Ma tu che vai, ma tu rimani Vedrai la neve se ne andrà domani

Sofia D’Agostino, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva “ The winter’s tale”, nell’ottica dei corsi I drammi romanzeschi di Shakespeare I e II: Pericle, Cimbelino, Il racconto d’inverno e La tempesta, Letterature Comparate B, mod.1 e 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

La mia riscrittura propone una rivisitazione in chiave moderna del dramma The winter’s tale, incentrata in particolar modo sul personaggio di Laerte.

*

Tu ancora non conosci le infinite distese di questo mondo, io stesso ne ho visto solo una misera parte. In questa breve vita, tra le varie storie nelle quali mi son ritrovato, una in particolare provocò in me una sorta di cambiamento. Vedo nei tuoi occhi di lattante uno strano brillio che riconosco come mio. Ti racconterò questa storia che mi scosse nelle viscere, confidando nel tuo brillio.

Molti anni fa conobbi Laerte in uno dei miei viaggi. Mi feci invitare a corte, così da raggirare con le mie astuzie la gente e divertirmi con i loro vezzi. Al tempo Laerte, da buon re che era, prese un brutto raffreddore che gli gelò il cuore. Iniziò a vaneggiare, diceva cose che leggeva in un suo specchio capovolto. Così costrinse la bella Ermione, sua moglie, a lasciarsi morire, e sua figlia perduta fu, di fatto e di nome; chiamata così da un servitore della patria, che la lasciò in fasce sulle lande della Boemia che, impietosita, iniziò a lacrimare tanto da cintarsi di mura blu. Ecco cosa vidi quel giorno che così tanto mi slegò dall’effimero.

Erano ormai passati sedici anni, eppure alcune cose rimanevano intatte, così anch’ella rimaneva, viva dietro quella maschera di marmo. Nella notte era un faro per le anime che ancora non avevano trovato la pace. Illuminava la via con la sua aura pallida, era luna torva con una parvenza di grigio sulla schiena che faceva ombra ai viandanti che cercavano riparo dalle ingiustizie del mondo, rannicchiati sul suo dorso. Fiocchi di neve si scioglievano impietriti su di essa e il tempo finiva per piangere sotto i suoi begli occhi scolpiti. In un cimitero dove tutto era morto, essa piangeva per il dolore di tutte quelle anime che insieme a lei si univano in un coro di grida strazianti. Poi la neve si fece sangue, i sogni divennero folli desideri di morte; la morte che accoglie tutti nel suo grembo scuro.

Da lontano lo vidi; un vecchio che danzava col suo viso tra le mani, il viso di una statua che conservava nel suo silenzio la bellezza dell’umanità.

Laerte: “Oh mia cara Ermione, sogno d’argento fatto una notte di primavera. Lì sotto tu dormi da mille secoli in un’estate antica, sbiadita al sole ma impressa nello sguardo eterno del cuore. Ricordando insieme i nostri giorni più belli. Quando ancora il tempo non aveva scritto niente per noi. Ti vidi lì intenta a raccogliere asfodeli in quel campo che ora so non ti abbandonerà mai. Sfiorai il tuo viso e scoprii che avevi la stessa natura di quei petali. Troppo bella che anche la morte come sposa ti scelse vestendoti solo d’ un velo di nero dolore ornato di singhiozzi moribondi, te ne sei andata verso l’inferno sputandomi rose del colore del sangue. Giurerei che tu sia calda al tocco, mano, forse mi inganni?

Eppure non riesco a capire se lì dove sei il tuo essere attende, ti senti forse viva? Vorrei affondare le dita dentro di te e scuotere via quella luce, lavare via tutto quel colore, non per capire chi tu sia stata, ma chi tu fossi in principio, e che forse continui ad essere senza che tu lo sappia. Maleditemi dei! Maleditemi ora che tanto all’inferno ci sono già! Le lacrime misureranno il tempo, morendo annegato.”

 Sollevò il velo ed essa rimase nuda. Aveva il colore del bianco marcio di quel marmo addosso. Una tempesta dai lampi viola e verde sembravano fare a pugni per rimanere vividi sulla pelle nei lividi. Gemiti stanchi si udivano ogni volta che le versava le sue lacrime addosso, dai capelli gocciolava sangue rugginoso, tanto che l’acqua sembrava aver commesso un peccato.

