che hanno voluto intenzionalmente accostare l’alto e il basso, il sublime e l’antico con il dialettale, da Dante a Gadda a Michele Mari.

L’antico ha insomma costituito un elemento fondamentale della nostra tradizione letteraria e le ha fornito una gravità segreta che pescava dal passato, una scelta anticheggiante che sembra minore nella tradizione di altri paesi: l’italiano ha conservato più a lungo il senso robusto del periodo, l’onda lunga latineggiante e compatta che ricerca la simmetria, gli effetti retorici delle clausole medievali, il parallelismo delle rispondenze di concetti e di ritmi. Il latino ha arricchito sin dalle origini le risorse del volgare, e la prosa medievale nasce già ricca dell’ornatus ciceroniano, il cui impianto durerà fino ai prosatori dell’Ottocento.

In particolare è nell’ambito della poesia che in Italia si è guardato alla tradizione classica: Alfieri amava in maniera appassionata i costrutti con sapore latino e greco, si estasiava di fronte alle inversioni, alla posizione innaturale dell’aggettivo prima del nome. Eloquente è la sua annotazione autografa sul sonetto 162, “Ad alte cose io nato me sentiva”, e ancora di più lo è il modo in cui definisce l’ordine non marcato della frase: “fiacchissimo verso”.

Dovremmo parlare di un modello o piuttosto di una costrizione? Che tipo di libertà può avere una lingua che guarda costantemente all’indietro?

La realtà è che i modelli antichi non hanno mai stretto in ceppi la nostra lingua, ma al contrario le hanno dato vigorose spinte verso un progressivo miglioramento. La frequenza dei latinismi lessicali e sintattici non è causata dalla debolezza di una prosa neonata che si va formando e che ha bisogno di stampelle, ma dalla ricerca consapevole e libera di una guida forte. Non a caso i grecismi e i latinismi apportano una fortissima spinta alla neologia, non solo di forma ma anche di significato: il latino captivus passa dal significato di “prigioniero” a quello di “malvagio”, sotto l’influsso del cristianesimo; sul significato di tradire il cristianesimo opera poi un passaggio semantico notevole, da “consegnare” a “consegnare qualcosa al nemico con l’inganno” – ai tempi delle persecuzioni infatti i vescovi traditores consegnavano i libri sacri alle autorità.

L’impronta latina sul significato delle parole nei primi secoli della letteratura italiana è particolarmente evidente in quanto conferisce ai singoli termini una potenza etimologica che col tempo è andata lentamente svanendo: nella Commedia gli aggettivi molesto e mesto compaiono in situazioni di particolare drammaticità e il loro valore è notevolmente più connotato in senso gravoso rispetto a quello odierno, è più forte in quanto desunto direttamente dal latino. Il latinismo quindi non fornisce solo una patina di vetusto e arcaico, ma riporta la parola ad un significato potente originario, per forza di etimo, che viene sfruttato sapientemente dagli scrittori per conferire sfumature ai loro testi.

La ripresa neoclassica ottocentesca e il conseguente incremento dell’uso del latino costituiscono una spinta di ardimento innovativa, che sarà intensificata con i contributi di D’Annunzio e Carducci – quest’ultimo in particolare esprime la sua preferenza nei confronti dei latinismi anche nello schema accentuale dei termini da lui scelti, tendenzialmente proparossitoni (colubro, adamantino, cuculo).

Gli agganci alla classicità continuano ancora nella seconda metà del Novecento; proprio quando tutte le vie per segnare la distanza dal passato sono state attraversate gli echi del passato continuano ad affiorare, anche quando si dà l’addio al tono liricamente aulico non ci si riesce a staccare dall’ancoraggio all’antico. Un esempio lampante di questa persistenza è l’iperbato, figura nobile e anticheggiante che viene ripresa spesso nel secondo Novecento, proprio quando la poesia simula maggiormente il parlato e l’oralità. Gli autori del secolo scorso quando scendono verso il parlato non vogliono mostrare nessun sintomo di depressione stilistica, e corrono a mettersi al riparo di coperture anticheggianti: Sereni e Caproni preferiscono spesso una sintassi antilineare, che però non assume il significato di esposizione di antiquariato, bensì viene applicata all’interno dei loro andamenti più colloquiali, per innalzare il tenore di una sintassi che tende all’oralità.

