Elena Biafora, in questa sua composizione, riscrive in un’inedita prospettiva il Pericles shakespeariano, nell’ottica del corso I drammi romanzeschi di Shakespeare I: Pericle e Cimbelino. Fonti e motivi, Letterature comparate B, mod. 1, prof.ssa Chiara Lombardi.
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Le vicende che spingon gli umani a viaggiare per navi sull’onde io sorveglio ed osservo silente. Molte cose che altri non sanno io conosco e conduco: i viaggi, le imprese e le guerre che su concave navi i mortali han vissuto sull’acque profonde, la virtù degli eroi che remando han cercato la sorte, la patria, l’onore. Io non guardo ciò ch’altri han deciso, ma occhio vigile sono di ciò che sui flutti miei muove. Sono autore del loro destino, sono forza che agisce e travolge e che guida le umane vicende con la legge che a giustezza tende.
Sono io che trascino sul fondo o sostengo, che oriento sapiente il cammino di quanti affidano all’onde le strade del proprio destino. Molti di loro osservai succedersi nel tempo, e te eroe tra gli altri notai, che cercavi la tua strada muovendo sulle vie che apro agli uomini, percorrendo i liquidi ponti che per me si dischiudono tra terre lontane; e ti osservai viaggiare a lungo, cercando fortuna, sperando e disperando della tua sorte. Ho seguito da presso il tuo andare: sono l’acqua che batti coi remi, sono il fiato che gonfia le vele, la distesa che solchi ignaro delle vie che disegno per te. Ed un giorno lasciata la terra che ti diede i natali giocavi col destino una sfida mortale, sperando ambizioso in un premio che non si poteva accettare.
Così andavi muovendo; ma non t’era destino di far ritorno in patria. Hai tanto da apprendere ancora, e lungo è il tuo viaggio da fare. Alzai, innanzi al legno veloce, il muro d’una tempesta, e la tua via fu perduta. La nave che viaggia sicura, sospinta da venti sereni, diventa ben piccola cosa se l’acqua mia cupa l’avvolge. La sferza feroce dei flutti si abbatte e sconquassa il fasciame, disfatta la nave, in un grido comune echeggiano uomini e onde. Difendila, adesso, la vita che or ora eri pronto a lasciare, contendila agli aspri marosi che altri non lascia scampare. Solleva la testa dall’onda che abbatte con furia mai stanca; da giovane principe ch’eri, uomo ritorni alla sponda.
Così giungesti a Pentapoli privato dei compagni tuoi cari, convinto che disperazione e solitudine soli a te s’addicessero. Ma, pagato il prezzo dovuto, ti resi un dono smarrito che mille volte t’avrebbe ricompensato del danno che avevi subito. La tua armatura, eroe, riemerse dalla nera profondità del mio abisso, ché onore ti desse e speranza, e insieme con quella amore, la mano della nobile Thaisa.
Celebrate che furon le nozze, volle il fato che insieme alla sposa e a ciò che di più prezioso per voi ella custodiva, decidesti, per non perdere il regno, sull’agile nave di intraprendere nuovo periglio.
Ma le mie insidie e le trame che per gli eroi intreccio ancora dovevi conoscere, giovane eroe, che molti prima di te patirono, cercando il ritorno. Sono l’onda che schianta e che infrange, che trascina nel vortice al fondo, che si chiude su quello che fu.
Altra prova dovesti affrontare, furiosa tempesta, ché in quella la tua creatura poté la luce vedere sull’ampie mie onde, Marina nata dalla tempesta, ultimo dono della donna che infine a me ho richiamato. E, una vita per una vita, onorasti la bella Thaisa, la piangesti e, circondata di doni preziosi, la consegnasti infine ai miei flutti, che del suo sonno furon la culla.
Tu di pianto riempisti la notte biasimando e ingiuriando il destino, ché solo ostile finora a te s’era mostrato, e condannando il naufragio, tra le onde me accusasti di dar lutto agli inermi mortali, ritenendo l’alta tempesta esser per l’uomo il peggiore dei mali.
Dal dolore consunto e provato, verso Tarso volgesti la prora, ov’ha luogo la regale dimora cui un tempo giovasti non poco. Se memoria di ciò che hanno avuto lascia un segno nei cuori mortali, qui un rifugio fidato speravi trovare per la creatura che con te conducevi.
Ma come lepre che, stanca, s’appressa a una tana vicina, e accoglienza cercando morte invece vi trova, ché d’una serpe era dimora, così tu, eroe, nella casa che un tempo era amica hai lasciato la figlia adorata, ma l’invida nel cuore covata alla bimba fatale sarà.
Quando ivi, già volti tre lustri, per riunirti alla figlia tornasti, non la dolce sua figura ti accolse ma freddo e vuoto sepolcro, e per la vita anzitempo spezzata piangesti lacrime amare.
Della sorte accusasti le trame, ché del regno, di moglie e di figlia crudelmente t’aveva privato. Ma tu non conosci, mortale, i miei piani, che non ti è dato ancora scoprire; non comprendi le vie del destino che ho già scritto e voluto per te.
Io la sposa per te ho custodito, son io sono l’acqua che l’ha trasportata sulle creste veloci dell’onde, perché in tempo giungesse al lido dove vita per lei rifiorì. Nelle mani la posi del solo che poteva venirle in soccorso: Cerimone di Efeso era il suo nome, e con antiche magie e miracolosi unguenti nuovo giorno le diede, riaccese di luce i suoi occhi. E la giovane Marina perduta non era, ma rapita, ostacolata dalla sua stessa virtù, fonte d’invidia. Sulle mie acque fu condotta a Mitilene, ov’era destino vi ritrovaste.
E lasciato di nuovo ogni porto sicuro, a lungo vagasti per l’acque profonde, invano cercando scampo alla pena infinita del cuore. E non mi sfuggì, mentre navigavi, la tua solitudine, conobbi il dolore della tua perdita, che muta ti rese la lingua e instancabili gli occhi, incapaci di trovare riposo. Così ti osservavo viaggiare, e silenzioso guidavo i tuoi remi sospingendo l’agile legno verso giorni di nuova speranza.
La figliuola che avevi perduta, della quale piangesti la sorte, ti riabbraccia e l’affanno consola, ma non è ancora paga la sorte. Non ancora ti è dato fermarti, nuovamente riprende il tuo viaggio. Ti trasporto con corso sicuro dove il cuore avrà balzo gioioso: quella donna che amasti e perdesti in quel giorno di aspra tempesta, che vedovo padre ti rese, ora viva le braccia ti tende. Incredibile a dirsi la gioia quando persa speranza riaccende, e riporta nel cuore una fiamma che vivida arde e divampa.
Ora lascia gli affanni e i dolori che han segnato quel tempo lontano; ciò che ha tolto ti rende il destino: tu sei padre, marito, sovrano.
Questo il mio ruolo nella tua storia, questo quello che ho scelto di agire. Questo il compito del mio inferire nelle vicende mortali. Privare e restituire, reclamare e concedere, confrontar gli eroi con la mia possa, ché ciò che conta è l’ardire dell’uomo, la costanza che impegna nel viaggio; è il mio dorso quel banco di prova che le forze misura ed allena. Non abbiate timor nei marosi di smarrirvi e di provar pena, se quell’onda che abbatte e rivolta vi riporta più forti a voi stessi. Questa è la prova, il cammino di chi si vuole con me misurare, di chi non teme di mettersi in viaggio per trovare se stesso sul Mare.