di Anna Cavagnino
Questa ‘lettura’ indaga il ruolo dell’illusione mimetica nell’arte come spazio liminale tra vita e morte, analizzando in chiave comparatistica Il racconto d’inverno di Shakespeare e Morte a Venezia di Thomas Mann.
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L’arte, nella sua capacità mimetica, riveste un ruolo centrale nel riflettere e trasformare la condizione umana, sfidando continuamente i confini tra ciò che appare e ciò che invece è reale. Questa ambiguità porta la mimesis artistica ad agire in uno spazio liminale, all’interno del quale la distinzione tra vita e morte può farsi ambigua e problematica. Il presente saggio si propone quindi di esaminare, in ottica comparatistica, il ruolo dell’arte come veicolo di illusioni e verità, al confine tra vita e morte, mettendo a confronto come tale dinamica si presenti con modalità differenti nelle opere Racconto d’inverno di William Shakespeare e Morte a Venezia di Thomas Mann.
Shakespeare e la rinascita tramite l’illusione mimetica dell’arte
Data per morta per sedici lunghi anni, Ermione, regina di Sicilia, riappare sotto forma di statua e magicamente torna alla vita. Ci troviamo nell’ultima scena dell’ultimo atto del dramma romanzesco Racconto d’inverno di William Shakespeare, momento in cui la commistione delle arti interviene per sciogliere il nodo tragico della narrazione e condurla verso il lieto fine.
Leonte, re di Sicilia, è accecato dalla gelosia che brucia a tal punto da portarlo a credere che Ermione lo abbia tradito con il suo più caro amico d’infanzia Polissene, re di Boemia, e che la figlia che porta in grembo non sia sua ma frutto dell’adulterio. Questa «infection» [1] lo spinge a ripudiare entrambe, scatenando conseguenze drammatiche. Sarà Paulina, dama siciliana del seguito di Ermione, a rivelargliele: il primogenito Mamilio muore di crepacuore, mentre Ermione, sopraffatta anch’ella dal dolore, sviene e viene dichiarata morta.
Shakespeare sceglie di non mostrare il corpo morto della regina sulla scena, amplificando così l’effetto sorpresa del finale. Infatti, il personaggio sviene davanti al pubblico, come suggerito dall’indicazione scenica «Hermione falls to the ground» [2], e Leonte ordina che venga portata via affinché possa ricevere cure adeguate. Poco dopo, Paulina torna in scena con una dichiarazione netta e inequivocabile: Ermione è morta. Sfida persino il re a verificare di persona, certa che non si possa trovare alcun segno di vita:
Paulina: I say she’s dead. I’ll swear’t. If word nor oath
Prevail not, go and see. If you can bring
Tincture or lustre in her lip, her eye,
Heat outwardly or breath within, I’ll serve you
As I would do the gods. [3]
Con queste parole, Paulina impone la verità della morte senza lasciare spazio a dubbi. Tuttavia, la sua stessa insistenza potrebbe suggerire un inganno consapevole: il fatto che sia proprio lei ad annunciare sia la morte che il ritorno della regina, suggerisce che abbia avuto il controllo della situazione sin dall’inizio. La scelta di Shakespeare di non mostrare la morte di Ermione in scena è quindi un raffinato espediente narrativo, che tiene il pubblico in sospeso fino alla rivelazione finale.
Nell’ultima scena dell’ultimo atto si viene a sapere che Paulina è in possesso di una statua della Regina, che conserva presso la sua «poor house» [4] dove si trova una «gallery» [5] che comprende una «chapel» [6] dedicata alla statua. L’intera scena è occupata da una dettagliata descrizione ecfrastica dell’opera d’arte. Questo non solo arricchisce la narrazione di suggestioni visive e sensoriali, ma rende ancora più suggestivo un passaggio che già di per sé rappresenta il culmine positivo dell’intera opera, nel segno dell’agnizione, del ricongiungimento e del perdono.
L’ekphrasis della statua di Ermione insiste sulla sua straordinaria verosimiglianza, tanto realistica da ingannare i sensi e la mente di chi la osserva: il respiro pare quasi percorrere il suo corpo inanimato, il sangue scorrerle nelle vene, c’è traccia di calore vitale sulle sue labbra e persino i suoi occhi paiono muoversi.
Paulina: No longer shall you gaze on’t, lest your fancy
May think anon it moves.