Laerte:” Nei miei sogni, spesso, c’è una luce dietro l’occhio sinistro, vicino la tempia, quella luce mi ricorda te. Penso che tutto me stesso si racchiuda lì in quel piccolissimo punto, questo vuol dire che tu già mi eri dentro, ancor prima che t’incontrassi. Dimmi che è coincidenza, forse pazzia, sento solo un gran senso di appartenenza, ora che ti prendo tra le braccia sento di essere finalmente di nuovo intero, in un luogo immateriale, dove non c’è dolore né vecchiaia. Non  c’è niente, o quasi. Ci sei tu e ci sono io. Eppure ora non siamo che un piccolissimo punto dietro il mio occhio sinistro, vicino alla tempia. Si fa piano quando si muore, quando la vita ti sembra andare sempre più veloce e l’ultimo respiro è sempre il più bello. Non so quanto di questo sia reale, ma se così non fosse, non voglio saperlo, per me questo è l’addio al mondo, l’inganno più dolce.”

Sulla tomba dell’amata, Laerte ballava al suono di una canzone che sembrava ortica per le orecchie di chi non era ancora pronto a sentirla. Veniva direttamente dai suoi polsi squarciati, i tendini vibravano come le corde di un violino e, in rivoli rossi, si riunì all’ amata Ermione in un ultimo bacio che si trascina fino alla fine del mondo, rubando ai posteri il mistero della mela proibita.

“Anime perdute” tuonarono gli dei. Sopra quella tomba sembravano fare l’amore, ricordando a chi vive ancora, che il prezzo è la vita, al male fattosi in un’ora. E senza perdono, continuavano ad amarsi all’ombra del tempo che è morte e che, seppur onnisciente, il sangue non comprende. Gli dei pensarono bene di punirli ma, provando a seppellirli, li confusero con la natura dei semi. Nel bosco stellato un dio commosso pianse facendo nascere dalla rugiada del mattino due boccioli d’asfodelo, li volle baciare e distratto poi finì per intrecciare i loro steli, incastrandoli in un abbraccio immortale.

Rimasi nascosto a guardare tutto questo, poi la strada mi trovò e mi portò a casa su di essa. In un viaggio mistico vidi le stagioni confondersi e sfumarsi in un marasma di colori, come in un quadro con il mare sullo sfondo. Come i sognatori cercavo di non ritornare a quella realtà che triste non si poteva cambiare. Quando tentavo di capire cosa fosse quel “tutto”, quello mi rispondeva con un fiocco di neve sul viso, un raggio di sole o una scarica di pioggia che chiedeva ai miei occhi di dimenticare quei posti onirici. Rumore bianco, e il tempo che prima era molle, inspiegabilmente sembrò accelerare. Quel “tutto” mi sputò fuori, abbandonandomi di nuovo nella vita con questi fiori intatti, che avevano il profumo di chi ancora sogna. Riscoprii un me che sotto le palpebre aspettava di ricominciare a vivere. Ritrovatomi un’altra volta nelle veci di spettatore dell’epilogo di quell’inverno rovinoso.

 La vidi mentre raccoglieva quei due asfodeli che avevano delle sfumature rosse, come se il sangue scorresse nelle venature di quei petali. Un uomo che, cingendola tra le braccia, danzava con essa stavolta in primavera. Mi parve di riconoscerli, avevano la tua età quando li conobbi, e anche se il tempo cambia in superficie, alcune cose non possono essere stravolte. L’uomo era il giovane principe di Boemia e lei, bella come la madre, era Perdita, figlia di Laerte ed Ermione. Li vidi mentre si raccontavano il loro amore.

Anime in festa mi passavano davanti in processione verso il castello. Vidi il matrimonio tra nuche dispotiche, tutto si svolse teneramente, e quando attraversarono la navata con un vestito sobrio, ornato solo di quei due asfodeli che lei stessa aveva colto, mi mancò il coraggio di dirle che forse, quei due fiori portati fermi al cuore, erano in realtà i suoi genitori. Mi dissi che non avrei pianto, eppure non potei sottrarmi. Vedere qualcuno che finalmente si univa senza più dolore o sangue mi dava speranza, speranza per le nuove generazioni. Giovane Ulisse, che questa storia ti sia d’esempio, portala nel cuore e ricordala, i ricordi sono potenti, ti permettono di agire con coscienza, non sprecare gli errori d’ altri e, quando arriverà il momento, tu non lo sperperare, tieni a mente l’amore e questo sarà capace di riportarti a sé.

Bibliografia:
William Shakespeare, The Winter’s Tale, in Id., Tutte le opere. IV – Tragicommedie, drammi romanzeschi, sonetti, poemi, poesie occasionali, a cura di F. Marenco, Milano, Bompiani, 2019.

Omero, Odissea, a cura di R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi.

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