Il sonno della ragione genera mostri

Floriana Vacchina, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva la Tempesta di Shakespeare, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare II: Il racconto d’inverno e la Tempesta. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 2, prof.ssa Chiara Lombardi.

La mia riscrittura propone una rivisitazione in chiave moderna del dramma La Tempesta di Shakespeare, incentrata in particolar modo sul personaggio di Stefano.

*

Stefano è più in ritardo del solito, si infila le scarpe di fretta, prende le chiavi e lascia che la porta gli si chiuda alle spalle. Il centro degli alcolisti anonimi non è molto distante dal suo appartamento, l’ha scelto apposta, così in cinque minuti di camminata è lì e si evita il peso ulteriore di dover prendere un pullman. E’ la terza volta che ci va, e anche la terza che ci va controvoglia, gli hanno detto che la cosa potrebbe aiutarlo ma a lui sembra solo di sprecare il suo tempo. Si domanda in che modo stare seduto per un’ora alla settimana su delle scomode sedie pieghevoli a sentire degli sconosciuti piangersi addosso e parlare dei loro problemi possa aiutarlo a risolvere i suoi.

Da qualche tempo ha anche iniziato ad andare dalla psicologa, le sta provando tutte per risollevarsi dopo il disastro della nave Ermione. Il problema è che è convinto di non fare progressi, ma almeno la sua psicologa gli piace: è giovane, non particolarmente carina ma dall’aria sveglia; e soprattutto sembra capirlo. Solo che gli sembra strano aprirsi con una sconosciuta più di quanto abbia mai fatto con chiunque altro in vita sua.

Gli incontri degli alcolisti sono alle tre di pomeriggio, Stefano pensa che sia un orario stupido, subito dopo pranzo gli viene l’abbiocco, e riuscire ad alzarsi dal divano per andare a quelle inutili riunioni risulta ancora più difficile. Scende le scale quasi di corsa e dal suo sesto piano si ritrova in strada, fa caldo, luglio si riflette sull’asfalto della periferia napoletana quasi deserta, le poche macchine passano veloci, Stefano si chiede dove vadano e perché tutti siano sempre così di fretta. Poi si ricorda di essere in ritardo e accelera il passo. Si infila meccanicamente le cuffie, fa partire una playlist e la voce di Pino d’Angiò lo accompagna lungo il tragitto; per arrivare all’associazione deve attraversare un ponte, si ricorda di quando da bambino stava lì sopra con i suoi amici a cercare di vedere dei pesci, ora non ha nemmeno il tempo di affacciarsi a guardare giù.

Dopo pochi minuti arriva al centro, è un vecchio edificio di colore verde scuro, piuttosto squallido e solo guardarlo mette tristezza, probabilmente risale agli anni Settanta ma già allora non dev’essere stato una gran bellezza. Quando Stefano entra sono già tutti ai loro posti, prende una sedia e la aggiunge al cerchio, sta parlando un certo Marcello, racconta di quella volta in cui si è dimenticato di andare a prendere la figlia a scuola perché era al bar a bere con gli amici. Stefano ascolta disinteressato, pensa agli affari suoi, decide che forse il prossimo a parlare sarà lui. I due incontri passati li aveva trascorsi semplicemente prestando orecchio a ciò che dicevano gli altri, ma si annoiava e già l’ultima volta aveva pensato che intervenire almeno sarebbe stato meno noioso. Così, non appena Marcello finisce il suo racconto, Stefano prende la parola e comincia.

 “Ciao, scusatemi ma vengo qui solo da due settimane e non so ancora bene come funzioni.