Leontes: Let be, let be!
Would I were dead but that methinks already.
What was he that did make it? See, my lord,
Would you not deem it breathed, and that those veins
Did verily bear blood?
Polixenes: Masterly done.
The very life seems warm upon her lip.
Leontes: The fixture of her eye has motion in’t,
As we are mocked with art. [7]
Questi dettagli sono gli stessi riferimenti che erano stati usati in precedenza per confermare la sua morte: l’assenza di colore sulle sue labbra, lo spegnersi del suo sguardo e la mancanza di respiro. Il parallelismo rafforza l’ambiguità della scena: è davvero una statua che prende vita, oppure Ermione è sempre stata viva e sotto la protezione di Paulina? Shakespeare non fornisce una risposta chiara, tuttavia la forza mimetica dell’arte si fa talmente potente da sovrapporsi alla vita stessa.
Viene ripetutamente sottolineata la maestria dell’artista, identificato dai gentiluomini di corte come Giulio Romano. La sua scultura è descritta come «masterly done» [8], tanto che mostra «the life as lively mocked as ever / Still sleep mocked death» [9], suggerendo quindi una straordinaria illusione di verosimiglianza: la scultura di Ermione è così perfettamente realistica da sfidare la distinzione tra il vivente e l’inanimato, tra l’apparenza e la realtà.
Ed è proprio questa verosimiglianza alla vita che emerge nel movimento, infatti la statua non è tanto descritta come statica quanto come dotata di apparenza di staticità, «Standing like stone» [10] : è una «fixture [that] has motion in’t» [11]. Questa non-fissità è visibile anche nel non essere presentata come un’opera finita e compiuta ma soggetta a cambiamento, «newly fixed; the colour’s / Not dry» [12], [13] altresì dimostrato dai segni che la statua riporta sul volto, segni della vecchiaia, sintomo dello scorrere del tempo:
But yet, Paulina,
Hermione was not so much wrinkled, nothing
So agèd as this seems.
Polixenes: O, not by much.
Paulina: So much the more our carver’s excellence,
Which lets go by some sixteen years, and makes her
As she lived now. [14]
Paulina attribuisce questa caratteristica all’abilità dello scultore, capace di evocare il passaggio degli anni. Ecco che le rughe sul volto non sono percepite come una degenerazione, bensì come un elemento che ne accresce l’autenticità, una parte integrante dell’opera che ne accresce la verosimiglianza e nonché la potenza emotiva. Leonte infatti, ne rimane profondamente colpito: da un lato è meravigliato perché la statua restituisce una visione che gli è stata negata per sedici anni, dall’altro lo addolora perché gli rammenta che la causa di tale perdita è solo sua. L’arte scultorea quindi, restituisce una realtà vissuta, carica di memoria e verità emotiva.
Quindi, a conclusione del dramma romanzesco, l’immagine distorta di Ermione traditrice, plasmata dalla gelosia di Leonte, svanisce nel momento in cui il re riconosce di essere stato ingannato dai suoi stessi falsi presupposti. Ora la vera immagine di Ermione può finalmente tornare. Paulina ordina «Music, awake her; strike!» [15] e, ragionando in termini Aristotelici, tutta la vitalità in potenza della statua si trasforma in vera e propria vita: ora Ermione è magicamente viva.
Qui la mimesi artistica, così perfetta, non si limita a imitare la vita ma diventa un camuffamento della morte, trasformando quest’ultima in una condizione sospesa a punizione di Leonte. Questa condizione di limbo si risolve proprio tramite la commistione delle arti, che agiscono come strumenti fondamentali per risolvere il nodo tragico della vicenda. Non si tratta quindi di un semplice inganno percettivo: l’arte non solo imita la vita, bensì la trasforma e la rigenera.
Thomas Mann e l’annientamento del sé sotto la maschera dell’arte
Se in Racconto d’Inverno l’arte rappresenta il mezzo attraverso il quale si passa dalla morte, più o meno apparente, alla vita, in Morte a Venezia di Thomas Mann si assiste a un processo opposto: un allontanamento sempre più progressivo dalla vita, dove l’arte diventa un artificio ingannevole che cela la decadenza.