Se il Novecento è caratterizzato da versi moderni che scrivono a tratti all’antica in una voluta ed esibita innaturalità, possiamo ravvisare in Leopardi l’ultimo ad aver scritto per arcaismi nel modo più naturale, ad aver saputo coniugare l’attualità e la spontaneità con il cultismo, ad aver espresso messaggi di contenuto nuovo tramite strumenti antichi. La libertà e l’antico in lui collimano, nella sua poesia si condensano tutta la tradizione antica e quella moderna e i classici si fanno davvero carne, non solamente sterili citazioni: i fuochi di Troia e le luci di Recanati diventano la stessa cosa, la sua luna domestica coincide con quella di Virgilio e di Omero.

Volgendo il capo ai predecessori Leopardi ha saputo raccogliere i frutti migliori, i cosiddetti “frutti freschi fuori di stagione”, come lui definiva gli arcaismi, pensando la letteratura italiana come una corrente dal suono familiare e insieme antico. In lui più di ogni altro la lingua dei classici non ha rappresentato una prigione o un freno, ma ha suscitato una continua libertà espressiva.

Linda Dellacroce

Una storia di redenzione

Gioele Roccia, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Winter’s Tale shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare II: Il racconto d’inverno e La Tempesta. Letterature comparate B, mod.1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Il progetto di questa riscrittura parte dal lavoro della compagnia Inteattrabili basato sullo studio e sulla comprensione dei limiti. Da qui è nata l’idea di analisi introspettiva di Leonte e di quali sono i limiti che lo tormentano e le portano ad agire in quel modo.    

*

Ho deciso di scrivere queste poche parole per trovare nell’animo sollievo, e forse per far si che voi leggiate questo e mi capiate… credo che solo così potrete perdonare i gesti di un folle. Perché si, i miei gesti son stati follia, ma non di quella che muove l’uomo nel suo fare quotidiano, ma di quella che annebbia inesorabilmente la ragione e porta alla sofferenza, personale e collettiva. Non so cosa generò realmente in me quell’amore diventato malsano, avevo forse paura di perdere tutto ciò che c’era attorno a me. La gelosia bruciò tutto attorno a me.

Su tutti i pensier si pone il limite
della strana ragione detta amore.
Che poi silente si innesta in testa,
vorticano emozioni in un non dialogo
Vogliono giungere ad una decisione:
oscurar nel cuor l’angusta rabbia.

Fu così che da solo mi posi un limite, l’amore assunse strani colori verdi. La gelosia stava prendendo il suo posto. Se soli fossi stato più saggio e razionale avrei capito che le mie passioni mi stavano ingannando, ma forse non ho voluto vedere il vero. Ho lasciato che i dubbi oscurassero la mia mente e distruggessero quel dialogo interno fra le sfere emotive. In preda alla paura pensavo che il mio amore si fosse rivelato una menzogna, la paura divenne così dubbio e infine certezza. Fui accecato dal mio stesso pensiero.  Nella cecità e nel dolore, per cercar sollievo, decisi di agire mosso dalla rabbia: condannai ogni cosa intorno a me. Qualsiasi cosa che fosse da lei stata contaminata, precludendomi gli affetti e soffocandoli nell’ira distruttiva.

Ma mi chiedo, cosa mi dà rabbia?!
E’ quell’invalicabile limite
che mi impedisce di prender decisione?
Strano esser bloccato da te, Amore.
Dammi tempo e concedimi il dialogo.
Placa le paranoie che ho in testa.

Non ho ancora capito cosa crei in me rabbia, se il fatto di non saper agire e prender decisioni nei confronti di una giovine creatura o se sia solo l’odio che provo per lei a generare questo malessere. Forse non ero ancora completamente corrotto dalla mala passione, con l’io cercavo ancora di dialogare; cerco di capire perché ho fatto tutto ciò ma la rabbia è comunque ancora forte. O magari sono adirato con Amore? Per il suo avermi abbandonato e condannato, ed è lei a non permettermi di decidere? In futuro avrei solo ringraziato che mi avesse fatto esitare. Forse in un ultimo disperato grido per lei volevo ritrovare il senno, che pareva esser sigillato in altri mondi. Un’ultima preghiera vana rimane inesaudito e inizia così un viaggio in un abisso senza fondo.

E ancora corrono i pensieri in testa,
il poco controllo genera rabbia.
Ora nego il possibile dialogo…
E mi par di relegarmi nel limite,
Illuso rinnego i gesti d’Amore
Torno a pensar alla sciocca decisione.