Mi chiamo Stefano e penso che a questo punto dovrei definirmi un alcolista, e si, probabilmente lo sono. Lo sono perché cercavo un modo per alleggerire la mia vita; ho  iniziato per divertimento, bevevo il venerdì sera con gli amici, o alle feste, mi serviva per svagarmi, per pensare un po’ meno; poi ho realizzato che quando bevevo ero una persona diversa, ero più spigliato, disinvolto, sicuro di me e ovviamente la cosa mi piaceva. Avrò avuto diciotto anni quando ho iniziato a bere, mi aiutava a provarci con le ragazze, ma si è inevitabilmente trasformato in un’abitudine e da abitudine è diventato un vizio. Ho iniziato ad esagerare, a bere anche quando ero da solo, a vent’anni ormai avevo sostituito la birra all’acqua, che non compravo nemmeno più. L’anno scorso ricevetti una proposta di lavoro come cameriere su una nave da crociera, ero disoccupato e quasi sempre solo, quindi decisi di accettare, del resto non avevo nulla da perdere. Inoltre viaggiare mi era sempre piaciuto e il mare mi affascinava, immaginavo la mia vita futura come quella dei personaggi de Il pianista sull’oceano. E’ più che prevedibile che non fu così: i turni erano davvero stancanti e troppo spesso le condizioni climatiche complicavano il tutto; inoltre quando finivo di lavorare, la sera, ero così stanco da volermi solo chiudere nella mia cabina a bere per poi addormentarmi ubriaco marcio.

Il mese scorso partii per una crociera di due settimane nel Mediterraneo, non era affatto un bel periodo per me, era appena mancata mia mamma. Non che avessi mai avuto questo gran bel rapporto con lei, non ci vedevamo da anni e me ne ero andato via di casa da ragazzo, ma era mia mamma, le volevo bene. Questa cosa, come si può prevedere, mi aveva portato a bere ancora più spesso, ma ero senza un soldo e decisi di partire ugualmente. Dovevo fare tutto il giorno avanti e indietro per servire quei ricconi che mi trattavano come uno zerbino, ero incazzato nero, odiavo tutto ciò che facevo e iniziai ad abusare dell’alcol anche mentre lavoravo. Ero perennemente sbronzo, il tempo era uno schifo, dormivo poco e male e il capo mi aveva già minacciato di licenziarmi, ma non mi interessava. Non mi interessava praticamente niente.

Un giorno verso l’una di pomeriggio ero in pausa pranzo, come sempre in compagnia di una bottiglia di gin. Non ricordo molto di quel momento, solo un frastuono assordante e uno scossone, caddi a terra e d’istinto, come un riflesso incondizionato, chiusi la bottiglia con il tappo perché non si rovesciasse. Sempre con la bottiglia in mano mi alzai e uscii dalla mia cabina per vedere cosa stesse succedendo: nel corridoio c’era un casino assurdo, gente che correva avanti e indietro urlando e chiedendo aiuto. Queste voci e queste immagine offuscate sono uno dei miei ultimi ricordi.

 Senza nemmeno il tempo di rendermi conto di cosa fosse successo e di averne paura mi risveglio nel pomeriggio su una spiaggia, i vestiti umidi appiccicati alla pelle, l’acqua del mare che mi accarezza ancora i piedi, la sabbia mi sfrega il viso e il sale mi avvolge il corpo; la prima sensazione è di calore, il sole mi colpisce dritto in faccia e appena dischiudo gli occhi mi sento già accecato. La luce non fa altro che appannare il mio cervello, non capisco

niente, non so dove sono e oltre che stordito sono ancora ubriaco.

Dopo alcuni minuti riesco ad alzarmi in piedi, cammino lentamente, trascinandomi, le immagini e i suoni nella mia testa non sono nitidi, intravedo solo delle sagome indistinguibili: alberi, sabbia, acqua, tutto è confuso e mescolato. Mi rendo conto che a terra c’è una forma che riconosco: è la mia bottiglia di gin, miracolosamente siamo naufragati insieme (che ironia raccontarlo ora). Sono disperato e faccio l’unica cosa che sono buono a fare: comincio a bere, del resto avevo anche sete e la bocca piena di sale, sicuramente non sarei stato in grado di trovare dell’acqua.