Nell’opera di Mann, il destino tragico di Gustav von Aschenbach è segnato dal desiderio per il giovane Tadzio, emblema di un ideale di bellezza giovanile e di un’irraggiungibile perfezione estetica. Aschenbach è uno scrittore tedesco di mezza età che, in preda da una fase di blocco creativo, decide di partire per Venezia dando inizio a un viaggio che si rivelerà fatale.
La parabola tragica si sviluppa nel contrasto tra due principi opposti: da un lato l’ordine e la razionalità apollinea, dall’altro il richiamo alla passione dionisiaca [16]. Inizialmente Aschenbach incarna un artista che ha dedicato la sua vita alla disciplina, all’arte, e all’idealizzazione della bellezza. Tuttavia l’incontro con Tadzio lo spinge verso un abisso di passione e irrazionalità: il giovane non è solo ideale di bellezza ma un miraggio che lo porta a confondere il confine tra arte e vita, in una progressiva degenerazione che lo condurrà alla morte.
Come sottolinea Isadore Traschen «“Death in Venice” is a warning that art is not life nor a substitute for it» [17]: infatti l’errore fatale di Aschenbach è proprio quello di aggrapparsi a un’estetica illusoria che lo trasforma sempre più in una figura grottesca.
Questa deriva culmina simbolicamente nella scena in cui Aschenbach si reca presso un barbiere veneziano. Nel ripudio della propria immagine e nell’estremo tentativo di avvicinarsi all’ideale incarnato da Tadzio, egli si annulla nella finzione cosmetica, diventando un’opera artificiale, dotata di vitalità solo più apparente.
Per prima cosa, il barbiere si rivolge al cliente chiedendogli: «Nel caso suo, signore, si ha diritto a riprendere il proprio colore naturale. Mi permette semplicemente di restituirglielo?» [18]. Così, con un ribaltamento significativo, il nero artificiale della tintura per capelli, che copre il grigio naturale della vecchiaia, diventa per Aschenbach il nuovo naturale restituitogli, in un gioco di illusioni in cui l’apparenza artificiale si radica.
Il barbiere, o meglio «tecnico della cosmesi» [19], non è un semplice esecutore ma un artista della bellezza, che plasma la forma di Aschenbach «da una manipolazione all’altra» [20]. Thomas Mann descrive nel dettaglio tutte le alterazioni a cui Auschenbach si sottopone, tramite una descrizione ecfrastica che sviluppa l’aspetto visuale e tattile della metamorfosi in atto: i capelli vengono tinti di nero, le rughe livellate dalle creme, gli occhi e le labbra marcati dai colori artificiali dei cosmetici. Questa scena si conclude con il barbiere che «fece un passo indietro e considerò la propria opera» [21], proprio come farebbe un pittore o uno scultore per valutare la buona riuscita del proprio capolavoro.
Taschen, analizzando l’opera in ottica mitologica, afferma che la scena del barbiere può essere letta come una chiara parodia dei riti di fertilità e rinascita: il barbiere rappresenterebbe uno sciamano intento a eseguire un rituale magico per ringiovanire l’uomo [22]. Tuttavia, questa trasformazione non è che superficiale e creatrice di un’immagine ingannevole.
Ecco, ora indossa anche lui «the mask of Dionysus» [23], somatizzazione concreta di una decadenza sempre più progressiva, proprio come i personaggi grotteschi in cui continua ad imbattersi. Tra gli altri, spicca in modo particolare l’uomo sul battello, che da lontano sembra un giovane affascinante, mentre da vicino si rivela essere un vecchio truccato per sembrare tale.
Questa apparenza artificiale che tende ad acquisire un carattere quasi scultoreo, richiama la “Mask of Youth” [24], espressione coniata dallo storico d’arte Roy Strong alla fine del secolo scorso per descrivere il modo in cui la Regina Elisabetta I d’Inghilterra, conosciuta come “The Virgin Queen”, veniva rappresentata nei suoi ritratti più tardivi (fig.1): era l’incarnazione idealizzata della verginità e dell’eterna gioventù, con una pelle liscia e tanto bianca da apparire luminosa, con labbra e guance rosse. L’apparenza della sovrana è stata progressivamente estremizzata con rappresentazioni che ne hanno enfatizzato sempre più la decadenza [25]. Questo processo è stato amplificato soprattutto dalle rappresentazioni cinematografiche che ne sono state fatte [26], le quali hanno contribuito a fissare nell’immaginario collettivo la sovrana con il volto sfregiato dai segni del vaiolo e notoriamente coperto da uno spesso strato di cerussa veneziana (fig. 2), una pasta bianca a base di piombo altamente tossica diffusasi soprattutto nel XVI secolo nella cosmesi [27].

