La recensione del nuovo romanzo di Ian McEwan, Nel guscio, invita a riflettere sulla capacità della letteratura di interrogare ancora oggi le proprie origini e i propri maestri (Ian McEwan, Nel guscio, trad. it. di Susanna Basso, Einaudi, Torino 2017).
***
O God, I could be bounded in a nutshell, and
Count myself a king of infinite space, were it not that
I have bad dreams.
(Shakespeare, Hamlet, II, ii, vv. 255-257)
Spesso nelle prime pagine di ogni nuovo libro si gioca una partita decisiva per il lettore che, tra aspettative, fiducia e attesa di approvazione, deciderà le sorti del seguito della lettura. Così il nuovo romanzo di Ian McEwan traccia da subito le linee guida e i motivi d’attrazione che nel corso del testo trovano poi brillante conferma.
Nel guscio si presenta, già a partire dal titolo e dall’epigrafe che introduce la storia, come un’intrigante riscrittura e rivisitazione dell’Hamlet, a tratti quasi una sua ironica parodia. Infatti i nomi dei personaggi riecheggiano sfacciatamente quelli della tragedia originaria e la vicenda, ambientata nella cupa e caotica Londra dei nostri giorni, viene costruita a partire dallo schema shakespeariano: il tradimento, l’omicidio, il desiderio di vendetta. Trudy, moglie di un misconosciuto poeta, pianifica l’assassinio di suo marito insieme all’amante Claude, fratello di questi. A differenza di Hamlet però, nel romanzo l’atto deve ancora compiersi e il protagonista, un feto quasi-nato, è spettatore inerme della macchinazione del piano e dell’omicidio. Per non lasciarsi sopraffare dai triti meccanismi di una storia già – ampiamente – conosciuta, McEwan ha giocato la sua carta vincente proprio sulla creazione del protagonista e narratore: il feto in attesa di nascere nel ventre di Trudy. È suo il punto di vista di tutta la vicenda, interrotto di tanto in tanto dai dialoghi degli altri personaggi e da improvvise sollecitazioni sensoriali della realtà. Il romanzo chiede quindi al lettore di sottoscrivere un patto obbligato: osservare dal guscio, limitato nei movimenti proprio come il feto, gli avvenimenti del mondo esterno.
L’udito è l’unico strumento per conoscere la realtà, in un susseguirsi di conversazioni origliate e motivetti musicali canticchiati. Alle volte, però, questa facoltà di ascolto si rivela limitata e, paradossalmente, sorda: capita così che alcuni discorsi dei due amanti si perdano; oppure che il protagonista si smarrisca nelle proprie profondità psicologiche, nei propri dubbi, lasciandosi sfuggire parte della cospirazione (la parte più significativa); o ancora può succedere che sia il feto stesso a decidere di sospendere volontariamente l’ascolto, per sfuggire la crudeltà e l’amore depravato della madre e dello zio, costringendo di conseguenza anche il lettore a seguirlo negli abissi della sua insicurezza e debolezza. È insomma un romanzo di attese, di sospensioni e di atti mancati o fallimentari. Così, anche quando il protagonista decide di agire, spinto dal desiderio di vendetta, si perde nella progettazione dei suoi piani e nell’anticipazione delle possibili conseguenze, sempre catastrofiche.
Nel guscio prende forma intorno a una serie di dicotomie forti, come senso di colpa e innocenza, impossibilità di agire e desiderio di vendetta, per non parlare della più esplicita dualità vita-morte. Rientrano in questa dimensione oppositiva anche i sentimenti di amore e odio che si alternano e si confondono nel protagonista: la madre assassina è disprezzata per ciò che è capace di fare, ma allo stesso tempo amata per il dono della vita che è sul punto di offrirgli; lo zio è odiato non solo in quanto usurpatore ma anche perché convince Trudy ad abbandonare il bambino appena dopo la nascita; il padre viene teneramente amato in quanto vittima destinata a non essere salvata, ma allo stesso tempo è odiato perché incapace di prendersi cura del proprio figlio e in fondo mai davvero intenzionato a farlo.
Assediato da questo impasto sentimentale, il feto tradisce però un impulso più forte ancora: la voglia di venire al mondo, la voglia di diventare. Ed è proprio in questo egoismo di vita che si nasconde il germe di ogni azione fallimentare: la mancata vendetta del padre che diviene presto senso di colpa, l’odio nei confronti della madre che diventa compatimento, il tentato suicidio. Di conseguenza il fantasma del padre non può chiedere al figlio, come avveniva in Shakespeare, di essere vendicato; semmai è costretto lui stesso a tornare dal mondo dei morti e a farsi giustizia con le proprie mani. Imprigionato e immobile nello spazio ristretto del guscio materno, che riflette la sua parzialità e passività rispetto agli eventi, il protagonista riesce a compiere soltanto pochi atti violenti, egoistici, quasi insani, come i calci volutamente assestati alla madre durante la notte e la nascita forzata che, più che una vendetta finale, è l’estremo desiderio di autoaffermazione. Pertanto il lettore, che sin dall’inizio e per buona parte della vicenda patteggia per il protagonista, a volte si trova a prendere le distanze, a guardare con diffidenza i desideri turbati del feto, come di fronte ad un’ecografia che dice qualcosa ma non proprio tutto.
La densa scrittura del romanzo, resa magistralmente dalla traduzione di Susanna Basso, è scandita sapientemente in venti brevi capitoli e per tutta la sua durata riesce a mantenere una tensione massima che si intensifica ancor più nei finali di capitolo, costringendo il lettore a rimanere, sospeso e curioso, incollato alla pagina. Tutti i personaggi, con la loro fragilità e precarietà, testimoniano che ciò che davvero conta non sono tanto il tradimento degli affetti o l’omicidio vero e proprio, quanto l’inclinazione a scrutare e indagare, attraverso la voce monologante del feto, la condizione drammatica dell’uomo moderno, paralizzato dal dubbio e dalla riflessione. In fondo, essere o non essere è, oggi come ieri, l’interrogativo che la vita ci mette di fronte da quando nasciamo, il caro “prezzo da pagare per il complicato dono della coscienza”. È in definitiva un romanzo di vita, di morte, d’amore e di odio in cui le passioni dell’individuo contemporaneo, destinato ad essere solo e a camminare su una via deserta, rimangono le stesse dell’uomo messo in scena da Shakespeare.
Jacopo Mecca