Sempre con la bottiglia di gin, come fosse un prolungamento della mia mano, faccio pochi passi e inizio a mettere a fuoco, distinguo una sagoma in lontananza, non capisco se sia un uomo o un pesce, se sia vivo o morto; questo strano essere risveglia anche un altro dei miei sensi: l’olfatto. Sento una puzza incredibile, mi entra nel naso e mi arriva alla testa, è un odore pungente che mi rincoglionisce ancora di più. La prima cosa che penso è di essere morto, sono sicuramente morto e questo è il diavolo, sta venendo verso di me per iniziare a torturarmi. Oppure mi chiedo se sono finito su una strana isola in cui il governo nasconde gli scarti della società, i prototipi di dio. Allora mi dico che potrei stare lì per sempre, che forse tra il cascame ho trovato il mio posto, che potrei essere più a mio agio su quell’isola che dove stavo prima. Anzi mi convinco che potrei addirittura diventare il re di quell’ipotetica succursale marcia del nostro mondo già abbastanza marcio. Devo solo trovare un modo per addomesticare questo uomo-mostro e farmi spiegare i segreti dell’isola così da sottometterli tutti, mi accorgo che l’unica arma che ho (l’unica che ho sempre avuto) è l’alcol, penso che lo farò ubriacare così da trasformarlo nel mio servo.

In questo mio delirio di onnipotenza vedo quell’essere avvicinarsi a me, vi sembrerà strano ma non avevo paura, non ero abbastanza cosciente per averne e mi sentivo invincibile: ero appena sopravvissuto ad un naufragio, un aborto della natura come quello sicuramente non mi avrebbe spaventato. Mi si avvicina e subito lo faccio bere, mi stupisco che parli la nostra lingua, gli chiedo dell’isola e conferma la mia ipotesi; al primo sorso di gin mi sembrava perplesso ma poi me ne chiede altro, inizia a dire di non aver mai bevuto niente di così buono e lo inneggia come fosse il nettare degli dei. Infatti in pochissimo tempo inizia a venerare me come fossi un dio e mi supplica di diventare il mio schiavo, dice che mi svelerà tutti i segreti del posto in cambio di anche solo una goccia del mio sacro gin. Dopo un po’ che parliamo il sole in faccia e l’effetto dell’alcool mi fanno sdraiare sulla sabbia calda, una sensazione di tepore mi avvolge e mi addormento.

 Mi sono risvegliato in un letto di ospedale, con accanto un’infermiera, scombussolato e senza aver capito niente di cos’è successo. La donna mi parla con un tono di voce pacato, per rassicurarmi, mi dice che la crociera Ermione, quella su cui lavoravo, è naufragata.

Il comandante ha urtato uno scoglio per errore e si è aperta una falla su un lato della nave, mi spiega che i soccorsi stanno ancora lavorando per salvare le persone bloccate a bordo o cadute in mare, non si capisce ancora bene il numero di morti e dispersi. 

Io sono caduto in mare e poi sono stato trasportato dalle onde sull’isola più vicina dove dei turisti mi hanno trovato delirante e hanno chiamato i soccorsi, mi dice che con la quantità di alcool che avevo in corpo è un miracolo che io sia vivo. Le spiego ciò che avevo visto e mi risponde che sicuramente è stata solo un’allucinazione dovuta all’alcool e al trauma subìto. Insomma volevo essere il re dell’isola, ma sarei stato un re un po’ malconcio.

Sono rimasto in ospedale per tre giorni, dovevano farmi alcuni controlli; da quando sono tornato a casa la gente che mi conosce e sa cosa mi è successo non fa che ripetermi che sono stato fortunato, e hanno ragione. La mia psicologa mi dice di non sprecare questa seconda possibilità che mi è stata data ed è quello che voglio fare; ma in realtà non vi nasconderò che le cose continuano ad andare di merda e smettere di bere è una lotta continua contro una parte di me, sono terribilmente scoraggiato e l’alcool è un pensiero fisso, ma almeno ci sto provando.”

Non appena Stefano finisce di parlare tutti si rendono conto che l’ora è finita ed iniziano ad alzarsi, c’è sempre un piccolo rinfresco alla fine delle riunioni, del caffè e alcuni biscotti, per  chi si vuole fermare a fare due chiacchere. Stefano le altre volte sgattaiolava via subito, ma decide di restare ancora una decina di minuti, immagina che avendo raccontato la sua storia qualcuno andrà a parlargli, e all’ego non si comanda.

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