PISANIO SULLA LUNA

Adele Ziano, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Cymbeline shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.

Come l’Orlando ariostesco perde il senno a causa dell’amore di Angelica per Medoro, così Postumo diventa folle per l’immaginario tradimento di Imogene con Iachimo. Allo stesso modo, in questo mio racconto, ho voluto comparare il personaggio di Pisanio a quello di Astolfo durante il suo viaggio sulla Luna, passando attraverso la dimensione onirica del sogno.

*

Un messaggero giunge da Roma al palazzo di Cimbelino; con sé reca una lettera destinata alla principessa Imogene, splendida come mattutina stella e giglio d’orto e rosa del giardino. Ella, conosciuto il luogo da cui le viene inviata la missiva, sente il cuore riempirsi di gioia poiché pensa che quelle siano le dolci parole del suo amato sposo. Ma dopo aver letto le prime righe, ecco mutare l’espressione sul suo volto: corrugata la fronte, lo sguardo si fa cupo, le gote rosee si scoloriscono lasciando spazio ad un pallore diffuso e le labbra, un tempo vermiglie, si torcono in una smorfia di dolore. Misera Imogene! quelle parole non suonano soavi bensì, come tanti chiodi, ti feriscono pungendoti il cuore. Ella va cercando in mille modi col pensiero di non credere a ciò che a suo malgrado crede. E subito una lacrima le disegna un rigo lungo il viso esangue. 

«Pisanio! Pisanio! corri da me! sotto i colpi della Fortuna avversa, sento appressarsi la Morte!»

«Eccomi! Cosa succede mia signora?» e il fedele servo di Postumo si precipita appena in tempo perché riesca a sorreggerla.

Imogene non riesce a rispondere alle domande di Pisanio, la voce rotta da dolorosi singulti di pianto; così gli porge la lettera che stringe accartocciata nella mano.

La missiva recita così: 

“Vostra Altezza,

A scrivervi è un modesto soldato, nonché amico del vostro amato Postumo. Il mio nome è Filario e, come saprete, ospito nella mia dimora il vostro gentile sposo dal momento in cui fu esiliato dalle terre di vostro padre.

Vorrei potervi recare liete novelle a riguardo ma, aimè, mi farò portatore di infauste parole. Sembra che egli, da tutti conosciuto per il suo amino grande e virtuoso e che sì saggio è stimato, ora abbia perso il senno. E tutto ciò a causa di una scommessa perduta contro quell’uomo che di nome fa Iachimo, il quale credo che l’abbia vinta a torto. Lo ricordate essere venuto alla vostra corte tempo addietro, con l’intenzione di mettere alla prova, insidiandovi, quella fedeltà ed onore che di voi, spirito eccezionale, il vostro caro sposo assai lodava e che fu appunto motivo del loro patto.

Tornando a Roma, egli ci raccontò di come fosse riuscito nell’impresa, fornendoci una quantità tale di minuzie da rendere veritiera anche la più grande bugia. Da tempo conosco bene Iachimo e potrei dire la stessa cosa del vostro Postumo, nonostante la nostra amicizia sia recente: uno lo muovono l’astuzia e la spregiudicatezza e l’Invidia è al comando del suo cuore; l’altro è un animo puro e le sue parole sono frutto di tanta limpidezza e trasparenza. Ingiustamente, nel duello fra questi due temperamenti, il malvagio ha prevalso sul virtuoso, il cui sentire, già ingenuo di natura, temo fosse reso ancora più incerto da Amore che tutto soggioga e contro il quale è perdente anche colui che vinse tutte le altre cose. Se solo esistesse un modo per rintracciare il suo senno, ovunque si sia perduto, e così restituirglielo! Aimè, colui che per amor è divenuto pazzo furioso noi l’abbiamo perduto entrambi: io come amico e come soldato valoroso e impavido, le cui abilità sarebbero state decisive nel vincere una guerra contro la Britannia di vostro padre, la quale appare ormai imminente; voi, invece, come sposa oltremodo devota. 

Vostro umilissimo,

Filario

                                                                                                                                                             Terminata la lettera, Pisanio sente agitarsi nel petto un turbinio di sentimenti. Ma il suo smarrimento non dura a lungo; ecco che tra lo stupore e il turbamento si fa largo la ragione, imponendosi con il suo rigore. Cerca di rassicurare la bella Imogene e l’accompagna fin sulla soglia della sua camera. «Si riposi mia signora, provi a trovare nel sonno un po’ di requie» e con la promessa di restituirle l’uomo di cui si era innamorata si accomiata. 

Pisanio inizia a camminare su e giù per il palazzo; nel mentre pensa al suo signore, a come il discorso menzognero di Iachimo abbia scaturito in questi un dolore così insormontabile da generare una tale rabbia, un tale furore da far rimanere ogni suo senso offuscato. Gli vengono alla mente immagini terrificanti: accecato dall’ira, la forza di Postumo risulta ora pari a quella di un ciclone o di un terremoto e in questo modo sradica alberi e uccide chiunque gli si pari davanti, uomini o bestie che siano. Figurandoselo in quello stato, vedendolo correre come un ossesso per i boschi, a Pisanio si stringe il cuore dal dispiacere. Era convinto di dover agire per salvare il proprio signore, perché nel profondo è spinto da quei voti di fedeltà e di affetto che a questi lo legano.