Fig. 1 Dettaglio del quadro Portrait of Elizabeth I of England, Hilliard, Nicholas (attrib.), ca. 1576, Collezione privata, Famiglia Rothschild.

Fig. 2 Fotogramma raffigurante Anita Dobson nei panni di Elisabetta I in Armada: 12 Days to Save England, Chris Granlund, BBC, Regno Unito.
La manifestazione ultima di questo camuffamento artificiale ormai disfattosi, segno dell’illusorietà della bellezza e della fragilità dell’essere umano di fronte alla morte, è ben rappresentata nel finale dell’adattamento cinematografico di Morte a Venezia di Luchino Visconti [28]. Aschenbach si reca un’ultima volta sul lido veneziano a osservare il giovane Tadzio giocare sulla riva. Visconti aggiunge due dettagli: il volto grondante di sudore e un rigolo nero che gli scende dalla fronte. Qui, la “maschera” artificiale di Aschenbach cade e rivela tutta la sua decadenza, producendo un forte effetto di straniamento. Ecco che, seduto su una sedia a sdraio guardando Tazio allontanarsi verso l’orizzonte, muore.


Figg. 3-4 Fotogrammi raffiguranti Dirk Bogarde nei panni di Gustav von Aschenbach in Visconti, Morte a Venezia, Italia e Francia, 1971.
Questa fusione, senza soluzione di continuità, tra Aschenbach e il manufatto artistico è esplicitata sin dalla prima descrizione del personaggio, nel secondo capitolo dell’opera:
l’affinamento della sua fisionomia era opera dell’arte e non, come solitamente accade, di una vita agitata e difficile. […] Anche sotto l’aspetto individuale l’arte è una vita più intensa. Essa dona felicità più profonda, e divora più in fretta. Scava nel volto del suo servo le tracce di avventure spirituali e immaginarie, e anche nella pace claustrale della vita esteriore porta a lungo andare un’ipersensibilità, un raffinamento, una stanchezza e una curiosità di nervi che nemmeno la vita più piena di sfrenati godimenti e passioni saprebbe suscitare [29].
Quindi Mann presenta Aschenbach come il ritratto dell’annullamento del sé nell’arte, al punto che le rughe sulla sua fronte non sono tanto il risultato di un’esperienza vissuta nel mondo reale, quanto segno di un logoramento interiore. Queste battaglie dello spirito e dell’intelletto per il raggiungimento della perfezione estetica e la trascendenza della realtà tramite l’arte, lo conducono irrimediabilmente all’annullamento di sé.
Questa apparenza di facciata che cela la decadenza viene parallelamente sviluppata dall’ambientazione della novella: Venezia, una città ricca di arte ad ogni angolo ma dalla «beltà lusingatrice e ambigua» [30], dall’«atmosfera corrotta» [31], decadente, a un passo dallo sprofondare, nonchè progressivamente «ammalata» [32] dalla peste, la quale viene tenuta nascosta più a lungo possibile [33]. Così, come l’arte non può salvare Venezia dalla sua lenta rovina, l’ideale estetico perseguito da Aschenbach non può preservarlo dalla sua inevitabile fine: Aschenbach si abbandona alla passione per Tadzio e si annulla nell’artificio.
In definitiva, Racconto d’Inverno e Morte a Venezia offrono due prospettive di come l’arte possa acquisire il ruolo di maschera, celante rispettivamente la vita e la morte. In primo luogo, nel dramma shakespeariano la commistione delle arti diventa una via di salvezza che porta alla rinascita, tramite la maestria dello scultore nel riprodurre l’immagine di Ermione e renderla carica di vividezza, nonché grazie all’intervento della musica. In secondo luogo, nella novella di Mann, l’arte si presenta invece sia come miraggio idealizzato sia come mezzo di camuffamento, come nel caso della maschera grottesca ad opera del barbiere, che somatizza l’allontanamento sempre più progressivo dalla vita e che è pronta a cadere al momento della morte.
