Francesco Lombardo, in questo breve racconto, descrive un personaggio storicamente controverso ispirandosi a fatti reali, nell’ottica del corso di Letterature Comparate, Coscienza e verità: il romanzo contemporaneo. (Prof.ssa Chiara Lombardi).
“L’obiettivo che mi ha guidato durante questa riscrittura era di provare a raccontare un lato della storia a cui personalmente ritengo sia concesso poco spazio, se non nessuno, nella manualistica e nella didattica contemporanea. il racconto si articola sulla narrazione romanzata della vita di Gavrilo Princip e sulle riflessioni di carattere etico e sociale che vengono operate dai diversi narratori”.
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Gavrilo è sempre stato modesto. Fin da bambino ha imparato che nulla viene dal nulla, e che non ci si deve aspettare che il peggio.
Da piccolo era pallido, magrolino ed emaciato. Sua madre gli impediva persino di uscire a giocare con gli altri ragazzi per paura che si ammalasse. Lui proprio non la capiva, e odiava questa situazione.
Per fortuna aveva tanti fratelli con cui divertirsi pur rimanendo in casa. Ma dopotutto non ci si può aspettare che il peggio. I suoi fratelli lo lasciarono uno dopo l’altro.
Gavrilo era molto triste. Capiva però che la colpa non fosse loro. Per un po’ di tempo aveva attribuito questo torto a sua madre che, preoccupandosi così tanto di lui, aveva finito per abbandonare gli altri figli. In seguito, aveva addossato a suo padre la responsabilità di questi eventi, lui che andava in giro tutto il giorno per consegnare lettere a sconosciuti piuttosto che aiutare la propria famiglia. In fondo era poco più che un bambino. Più avanti avrebbe capito che i suoi genitori avevano sofferto quanto lui, al suo stesso modo vittime di quella situazione.
Più cresceva, più Gavrilo si domandava quale fosse la ragione per cui soffriva così tanto. Questa è la storia di un processo mentale che ha condotto ad un processo giudiziario, risolvendosi con questo racconto.
Mi presento: il mio nome è Ljev; la storia che vi sto per narrare risale ad un tempo che ho certamente dimenticato. Fui arrestato con l’accusa di furto. Dopo un sommario processo, mi condannarono a quattro anni di reclusione nel carcere di Terezin. Le storie su quel posto erano agghiaccianti. E posso assicuravi che i detenuti stavano in condizioni disumane.
Venni assegnato come compagno del famoso Gavrilo Princip. Non appena lo venni a sapere, lo ammetto, andai nel panico. Nonostante la moderata gravità delle mie colpe sarei finito nella stessa cella di quell’uomo descritto dalle autorità come feroce assassino e pericoloso terrorista. Era rinchiuso in quell’inferno da quattro lunghi anni. E quello è precisamente un luogo in cui possono sembrarti il doppio. Eppure, tra quelle quattro mura trovai un ragazzo steso sulla brandina. Pareva poco più grande di me. Era esangue e denutrito. Tossiva tutto il tempo. Tossiva così spesso e così a lungo che risultava davvero difficile parlargli. Era un tipo affabile nonostante la tristezza che si leggeva nel suo aspetto lugubre.
Di tutto ciò che successe in quei mesi da compagni oggi ricordo unicamente una sera. Gavrilo era strano, rapito da oscure riflessioni. Eppure, la tosse sembrava volergli concedere una tregua. Si rivolse a me all’improvviso chiedendomi l’ora. Io dissi che non avevo l’orologio. Ricadde il silenzio. Non parlai più. I silenzi di Gavrilo erano sacri. Gli unici momenti in cui poteva davvero ascoltare i suoi pensieri senza che la pesante tosse, fiera compagna da sempre, gli rimbombasse in testa. Poco dopo intervenne di nuovo dicendomi che mi avrebbe raccontato la sua vita. Si disse conscio del fatto che ci conoscevamo solo da poche settimane ma aggiunse che probabilmente fossi l’unico rimasto a poterlo ascoltare. Ovviamente non posso sapere se ciò che mi ha detto corrisponda alla verità però mi ha colpito nel profondo dell’anima.