Ho ormai raggiunto il limite, non controllo più me stesso e ciò che corre nel mio animo. La gelosia che era stata padrona delle mie passioni mi lascia in un senso di vuoto. Di rabbia. Ha cancellato la mia vita.  Non riesco a comprenderla e il solo pensare a questa rabbia accende in me una nera fiamma che brucia l’io e mi impedisce il dialogo. E’ un cane che si morde la coda, aizzandosi ancora di più contro sè stesso. Più cieco che mai non posso capire il disegno superiore di Amore e Provvidenza, tanto tolgono ma altrettanto regalano. L’unica cosa è inveire contro di lei per il blocco che mi ha causato; ripenso e trovo stupida la scelta di lasciare in vita una innocente creatura. Che di lei mi ricorderà sempre.

Ho ansia per una sola decisione?
Non so più cosa mi succede in testa.
Ho perduto speranza nell’amore,
piango, solo, sono in preda alla rabbia.
Ora trovo il mio più basso limite,
ma con chi posso instaurare un dialogo?

Mi sono finalmente accorto che nel buio più profondo si può vedere in alto la luce calda e accogliente della rinascita, è quando hai perso tutto che forse nell’ultimo atto di folle lucidità capisci cosa hai perso, e quanto hai sofferto. Mi è stata data la possibilità di vedere di nuovo. Inizio a capire i miei errori, l’ansia del passato bracca la sua prede con il fiato sul collo. La mia mente viaggia sregolata ma ora è più facile comprenderla, devo solo poter tornare a parlare con qualcuno del peso che grava su di me. Ho ancora il peso di quella scelta addosso, e deve esser cancellato.

Certo con l’io reinizio il dialogo
svelto troverò una decisione
per trovare e superare quel limite.
E così alleggerir la mia testa,
sopprimere ogni forma di rabbia
e consacrar la vita nell’Amore.

Ho, ora capito, dopo decenni che devo essere io il primo a perdonarmi, devo tornare a parlare con me comprendermi, compatirmi e trovare la strada della redenzione. Ora voglio cercare il modo per redimere il mio peccato… Bhe, forse è impossibile tornar puro. Però sono sicuro: devo impiegare la mia vita al bene e consacrarla nell’Amore delle persone, perché è solo donando amore che la propria vita ottiene gioia. Guardate il mio passato seminando dubbi ho raccolto solo sofferenza e morte, e per tutte le cose di cui mi son privato voglio donar vita a qualcosa di nuovo. Un giorno donando bene e gioia, Amore mi permetterà di tornar ad il esser suo fedele araldo.

Risorgo nella luce dell’Amore,
a tutti elargirò il mio dialogo.
Dottrina sublime annulla la rabbia
E in voi nascerà questa decisione.
Spinta dal fuoco come scintilla in testa
Ogni azione andrà a superare il limite.

E nell’amore per me stesso ed il prossimo che si è compiuta una rinascita. Certo è nata da una sofferenza che io ho creato, e che ho cercato di risanare. Voglio gridare al mondo l’importanza del fare del bene agli altri. Come insegnava un antico eremita ridente: solo il superamento della rabbia e dolore ci potrà portare in un posto migliore, questa è da molti definita sublime dottrina… Voglio che questa dottrina instilli in voi il dubbio, quello della scoperta e dell’elevazione sicchè un nuovo fuoco alimenti il vostro animo nella mente sopito, ogni nostro gesto sarà atto a conoscere i nostri limiti per infrangerli e superarli nelle gioia finale e nella condivisione comune.

Devo dire che però senza l’intervento divino, della magia o della provvidenza tutto ciò non sarebbe mai accaduto. Son stato forse l’uomo più soggetto a buona sorte, tutto ciò che perso mi è stato ridato. Solo nell’assenza dei miei affetti ho capito quanto in realtà loro erano importanti per me, ho così iniziato un lento cammino di redenzione. Questo è stato osservato e ammirato dai cieli, e le mie donne sono ora di nuovo con me. Ho un solo rimpianto, ma dedicherò la mia vita a distruggere con la parola quei dolori dell’animo che hanno portato via un angelo. Amore mi ha tolta una gioia della vita ma il ri-trovare tutti quegli affetti persi è come vederli di nuovo nascere, ogni nuova vita porta con sé novità. Altra conoscenza che mi permetterà di essere migliore per voi.

Pensa come il dialogo crei Amore
E come la rabbia ponga il limite
Per la decisione nata in testa.

Bibliografia
William Shakespeare, Winter’s Tale, Independently published, 2019