Entrambe le opere mettono dunque in discussione la concezione dell’arte come semplice imitazione del reale, evocando una riflessione sul suo potere di trasformare, celare o svelare. In entrambi i casi, questa “maschera” si configura come spazio liminale, dove la distinzione tra vita e morte si assottiglia fino a scomparire. Ed è questo confine ambiguo che dimostra la potenza più autentica del carattere mimetico: far emergere ciò che sta al di sotto della superficie, sia esso un ritorno alla vita o un declino verso la morte.
Note
Shakespeare, The Winter’s Tale, I. ii. 147.
Ivi, III. ii. 147.
Ivi, III. ii. 202-206.
Ivi, V. iii. 6.
Ivi, V. iii. 10.
Ivi, V. iii. 86.
Ivi, V. iii. 60-68.
Ivi, V. iii. 62.
Ivi, V. iii. 19-20.
Ivi, V. iii. 42.
Ivi, V. iii. 67.
Ivi, V. iii. 48.
Porter, Making and unmaking in early modern English drama, p. 77.
Shakespeare, The Winter’s Tale, V. iii. 27-32.
Ivi, V. iii. 98.
Cfr. Traschen, The uses of myth in Death in Venice.
Ivi, p. 175.
Mann, Morte a Venezia, p. 91.
Ivi, p. 92.
Ivi, p. 91.
Ibid.
Cfr. Traschen, The uses of myth in Death in Venice.
Ivi, p. 174.
Cfr. Strong, Gloriana: The Portraits of Queen Elizabeth I.
Cfr. Whitelock, The Queen’s bed.
Tra le altre rappresentazioni cinematografiche della Regina Elisabetta I d’Inghilterra cfr. Glenda Jackson in Elizabeth R, Roderick Graham, BBC, Regno Unito, 1971; Cate Blanchett in Elizabeth, Shekhar Kapur, Regno Unito, 1998; Anita Dobson in Armada: 12 Days to Save England, Chris Granlund, BBC, Regno Unito, 2015; Margot Robbie in Mary Queen of Scots, Josie Rourke, Regno Unito/Stati Uniti, 2018.
Cfr. Banerjee, ‘Fairing the foul with art’s false borrowed face’: revisiting the culture of beauty and maquillage in Early Modern England.
Visconti, Morte a Venezia, Italia, 1971.
Mann, Morte a Venezia, p. 18.
Ivi, p. 72.
Ibid.
Ivi, p.73.
Cfr. Wolny, Travel and Disease in Thomas Mann’s Death in Venice.
Bibliografia
Testi primari
T. Mann, Morte a Venezia [1911], trad. it. di A. Rho, Torino, Einaudi, 2015.
W. Shakespeare, The Winter’s Tale. In: F. Marenco (a cura di), William Shakespeare. Tutte le opere. Vol. 4: Tragicommedie, drammi romanzeschi, sonetti, poemi, poesie occasionali, ed. John Jowett et al. Milano, Bompiani, 2019.
Testi critici
A. Banerjee, ‘Fairing the foul with art’s false borrowed face’: revisiting the culture of beauty and maquillage in Early Modern England, Brainware University, 2023.
M. Church, “Death in Venice”: A Study of Creativity, College English, XXIII (1962), 8, pp. 648-651.
C. Porter, Making and unmaking in early modern English drama, Manchester University Press, 2013.
R. C. Strong, Gloriana: The Portraits of Queen Elizabeth I, New York: Thames and Hudson, 1987.
I. Traschen, The uses of myth in Death in Venice. Modern Fiction Studies, XI (1965), 2, pp. 165–179.
A. Whitelock, The Queen’s bed: An intimate history of Elizabeth’s Court, New York: Sarah Crichton Books, 2014.
R. W. Wolny, Travel and Disease in Thomas Mann’s Death in Venice, European Journal of Language and Literature Studies, V (2019) 2, pp.13-18.
Film e Serie Televisive
R. Graham, Elizabeth R, BBC, Regno Unito, 1971.
C. Granlund, Armada: 12 Days to Save England, BBC, Regno Unito, 2015.
S. Kapur, Elizabeth, Regno Unito, 1998.
J. Rourke Mary Queen of Scots, Regno Unito/Stati Uniti, 2018.
L. Visconti, Morte a Venezia, Italia, 1971.
Opere pittoriche
N. Hilliard (attrib.), Portrait of Elizabeth I of England, Collezione privata, Famiglia Rothschild, ca. 1576.