“Ho avuto un’infanzia molto dura. Mio padre ci provava ma non riusciva ad esser presente nella vita di famiglia. Mia madre, povera donna, doveva occuparsi da sola della casa e di tanti figli, tutti affamati e ammalati. Credo che la mia tubercolosi l’abbia effettivamente portata ad un punto di non ritorno. Ora non ho idea di come stia. Di tutti quelli che eravamo, solo io e altri due fratelli abbiamo superato i 10 anni; anche di loro non so più nulla. Da quando ho deciso di abbandonare la scuola per inseguire il sogno della Mlada Bosna, sono stato tagliato fuori dalla famiglia. Al tempo non mi interessava granché. Sentivo che la mia gente aveva bisogno di aiuto. Volevo rendermi utile dopo essermi sentito una zavorra per tutta la vita. Ero sicuro che quella fosse la strada giusta anzi, che fosse l’unica davvero percorribile.
Quelli della Mlada erano diventati la mia nuova famiglia. Mi facevo il culo per ricevere le loro lodi, perché mi ringraziassero e mi dicessero che ero stato utile alla causa. Certo, ci tenevo davvero, e tuttora ci tengo, alla causa del mio popolo. L’ho ribadito anche di fronte alla corte. Però, a quel tempo ero ubriaco di approvazione e quando sentivo di andar giù mi aggrappavo a quel sentimento trascinandomi a forza verso un barlume di speranza. Con questo discorso non voglio sottintendere che nessuno in quella cerchia tenesse a me. Anzi, tra questi individui ho trovato chi posso definire un fratello. Si chiamava Nedeljko ed era un bravo ragazzo. Era persino più giovane di me, era del ’95. Gli volevo molto bene. Era un po’ una testa calda. Quante volte ho preso legnate per toglierlo dai casini. Ironia della sorte ci è toccato lo stesso destino. Almeno ci siamo stati l’uno per l’altro fino all’ultimo. E almeno so che lassù ho ancora qualcuno che mi vuole bene. Non eravamo male come coppia: lui aveva il coraggio che io non avrei avuto nemmeno in nove vite, in compenso la mia lucidità gli è tornata utile in diverse occasioni. Eravamo forti, sì. Ma anche giovani e ingenui. E quando si è giovani i sentimenti sono come una fiamma, viva e potente, che brucia e ti consuma, una fiamma che tenti continuamente di alimentare con il terrore che prima o poi ti lasci al buio. Le persone più grandi non facevano altro che gettarci benzina sopra. Non avevamo un padre o una madre che ci insegnassero a discernere fra chi tenesse veramente a noi e chi ci sfruttasse per fare i propri comodi.
Più ci penso e più realizzo quanto sia stato cieco alla realtà delle cose: io avevo un disperato bisogno di approvazione, di genitori forse, di affermarmi come individuo utile a qualcuno o a qualcosa; loro invece, avevano bisogno di un’altra marionetta, un’altra pedina sacrificabile, per ottenere il loro scopo.
E mi fa ridere, mi fa ridere che loro, dandoci una pacca sulla spalla, ci abbiano detto con le lacrime agli occhi che avremmo fatto la storia, che rappresentavamo un futuro più giusto e radioso. Stupido io a bermi tutte quelle balle dall’inizio alla fine. Eppure, in quel momento aveva tutto senso. Non vedevo ad un palmo dal mio naso. Mi fa ridere anche che a ventitré anni io sia pieno di rimorsi, la maggioranza rivolti verso il me di qualche anno fa che ha lasciò i libri per l’ideale che mi ha portato in questa latrina, svuotato di ogni briciola di speranza. Il piccolo Gavrilo, sempre in guerra con gli altri e con sé stesso, figlio di un lavoratore sfruttato e di una casalinga esaurita, che sputa sangue al primo alito di vento. Avrei dovuto capirlo subito che per loro non contavo nulla. D’altronde, se davvero ci avessero davvero ritenuto il futuro non ci avrebbero messo una pistola in una mano e una fiala di veleno scadente nell’altra. Veleno che abbiamo poi vomitato sulle scarpe degli agenti che ci hanno arrestato. Vabbè, non intendo rinnegare gli ideali che mi hanno condotto fin qui. Comprendo perfettamente che in questo mondo sia necessario lottare laddove ci sia necessità di sconfiggere qualcosa di più grande di noi. E funziona perché piccole persone avranno sempre grandi paure. Capisco anche chi è disposto a sacrificare la propria vita per una causa. Io stesso pensavo di esserlo. Ma dopo tutto questo tempo sono giunto alla conclusione che a diciannove anni non puoi comprendere a sufficienza cosa sia la vita per decidere di buttarla via. Dopotutto se hai il coraggio per spararti nella tempia tanto vale usarlo per ribaltare la tua esistenza. Chi non ha mai avuto nulla è pronto a uccidere per niente. Però io forse non ero pronto a fare ciò che serviva. Perché in realtà non avevo compreso chi fossi davvero.