Sforza l’ingegno Pisanio e pensa e ripensa a come far rinsavire Postumo e a porre così fine ai suoi dispiaceri, oltre che a quelli della sua bella Imogene. Nel mentre scende la notte e, stremato da tutto questo lavorio della mente, da tutto questo suo vano congetturare, Pisanio si siede, abbandonandosi con un po’ di sconforto. Guardando fuori da una finestra, alza lo sguardo al cielo stellato e fissa gli occhi su quel globo d’acciaio il cui freddo riverbero brilla sulla terra buia. Comincia così a contemplare la Luna che, splendida e silenziosa, sorge ogni sera a rimirare deserti e valli, eterna pellegrina; in questo modo, vinto dalla stanchezza, è abbracciato dal sonno. Ancora il fedele servo non sa che quel suo gran fantasticare sulla Luna lo porterà ad approdarvi sopra. 

Lassù Pisanio rimane meravigliato dalla grandezza del luogo e guardandosi intorno vede che vi sono fiumi, laghi e campagne simili a quelle sulla Terra, ma che tuttavia appaiono diverse. In quel luogo Pisanio si sente un po’ spaesato; sicuramente un’altra presenza umana lo rassicurerebbe, ma per il momento lì vicino non sembra esservene traccia. Anche se, leggermente più in là, verso l’orizzonte, gli pare di vedere un vecchio canuto tutto intento a scrivere chino su se stesso. 

«Mi scusi buon uomo, saprebbe dirmi dove mi trovo?», dice Pisano una volta andatogli vicino, «questa mi pare essere la Terra che io abito ma ora sembra apparirmi diversa…»

«Appunto, perché questa non è la Terra; quella si trova laggiù», e il vecchio indicò verso il basso una piccola palla che Pisanio riuscì a distinguere a malapena strizzando gli occhi; questo perché la Terra, con il mare che la circonda e la chiude proprio come la Luna, non emette luce. 

«Questa invece, caro straniero, è la Luna, nonché il paese dei poeti, di coloro che, servendosi di pochi semplici arnesi, scrivono di cose vedute e non vedute; di cose che sono, che potrebbero e non potrebbero essere; di ciò che è divino e sommo e di ciò che è infimo e triviale; del comico e del tragico. Noi siamo i profeti di una lettera sempre pronta a crescere su se stessa e ad ornarsi dei fiori del sublime.» 

Tra una parola e l’altra, ecco che quei due si ritrovano a passeggiare per i sentieri della Luna; discutendo delle grandi questioni dell’esistenza, il vecchio poeta guida Pisanio per quei luoghi che gli si svelano a poco a poco: lì vi sono altre pianure, altre valli, altre montagne, ognuna con le sue città e castelli, con case così grandi mai vedute prima d’ora da Pisanio. Così giungono all’ingresso di un vallone stretto tra due montagne.

«Qui dentro si raccoglie ciò che si smarrisce sulla Terra o per colpa degli uomini, o a causa del tempo o della Fortuna», dice il poeta; infatti il servo vi trova le lacrime e i sospiri degli amanti, il tempo che si butta via inutilmente nel gioco d’azzardo, il lungo ozio di uomini ignoranti, disegni vani che non si sono concretizzati mai e anche alcuni suoi fatti e giorni che aveva perduto. Arriva poi ad un mucchio più alto delle altre cose descritte; in esso vi sono numerose ampolle, quali più, quali meno capienti, tutte etichettate e contenenti un liquido poco denso e fluido, rapido a esalare se non si tiene ben chiuso.

«Questo che tu vedi è quella cosa che voi terrestri pensate di avere in abbondanza, ovvero il senno. Alcuni lo perdono in amore, altri nel ricercare gli onori, altri cercando le ricchezze per mare; altri nelle speranze dei signori, altri dietro alle sciocchezze della magia; altri in gemme, altri nelle opere dei pittori, ed altri in altre cose che apprezzano più di altro. La pazzia invece qui non è né poca né molta, poiché essa sta sulla Terra e non se ne allontana mai.»

A quel punto Pisanio, colto da una straordinaria intuizione, si ridesta di colpo dal suo sogno. «La Luna! la Luna! Lassù dovrò volare per recuperare il senno del mio signore!» Detto ciò, sentendosi rinvigorito nel corpo e nella mente, balza in piedi con uno scatto e prende a correre verso la camera della bella Imogene. 

Chissà se sulla Luna avrebbe trovato anche il suo di senno. 

Bibliografia:

W. Shakespeare, Cimbelino, Garzanti, 2015

L. Ariosto, Orlando Furioso, Feltrinelli, 2016

I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, Mondadori, 2016

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