Mi dispiace Ned, non sono stato abbastanza lucido quella volta. Non puoi capire cosa sia stato: il sole che ti inzuppa i vestiti di sudore, lo stomaco attorcigliato, tutte quelle guardie. Prima di questo era solo una fantasia da ragazzino per me, capisci? Nulla di quella roba esisteva effettivamente nella mia vita. Sembrava di essere in un romanzo. E poi finalmente l’automobile dell’arciduca in lontananza. Era come i personaggi delle favole che mi leggeva mia madre. Ma questa volta nessun lieto fine. Infatti, a conferma di ciò, è andato tutto a puttane. Non lo avevo realizzato subito. Quando ho sentito l’esplosione ho capito che tutto era iniziato. Il mio cervello era corso da Ned, incaricato di far saltare tutto in aria. Poi avevo visto sfrecciare l’auto dell’arciduca a tutta velocità in mezzo alla polvere. Ammetto la mia colpa: non ho avuto il coraggio di raggiungere Ned. Forse saremmo riusciti a cavarcela. Ma avevo diciannove anni. A quell’età credo sia lecito avere paura. E così avevo fatto l’unica cosa che gli adulti mi avessero mai davvero insegnato a fare: avevo cambiato strada e mi ero infilato in una bettola qualsiasi. Avevo ordinato un panino e una birra. Poi un’altra. E un’altra ancora. Più bevevo, più la paura veniva soppiantata dalla rabbia. Ero arrabbiato con me stesso che, nonostante gli anni rimaneva sempre il piccolo Gavrilo e non risultava utile a nessuno. Arrabbiato con gli adulti che non si erano presentati nel momento del bisogno abbandonandoci al nostro destino. In ultima istanza ero incazzato nero con tutto e tutti, con un sistema tanto perverso da consegnare una rivoltella in mano ad un ragazzo, intimandogli di cambiare il mondo.
Mi sembrava di aver una sola possibilità: fuggire; fuggire il più lontano possibile senza il peso della responsabilità di aver fallito, per non subire i rimproveri dei grandi, per non essere obbligato a vedere Ned morire in una squallida cella. Ma soprattutto volevo scappare dall’ombra di quel bambino malaticcio che si era illuso di esser già un uomo. Sono uscito da quell’osteria barcollando e piagnucolando: ecco a voi il famigerato assassino, il crudele terrorista che si dispera e sbiascica come un moccioso. Questa scena deve esser sembrata davvero patetica agli occhi dei passanti. O forse nessuno se stava curando data la situazione. È stato allora che la sorte mi ha toccato. In mezzo alla folla, senza preavviso né pianificazione, ecco passare la macchina dell’arciduca. L’autista continuava a bestemmiare a causa degli sfollanti che riempivano le strade. Tutti si accalcavano e si aggrappavano alle portiere per ricevere il saluto del duca, per baciar la mano alla duchessa, quasi fossero antichi dei capaci di compiere incredibili miracoli. Invece io sono rimasto lì impalato come un allocco. Nella testa si affollavano pensieri. Sentivo montare una furia cieca nel mio spirito. Schifato, avevo deciso di andarmene quando, mettendo la mano nella tasca del giaccone, ho toccato la pistola. Il contatto con il metallo, gelido di morte, mi ha ubriacato più di tutte le precedenti birre. Allora, d’istinto ho gridato “Viva la Serbia sovrana! Viva la libertà!” ed ho sparato.
Quasi alla cieca li ho colpiti entrambi. E li ho uccisi. Sono rimasto incantato alla vista di tutto quel sangue. L’adrenalina mi faceva toccare il cielo. Ero totalmente catturato. Ce l’avevo fatta. Finalmente. Per la prima volta nella mia vita ottenevo qualcosa. Addirittura, si poteva forse dire che mi fossi rivelato utile. Poi le guardie mi hanno gettato a terra. Ho provato a prendere il veleno. Non per altro ma perché ero stato istruito in quel modo qualora non fossi riuscito a scappare. Come sai non ha funzionato. Ho preso un sacco di botte ovviamente. E mentre mi picchiavano io sorridevo come un ebete. Ero estremamente convinto di aver vinto io ormai. Avevo cambiato la storia pur non avendo davvero capito in che modo.
Quella stessa sera il capo della polizia è venuto da me. Io, testardo come un mulo, ero già pronto a dargli filo da torcere. Pensavo che nessuna tortura, nemmeno la più disumana, mi avrebbe fatto parlare. Invece quest’uomo è arrivato, si è seduto di fronte a me e mi ha chiesto: “come stai Gavrilo?”. Abbiamo parlato fino all’alba. Non nego di aver anche pianto, più volte. È molto triste che adesso non ricordi nemmeno il suo nome. In ogni caso, il mattino dopo la maggioranza delle mie certezze era crollata. Ero di nuovo il piccolo Gavrilo, incapace e indifeso. Al processo ho tentato di mantenere un po’ di dignità ma non so se se ci sia riuscito davvero. Nei mesi seguenti si è scritto di tutto sul mio conto per far capire quanto io fossi una minaccia, l’uomo nero, il mostro sotto il letto dei propri figli. Ma guardami: sono solo un ragazzo idiota che tossisce costantemente. Anche perché a diciannove anni ci sono altre cose che possono interessarti oltre all’anarchia, non so se mi segui. Detto ciò, penso di non aver tralasciato niente, o comunque niente di davvero importante. Anzi, dubito ci possa esser altro da raccontare. Mi chiedo solo: una persona qualunque, vedendomi così come sono sulla soglia di casa propria, potrebbe davvero aver paura di me?”.
Questa domanda rimase in sospeso. Non gli risposi perché si era nuovamente chiuso in un religioso silenzio. Come vi ho già accennato, rompere questa quiete era impensabile. Quindi, mi rimisi a leggere. Ma le parole vagavano a caso per la pagina. Sembravano scritte in un altro alfabeto. Il silenzio stagnante mi fece riflettere. Mi chiesi come fosse possibile che un uomo anzi, un ragazzo poco più grande di me, fosse già così lontano dalla mia realtà. Di certo non vivevo come un imperatore ma pareva che lui avesse attraversato un inferno ancora più ustionante del mio. Mi addormentai senza nemmeno accorgermene.
Quella notte mi svegliarono le campane d’allarme. Evidentemente un detenuto stava scappando. D’istinto mi volti verso il letto di Gavrilo: vuoto, con le coperte perfettamente ordinate in una pila. Nessun biglietto, nemmeno un piccolo pezzo di carta con scritto addio. Arrivarono i gendarmi e mi ordinarono di seguirli. Le campane mi assordavano. Quasi tutti i detenuti erano svegli ormai.
Mentre gli agenti mi scortavano verso la sala degli interrogatori (o, per meglio dire, torture) riuscii a vedere il cortile da una finestra: una decina di guardie aveva imbracciato i fucili. Stavano urlando a qualcuno di fermarsi ma non vidi a chi si stessero rivolgendo. Ed ecco che fece un paio di passi avanti un’ombra. Probabilmente era poco più grande di me. Tremava per il freddo mentre stringeva uno straccio di coperta. E poi tossiva. Tossiva talmente tanto e talmente forte da sembrare che parlasse una lingua tutta sua. Le guardie, nonostante lo superassero sia in numero sia in potenza di fuoco, parvero atterrite, raggelate dalla vista di questo ragazzo scalzo che tirava su col naso. Lui continuò a camminare verso il cancello, verso la libertà che ogni ragazzo sogna. Ma purtroppo, per lui era troppo tardi per sognare. Era diventato troppo adulto per poterselo permettere.
I militari terrorizzati e confusi aprirono il fuoco. Uno, due, tre, dieci colpi. In seguito, avrebbero dato la colpa alla tubercolosi. Ancora una volta sarebbero stati troppo codardi per pagare il debito che avevano nei suoi confronti. Mentre ancora mi fischiavano le orecchie, potei cogliere nei loro sguardi l’eccitazione febbrile della violenza: per mano loro era appena morto il pericoloso assassino e terrorista Gavrilo Princip. O almeno così credevano. Lui era ancora in piedi, grondante sangue ma senza battere ciglio. Fece altri due o tre passi e si piazzò davanti alle guardie, i fucili ancora caldi. Tra le guardie, adolescenti come lui lo guardavano come si guarda una bomba cadere dal cielo. Senza speranza di sfuggire alla propria sorte. Gavrilo alzò il braccio e mimò con le dita il gesto della pistola. Fece un sorrisetto furbo e tossì. Il faro della prigione lo colpì in piena faccia illuminandolo. Il sangue gli sporcava la camicia. Fu in quel momento che smise di essere il piccolo Gavrilo. E poi aprì bocca: “Bang!”.